17.01 – I preparativi dell’ultima cena (Luca 22.7-13)
7Venne il giorno degli Azzimi, nel quale si doveva immolare la Pasqua. 8Gesù mandò Pietro e Giovanni dicendo: «Andate a preparare per noi, perché possiamo mangiare la Pasqua». 9Gli chiesero: «Dove vuoi che prepariamo?». 10Ed egli rispose loro: «Appena entrati in città, vi verrà incontro un uomo che porta una brocca d’acqua; seguitelo nella casa in cui entrerà. 11Direte al padrone di casa: «Il Maestro ti dice: Dov’è la stanza in cui posso mangiare la Pasqua con i miei discepoli?». 12Egli vi mostrerà al piano superiore una sala, grande e arredata; lì preparate». 13Essi andarono e trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua.
“Il primo giorno degli Azzimi” era il giovedì, 14 di Nisan, il giorno prima della crocifissione, quello in cui i Giudei iniziavano ad usare pane non lievitato ed era obbligatoria l’uccisione dell’agnello pasquale fra i due vespri, vale a dire fra le ore 15 e le 18. Su questo giorno torneremo perché pone importanti interrogativi alla luce di ipotizzate incongruenze fra la narrazione di Giovanni e dei Sinottici. È per me triste pensare che in quella circostanza, in cui tutto il lievito – con tutto quello che comporta simbolicamente questo elemento – veniva rimosso e bruciato, i capi religiosi del popolo erano pronti ad arrestare, processare e far condannare Gesù sulla croce.
La festa degli Azzimi coincideva con la Pasqua, appunto il 15 del mese di Nisan, corrente fra il nostro marzo ed aprile, ma il 14 era dedicato alla preparazione per poter iniziare il giorno successivo in osservanza a Esodo 12.19, “Per sette giorni non si trovi lievito nelle vostre case, perché chiunque mangerà del lievitato dal giorno primo al giorno settimo, quella persona, sia forestiera sia nativa della terra, sarà eliminata dalla comunità d’Israele”, e 13.17, “Nei sette giorni si mangeranno azzimi e non compaia presso di te niente di lievitato; non ci sia presso di te lievito entro tutti i tuoi confini”.
I Giudei, quindi, proseguirono ad assumere cibo senza lievito nel giorno della crocifissione e per altri sei, nonostante la cortina del Tempio squarciata fosse un chiaro segno della fine della dispensazione della Legge e l’aver ucciso il Figlio di Dio. Cortina che era assolutamente impossibile si tagliasse da sola, come vedremo. Si può affermare che celebrando il rito pasquale mentre il corpo del Signore veniva ucciso, nel ricordare la liberazione del popolo d’Israele dall’Egitto con potenza, i Giudei rimarcavano la loro condanna perché disconoscevano l’apertura della salvezza loro proposta ininterrottamente per tre anni e mezzo circa.
Ricordiamo le parole dell’apostolo Paolo ai credenti di Corinto quando scrisse “Togliete via il lievito vecchio – quindi il primo elemento che genera il peccato –, per essere pasta nuova, poiché siete – la nuova condizione – azzimi. E infatti Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato!” (1a 5.7); da qui si evince che la liberazione dalla schiavitù del peccato, impossibile senza di Lui esattamente come il popolo d’Israele non avrebbe mai potuto essere strappato da quella d’Egitto senza l’intervento del Padre, deve essere accompagnata dalla volontà del singolo che, reso ed essendo azzimo, deve tenere lontano da sé il lievito, figura dell’impurità interiore, per non essere penalizzato nel suo rapporto con Lui. “Un po’ di lievito”, infatti, “fa fermentare tutta la pasta” (1 Corinti 5.6).
Il verso ottavo ci fornisce un particolare che gli altri evangelisti omettono, e cioè che, quando leggiamo “…i discepoli si avvicinarono a Gesù e gli dissero: «Dove vuoi che prepariamo per te, perché tu possa mangiare la Pasqua?»” (Matteo 26.17; Marco 14.12), furono inviati Pietro e Giovanni, non Giuda Iscariotha che, essendo il tesoriere del gruppo, sarebbe stato il più idoneo almeno per la carica che ricopriva. In passato, proprio per questa mansione, Giuda era incaricato di comprare e provvedere a quanto abbisognava al gruppo appropriandosi di nascosto di piccole somme, ma qui fu estromesso proprio perché aveva già concordato all’insaputa di tutti, ma non di Gesù, la consegna del Maestro concordando un segnale inconfondibile a quanti sarebbero venuti per arrestarlo: “Quello che bacerò è lui; arrestatelo e conducetelo via sotto buona scorta” (Marco 14.44).
Al riguardo c’è chi si è chiesto quale senso avesse il bacio se Gesù era conosciuto da tutti, ma questo avvenne per due ragioni: primo, non potevano esservi fraintendimenti di sorta nel senso che il riconoscimento doveva essere ufficiale, legale, e poi andava escluso completamente un errore dovuto ad eventuali somiglianze. Altro elemento, Giuda doveva assumersi con quel gesto inequivocabile la paternità del tradimento, con un bacio, da sempre segno d’amore e di affetto. Non a caso, nella Scrittura, da allora in poi verrà specificato che il bacio come sintomo di comunione dev’essere “santo”, cioè privo di secondi fini, puro (Romani 16.16; 1 Corinti 16.20; 2 Corinti 13.12; 1 Tessalonicesi 5.26) o, come in 1 Pietro 5.14, “Salutatevi l’un l’altro con un bacio d’amore fraterno”. E pare che questo bacio fosse sulla bocca, a significare la condivisione dell’amore fraterno e dello spirito. Il “bacio santo” esclude allora un secondo fine, la formalità, l’indifferenza, la tradizione.
Giuda, poi, con la scelta che aveva già fatto, non era solo un “diavolo” nel senso che abbiamo sviluppato, ma era diventato un corpo che ospitava l’Avversario, un immondo, per cui non era possibile che si occupasse dei preparativi per la Pasqua, santa perché ne fu mutato il significato e il soggetto sacrificale vale a dire non più un agnello, ma il Figlio di Dio che ne avrebbe assunto il ruolo.
Arriviamo così alla seconda parte del nostro testo, con Gesù che predice chi Pietro e Giovanni avrebbero incontrato “appena entrati in città”, cioè Gerusalemme: “un uomo che porta una brocca d’acqua”, compito che ordinariamente spettava alle donne che la andavano ad attingere a un pozzo ma, secondo la tradizione giudaica nel caso della preparazione della Pasqua, era il padre di famiglia a prendere e portare l’acqua che sarebbe servita alla preparazione dell’impasto per il pane azzimo. La persona che i due discepoli avrebbero incontrato sarebbe stata un conoscente, o amico o discepolo di Gesù (o tutte e tre le cose il testo non lo dice). In realtà si è molto pensato sull’identità di questo anonimo e non è da disprezzare l’opinione che l’uomo della brocca fosse l’evangelista Marco (cugino di Barnaba) e il padrone di casa suo padre o uno stretto parente la cui dimora, dopo la morte del corpo di Gesù, divenne luogo di riunione per i credenti di Gerusalemme. Ed era comune usanza tra gli abitanti di quella città dare ospitalità ai pellegrini che salivano per le feste mettendo a loro disposizione un cenacolo.
Abbiamo qui anche la terza ragione per la quale Giuda fu estromesso dal compito di provvedere a un luogo per la cena: se avesse saputo in anticipo quale fosse, avrebbe potuto far sì che l’arresto di Gesù si verificasse interrompendola, non consentendo lo svolgersi di alcuni avvenimenti fondamentali per gli apostoli, come il lavacro dei piedi, l’istituzione del Memoriale e soprattutto la preghiera sacerdotale ricca di significati totali per loro e per tutti i cristiani.
Dobbiamo chiederci cosa significhi comunque questo episodio, in cui Nostro Signore predice esattamente ciò che Pietro e Giovanni avrebbero trovato e come avrebbero agito; il fatto che avrebbero incontrato l’uomo con la brocca d’acqua si raccorda a quando, prima dell’ingresso trionfale in Gerusalemme, disse a due discepoli “Andate nel villaggio di fronte a voi e subito, entrando in esso, troverete un puledro legato, sul quale nessuno è salito. Slegatelo e portatelo qui.” (Marco 11.2): è la perfetta visione di Gesù non solo del tempo, ma soprattutto di ogni evento che si sarebbe verificato da lì a poco, in ogni epoca e per ogni vivente. Da questi due episodi possiamo dedurre che non solo Gesù sapeva esattamente tutto ciò che gli sarebbe accaduto, ma anche di ogni persona che avrebbe incontrato, per quanto riguarda il Suo Ministero terreno da Giovanni Battista all’ignoto ladro pentito sulla croce e, per relazione, ciascuno di coloro “i cui nomi sono scritti nel libro della vita”.
Ecco il perché del totale canto d’amore di Davide nel Salmo 139 che riporto per buona parte: “Signore, tu mi scruti e mi conosci, tu conosci quando mi siedo e quando mi alzo, intendi da lontano i miei pensieri, osservi il mio cammino e il mio riposo, ti sono note tutte le mie vie. La mia parola non è ancora sulla lingua ed ecco, Signore, già la conosci tutta. Alle spalle e di fronte mi circondi e poni su di me la tua mano. Meravigliosa per me la tua conoscenza, troppo alta, per me inaccessibile. Dove andare lontano dal tuo spirito? Dove fuggire la tua presenza? Se salgo in cielo, là tu sei; se scendo negli inferi, eccoti. Se prendo le ali dell’aurora per abitare alle estremità del mare, anche là mi guida la tua mano e mi afferra la tua destra. Se dico: «Almeno le tenebre mi avvolgano e la luce intorno a me sia notte», nemmeno le tenebre per te sono tenebre e la notte è luminosa come il giorno; per te le tenebre sono come la luce. Sei tu che hai formato i miei reni e mi hai tessuto nel grembo di mia madre. Io ti rendo grazie: hai fatto di me una meraviglia stupenda; meravigliose sono le tue opere, le riconosce pienamente l’anima mia. Non ti erano nascoste le mie ossa quando venivo formato nel segreto, ricamato nelle profondità della terra. Ancora informe mi hanno visto i tuoi occhi; erano tutti scritti nel tuo libro i giorni che furono fissati quando ancora non ne esisteva uno. Quanto sono profondi per me i tuoi pensieri, quanto grande il loro numero, o Dio! Se volessi contarli, sono più della sabbia. Mi risveglio e sono ancora con te”.
Quindi “incontrerete un uomo” che simbolicamente possiamo identificare, al di là della sua funzione specifica che era quella di guidare Pietro e Giovanni alla casa di cui avrebbero incontrato il proprietario, in ciascuno di noi. Quando Gesù incontra una persona sa tutto di lei, non solo il suo vissuto, ma anche quello della sua famiglia, delle ragioni che hanno portato al suo concepimento, ciò che è stato e ciò che sarà per liberarlo e condurlo per mano. Sono convinto che, se fossimo consapevoli di questo sempre e non solo ogni tanto, spesso non per colpa nostra, ma perché la vita in questo mondo sfianca, molti errori non li faremmo, non prenderemmo strade che portano a deserti più o meno vasti, non ci perderemmo in problemi a volte piccoli a volte grandi, non avremmo bisogno di Gesù come pastore che lascia le novantanove pecore per prenderci sulle spalle. Ora non si tratta di coltivare sensi di colpa, ma di costruire affinché gli errori del passato non tornino e l’unico modo è pensare molto seriamente al ruolo che abbiamo nel Corpo di Cristo che è la Chiesa e nella società a lei estranea che, se col nostro comportamento genera interrogativi e contraddizioni, è pronta a giudicare. Si tratta della famosa “buona testimonianza” che ciascuno di noi è tenuto a dare non a parole, ma con fatti precisi.
Tornando al nostro testo, il padrone di casa avrebbe mostrato ai due discepoli “al piano superiore una sala, grande – originale “alta” – e arredata – letteralmente “distesa”, cioè con tavoli e lettini –. Lì preparate”: quindi, Pietro e Giovanni trovarono l’ambiente pronto per quanto riguardava gli arredi, ma dovettero approntare l’agnello, il pane, il vino e le erbe amare prima dell’arrivo di Gesù e degli altri. Solo allora Giuda avrebbe saputo dov’era il luogo della celebrazione della Pasqua e, non potendo andar via immediatamente per non insospettire, secondo il suo punto di vista, nessuno, si fermò fino al momento a lui concesso.
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