13.13 – NON PACE, MA DIVISIONE (Luca 12.49-53)

13.13 – Non pace, ma divisione (Luca 12.49-53)    

 

49Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso! 50Ho un battesimo nel quale sarò battezzato, e come sono angosciato finché non sia compiuto!
51Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, io vi dico, ma divisione. 52D’ora innanzi, se in una famiglia vi sono cinque persone, saranno divisi tre contro due e due contro tre; 53si divideranno padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera».

 

 

            Per quanto alcuni temi siano stati già sviluppati, o per meglio dire introdotti in un altro studio, trovo sia giusto riproporli tramite alcune varianti. Occupandoci dei primi due versi, per noi nuovi, sono interessanti perché rispecchiano lo stato d’animo di Gesù, “venuto a gettare fuoco sulla terra” inteso non come quello distruttivo che conosciamo, ma lo stesso di cui scrive Malachia 3.3 che, guardando da lontano l’opera di Dio nei riguardi del Suo popolo, riporta: “Chi sopporterà il giorno della sua venuta? Chi resisterà al suo apparire? Egli è come il fuoco del fonditore e come la liscivia dei lavandai. Siederà per fondere e purificare l’argento; purificherà i figli di Levi, li affinerà come l’oro e l’argento, perché possano offrire al Signore un’offerta secondo giustizia”.

Questa profezia è importante anche sotto l’aspetto della prima venuta del Figlio di Dio sulla terra, insopportabile e irresistibile per tutti i suoi avversari nel senso che non potranno avere argomenti di efficace contrasto di fronte a Lui, come in effetti fu e di cui è data testimonianza nei Vangeli. Essendo “come il fuoco del fonditore e la liscivia dei lavandai”, cioè una miscela di acqua bollente e cenere per lavare e sbiancare i panni, inizia la sua attività purificatrice su coloro che avrà scelto: “fondere e purificare” sono azioni che compie su un metallo inerte che, senza un intervento, resterebbe così com’è. Fondendolo e trasponendolo liquido da un recipiente a un altro, invece, l’argento viene purificato dalle scorie fino a raggiungere la purezza voluta. Notare l’elemento scelto, l’argento, sempre utilizzato per indicare l’uomo un tempo fatto a “immagine e somiglianza” di Dio. L’ultima parte del passo, poi, ci dà il fine per cui Nostro Signore venne nel mondo e cioè permettere agli uomini di poter elevare a Lui “un’offerta secondo giustizia”, quella che cioè non avrebbero mai potuto rivolgere, identificando quanti avrebbero creduto nei “figli di Levi” secondo Apocalisse 1.6: “A Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno di sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen”.

 

Partiamo allora da questa base e occupiamoci del “fuoco”, primo elemento che Nostro Signore è venuto a portare come conseguenza della Sua venuta sulla terra, della Sua morte e resurrezione: è lo Spirito Santo che sarà fonte di illuminazione e guida, ma al tempo stesso causa di odio e divisione; è infatti lo Spirito di Dio che separa davvero i due mondi ai quali appartengono gli uomini, cioè quello dei Suoi figli, che attraverso lo Spirito si caratterizzano, e quello di coloro che si sono dati all’Avversario. Certo, la prima conseguenza di questo “fuoco” è la liberazione dal potere della carne, la capacità di agire in modo a lei assolutamente opposto come vediamo nell’episodio in cui lo Spirito Santo scese sui componenti della Chiesa di Gerusalemme e con la caratterizzazione di ciascuno attraverso i suoi doni, in parte diversi da quelli di un tempo.

La frase “e quanto vorrei che fosse già acceso”, qui così chiara, ha in realtà costituito un problema per tutti i traduttori stante lo stile secco e conciso che la caratterizza. Abbiamo infatti: “e che voglio, se è già acceso?” e “Che posso volere, se non che fosse già acceso?”. Tutte e tre le interpretazioni sono ugualmente degne di considerazione. La seconda, che vede il fuoco “già acceso” vede lo Spirito Santo già pronto per essere dato agli uomini (anticipazione e prospettiva), ma la prima e la terza ci mostrano la realtà del Gesù uomo: “quanto vorrei”. È certo che un Dio vuole, non vorrebbe, ma qui c’è la constatazione di Colui che volontariamente ha scelto di prendere il tempo dell’uomo e viverlo con lui per cui deve sottostare alle dinamiche della terra, dei suoi giorni, del cammino necessario fino alla morte del proprio corpo di carne. Quando Nostro Signore pronuncia questa frase il principio dell’eternità secondo il quale “davanti al Signore un giorno è come come mille anni e mille anni come un giorno solo” (2 Pietro 3.8) non valeva. “Quanto vorrei che fosse già acceso”, è uno stato d’animo chiaramente da collegare al verso 50 quando, parlando della Sua morte, il “battesimo nel quale sarò battezzato”, dice “e come sono angosciato, finché non sia compiuto!”.

Sarebbe stato un battesimo di sangue, quello riservato solo a Lui, che consentirà lo svolgersi di avvenimenti prima impossibili: “Questo Gesù, Dio lo ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni – ecco una delle basi della fede –. Innalzato dunque alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire. Davide infatti non salì al cielo; tuttavia egli dice: «Disse il Signore al mio Signore: siedi alla mia destra, finché io ponga i tuoi nemici come sgabello dei tuoi piedi” (Atti 2.32-35).

Gesù sapeva che il suo ultimo tempo era vicino e avrebbe voluto anticiparlo. E sappiamo che, quando l’ora di quel battesimo si avvicinava, portò i suoi discepoli a Gerusalemme con una risolutezza tale da lasciarli impressionati: “Mentre erano sulla strada per salire a Gerusalemme, Gesù camminava davanti a loro ed essi erano sgomenti: coloro che lo seguivano erano impauriti. Presi di nuovo in disparte i Dodici, si mise a dire loro quello che stava per accadergli: «Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai capi dei sacerdoti e agli scribi; lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani, lo derideranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno, e dopo tre giorni risorgerà” (Marco 10.32-34).

Ancora, teniamo presente che Nostro Signore sapeva che, “disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma quella di Colui che mi ha mandato” (Giovanni 6.38), avrebbe avuto in premio non solo “un nome che è al di sopra di ogni altro”, ma anche tutti coloro che avrebbe resuscitato: “Questa è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio – di persona come a quel tempo o in spirito come per noi oggi – e crede in lui – precisazione fondamentale – abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno” (Giovanni 6.40).

A questo punto, tornando ai nostri versi, Gesù sa che i discepoli non avevano ancora abbandonato l’idea che fosse un Messia nel senso umano del termine, cioè che avrebbe portato tranquillità e pace al suo popolo; per questo li disillude e li informa che, se sarebbero rimasti con lui, avrebbero certamente avuto “pace con Dio”, ma guerra con gli uomini che si sarebbe manifestata in tanti modi che qui vengono ristretti alla cerchia familiare perché solitamente simbolo di unità. Certo le sue parole riguardano non solo i Dodici, anzi gli Undici, ma tutti quanti sarebbero rientrati nel numero di quelli che avrebbero creduto davvero; la divisione di cui parla Nostro Signore si riferisce proprio all’àmbito ebraico, dove la tradizione religiosa si scontrerà con l’essere liberi da essa; basta ricordare quante volte proprio i Giudei cercarono di uccidere Paolo e tutti i complotti orditi contro di lui e, prima ancora, la lapidazione di Stefano.

Ora chi ha letto gli scritti dell’Antico Patto sa che là dove c’è chi agisce spinto dall’amore per Dio (da Lui ricambiato) e chi il mondo lo vive è sempre esistito un conflitto insanabile. Lo abbiamo visto a partire da Caino e Abele: l’uomo o gli uomini che appartengono profondamente alla carne non tollerano quelli che appartengono allo Spirito, o anche solo tendono verso di esso, e pertanto li combattono. È sufficiente dirsi cristiani e non condividere le loro idee o tendenze per suscitare reazioni negative.

Paolo spiegò molto bene questo stato di cose parlando dei figli di Agar e di Sara: “Voi, fratelli, siete figli della promessa, alla maniera di Isacco. Ma come allora colui che era nato secondo la carne – Ismaele, figlio appunto di Agar – perseguitava quello che era nato secondo lo spirito – Isacco –, così accade anche ora” (Galati 4.28,29). Si tratta di un’avversione istintiva, di un nulla in comune tra quella “luce” che venne subito separata dalle “tenebre” fin dal primo giorno della creazione, quando “Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre” (Genesi 1.3). Fu da quel gesto che la vita poté iniziare.

Certo è un principio che non solo l’apostolo Paolo si è limitato ad esporre: “Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia” (Giovanni 15.18,19). Da notare ciò che disse ai suoi fratelli che non credevano in Lui: “Il mondo non può odiare voi, ma odia me, perché di esso io attesto che le sue opere sono malvage” (7.7). Ancora nella prima lettera di Giovani: “Questo è il messaggio che avete udito fin da principio: che ci amiamo gli uni gli altri. Non come Caino, che era dal maligno e uccise il suo fratello. E per quel motivo l’uccise? Perché le opere sue erano malvage, mentre quelle di suo fratello erano giuste. Non vi meravigliate, fratelli, se il mondo vi odia” (3.11.12).

Il mondo quindi “ama ciò che è suo” non può che recepire quanti non gli appartengono come qualcosa di estraneo, da eliminare, di ripugnante. Questo modo di reagire raggiungerà il suo culmine nel regime degli ultimi tempi, ma siccome sappiamo che fin dall’antichità è detto che “lo spirito dell’Anticristo viene, anzi è già nel mondo” (1 Giovanni 4.3), possiamo capire il perché incontriamo nel nostro cammino quotidiano persone spinte da uno spirito avverso e soprattutto quale, chi sia e da dove venga questo spirito. Amen.

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13.12 – LA PARABOLA DEL SERVO FIDATO E PRUDENTE (Luca 12.41-48)

13.12 – Il servo fidato e prudente (Luca 12.41-48) 

 

41Allora Pietro disse: «Signore, questa parabola la dici per noi o anche per tutti?». 42Il Signore rispose: «Chi è dunque l’amministratore fidato e prudente, che il padrone metterà a capo della sua servitù per dare la razione di cibo a tempo debito? 43Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà ad agire così. 44Davvero io vi dico che lo metterà a capo di tutti i suoi averi. 45Ma se quel servo dicesse in cuor suo: «Il mio padrone tarda a venire» e cominciasse a percuotere i servi e le serve, a mangiare, a bere e a ubriacarsi, 46il padrone di quel servo arriverà un giorno in cui non se l’aspetta e a un’ora che non sa, lo punirà severamente e gli infliggerà la sorte che meritano gli infedeli.
47Il servo che, conoscendo la volontà del padrone, non avrà disposto o agito secondo la sua volontà, riceverà molte percosse; 48quello invece che, non conoscendola, avrà fatto cose meritevoli di percosse, ne riceverà poche. A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più.

 

            Sarà necessario tornare in futuro su questa parabola, che verrà riesposta da Gesù in un altro momento divenendo così la penultima di quelle esposte ai Suoi. Guardando alle parabole fin qui esaminate non possiamo notare come vi sia una progressione sempre più alta verso la particolarità del messaggio: quella del “ricco stolto” fu pronunciata davanti a “migliaia di persone al punto che si calpestavano a vicenda”, quella dei servi che vegliano nell’attesa che il loro padrone rientri da una festa di nozze fu detta“ai suoi discepoli”e quest’ultima a Pietro, certo alla presenza degli altri, in vista degli incarichi che avrebbero ricoperto un giorno in seno alla Chiesa. Furono infatti gli apostoli, con la loro predicazione, che consentirono la sua nascita e diffusione nel mondo allora conosciuto e che vegliarono sul gregge loro affidato, come altri dopo la loro morte del corpo fino ad oggi. È altresì opinione dei sostenitori del primato di Pietro che Gesù, con questa parabola, abbia voluto indicargli il ruolo che avrebbe avuto, sottolineando le parole “amministratore”e “a capo della sua servitù”, ma è chiaro che qui il riferimento è a una persona che occupa un ruolo di responsabilità e sia da ritenersi in senso collettivo e non individuale, come vedremo. Se fosse giusta questa teoria, infatti, sarebbero da considerare “valide” solo le Chiese fondate da Pietro, ignorando il lavoro di Paolo, Giovanni e tutti gli altri. Ricordiamo anche Galati 2.9 quando si scrive“Giacomo, Cefa e Giovanni, ritenuti le colonne”: “le”, non “la”, con Pietro al secondo posto.

Proprio quest’apostolo, che si caratterizzava dagli altri per le molte richieste di spiegazioni a fronte delle parole di Gesù, era già intervenuto a seguito delle parole rivolte al giovane ricco che, quando fu invitato a seguirlo dopo avere abbandonato le proprie ricchezze, se ne andò rattristato. In quell’occasione chiese “Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito: che cosa dunque ne avremo?”(Matteo 19.27). Ora qui si verifica la stessa cosa: Pietro non ha chiaro il concetto non dell’attesa operosa dei “servi”, ma piuttosto chi fossero, se cioè loro, i dodici, o tutti quelli che lo seguivano.

Ora, a una domanda così diretta, sarebbe stato semplice rispondere semplicemente “no, dico per voi”, o “per tutti”, ma Nostro Signore parla in modo tale che ciascuno dei presenti potesse darsi una risposta e soprattutto scegliere in chi identificarsi: “Chi è dunque l’amministratore fidato e prudente (…)?”, cioè in altri termini “Pensate di essere voi? Se sì, ascoltate cosa può succedere” e a questo punto viene esposta la parabola che abbiamo letto, che riguarda gli apostoli e quelli che sarebbero venuti dopo di loro senza – attenzione perché è molto importante – ereditare in alcun modo il loro ruolo, il loro compito, il loro valore. L’apostolo, infatti, è solo colui che ha vissuto con Nostro Signore e ha ricevuto tale carica-onore direttamente da Lui, come in Atti 1.21,22: “Bisogna dunque che, tra coloro che sono stati con noi per tutto il tempo nel quale il Signore Gesù ha vissuto fra noi, cominciando dal battesimo di Giovanni fino al giorno in cui è stato di mezzo a noi assunto in cielo, uno divenga testimone, insieme a noi, della sua risurrezione”. Questo è uno dei motivi per cui Pietro non ottiene una risposta diretta, ma una nuova domanda.

Cerchiamo ora di esaminare il personaggio chiave del racconto di Gesù, chiaramente “l’amministratore fidato e prudente”, tradotto anche con “dispensatore leale e avveduto”: si tratta dell’economo, ruolo che nelle grandi case stava fra il maestro di casa e i servi e veniva incaricato, come Eliezer per Abramo o Giuseppe per Potifarre, della gestione della servitù, godendo della totale fiducia del suo signore. Non era un incarico da poco ed è facile pensare che il padrone, dando quella qualifica, dimostrasse la sua stima e onorasse così chi veniva scelto che, proprio per questo, cercava di adempiere nel migliore dei modi l’incarico. È la stessa cosa, per quanto in modo diverso, che avviene nella parabola dei dieci servi quando, dovendosi assentare il loro signore, li chiama perché facciano fruttare ciascuno la moneta d’oro che gli veniva consegnata (Luca 19).

Aggiornato al tempo della Chiesa, quindi dalla discesa dello Spirito Santo in Gerusalemme fino al ritorno di Cristo, è quanto esposto da Paolo agli anziani di Efeso poco prima che partisse:“Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha costituiti come custodi per essere pastori della Chiesa di Dio, che si è acquistata con il sangue del proprio Figlio” (Atti 20.28). Poi ricordiamo 1 Corinti 4.1,2 “Ognuno ci consideri come servi di Cristo e amministratori dei misteri di Dio. Ora, ciò che si richiede agli amministratori è che ognuno risulti fedele”. Non c’è quindi alcun dubbio che Gesù, con questa parabola, si riferisca a chi ha da Lui ricevuto un mandato di responsabilità in mezzo alla Chiesa a prescindere dal o dai doni: se ciò è avvenuto, la persona è stata messa “a capo”da Dio non in senso autoritario, ma ha avuto il compito di dare “la razione di cibo a tempo debito”, naturalmente spirituale, oltre a “vegliare il gregge”, piccolo o grande non importa, che gli è stato affidato. Volendo, la grandezza del gregge può essere vista nei talenti della parabola ad essi relativa.

Purtroppo, una delle piaghe della Chiesa di Dio, a prescindere dalla sua denominazione, è quella dell’avere persone che scambiano il voler avere degli incarichi di responsabilità con l’essere effettivamente in grado di farlo secondo il volere del Signore e, non essendo da Lui costituiti allo scopo, finiscono per inquinare irrimediabilmente tutto il campo in cui operano sostituendo la gestione oculata dei doni, del messaggio e della stessa vita cristiana, con il compromesso, la politica e la gestione della Chiesa esattamente come lo farebbe una persona a lei estranea.

In pratica, anziché pensare alle persone loro affidate, pensano a loro stessi rientrando perfettamente nel secondo personaggio della parabola, quello che dice “in cuor suo”, esattamente come il ricco stolto che parlava a se stesso, “Il mio padrone tarda a venire”. Costoro usano il loro metro umano per valutare, attenti alle loro esigenze e non a quelle del principio dell’attesa che deve avere il subordinato nei confronti di chi a lui è superiore in oltraggio alla libertà che gli è concessa. E sì che si tratta di un servo che all’inizio sembrava essere fidato ed efficiente.

A proposito dell’indifferenza che può sorgere nel cuore di un credente un fratello amava dire che, se l’uomo sentisse male ogni volta che pecca, prima di agire male ci penserebbe. È ciò che scrive Salomone nel Qoèlet,“Poiché non si pronuncia una sentenza immediata contro una cattiva azione, per questo il cuore degli uomini è pieno di voglia di fare il male; infatti il peccatore, anche se commette il male cento volte, ha lunga vita”(8.11,12). Tuttavia il testo prosegue “Tuttavia so che saranno felici coloro che temono Iddio, appunto perché provano timore davanti a lui”.

La caratteristica di chi non è sottomesso alla Parola di Dio, è infatti quella di sottovalutarla, attenendosi al presente, al tangibile, a tutto ciò che passa lasciando un pallido ricordo: “Figlio dell’uomo, che cos’è questo proverbio che si va ripetendo nella terra d’Israele: «Passano i giorni e ogni visione svanisce»? Ebbene, riferisci loro: Così dice il Signore Dio; Farò cessare questo proverbio e non lo si sentirà più ripetere in Israele. Anzi riferisci loro: Si avvicinano i giorni in cui si avvererà ogni visione. Infatti non ci sarà più visione falsa né vaticinio fallace in mezzo alla casa d’Israele, perché io, il Signore, parlerò e attuerò la parola che ho detto; non sarà ritardata. Anzi, ai vostri giorni, o genìa di ribelli, pronuncerò una parola e l’attuerò». Oracolo del Signore Dio.”(Ezechiele 12.22-27).

È anche bello considerare che proprio Pietro, che ascoltò le parole di Gesù a seguito della sua domanda, scrisse nella sua seconda lettera: “Questo anzitutto dovete sapere: negli ultimi giorni si farà avanti gente che si inganna e inganna gli altri e che si lascia dominare dalle proprie passioni. Diranno: «Dovè la sua venuta, che egli ha promesso? Dal giorno in cui i nostri padri chiusero gli occhi, tutto rimane com’è al principio della creazione».”(3.3,4).

 

Se guardiamo al presente dei giorni, li vediamo passare quasi sempre uguali e apparentemente senza traccia di Dio anche se basta osservare anche superficialmente quanto è complesso e organizzato un organismo per rendersi conto di quanto sia impossibile che si sia strutturato per caso. Non si pensa che il Creatore ha lasciato agli uomini una traccia, dei segni per poterlo conoscere promettendo che, se cercato, si lascia trovare. E se quanto ha detto si è puntualmente avverato nella storia, è impossibile che non si concreti circa quegli avvenimenti che ha preannunciato, come nel caso che ci riguarda il Suo ritorno. E chi non ha acquisito fino in fondo il principio dell’eternità come appartenenza, non potrà che accedere alla constatazione della temporalità, “il mio padrone tarda a venire”, e guardare sempre più ad essa. Attento a curare le malattie del proprio corpo, non si cura di quelle dell’anima e dei pericoli che questa corre.

Il comportamento del servo che non adempie il suo compito nell’attesa del ritorno del suo signore è descritto con parole che alludono al suo egoismo, ma soprattutto al danno che procura a quelli come lui, che però non hanno avuto come un incarico di responsabilità: prima li percuote, cioè li fa soffrire e li umilia, poi mangia, beve e si ubriaca, cioè fa un utilizzo totalmente arbitrario di beni non suoi, e qui è per me facile individuare tutti coloro che torcono la Scrittura a loro vantaggio per avere guadagni o posizioni sociali che altrimenti non avrebbero, facendo leva sull’impreparazione degli altri. E così lo Spirito si spegne: “Non spegnete lo spirito, non disprezzate le profezie. Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono. Astenetevi da ogni specie di male”, che altri traducono “parvenza di male”(2 Tessalonicesi 5.19-22).

Custodire la parola del Signore è dunque ciò a cui sono chiamati tutti i servi, a cominciare da quello che ha ricevuto l’incarico di provvedere agli altri quanto al nutrimento: “Ricorda dunque come hai ricevuto e ascoltato la Parola, custodiscila e convèrtiti perché, se non sarai vigilante, verrò come un ladro, senza che tu sappia a che ora verrò da te”(Apocalisse 3.3).

 

Il nostro testo descrive la punizione del servo. “Lo punirà severamente e gli infliggerà la sorte che meritano gli infedeli”. Qui ci troviamo di fronte a una pericope assolutamente delicata perché altre traduzioni riportano “lo reciderà”, oppure “lo separerà”, espressione che sembra descrivere un’esclusione dal regno di Dio anche se manca quel “pianto e stridore di denti”di cui parla sempre Gesù quando allude alle conseguenze dell’esclusione. C’è anche un’allusione, come vedremo quanto torneremo nel parallelo di Matteo che esamineremo in futuro, alla morte mediante segamento del corpo.

Possiamo fornire qui, per ora, l’interpretazione più corretta, quella espressa al verso 47, quando le “molte percosse”è espressione che viene connessa alle punizioni corporali per reati che non contemplavano la morte, come in Deuteronomio 25.2,3: “Se il colpevole avrà meritato di essere fustigato, il giudice lo farà stendere per terra e fustigare in sua presenza, con un numero di colpi proporzionato alla gravità della sua pena. Gli farà dare non più di quaranta colpi perché, aggiungendo altre battiture a queste, la punizione non risulti troppo grave e il tuo fratello resti infamato ai tuoi occhi”. La “parte con gli infedeli”di cui Gesù parla credo si riferisca a quella dei servi che non hanno ottemperato alla volontà del padrone, che non beneficiano della sua benevolenza e considerazione, ma non vengono esclusi completamente dalla casa. Chi prendeva le battiture certo non moriva, ma soffriva molto e restavano certamente dei segni su di lui, quando non addirittura rimaneva storpio.

Ci sarà sofferenza, quindi, ma non la morte, esattamente come scrive l’apostolo Paolo a proposito del rendiconto: “Se l’opera che uno costruì sul fondamento resisterà, costui ne riceverà una ricompensa; ma se l’opera finirà bruciata, sarà punito. Tuttavia egli si salverà, però come attraverso il fuoco”(1 Corinti 3.14,15). La punizione di Dio, quindi, equivarrà ad una vita ai margini del Regno perché “ciascuno riceverà la sua retribuzione a seconda di come avrà operato”perché “Noi tutti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, affinché ciascuno riceva la retribuzione di ciò che avrà fatto quando era nel corpo, sia in bene, che in male”(2 Corinti 5.10). Credo che di più non possiamo sapere perché la prospettiva cui ogni cristiano deve aspirare è quella del premio e non certo la punizione. E credo anche che comportarsi come se non ci fosse una “retribuzione sia in bene, che in male”equivalga a dire “il mio padrone tarda a venire”e quindi far del male a se stessi.

Per quanto il messaggio della parabola sia rivolto a chi ha compiti di responsabilità nella Chiesa, è l’ultimo verso a costituire un vero monito per tutti: “A chiunque fu dato molto– e cosa può esservi più grande della Grazia? – molto sarà richiesto; a chi fu affidato molto– ecco gli anziani e coloro che amministrano la Parola – sarà richiesto molto di più”. Da notare che quell’ “affidato molto”nell’originale è “dato in deposito”, che si collega ai talenti e alle dieci monete (mine) d’oro. Preghiera e veglia, attenzione a noi stessi perché, come scritto in 2 Timoteo 1.14, “Custodisci, mediante lo Spirito Santo che abita in noi, il bene prezioso che ti è stato affidato”. Amen.

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13.11 – LA PARABOLA DEI SERVITORI CHE VEGLIANO (LUCA 12.35-40)

13.11 – La parabola dei servi che vegliano (Luca 12.35-40)           

 

35Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; 36siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito. 37Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli. 38E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro!39Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora viene il ladro, non si lascerebbe scassinare la casa. 40Anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo».

 

            C’è una notevole differenza fra la parabola del ricco stolto, pronunciata davanti alla folla, e quella dei servi che vegliano, rivolta da Nostro Signore ai suoi discepoli, quindi a una cerchia di persone più ristretta. Il messaggio qui contenuto possiamo dire allora che è “riservato”, rivolto a quanti hanno già fatto una scelta importante, quella di seguirLo e hanno bisogno di imparare da Lui perché, senza le Sue indicazioni, sarebbero ancora in balìa di loro stessi. Ecco allora che quanto esposto da Gesù, che verrà ricordato loro dallo Spirito Santo una volta risorto e salito al cielo, riguarda il modo che ha il cristiano di condurre la propria vita, “pronto, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese”.

Esaminiamo ora quanto avviene nella parabola da un punto di vista storico per poi fare alcuni accostamenti spirituali partendo dalla festa cui il padrone è invitato.

 

La festa di nozze: non esisteva un rito religioso per celebrare il matrimonio perché era considerato un fatto privato certamente fra l’uomo e la donna, ma soprattutto fra le famiglie cui gli sposi appartenevano; queste stabilivano tra loro una vera e propria alleanza organizzata dai rispettivi padri. Si celebrava solitamente dopo un anno di fidanzamento e la festa che lo coinvolgeva era grande a tal punto da durare anche una settimana. Il matrimonio era una questione anche di prestigio sociale talché non mancavano ospiti di riguardo essendo gli invitati scelti con molta attenzione, e qui si possono fare molte applicazioni sull’episodio delle “nozze di Cana” e a tutte le parabole in cui si citano le nozze. Un ruolo importante lo avevano gli amici dello sposo, che si occupavano del buon andamento della festa, di presentare gli invitati coi regali che portavano e di tutto quanto fosse funzionale al banchetto (ricordiamo il vino). Nulla era lasciato al caso.

Ora abbiamo un elemento importante e cioè che il padrone, nella nostra parabola, parte per una festa nuziale la cui durata era assolutamente sconosciuta ai servi: sarebbe potuto tornare tanto a notte inoltrata, quanto dopo più giorni e di qui la necessità di predisporsi ad accoglierlo senza trascurare i compiti loro affidati. Non sappiamo quante fossero le persone addette a quella casa, ma è certo che l’assenza del padrone avesse portato squilibrio nella gestione ordinaria del loro tempo perché restava il problema della notte, dove in condizioni normali tutti andavano a dormire per ritemprarsi dalle fatiche del giorno. Era impensabile che un servo, in quanto tale privo di diritti per quanto non come nel mondo occidentale o presso altri popoli, facesse attendere il proprio signore alla porta.

 

Nella nostra parabola Gesù quindi parla di servitori coscienziosi, quelli che “troverà ancora svegli”, che però in quanto esseri umani possono essere soggetti a stanchezza: come fare? Si tratta di combattere contro un nemico subdolo, cioè il sonno che inevitabilmente cerca di impossessarsi di chiunque affronta una veglia. I testi storici non ci hanno tramandato nei dettagli la vita di chi era preso a servizio, cosa che avveniva a causa della povertà o per ripianare debiti eventualmente contratti. In ogni caso era prevista la possibilità del riscatto e il servo veniva liberato dopo sette anni, al termine dei quali poteva decidere anche se restare presso il padrone per motivi affettivi; così leggiamo in Esodo 21.5,6: “Ma se lo schiavo dice: «Io sono affezionato al mio padrone, a mia moglie, ai miei figli, non voglio andarmene libero», allora il suo padrone lo condurrà davanti a Dio, lo farà accostare al battente o allo stipite della porta e gli forerà l’orecchio con la lesina e quello resterà suo schiavo per sempre”.

Rimane comunque il fatto, tornando alla parabola, che quei servi non sapevano quando il loro padrone sarebbe rientrato e alcuni di loro, volontariamente, per non dispiacergli e onorarlo, decidono di attenderlo. Credo che Gesù non abbia voluto qui porre la questione su come si organizzò il gruppo di persone per far fronte al problema del sonno, cioè se questi decisero di fare dei turni di attesa, se c’era chi dormisse di giorno per stare sveglio di notte o altro, ma piuttosto porre l’accento sulla veglia, che in pratica è il procedere contrario alle elementari esigenze del corpo che ha bisogno di sonno, dalle cinque alle dieci ore a seconda delle condizioni di salute e all’età delle persone. Ciò che rileva è: il padrone deve tornare e va aspettato perché, “quando arriva e bussa, gli aprano subito”.

Si tratta si un’attesa analoga a quella della parabola delle dieci vergini, che, “Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e si addormentarono”(Matteo 25.5), anche se lì l’accento è posto sul fatto che cinque di loro avevano l’olio per le lampade e le altre no.

 

La vita cristiana, quindi, è spiegata ai discepoli di Gesù con questa situazione, in vista del ritorno del Signore che disse “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?”(Luca 18.8); di qui la necessità espressa all’inizio del nostro testo, “Siate pronti, con le vesti strette attorno ai fianchi e le lampade accese”. Esser “pronti”significa porsi nelle condizioni di reagire immediatamente a uno stimolo, a un richiamo, e a farlo nel migliore dei modi mettendo in conto tutto quanto possa succedere, essere in grado di fronteggiare qualunque situazione possa verificarsi nell’ambito per cui si è preparati; lo sanno bene coloro che appartengono a reparti particolari, come possono essere i Vigili del Fuoco o di pronto intervento di polizia o sanitario. Il più delle volte chi è “pronto” ha prima studiato, vagliato possibilità, si è preparato attraverso un addestramento specifico.

La prontezza di cui parla Nostro Signore è caratterizzata dall’avere “le vesti strette attorno ai fianchi”, cioè predisporsi al lavoro: a quel tempo, infatti, gli israeliti portavano lunghe tuniche che, quando svolgevano attività impegnative, venivano sollevate in modo che non intralciassero i movimenti e strette con una cintura attorno ai fianchi che, nel Nuovo Testamento, è sinonimo di verità (Ef. 6.14). L’apostolo Pietro poi scrive “perciò, cingendo i fianchi della vostra mente e restando sobri, ponete tuttala vostra speranza in quella grazia che vi sarà data quando Cristo si manifesterà”(1°.1.13). La verità del Vangelo, quindi, è quella che consente di operare in modo libero ed efficace per l’avanzamento proprio e di altri nel cammino della vita quotidiana.

È quindi la cintura del tipo appena visto in questi due passi che consente un’operatività esente da biasimo, tanto del prossimo che della Chiesa e quindi di Dio; se il termine “verità”può sembrare eccessivo, va precisato che essa è qualcosa che si costruisce e si scopre giorno per giorno se si è disposti a crescere davanti a Lui e a nessun altro. Alcuni commettono un grosso errore credendo di vivere ancora ai tempi della Chiesa di Gerusalemme, quando lo Spirito Santo si manifestava nei modi che tutti conosciamo: oggi il nostro edificio spirituale viene costruito poco a poco, sull’unica roccia ammissibile che è Gesù Cristo, che disse ai Suoi “Quando però verrà lo Spirito di Verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annunzierà le cose future”(Giovanni 16.13). Notare il termine, “vi guiderà”, che significa “precedere o condurre lungo un percorso” e non rendere di colpo una persona depositaria di chissà quali verità: la prima che l’uomo deve cercare è la propria salvezza in Cristo che “mi ha amato e ha dato se stesso per me”(Galati 2.20).

 

Terzo elemento illustrato da Gesù in questa parabola sono “le lampade accese”. La mancanza di uno solo di questi rende inutile ogni compito perché, se l’essere “pronti”si connette allo stato d’animo che anima la persona, le vesti cinte attorno ai fianchi sono figura del suo operare. Senza la lampada accesa ogni attività è impossibile non essendo nessuno in grado di lavorare al buio. La “lampada”, a parte questo, ha connessione con Matteo 5.16 quando fu detto “Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli”. Ecco perché il comportamento del credente dev’essere illuminato dalla Parola di Dio e non da altri elementi.

La lampada, per illuminare tutta la notte, doveva essere piena d’olio, figura dello Spirito Santo e della dignità profonda che conferisce all’uomo, e qui abbiamo un ulteriore richiamo alla parabola delle dieci vergini che abbiamo ricordato. Ancora, a conferma che lo Spirito riveste completamente l’uomo, ricordiamo che “la lampada del corpo è l’occhio. Perciò, se il tuo occhio è puro, tutto il tuo corpo sarà illuminato, ma se il tuo occhio è cattivo, tutto il tuo corpo sarà nelle tenebre. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra!”(Matteo 6.22,23). Ecco allora che, con questi versi, andiamo ben oltre alla semplice divisione fra luce e buio, ma veniamo avvertiti che possiamo scambiare l’una con l’altro perché “la luce che è in te è tenebra”, lungi dall’essere un ossimoro, ci parla di presunzione, arroganza, obiettivi carnali quali unici motori di una vita.

 

I servi della nostra parabola non portano panni e coperte nei pressi del portone di casa, ma restano svegli, attenti al minimo rumore, alla ricerca di quei segnali che possano avvisarli dell’imminente rientro del loro signore che, una volta giunto, compie qualcosa di assolutamente inaspettato: “Beati quei seri che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi – questa volta lui! –, li farà mettere a tavola e passerà a servirli”. Lui, il signore rispettato e temuto, che fino a poco prima di partire dava ordini e si aspettava che questi fossero rispettati, muta completamente atteggiamento e onora i suoi servi di attenzioni che certamente non si aspettavano: “passerà a servirli”, avvicinandosi ad ognuno di loro.

Di questa azione troviamo traccia in due passi, il primo quando Gesù laverà i piedi ai discepoli (Giovanni 13.3,4) ma ancor più, del tutto consono al nostro episodio, Apocalisse 7.17 “Non avranno più fame né avranno più sete, non li colpirà il sole né arsura alcuna, perché l’Agnello, che sta in mezzo al trono, sarà il loro pastore e il guiderà alle fonti delle acque della vita. E Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi”.

Gesù, quindi, con questa parabola dà ai suoi discepoli, a prescindere dal tempo in cui sarebbero vissuti, degli elementi per guidarli nell’attesa tanto del Suo ritorno quanto della Sua chiamata attraverso la morte del corpo che anche lei sopraggiunge quando uno meno se lo aspetta. In ogni caso, però, “Quelle cose che occhio non vide né orecchio udì, né mai entrarono in un cuore d’uomo, Dio le ha preparate per coloro che lo amano”(1 Corinti 2.9). Amen.

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13.10 – LA PARABOLA DEL RICCO STOLTO (LUCA 12.13-21)

13.10 – La parabola del ricco stolto (Luca 12.13-21)         

 

13Uno della folla gli disse: «Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità». 14Ma egli rispose: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?». 15E disse loro: «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede». 16Poi disse loro una parabola: «La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante. 17Egli ragionava tra sé: «Che farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti? 18Farò così – disse -: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. 19Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti!». 20Ma Dio gli disse: «Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?». 21Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio».

 

            Prima di affrontare questa parabola va dato un breve cenno introduttivo, trattandosi di un racconto inserito solo da Luca. I versi da 1 a 10, che riportano il discorso di Gesù sul “lievito dei farisei”, sul temere non “coloro che possono uccidere il corpo, ma colui che, dopo aver ucciso, ha il potere di gettare nella Geenna”, la “bestemmia contro lo Spirito Santo”e la Sua assistenza a chi crede, sono già stati affrontati, ma senza sottolineare che furono pronunciati di fronte a una folla di “migliaia ai persone, al punto che si calpestavano a vicenda”(Luca 12.1).

Ebbene, fra tutta questa gente, ammettendo che il fatto sia avvenuto proprio in quel contesto, stava un uomo che non prestava la minima attenzione a quanto veniva detto, ma era angustiato perché aveva un fratello che non ne voleva sapere di dividere con lui un’eredità. Evidentemente, arrovellandosi su come risolvere il problema e considerata l’influenza che Gesù aveva sul popolo, pensò che nessuno meglio di Lui avrebbe potuto convincere quel congiunto ostinato, attaccato a quanto stava per ricevere al punto da rifiutarsi di dividere ciò che legalmente apparteneva ad entrambi. Questa è la lettura più immediata della situazione che stava a monte della richiesta “Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità”: potrebbe essere stato che il “fratello”in questione fosse un discepolo, che costui fosse un primogenito cui spettava una parte doppia del lascito oppure semplicemente un avido, ma non rileva perché l’importante è che per la prima e unica volta nei Vangeli abbiamo una richiesta a Gesù di intervenire in una questione tipicamente terrena che, nella fattispecie, veniva spesso risolta da un consiglio di famiglia o dal “mediatore”, più propriamente “addetto alla divisione”che solitamente apparteneva alla cerchia di amici comuni più stretti e al quale veniva conferito l’incarico.

Da qui in poi Gesù si rivolge ai presenti – “disse loro”– e all’ignoto che si era rivolto a Lui esponendo una parabola che ha per tema l’avidità e lo sguardo orizzontale, l’ascolto esclusivo di se stessi e, per meglio dire andando alle parole del discorso della montagna, il “servire a Mammona”dove la “servitù” si concreta con l’appartenenza e la dipendenza. Non era infatti contemplata la figura del dipendente prezzolato, che presta il servizio pattuito e se ne va, ma quella del servo che apparteneva al padrone cui spettava il compito di nutrirlo e dargli una dimora. Appartenere e dipendere, quindi; e il rapporto che il servo intratteneva col suo padrone influenzava la sua stessa vita.

 

Abbiamo dunque letto “E disse loro”, non direttamente a chi gli aveva chiesto un intervento su questioni finanziarie, ma a tutti. Il testo, fra l’altro, non specifica se questa persona avesse torto o ragione in quel dividere.

Fate attenzione e guardatevi da ogni cupidigia”, così tradotto da “pleonexìa” che sta ad indicare il desiderio di avere di più di quanto abbiamo diritto “perché – come abbiamo letto –anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede”(v.15): ricordiamo come premessa Proverbi 15.16, “È meglio aver poco con il timore di Dio che un grande tesoro con inquietudine”e 16.16 “Possedere la sapienza è molto meglio dell’oro, acquisire l’intelligenza è preferibile all’argento”che estendono il significato delle parole di Gesù in modo tale che “ciò che egli possiede”sono i beni in senso stretto, materiale: se infatti la “vita” vera dipendesse da ciò che una persona ha, il regno di Dio apparterrebbe ai “ricchi” e non ai “poveri” secondo la classificazione spirituale che conosciamo.

 

Venendo alla parabola, mi sono chiesto quale sia il soggetto, cioè se l’uomo ricco o la brama di possedere ed effettivamente la questione si pone poiché abbiamo un agente, appunto il ricco, totalmente succube della propria condizione di sottomesso al proprio spirito avido. Scrivendo agli Efesi l’apostolo Paolo dirà “Sappiatelo bene: nessun fornicatore, o impuro, o avaro, cioè nessun idolatra, ha in eredità il regno di Cristo e di Dio”(5.5). Poi, in Colossesi 3.5, ben sapendo che il credente è un essere umano e in quanto tale soggetto ad impulsi negativi che si porta appresso, scrive “Fate morire dunque ciò che appartiene alla terra: impurità, immoralità, passioni, desideri cattivi e quella cupidigia che è l’idolatria: a motivo di queste cose l’ira di Dio viene su coloro che gli disobbediscono”.“Non abbiamo portato nulla nel mondo e nulla possiamo portare via”(1 Timoteo 6.7) quanto mai letteralmente consono al nostro episodio, ed Ebrei 13.5,6: “La vostra condotta sia senza avarizia: accontentatevi di quello che avete, perché Dio stesso ha detto: «Non ti lascerò e non ti abbandonerò». Così possiamo dire con fiducia: Il Signore è il mio aiuto, non avrò paura. Che cosa può farmi l’uomo?”.

Tenendo a mente questi passi, possiamo esaminare il fatto narrato da Nostro Signore: un uomo già ricco si ritrova di fronte ad “un raccolto abbondante”e questo dà luogo a tutta una serie di ragionamenti che escludono nella maniera più assoluta tanto Dio quanto il suo prossimo. Abbiamo letto “ragionava fra sé”e questa credo sia la chiave di lettura. Mi viene in mente Maria, madre di Gesù, che “da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore”, intenta quindi in un percorso di ricerca spirituale, onorata della visita dell’angelo Gabriele.

Nella parabola del ricco stolto, invece, ogni discorso è proiettato ad un futuro che gli apparteneva solo teoricamente, non sapendo quando sarebbe intervenuta la morte a scrivere la parola “fine” al suo percorso esistenziale. È da notare la posizione di quest’uomo: la sua campagna aveva “dato un raccolto abbondante”quindi le sue ricchezze non erano frutto di oppressione, estorsione o frode. Presumiamo fosse una persona onesta, diligente nel coltivare i propri campi e, per la dispensazione in cui viveva, sapeva che tutto questo poteva costituire una benedizione di Dio. Per noi, credo fosse un modo per metterlo alla prova perché, anziché ringraziare Colui che gli aveva consentito quei raccolti e provvedere agli altri come faceva Giobbe che in quello traeva la sua soddisfazione, fu vittima della propria sollecitudine. Possiamo dire che, tanto più crescevano i suoi raccolti, tanto più aumentava il suo desiderio di possesso.

Il nostro testo giustamente traduce “cupidigia”al posto di “avarizia”perché, mentre l’avaro non spende mai – c’è chi ha detto che l’avaro è il miglior custode dei beni degli eredi –, chi è affetto da cupidigia prova un desiderio intenso, una smodata avidità e bramosia, non provando altro che il piacere del possesso. Infatti, nel suo progetto, a un certo punto si apre uno spazio riservato al godimento di ciò che possiede chiamando in causa la propria anima, cioè tutta la sua persona: “Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divertiti”(v.19).

Sono importanti anche gli altri verbi: “Che farò?”, “Farò così”, “demolirò”, “costruirò”, “raccoglierò”, “dirò– ancora una volta –a me stesso”. Non meno importante è il possessivo “mio”, che il testo riporta per cinque volte, a sostegno di un egoismo che abbraccia tutti gli aspetti della sua persona. Quel ricco era diventato la perfetta dimora di se stesso nel senso che si era totalmente chiuso agli altri che, se li avesse aiutati, lo avrebbero certamente benedetto, come il già citato Giobbe che, in 29.12,13 disse “…soccorrevo il povero che chiedeva aiuto e l’orfano che ne era privo. La benedizione del disperato scendeva su di me e al cuore della vedova infondevo la gioia. Ero rivestito di giustizia come di un abito, come mantello e turbante era la mia equità”.

Mi sono chiesto se la “morale” di quest’uomo contemplasse la morte. Credo di sì, ma la considerava come un evento remoto o, meglio, sul quale sorvolare esattamente come un’altra “morale”, quella del “mangiamo e beviamo, perché domani moriremo”(1 Corinti 15.32) o del “Venite, io prenderò del vino e ci ubriacheremo di bevande inebrianti. Domani sarà come oggi, e molto più ancora”(Isaia 56.12). Occupàti nel cercare soddisfazione nelle cose di questa vita ignorandone il suo senso profondo, passano i giorni, i mesi, gli anni fino a quando non si è costretti ad ammettere che l’evento tanto esorcizzato, inutilmente quanto temuto (ed altrettanto ignorato), è giunto.

Va infine sottolineato non tanto che la morte e il giudizio saranno la fine di tutto, quanto il contrasto fra le parole del ricco e quelle che Dio gli rivolge: “Stolto”in opposizione al giudizio che quell’uomo aveva di se stesso, fiero del risultato raggiunto. “Questa notte”in contrasto ai “molti anni”che si prometteva e infine quella “vita”– meglio da tradurre con “anima”–  che riteneva sua proprietà, che invece gli sarebbe stata “richiesta”perché ogni vita ed ogni anima è sempre data in prestito.

In tutto questo c’è però un elemento che pochi notano e cioè il tempo verbale, “ti sarà richiesta”che, tradotto letteralmente, è “richiedono”: questo rende l’idea di quanto fosse imminente la morte del ricco (e la relativa sentenza), ma pone degli importanti interrogativi su chi fossero quelli che richiedevano quella “vita”, o “anima”. Credo che qui i parallelismi possano essere due, il primo dei quali è ancora una volta nel libro di Giobbe, quando Satana chiese che fosse tentato e gli fu posto come limite di non prendere la sua vita, cosa che nel caso del ricco non avvenne. Facciamo attenzione perché, nel caso del ricco di questa parabola, l’Avversario chiese a Dio ciò che era suo e gli fu concesso di prenderlo. Una seconda soluzione, che poi è parte integrante della prima, riguarda il giudizio finale, chiesto a gran voce come da Apocalisse 6.10, per quanto in un contesto diverso.

Non si può che ammettere come quel “richiedono”, col suo plurale, sia molto più drammatico perché sottintende il fatto che il “rendiconto” avvenga, come in effetti sarà, non solo davanti alla presenza di Dio: “Non sapete che i santi giudicheranno il mondo?”(1 Corinti 6.2).

Gesù termina la parabola con una domanda, “Quello che hai preparato, di chi sarà?”, in cui vediamo che ciò che resiste è il piano di Dio e non quello dell’uomo, perché “Sì, come un’ombra l’uomo che passa. Sì, come un soffio che si affanna, accumula e non sa chi raccolga”(Salmo 39.7). Ricordiamo anche le parole di Salomone “Ho preso in odio ogni lavoro che con fatica ho compiuto sotto il sole, perché dovrò lasciarlo al mio successore. E chi sa se questi sarà saggio o stolto? Eppure potrà disporre di tutto il mio lavoro, in cui ho speso fatiche e intelligenza sotto il sole. Anche questo è vanità”(Ecclesiaste 2.18,19).

A conferma poi che ai presenti non è stata raccontata una favola, abbiamo infine il monito “Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio”(v.21): ci sono allora due destini, o meglio solo due destinazioni possibili per gli uomini, guardare a se stessi, o arricchirsi “presso Dio”per vivere tutte le conseguenze delle direzioni prese.

E possiamo concludere queste riflessioni con 2 Corinti 4. 16,17: “Per questo non ci scoraggiamo, ma anche se il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore invece si rinnova di giorno in giorno. Infatti il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria: noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili, perché le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili invece sono eterne”. E più avanti Gesù dirà “Dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore”.Amen.

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13.09 – CONTRO I DOTTORI DELLA LEGGE (Luca 11.45-54)

13.09 – Contro i dottori della Legge (Luca 11.45-54)       

 

45Intervenne uno dei dottori della Legge e gli disse: «Maestro, dicendo questo, tu offendi anche noi». 46Egli rispose: «Guai anche a voi, dottori della Legge, che caricate gli uomini di pesi insopportabili, e quei pesi voi non li toccate nemmeno con un dito! 47Guai a voi, che costruite i sepolcri dei profeti, e i vostri padri li hanno uccisi. 48Così voi testimoniate e approvate le opere dei vostri padri: essi li uccisero e voi costruite. 49Per questo la sapienza di Dio ha detto: «Manderò loro profeti e apostoli ed essi li uccideranno e perseguiteranno», 50perché a questa generazione sia chiesto conto del sangue di tutti i profeti, versato fin dall’inizio del mondo: 51dal sangue di Abele fino al sangue di Zaccaria, che fu ucciso tra l’altare e il santuario. Sì, io vi dico, ne sarà chiesto conto a questa generazione. 52Guai a voi, dottori della Legge, che avete portato via la chiave della conoscenza; voi non siete entrati, e a quelli che volevano entrare voi l’avete impedito».
53Quando fu uscito di là, gli scribi e i farisei cominciarono a trattarlo in modo ostile e a farlo parlare su molti argomenti, 54tendendogli insidie, per sorprenderlo in qualche parola uscita dalla sua stessa bocca.

 

            L’invettiva contro i dottori della Legge fu provocata da uno di loro, che avvertì coinvolta la propria categoria quando Gesù parlò di quanti amavano “i primi posti nella sinagoga e i saluti nelle piazze”. Ora, riconoscendosi nella citazione, quella persona non tollerava di venire paragonata a un sepolcro che non si vedeva e, passandovi sopra la gente, veniva resa impura. Questo è molto significativo perché era chiaro che Nostro Signore, in quel momento come in altri, non attaccava indistintamente tutta la categoria dei Dottori, ma solo quelli che, per comportamento e disposizione d’animo, mettevano in atto quanto da Lui denunciato. È come quando oggi qualcuno, tramite i media, attacca una determinata categoria di persone: chi si offende, non è mai chi svolge la professione correttamente, ma chi si sente punto nel vivo perché ha “la coscienza sporca”.

A questo punto era inevitabile che Gesù continuasse l’elenco delle colpe che coinvolgevano comunque anche gli scribi e farisei, avendo quelle categorie di persone più o meno un denominatore comune. Cito qui le parole usate da Matteo: “Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno. Legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito”.

La “cattedra– o più correttamente “sedia”di Mosè”allude al posto su cui queste persone sedevano nella sinagoga, quella dei maestri, ma anche quella da loro occupata nel Sinedrio o nei tribunali inferiori per applicare la legge. Fossero stati integri, non vi sarebbe stato nulla di male, ma ritenendosi eredi di Mosè a prescindere dalle loro azioni – abbiamo letto la loro replica a Gesù “Noi siamo discepoli di Mosè”– senza possedere alcuna delle sue qualità e soprattutto il mandato, non erano altro che impostori del sacro. Ricordiamo a proposito della “sedia”, come si comportò Esdra che “aprì il libro in presenza di tutto il popolo, poiché stava più in alto di tutti”(Nehemia 8.5). È detto poi che “i leviti spiegavano la legge al popolo e il popolo stava in piedi. Essi leggevano il libro della legge di Dio a brani distinti e spiegavano il senso, e così facevano comprendere la lettura”(vv.7,8). Teniamo presente questo far “comprendere”perché verrà utile più avanti. Da quel lodevole, splendido inizio, si era col tempo arrivati al punto descritto da Gesù.

Quando affronteremo il capitolo 23 di Matteo, dove più che in questo passo è analizzato il comportamento degli scribi, farisei e dottori della legge, potremo avere una visone più ampia delle nefandezze di costoro che, nel caso del passo in esame, comprendeva anche il totale disprezzo del debole. Così infatti scrive Isaia: “Guai a coloro che fanno decreti iniqui e scrivono in fretta sentenze oppressive, per negare la giustizia ai miseri e per frodare del diritto i poveri del mio popolo, per fare delle vedove la loro preda e per spogliare gli orfani. Ma che farete nel giorno del castigo, quando da lontano sopraggiungerà la rovina? A chi ricorrerete per protezione? Dove lascerete la vostra ricchezza? Non vi resterà che piegarvi tra i prigionieri o cadere tra i morti. Con tutto ciò non si calma la sua ira e ancora la sua mano rimane stesa”(10.1-4).

Qui vediamo anche come, progressivamente, ci avviciniamo al castigo profetizzato nel passo di Luca che stiamo esaminando cioè la generazione che sarà chiamata a rendere conto del sangue versato di tutti i profeti in quanto omicida dello stesso Gesù. La “rovina”abbiamo letto che sopraggiunge “da lontano”, se ne possono cioè vedere i segnali, ma vengono ignorati.

 

I Dottori della Legge, al tempo di Nostro Signore, sono paragonati poi a quelli che, avendo delle bestie da soma, li caricano di pesi talmente gravosi da sfinire chiunque, riconoscibili nell’infinità di precetti che imponevano al popolo richiedendone la rigida osservanza. Anche l’apostolo Pietro definì quelle usanze “un giogo che né i nostri padri né noi siamo stati in grado di portare”(Atti 15.10) e che si trattasse di pesi importabili erano loro a saperlo per primi, non volendo “muoverli neppure con un dito”, cioè standosene accuratamente alla larga fingendo però di adempierli. Ancora una volta abbiamo la differenza fra la religione e la fede nuova in Cristo, come scrive Paolo in Galati: “Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù– quello della Legge cerimoniale –. Ecco, io Paolo vi dico: se vi fate circoncidere, Cristo non vi gioverà nulla. Non avete più nulla a che fare con Cristo voi che cercate la giustificazione nella Legge: siete decaduti dalla grazia”(5.1-4).

Queste parole sono state scritte dall’apostolo per avvisare del danno provocato da quei Giudei convertiti che volevano tenere un piede nella Grazia e l’altro nella Legge, apparentemente non capendo che era la prima a far vivere e non la seconda, ma ponendo intoppi assoluti nel progresso degli altri nella fede.

Abbiamo così un’altra faccia dell’ipocrisia, quella più insidiosa che tanto male fa anche oggi nelle Chiese, dove basta assumere l’atteggiamento del rigore nei confronti degli altri per dare l’impressione che si faccia altrettanto con se stessi, ma non è così, come insegna l’episodio della donna adultera. E il modo stringato ed essenziale con cui Nostro Signore parla, lascia pensare che bastarono quelle parole per spiegarsi quanto bastava. E una volta tanto fu capito perfettamente, visto che l’ultimo verso del nostro passo ci parla dell’ostilità e dei tranelli dottrinali che tutti quei religiosi volevano porgli.

 

Altro capo d’imputazione nei confronti dei Dottori era il finto onore che attribuivano ai profeti, illudendosi di essere loro discendenti: consapevoli infatti che i loro avi avevano ucciso effettivamente molti inviati di Dio, ne condannavano le azioni riedificando e abbellendo i loro sepolcri per un tornaconto personale di rispettabilità quando il loro cuore, in proposito, non era affatto cambiato: “Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quanti sono mandati a te…”.  Ancora, di questi parlò Gesù nella parabola delle nozze, quando, di fronte agli inviati del re, disse “Ma essi, non curandosene, se ne andarono chi ai loro possedimenti, chi ai loro traffici; e gli altri, presi i suoi servitori, li oltraggiarono e li uccisero. E quel re, udito ciò, si adirò e mandò i suoi eserciti e distrusse quegli omicidi, ed arse le loro città”(Matteo 22.5-7).

Ricordiamo ciò che avvenne negli attimi che precedettero la lapidazione di Stefano in Atti 7.51-54: “«O gente testarda e pagana nel cuore e nelle orecchie, voi sempre opponete resistenza allo Spirito Santo; come i vostri padri, così anche voi. Quale dei profeti i vostri padri non hanno perseguitato? Essi uccisero quelli che preannunciavano la venuta del Cristo, del quale voi ora siete divenuti traditori e uccisori; voi che avete ricevuto la Legge per mano degli angeli, e non l’avete osservata». All’udire queste cose, fremevano nel cuor loro e digrignavano i denti contro di lui”.

Trattando la fede dei profeti uccisi, in Ebrei 11.35-38 leggiamo “Altri poi furono torturati, non accettando la liberazione loro offerta, per ottenere una migliore resurrezione. Altri infine subirono scherni e flagelli, catene e prigionia. Furono lapidati, torturati, segati, furono uccisi di spada, andarono in giro coperti di pelli di pecora e capra, bisognosi, tribolati, maltrattati. Di loro il mondo non era degno”.

Questo, in sintesi, ciò che è l’eredità dei Giudei e ciò che sarebbe stata la loro sorte, vista sinteticamente in quel “mandò i suoi eserciti e distrusse quegli omicidi ed arse le loro città”di cui abbiamo letto. Furono parole specifiche perché quella cui Gesù parlava era la “generazione”a cui sarebbe stato “ridomandato conto, dal sangue di Abele fino al sangue di Zaccaria”, entrambi uccisi da persone serve dell’Avversario.

 

Il terzo capo d’imputazione nei confronti dei Dottori è quella di aver “portato via la chiave della conoscenza”, di non esserne entrati e di averne impedito agli altri l’accesso: il parallelo di Matteo riporta “avete chiuso il regno dei cieli davanti agli uomini, di modo che voi non entrate e nemmeno lasciate entrare quelli che stavano per entrarvi”(23.13); qui il regno dei cieli è la nuova economia evangelica rappresentata da un recinto di cui Legge e Profeti sono la porta che, per essere aperta, ha bisogno di una “chiave”che quelli hanno rimosso, rubato. La “chiave”è quella della conoscenza spirituale, quella rivelata “ai piccoli”e non quella letterale dei libri imparati a memoria. Ricordiamo ciò che disse Filippo a Natanaele, nella sua semplicità “Noi abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti: Gesù, figlio di Giuseppe, da Nazareth”(Giovanni 1.45).

La Legge, quindi, non è qualcosa da sottostimare o di chiuso per sempre: lo è se la si considera come unica via o porta per il regno dei cieli quando, come leggiamo in Galati 3.24,25, “è stata per noi un pedagogo fino a Cristo, perché fossimo giustificati per la fede. Sopraggiunta la fede, non siamo più sotto un pedagogo”. Infatti “La Legge possiede soltanto l’ombra dei futuri beni e non la realtà stessa delle cose”(Ebrei 10.1): una salvezza “sulla quale indagarono e scrutarono i profeti che preannunciavano la grazia a voi destinata”(1 Pietro 1.10,11).

Gesù però, con le sue parole, denuncia un peccato terribile, quello di avere svuotato totalmente di senso spirituale gli scritti loro affidati, perché insegnavano ed è a loro che il popolo faceva riferimento. Tutto era ridotto all’apparenza, ad un’interpretazione e ad una pratica fuorviante di modo che, qualora vi fosse un cuore onesto, veniva corrotto da un insegnamento perverso. Purtroppo questo accade oggi in molte Chiese, credo soprattutto in quella di Roma e dove, per interessi personali, si antepone il proprio interesse a quello di Dio oppure, nello specifico, ci si adatta al contesto mondano tanto per quanto riguarda le sue superstizioni, quanto per ciò che è il suo concetto di solidarietà, modernità ed equalizzazione delle menti. E il “Vangelo sociale” ne è un esempio. E dalle parole di Nehemia che abbiamo ricordato, confrontate con quelle di Gesù coi leviti che “spiegavano la legge al popolo”, rileviamo il degrado, l’allontanamento dalla parola pura a quella travisata.

L’errore dottrinale si verifica, allora, sempre consapevolmente: se non ameremo il Dio che professiamo di servire, non potremmo che amare noi stessi. Amando noi stessi, seguiremo le strade che la nostra istintività ci porterà a seguire ma, per difendere il nostro status, torceremo la Scrittura a nostro vantaggio e in questo troveremo il nostro riposo provvisorio. Amando però il temporaneo e non l’eterno, saremo inevitabilmente sconfitti senza nessuna prospettiva di luce perché, proprio in quanto avremo fatto della religione vuota il nostro esistere, avremo impedito la salvezza agli altri. Amen.

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13.08 – L’INTERNO PIENO DI AVIDITÀ E CATTIVERIA (Luca 11.37-44

13.08 – L’interno pieno di avidità e cattiveria (Luca 11.37-44)     

 

37Mentre stava parlando,un fariseo lo invitò a pranzo. Egli andò e si mise a tavola. 38Il fariseo vide e si meravigliò che non avesse fatto le abluzioni prima del pranzo. 39Allora il Signore gli disse: «Voi farisei pulite l’esterno del bicchiere e del piatto, ma il vostro interno è pieno di avidità e di cattiveria. 40Stolti! Colui che ha fatto l’esterno non ha forse fatto anche l’interno? 41Date piuttosto in elemosina quello che c’è dentro, ed ecco, per voi tutto sarà puro. 42Ma guai a voi, farisei, che pagate la decima sulla menta, sulla ruta e su tutte le erbe, e lasciate da parte la giustizia e l’amore di Dio. Queste invece erano le cose da fare, senza trascurare quelle. 43Guai a voi, farisei, che amate i primi posti nelle sinagoghe e i saluti sulle piazze. 44Guai a voi, perché siete come quei sepolcri che non si vedono e la gente vi passa sopra senza saperlo».

 

            Nelle scorse riflessioni è stato dato qualche accenno alla pericolosità del metodo o mentalità ”religiosa” e all’influenza negativa che può avere sulla persona che non fa altro che chiudersi in sé stessa privandosi di vere prospettive spirituali. Ecco perché Nostro Signore dirà, in un passo che affronteremo prossimamente, “Guai a voi, dottori della Legge, che avete portato via la chiave della conoscenza; voi non siete entrati, e a quelli che volevano entrare voi l’avete impedito”(v. 52). Stesso severo ammonimento si ritrova in Matteo 23.13: “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che chiudete il regno dei cieli davanti alla gente; di fatto non entrate voi, e non lasciate entrare nemmeno quelli che vogliono entrarvi”. La religione è fatta di parole stantie mascherate da rivelazione, di usi e riti che possono suscitare anche ammirazione, ma si limitano a gesti accompagnati da espressioni e atteggiamenti di circostanza che durano lo stretto necessario alla funzione, per poi tutto tornare esattamente come prima. Non è stata minimamente coinvolta quella parte del cuore e dell’anima così importante da essere in grado di trasformare la persona accogliendo lo Spirito di Dio.

Bene, leggiamo che Gesù fu invitato a pranzo da un fariseo. Luca non ci dice i motivi che lo spinsero a riceverlo in casa sua; di fatto sappiamo che vi parteciparono anche dei dottori della Legge (v.45), scribi (v.53), quindi il chiamare Nostro Signore in quel gruppo poteva significare o che fosse ritenuto degno di sedere in mezzo a quel gruppo oppure, più probabilmente, per studiarlo onde raccogliere elementi per accusarlo.

La prima cosa che fece Gesù appena entrato fu, appositamente, quella di accomodarsi senza passare attraverso il rito dell’abluzione delle mani. Marco ci informa che “I farisei e tutti i giudei non mangiano se non si sono lavati accuratamente le mani, attenendosi alle tradizioni degli antichi (…)e osservano molte altre cose per tradizione, come lavature di bicchieri, stoviglie, di oggetti di rame e di letti”(7.3.4). Va specificato che per “tradizione degli antichi”, si intende più propriamente quella “degli anziani”, cioè dei loro maestri ai cui precetti erano oltremodo attaccati. Leggiamo ad esempio una nota di Rabbi Jose nel Talmud che recita “Colui che mangia del pane con mani non lavate è reo non meno che se fornicasse con una prostituta”.

Nella Legge, invece, il comando riguardava chi doveva officiare all’altare: “Farai per le abluzioni un bacino di bronzo con il piedistallo di bronzo; lo collocherai tra la tenda del convegno e l’altare e vi metterai acqua. Aaronne e i suoi figli vi attingeranno per lavarsi le mani e i piedi. Quando entreranno nella tenda del convegno, faranno un’abluzione con l‘acqua, perché non muoiano; così quando si avvicineranno all’altare per officiare, per bruciare un’offerta da consumare con il fuoco in onore del Signore, si laveranno le mano e i piedi e non moriranno. È una prescrizione rituale perenne per Aaronne e per i suoi discendenti, in tutte le loro generazioni”(Esodo 30.18-21).

Ecco allora che ci troviamo di fronte a un gesto anche provocatorio di Gesù, che ben conosceva la mentalità e il metodo dei suoi detrattori e fa in modo che venga notato: “Si meravigliò che non avesse fatto le abluzioni prima del pranzo”. Da notare che il testo si ferma a questa reazione perché, prima che si tramuti in sdegno, Nostro Signore inizia a parlare e lo fa citando i due recipienti, il bicchiere e il piatto, senza dare spiegazioni del suo mancato lavarsi le mani.

Vediamo ora il primo punto esposto nelle due versioni di Luca e Matteo, sulla quale torneremo: Luca ha “Voi farisei pulite l’esterno del bicchiere e del piatto, ma il vostro interno è pieno di avidità e cattiveria”, Matteo“Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pulite l’esterno del bicchiere e del piatto, ma all’interno sono pieni di avidità e intemperanza”(23.25). Il “bicchiere”e il “piatto”sono al tempo stesso un esempio reale e un pretesto per far sì che una eventuale persona onesta lì in mezzo potesse capire il collegamento con l’interezza della persona umana. Bicchiere e piatto, entrambi elementi atti a contenere liquidi e solidi, quindi ciò che nutre, sono al tempo stesso figura del corpo e di ciò che è in esso, altrimenti dire “ma il vostro interno è pieno di avidità e cattiveria”non avrebbe senso. Questa connessione è ancora più chiara in Matteo quando il “sono pieni”sarebbe un evidente errore grammaticale.

Ecco allora il perché dell’epiteto “ipocriti”, cioè “dediti alla finzione”, “attori”: la pulizia dell’esterno è svolta accuratamente perché è lì che gli altri guardano, ma l’interno può essere gestito a piacere e spesso in forte contrasto con ciò che viene simulato. È lo stesso metodo che usano i governi, le strutture pubbliche, i politici, purtroppo molti nella Chiesa a prescindere dalla sua denominazione di cui Paolo nella sua seconda lettera a Timoteo scrive“…gente cha ha una religiosità solo apparente, ma ne disprezza la forza interiore. Guàrdati da costoro!”(3.5). Ancora, a Tito “Tutto è puro per chi è puro, ma per quelli che sono corrotti e senza fede nulla è puro: sono corrotte la loro mente e la loro coscienza”(1.15).

Certo i due versi propongono due ritratti differenti anche se non troppo: da una parte i religiosi, cioè coloro che, come i nostri farisei del testo, curano l’apparenza e così facendo disprezzano la forza interiore della fede. Dall’altro invece, accanto alla semplicità di chi è puro, si contrappone la corruzione di chi è senza fede: si tratta di persone che sospettano sempre il male, si sentono continuamente minacciate da chi non li tratta e non si comporta secondo le loro aspettative, hanno la mente e la coscienza “corrotte”cioè viene da dire “inguaribili”. E la corruzione di mente e coscienza si riferisce all’incapacità di ragionare e provare sentimenti secondo Dio. Credo che se il vero cristiano, quello salvato, redento da Cristo che vuole camminare a Lui unito, tenesse presente questi versi, patirebbe molto meno le conseguenze derivanti da un confronto o frequentazione con simili personaggi.

La frase “Stolti, colui che ha fatto l’esterno non ha anche fatto l’interno?”vuole dimostrare a quegli scribi e farisei che, essendo l’uomo creato spirito, anima e corpo, non ha senso curare un solo elemento, quello peraltro più facile, senza considerare minimamente gli altri due, soggetti a patire molto più del corpo.

“Date piuttosto in elemosina quello che c’è dentro, ed ecco, per voi tutto sarà puro”. Altre traduzioni riportano “quello che è in vostro potere”, ma è comunque evidente la provocazione alla rinuncia, essendo i destinatari del messaggio pieni “di avidità e cattiveria”. Più avanti, in 12.33, Gesù dirà “Vendete ciò che possedete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli, dove ladro non arriva e tarlo non consuma”, frase che pone in evidenza il baratro che divide la carne dallo spirito, tra il tesoro in senso umano e quello spirituale. “Vendere”, sinonimo di guadagno, si annulla nel “dare” a vantaggio di altri.

Con “Date quello che c’è dentro”Gesù esorta così a sbarazzarsi di ciò che, considerato prezioso, ritarda il cammino spirituale. È al tempo stesso un invito ad oltraggiare la parte più interna dell’individuo, quella del bambino mai cresciuto che vorrebbe tenere tutto per sé e si contraria enormemente quando dovrebbe dare o dividere con altri. Possiamo raccordarci in proposito anche al digiuno vero: “Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza trascurare i tuoi parenti?”(Isaia 58.7).

La gestione del “mio” è la dimostrazione dell’attaccamento che la persona ha di sé. Tanto più un individuo è immaturo, quanto più sarà attaccato ai suoi averi e li difenderà ad oltranza; sul versante opposto abbiamo la prodigalità, che porta alla rovina allo stesso modo, disprezzando ciò che si ha e dilapidando le proprie sostanze. Possiamo dire che quanti difendono ciò che posseggono lo fanno perché sono consapevoli di non avere altro per cui rientrano in quella condizione descritta da Satana nel libro di Giobbe, che disse a Dio “Tutto quello che l’uomo possiede è pronto a darlo per la sua vita”(2.4), la sua e non quella di altri. Vita intesa come centro, averi nel senso più ampio del termine cioè l’indipendenza, la possibilità di agire come lui ha programmato, i propri ambiti d’azione o affettivi su cui ha costruito la propria esistenza. Solo di fronte alla morte o alla malattia grave è disposto a rinunciare ad essi, essendo in gioco la sua sopravvivenza, che poi altro non è che continuare ad agire come ha sempre fatto.

La religione, che non contempla l’ascolto di Dio ma di se stessi oppure del principio in base al quale si debba per forza venire esauditi attraverso un rito, rientra in questo tipo di ragionamento fuorviante e assurdo: “pensano di essere esauditi per la moltitudine delle loro parole”. E “pulire l’esterno”è il metodo per presentarsi agli altri consapevoli del fatto che l’esterno è ciò che si vede, tralasciando l’interno che è quello, immensamente più importante, che Dio vede, valuta e giudica.

“Pagate la decima sulla menta, sulla ruta e su tutte le erbe, e lasciate da parte la giustizia e l’amore di Dio”era la stretta osservanza di Levitico 27.30 “Ogni decima della terra, cioè delle granaglie del suolo e dei frutti degli alberi, appartiene al Signore: è cosa consacrata al Signore”, per cui pagarne la decima era poca cosa, potendosi trattenere la maggior parte. Ecco un altro modo per sentirsi in pace con la propria coscienza, ma lasciando “da parte la giustizia e l’amore di Dio”. Ricordiamo le parole di Michea 6.8, “Uomo, ti è stato insegnato ciò che è buono e ciò che il Signore richiede da te: praticare la giustizia, amare la bontà, camminare umilmente con il tuo Dio”. Il pagare la decima senza considerare questo, equivaleva a dire a YHWH “Hai avuto quello che chiedevi, adesso lasciami in pace”, mentalità che molti hanno ancora oggi ritenendo sufficiente partecipare alle riunioni domenicali della Chiesa che frequentano.

Con la frase “Queste erano le cose da fare, senza trascurare quelle”, poi, Gesù non contesta le usanze che scribi e farisei avevano, ma li riconduce, ancora una volta nel Suo Ministero, all’essenza delle cose.

L’amore nell’occupare i “primi posti”, alla luce di quanto si vede da sempre anche in campo cristiano e non solo nel mondo, credo non abbia bisogno di commento, mentre è l’ultima frase, quella dei sepolcri, ad essere importante perché il sepolcro era ritenuto un terreno contaminato e contaminante, per cui lo si tingeva di bianco soprattutto per fare sì che non venisse calpestato inavvertitamente. Se allora a contaminare era il sepolcro, oggi lo sono le persone che si mascherano, si mimetizzano, ci parlano con scopi che non sono mai quelli diretti, che aspirano al trionfo dei loro secondi fini. Qui dovrebbe aprirsi una grossa parentesi sul peccato appunto di inavvertenza, che rendeva per Legge colpevole colui che, senza saperlo, si rendeva reo di  una trasgressione e tale rimaneva fino a quando quel peccato non fosse stato rivelato. Per ora basta mettere il risalto il fatto che, chi opera come quegli scribi e farisei, anziché essere di aiuto al prossimo è di severo inciampo, dà un esempio che non può che portare un frutto cattivo, impedendo il conseguimento dell’unico obiettivo veramente importante, cioè la pace con Dio e soprattutto il perdurare di essa. Tutte finzioni destinate a venire arse dalla Sua luce, quando verrà in giudizio. Amen.

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13.07 – LA VERA BEATITUDINE (Luca 11.27-29)

13.07 – La vera beatitudine (Luca 11.27-29)          

 

27Mentre diceva questo, una donna dalla folla alzò la voce e gli disse: «Beato il grembo che ti ha portato e il seno che ti ha allattato!». 28Ma egli disse: «Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!».

 

            L’episodio in esame è riportato dal solo Luca, che possiamo considerare un’importante variante di ciò che è narrato quando “andarono da lui la madre e i suoi fratelli, ma non potevano avvicinarlo a causa della folla. Gli fecero sapere: «Tua madre e i tuoi fratelli stanno fuori e desiderano vederti». Ma egli rispose loro: «Mia madre e miei fratelli sono questi: coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica»”(9.19-21). Fu una realtà-verità talmente importante da venire riportata da tutti gli altri sinottici, Matteo 12.46,50 e Marco 3.31-34, tra loro simili ma tutti degni di attenzione: alla notizia dei parenti che lo cercavano, Gesù risponde “«Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?». Girando lo sguardo su quelli che gli stavano seduti attorno, disse: «Ecco mia madre e i miei fratelli!»”. Marco scrive, dopo analoga domanda,“Ecco mia madre ed ecco i miei fratelli, perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre”.

Già in quest’occasione Gesù stabilì un importante principio e cioè che se come uomo aveva dei parenti come Dio le relazioni con loro avevano senso soltanto se avessero creduto in Lui perché era quello l’unico modo per stabilire un rapporto, al pari di tutti gli altri uomini e donne. Era finito il tempo in cui, dodicenne di ritorno dal tempo, è detto che “…venne a Nazareth e stava loro sottomesso”(Luca 2.51) cioè a suo padre e sua madre: doveva attendere che quel percorso comune a tutti gli altri israeliti, prima dei trent’anni, fosse concluso e nell’attesa “cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini”(v.52). Fu così che divenne maggiorenne col Bar Mitwah a tredici anni, dopo di che svolse il mestiere del padre per mantenersi, ma “a circa trent’anni cominciò il suo ministero ed era figlio, come si credeva, di Giuseppe, figlio di Eli”(Luca 3.23).

A tredici anni, quindi, Gesù era considerato come tutti gli altri ebrei pienamente responsabile delle sue azioni davanti a Dio e agli uomini. I trenta, poi, erano quelli in cui i Leviti erano ammessi ad effettuare il loro servizio che si protraeva fino al raggiungimento del cinquantesimo (Numeri 4.3). Quando Gesù pronunciò le parole su cui ci stiano soffermando, quindi, aveva una doppia indipendenza dalla sua famiglia di origine, vale a dire quella dell’età responsabile e quella dell’età del servizio.

Ora se nel caso dell’episodio riportato dai sinottici l’anonimo o gli anonimi che lo informarono del fatto che era cercato dalla madre e dai fratelli presumevano che avesse una reazione di riguardo umano, poi smentita dai fatti, qui a parlare è una donna che probabilmente era sua discepola e non poté trattenere il proprio entusiasmo a fronte di un discorso che il suo Maestro fece subito dopo la parabola dell’ “uomo forte”che abbiamo da poco esaminato: “Quando lo spirito impuro esce dall’uomo, si aggira per luoghi deserti cercando sollievo e, non trovandone, dice: «Ritornerò nella mia casa, da cui sono uscito». Venuto la trova spazzata e adorna. Allora va, prende altri sette spiriti peggiori di lui, vi entrano e vi prendono dimora. E l’ultima condizione di quell’uomo diventa peggiore della prima”(Luca 11.24-26).

Dobbiamo tener presente che quanto detto da Gesù fu conseguente alla liberazione dell’indemoniato muto, che secondo la versione di Matteo era anche cieco (12.22-45): evidentemente quella donna era stata sconvolta da quella guarigione ed aveva compreso le parole del Maestro che spiegava le conseguenze cui va incontro chi, beneficiato di un intervento di Dio così specifico, non si converte dandogli modo di entrare in lui. Sappiamo che i Giudei avevano i loro esorcisti ma non se si trattasse, in caso di successo, di un artificio o se effettivamente liberassero persone possedute. In ogni caso certo non erano in grado di spiegare le dinamiche illustrate da Gesù e, a giudicare dagli insuccessi ottenuti con la donna emorroissa, non sempre il risultato dei loro interventi era efficace.

Ecco allora la frase ad alta voce per farsi sentire, “Beato il grembo che ti ha portato e il seno che ti ha allattato!”, pronunciata dal suo entusiasmo di donna e di madre di uno o più figli che certo non erano come Lui. Si trattò però di una frase infelice nel senso che, ancora una volta, limitava Gesù perché lo legava in qualche modo alle sue radici umane nel senso che, invece di esprimere la gioia come altri che dissero “Un profeta è sorto fra noi”, non vedeva altro che la soddisfazione  e l’orgoglio che secondo lei provava di sua madre Maria, definita dall’angelo Gabriele “favorita dalla grazia”. Nel suo magnificat Maria stessa dirà “d’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata”non perché “fortunata” ad avere un figlio così, ma per l’onore della scelta che Dio le aveva rivolto e per tutte le attenzioni di cui fu circondata dalla nascita di suo Figlio in poi passando attraverso la crocifissione dove verrà affidata alle cure dell’apostolo Giovanni. Ricordiamo che sicuramente vide Gesù risorto, che su di lei, come sui “circa centoventi”scese lo Spirito Santo a Gerusalemme, credo quindi consolata come pochi da quella “spada che ti trapasserà l’anima”, ancora una volta gli effetti dello Spirito che provò certamente anche in maniera dolorosa.

Credo che la vita di Maria, più che nei tentativi umani di ingerenza nella vita del figlio, sia da ricercarsi in quel suo costante conservare nel proprio cuore gli avvenimenti che si verificavano e non capiva interrogandosi sul loro significato anziché crogiolarsi nel fatto che avrebbe messo al mondo Uno che sarebbe stato “santo”e “chiamato Figlio dell’Altissimo”(Luca 1.35). Certo nel momento in cui guardò alla propria realtà umana, sbagliò, come nel caso in cui, assieme agli altri figli, “…uscirono per andare a prenderlo perché dicevano: «È fuori di sé»”(Marco 3.30).

La frase di quella anonima, quindi, era fuori luogo, non c’entrava nulla né con la realtà di Gesù, “nato di donna”come qualunque essere umano, né con quella di Maria sua madre, che non volle mai avere né mai ebbe un ruolo di rilievo nella Chiesa costituita dalla discesa dello Spirito Santo fino al termine degli scritti che costituiscono il Nuovo Testamento. Sarà poi il progressivo fraintendimento della Scrittura, le aggiunte ad essa e soprattutto le molte influenze pagane e idolatre che porteranno alla sua venerazione, attribuendole ruoli, compiti e funzioni che nulla hanno a che vedere con l’impianto evangelico e dottrinale originario.

La religione, cioè il rifiuto di un metodo serenamente e spiritualmente sano e critico di affrontare il testo sacro, ha fatto il resto. Come ben sappiamo dalle realtà che dovette affrontare e dalle Sue parole, Nostro Signore attaccò sempre il metodo religioso, che è attaccamento a precetti formali e metodi di ragionamento che esaltano la forma e il rito trascurando completamente la carità, l’amore e l’illuminazione che procede da Dio, impossibile se vengono a mancare i presupposti che la determinano.

A questo punto, tornando al nostro testo, le parole di Gesù demoliscono il concetto che la discepola innominata riteneva valido: “Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e l’osservano”. Va sottolineato che con quel “piuttosto”, che altri traducono “anzi”, sembra che Nostro Signore intenda mettere in secondo piano la figura di Maria, il che non è vero essendo traducibile il termine greco originale anche con “Sì, ma”. Ecco allora che questa risposta racchiude in sé l’esortazione a non pensare agli altri ma, in campo spirituale, fondamentalmente a se stessi perché il lavoro da fare nei nostri confronti è talmente tanto che non dovremmo avere il tempo di fare altro, nello specifico ad esempio di guardare la pagliuzza nell’occhio del nostro fratello perché così facendo ignoreremmo la trave che è nel nostro. Ricordiamo quando Pietro, parlando di Giovanni a Gesù risorto, si sentì dire: “Se voglio che egli rimanga finché io venga, a te che importa? Tu seguimi”(Giovanni 21.22): ciascun credente ha una via preparata per lui, è unico come uniche sono le sue sembianze fisiche.

Il primo messaggio, quindi, è la diversificazione dei ruoli, è l’invito-ordine a pensare prima di tutto alla posizione che ogni essere umano ha davanti a Dio: ascolti la Parola di Dio? È il primo passo perché questo determina la considerazione, la valutazione che poi porta alla decisione dell’accoglimento. E Maria queste cose le faceva e come tutti ebbe tanto il suo percorso quanto giunse poi alla propria scelta. Però, abbiamo letto all’inizio che “Mia madre e i miei fratelli sono questi: coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica”.

Tempo fa ho fatto presente che ci troviamo a meditare dei capitoli di Luca che appartengono al cosiddetto “libro del grande viaggio” in cui l’evangelista include episodi che non necessariamente rispecchiano un ordine cronologico preciso e infatti alcuni studiosi mettono in risalto che le parole di Gesù che stiamo considerando precedono di poco le altre, cioè quelle pronunciate quando arrivarono Maria e gli altri suoi figli a cercarlo e che infatti abbiamo citato.

La messa in pratica è quindi quella che conta, è la dimostrazione che l’ascolto ha portato all’unica conclusione possibile, quella dell’operatività perché “Non chiunque mi dice: «Signore, Signore» entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del padre mio che è nei cieli”(Matteo 7.21). Ancora, “Sapendo queste cose, siete beati se le mettete in pratica”(Giovanni 13.17) e da qui si può citare Giacomo 1.22-25: “Siate di quelli che mettono in pratica la Parola, e non ascoltatori soltanto, illudendo voi stessi; perché se uno ascolta la Parola e non la mette in pratica, costui somiglia a un uomo che guarda il proprio volto allo specchio: appena si è guardato, se ne va, e subito dimentica com’era. Chi invece fissa lo sguardo sulla legge perfetta, la legge della libertà, e le resta fedele, non come un ascoltatore smemorato ma come uno che la mette in pratica, questi troverà la sua felicità nel praticarla”. Amen.

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13.06 – CHI NON RACCOGLIE CON ME (Luca 11.21-23)

13.06 – Chi non raccoglie con me (Luca 11.21-23)

 

21Quando un uomo forte, bene armato, fa la guardia al suo palazzo, ciò che possiede è al sicuro. 22Ma se arriva uno più forte di lui e lo vince, gli strappa via le armi nelle quali confidava e ne spartisce il bottino. 23Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me disperde.

 

            Nel testo in grassetto ho omesso i da 14 a 20 perché già affrontati, che comunque ricordiamo:“Gesù stava cacciando un demonio che era muto. Uscito il demonio, il muto cominciò a parlare e le folle furono prese da stupore. Ma alcuni dissero: «È per mezzo di Beelzebul, capo dei demòni, che egli scaccia i demòni». Altri poi, per metterlo alla prova, gli domandavano un segno dal cielo. Egli, conoscendo le loro intenzioni, disse: «Ogni regno diviso in se stesso va in rovina e allo stesso modo una casa, divisa in parti contrarie, crolla. Ora, se anche Satana è diviso in se stesso, come potrà stare in piedi il suo regno? Voi dite che io scaccio i demòni per mezzo di Beelzebul. Ma se io scaccio i demòni per mezzo di Beelzebul, i vostri figli per mezzo di chi li scacciano? Per questo saranno loro i vostri giudici. Se invece io scaccio i demòni con il dito di Dio, allora è giunto a voi il regno di Dio”. Si tratta di un episodio che anche Matteo ha riportato nel suo capitolo dodicesimo, versi 22-30.

Ora l’interessante è che Gesù approfitta dell’impossibilità che ha di sussistere qualunque “regno”, società o “casa”intesa sia come struttura mal progettata che come famiglia, “divisa in parti contrarie”non solo collegandolo a Satana (che organizzato dev’essere per forza), ma proponendosi come unica alternativa ad esso e lo fa con la parabola dell’ “uomo forte, bene armato”che “fa la guardia al suo palazzo”in cui evidentemente sono custoditi dei beni, come dalle parole “ciò che possiede è al sicuro”.

Questa descrizione, però, suggerisce una quiete e una sicurezza solo apparente, cioè destinata a durare fino a quando arriva “uno più forte di lui”col preciso intento di impadronirsi delle sue cose. L’ “uomo forte”combatterà con tutte le sue forze pur di difendere ciò che ha, ma sarà tutto inutile: vero è che l’esito della lotta è espresso al condizionale, “se arriva uno più forte di lui e lo vince”, ma lA storia ci insegna che quando abbiamo una struttura solida, questa non dura per sempre: potrà resistere a guerre e battaglie, ma presto o tardi arriverà qualcuno più potente che riuscirà ad annientarla. La sicurezza, insomma, dura fino a prova contraria e il suo scadere sarà è questione di tempo, luogo e spazio.

Notiamo che la caratteristica della vittoria sull’ “uomo forte”comporterà una cocente umiliazione: “gli strappa via le armi nelle quali confidava e ne spartisce il bottino”. È facile trovare una connessione con le due case, quella costruita sulla roccia e quella sulla sabbia in cui in una c’è resistenza all’impetuosità degli elementi e nell’altra no, ma ciò non toglie che entrambe, al loro costruttore, erano sembrate solide. Ciò che infatti difettava non era il materiale da costruzione impiegato, ma le fondamenta su cui poggiavano. Un uomo è quindi “forte”e una casa “solida” fino a prova contraria. La differenza che intercorre fra le due parabole, se mai, è che nel caso dell’ “uomo forte”il suo potere cessa nel momento in cui arriva uno più agguerrito di lui, mentre nelle due case abbiamo a determinare il resistere dell’una e la rovina dell’altra: “Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti che si abbatterono su quella casa”(Matteo 7.27), quindi una massa di eventi sfavorevoli e avversi.

Il significato della parabola dell’ “uomo forte”è allora diverso, si pone ad un livello parallelo perché nella casa ci si ripara e qui si mette qualcosa al sicuro e sotto custodia. Resta da vedere di e da chi, alla luce della frase del verso 23 “Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me, disperde”.

Gli scritti dell’Antico Patto riportano innumerevoli vittorie di uomini o di popoli su altri, tutti loro hanno conosciuto i loro tempi di prosperità e di miseria, sia essa materiale, morale e spirituale, ma qui il riferimento da sviluppare è quell’ “uomo più forte di lui”che Gesù fa irrompere nella sua narrazione. Lo colleghiamo – ad esempio – a Isaia 9.5,6 a proposito dello stesso Figlio: “Un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio. Sulle sue spalle è il potere e il suo nome sarà: Consigliere mirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace. Grande sarà il suo potere e la pace non avrà fine sul trono di Davide e sul suo regno, che egli viene a consolidare e rafforzare con il diritto e la giustizia, ora e per sempre. Questo farà lo zelo del Signore degli eserciti”.

Se nel verso appena riportato abbiamo l’annuncio della venuta in dono del Figlio di Dio, in 49.24,25 troviamo due domande, con relativa risposta, riferite proprio a una forza che è ritenuta normalmente invincibile, ma che ha una sua scadenza: “Si può forse strappare la preda al forte? Oppure può un prigioniero sfuggire al tiranno? Eppure, dice il Signore: «Anche il prigioniero sarà strappato al forte, la preda sfuggirà al tiranno”.

Dobbiamo poi ricordare la fine del capitolo 53, noto per dare la descrizione delle sofferenze assolute del Figlio di Dio: “Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà la loro iniquità. Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha spogliato se stesso fino alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i colpevoli”. “Farà bottino”, stesso termine che compare nel nostro testo di Luca.

Se quindi Isaia in questi scritti mostra ai suoi contemporanei – e chiaramente non solo – ciò che avverrà dalla dispensazione della Grazia e nelle successive, l’apostolo Paolo in Colossesi 2.15 spiega chiaramente la parabola dell’ “uomo forte”nella sua parte finale: “Con lui Dio ha dato vita anche a voi– i pagani – che eravate morti a causa delle colpe e della non circoncisione della vostra carne, perdonandoci tutte le colpe e annullando il documento scritto contro di noi– la Legge – che, con le prescrizioni, ci era contrario: lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce. Avendo privato della loro forza i Principati e le Potenze, ne ha fatto pubblico spettacolo, trionfando su di loro in Cristo”.

Quindi: la non circoncisione era il simbolo certo formale (ma non per questo meno importante) più evidente della non appartenenza al popolo di Dio e la Legge era quel “documento scritto contro di noi”di cui Satana si è subito impossessato per torcerla a suo vantaggio, tentando l’uomo. Sembra un controsenso quello di un Dio d’amore che dà all’uomo uno scritto che gli è sfavorevole, ma questo è solo in apparenza in quanto, con l’introduzione del peccato nel mondo, altro non poteva fare dal momento in cui decise di rivelare a Mosè il suo piano per farli uscire dall’Egitto e iniziare così a tessere ufficialmente il piano di redenzione per la sua creatura che si sarebbe dipanato di secolo in secolo fino a raggiungere quello della fine.

Ora quel “documento scritto contro di noi”è stato “inchiodato alla croce”, è rimasto lì al contrario di Lui che è risorto; in tal modo ha “privato della loro forza i Principati e le Potenze”, quindi tutte quelle entità la cui forza è anche descritta dal nome stesso, che ci tenevano prigionieri e incapaci di qualsiasi relazione con Dio salvo quella in giudizio e in condanna. Perché “Il nostro Dio è un Dio che salva; al Signore appartengono le porte della morte”(Salmo 68.21) e la prova dell’impotenza alla quale sono stati ridotti “i Principati e le Potenze”risiede proprio sia nella resurrezione che nella sua conseguenza immediata, cioè quei “prigionieri”che ha portato con sé: “Asceso in alto, ha portato con sé prigionieri, ha distribuito doni agli uomini”, frase sempre appartenente a questo Salmo e di cui Paolo si serve in Efesi 4 trattando di una parte della Persona di Cristo, per poi concludere in 6.12, prima di trattare dell’ armatura del credente, con le parole “La nostra battaglia non è contro la carne e il sangue, ma contro i Principati e le Potenze, contro i dominatori di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti”, termine quest’ultimo riferito a quei territori spirituali che sono comunque sopra di noi nel senso che ci sovrastano e tuttora vorrebbero la rovina dell’uomo “per sedurre, se fosse possibile, anche gli eletti”.

Ed ecco allora che, con la parabola che abbiamo cercato di esaminare, Gesù si dichiara come quella persona in grado di contrastare l’ “uomo forte”, vincerlo, strappargli le armi e spartirsi il bottino, figura di una guerra definitivamente vinta contro tutte le forze del male viste, appunto, nei “Principati”e nelle “Potenze”.

La conclusione di tutto questo insegnamento non può essere che lapidaria: “chi non è con me, è contro di me”, cioè: visto che io sono Colui che ha vinto Satana e la morte e l’ho fatto per voi, chi non mi accoglierà, per indifferenza, disinteresse o perché avrà preferito stare con l’ “uomo forte”, mi troverà contro di lui. Non è certo un caso se Matteo, nel riferire la stessa parabola di Luca, utilizza altri termini: “Come può uno entrare nella casa di un uomo forte e rapire i suoi beni, se prima non lo lega? Soltanto allora potrà saccheggiare la sua casa”(12.29) nel legare non è azzardato vedere un forte collegamento con Apocalisse 20.1-3: “E vidi un angelo che scendeva dal cielo con in mano la chiave dell’Abisso e una grande catena. Afferrò il drago, il serpente antico, che è diavolo e Satana, e lo incatenò per mille anni; lo gettò nell’abisso, lo rinchiuse e pose il sigillo sopra di lui, perché non seducesse più le nazioni, fino al compimento dei mille anni, dopo i quali dev’essere lasciato libero per un po’ di tempo”.

La seconda parte del nostro verso poi descrive un aspetto singolare dell’essere in e con Cristo, cioè il “raccogliere”e qui arriviamo alla gioia della mietitura – che sarà al tempo stesso tragedia per molti – che i credenti di ogni epoca e nazione condivideranno con il loro Signore. Per questo è detto “chi non raccoglie con me, disperde”: la mietitura è quell’azione che precederà l’eternità e l’ingresso in essa della Chiesa di ogni tempo, la Comunità degli Ek-kletoi, i “chiamati fuori” e nel “disperdere” cui Gesù fa riferimento vediamo il non frutto, un’azione inutile, il raccolto della fatica nella fatica. Perché c’è una porta, ora aperta, destinata a chiudersi e chi sarà fuori dimorerà nel “pianto e stridore di denti”. Amen.

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13.05 – L’AMICO IMPORTUNO (Luca 11.5-8)

13.05 – L’amico importuno (Luca 11.5-8)  

 

5Poi disse loro: «Se uno di voi ha un amico e a mezzanotte va da lui a dirgli: «Amico, prestami tre pani, 6perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da offrirgli», 7e se quello dall’interno gli risponde: «Non m’importunare, la porta è già chiusa, io e i miei bambini siamo a letto, non posso alzarmi per darti i pani», 8vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono. 9Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. 10Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto.

 

 

Il passo riportato viene posto da Luca subito dopo l’insegnamento del “Padre Nostro”; a differenza di Matteo, è da lui collocato dopo l’episodio di Marta e Maria quando leggiamo che, qualche tempo dopo, “Gesù si trovava in un luogo a pregare. Quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli»” (v.1). Il problema a questo punto è se ci troviamo di fronte a una diversa collocazione temporale dell’insegnamento del Padre Nostro, oppure se questa fu ripetuta non ai dodici, presenti nel racconto di Matteo, ma ad altri discepoli che, vistolo pregare in modo totalmente diverso da quanto facevano gli scribi e i farisei, capirono la necessità di venire istruiti anche attorno a questo argomento. Possiamo ricordare le parole dell’anonimo discepolo che chiese “Signore, insegnaci a pregare come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli” (v.1) da cui rileviamo che gli evangelisti hanno riportato solo una parte del messaggio del Battista agli uomini, cioè attinente alle sue funzioni di precursore. È tra l’altro impossibile che Gesù abbia trascurato un argomento così importante come la preghiera per affrontarlo solo negli ultimi mesi del Suo Ministero. Piuttosto possiamo dire che il “Padre Nostro” è talmente importante da essere citato per due volte, in momenti diversi, proposto da Luca in una versione più essenziale: “Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno; dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, e perdona a noi i nostri peccati. Anche noi infatti perdoniamo ad ogni nostro debitore, e non abbandonarci alla tentazione” (vv.2-4).

Come nel sermone sul monte, in cui leggiamo “Chi di voi, al figlio che gli chiede un pane, darà una pietra? E se gli chiede un pesce, gli darà una serpe? Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele chiedono!” (Matteo 7.9,10), qui abbiamo l’esposizione di una breve parabola (più altri esempi), quella dell’amico importuno che riflette, attenendoci alla semplice narrazione, la realtà dei paesi caldi in cui non è raro che si scelga di viaggiare, per la maggior parte dell’anno, di notte. In ogni caso, non esistendo allora contenitori in grado di proteggere gli alimenti dalla calura, chi si spostava portava con sé quanto bastava per sfamarsi senza fare provviste, acquistandole poi di volta in volta. Era allora frequente che proprio di notte, capitando nei pressi di abitazioni di persone conosciute come anche di bottegai, il viaggiatore bussasse alla loro casa chiedendo da mangiare. Era una società diversa dalla nostra.

Ora, non avendo la persona interpellata dal viaggiatore da dargli alcunché, si reca da un altro e quindi gli rappresenta il problema. Costui, già addormentato, stanco ma comunque a letto, non si alza neppure ad aprire una finestra, ma risponde “dall’interno” dicendo “non posso alzarmi per darti i pani”: li avrebbe, ma non ha voglia di darli per pigrizia.

Chiaramente siamo chiamati a riflettere sulle parole del verso 8, “vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono”, che potrebbe lasciare intendere che l’insistenza e l’assillare il prossimo (e Dio per relazione) sia la chiave per ottenere le cose. Questa almeno è l’idea del religioso e dei bambini che sanno molto bene, se non hanno genitori responsabili, che possono ottenere dagli adulti ciò che vogliono continuando ad insistere capricciosamente assillandoli. È tra l’altro il motivo per cui i giochi per i bambini, nei grandi magazzini, sono sempre posti in basso o comunque alla loro altezza perché possano prenderli e litigare con gli adulti che il più delle volte, presi dalle necessità del fare compere, pur di farli tacere li accontentano.

In realtà Gesù ricorre a questa parabola, e ad altre di significato analogo, con lo scopo primario di far comprendere la “necessità di pregare senza stancarsi mai” (Luca 18.1) alla luce però dell’intelligenza, che della perseveranza e dell’insistenza dev’essere compagna. Abbiamo letto nella parte finale dei nostri versi la promessa “cercate e troverete”, il cui metodo è illustrato in Proverbi 2. 3-5, “…se appunto invocherai l’intelligenza e rivolgerai la tua voce alla prudenza, se la ricercherai come l’argento e per averla scaverai come per i tesori, allora comprenderai il timore del Signore e troverai la conoscenza di Dio”. Ecco, il paragone con l’argento è molto calzante perché si tratta di un metallo che si trova sempre legato ad altri, come il piombo da cui viene separato con difficoltà, essendo necessario fonderli, raffreddarli e rifonderli di nuovo con un procedimento complicato che prende il nome di coppellazione, quello usato nell’antichità. Il “cercare” di cui parla l’autore del libro dei Proverbi, e quindi Gesù nel nostro passo, non consiste in un tentativo svogliato o approssimativo, ma in un metodo serio e direi professionale.

Credo che, connesso al nostro racconto di Gesù, siano la tenacia, costanza e infaticabilità sostenute da Giacobbe in Genesi 32.25-29: “Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora. Vedendo che non riusciva a vincerlo, lo colpì all’articolazione del femore e l’articolazione del femore di Giacobbe si slogò, mentre continuava a lottare con lui. Quello disse: «Lasciami andare, perché è spuntata l’aurora». Giacobbe rispose: «Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!». Gli domandò: «Come ti chiami?». Rispose: «Giacobbe». Riprese: «Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto contro Dio e gli uomini e hai vinto!»”. Giacobbe vuol dire “Colui che precede” e Israele “Colui che lotta con Dio”.

Anche qui abbiamo la presenza del Figlio in forma umana, come dalle parole “contro Dio e gli uomini” che un angelo non avrebbe mai potuto utilizzare: è il Figlio che mette alla prova Giacobbe che lotta con Lui instancabilmente a tal punto da costringerLo a colpirlo all’articolazione femorale non riuscendo nonostante tutto a fermarlo. Mosè non ci ha lasciato nulla di scritto sull’oggetto della contesa, ma dalle parole “Non ti lascerò se non mi avrai benedetto” è chiaro che a quell’uomo premeva di venire benedetto da Dio non accontentandosi delle parole di suo padre Isacco.

Anche l’articolazione con la quale Giacobbe fu colpito è figura della prova che Dio dà agli uomini perché non si inorgogliscano, come fu per l’apostolo Paolo per la “spina nella carne” che inutilmente chiese che gli venisse tolta (2 Corinti 12.7,8). Se quindi Gesù con la parabola oggetto di riflessione avesse voluto alludere a quanto dobbiamo pregare per un problema materiale, certo avrebbe fatto in modo che Paolo fosse guarito; invece scrive “Per questo, affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia. A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza»”. Anche qui vediamo che l’apostolo, sperando di venire guarito dal Signore, pregò “per tre volte” e non con richieste continue e petulanti.

Tornando a Giacobbe vediamo che continuò a lottare nonostante il dolore causato dalla slogatura del femore, infortunio caratterizzato dalla fuoriuscita della testa del femore dall’acetabolo dell’osso iliaco: nella classifica delle emergenze mediche occupa un posto di rilievo e comporta spesso, come nel caso di Giacobbe, una lesione al nervo sciatico. Leggiamo infatti che, a conclusione dell’episodio in Genesi, ”Spuntava il sole, quando Giacobbe passò Penuel e zoppiacava all’anca. Per questo gli israeliti, fino ad oggi, non mangiano il nervo sciatico che è sopra l’articolazione del femore, perché quell’uomo aveva colpito l’articolazione del femore di Giacobbe nel nervo sciatico” (32.32,33).

Giacobbe lotta con quell’uomo per tutta la notte fino a quando giunse l’alba, figura del chiarore della consolazione a fronte della notte, immagine dell’afflizione. Dalle parole “Lasciami andare, perché è spuntata l’aurora” del Figlio di Dio in forma umana (v.27), che avrebbero tranquillizzato chiunque perché annunciavano la fine del combattimento, Giacobbe non si smosse perché, più del riposo, gli premeva essere benedetto e così avvenne. Abbiamo così in questo episodio la figura del combattimento della fede e della preghiera che trova la sua realizzazione, fra l’altro in 1 Giovanni 5.4,5: “Chiunque è stato generato da Dio vince il mondo; e questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede. E chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio?”.

Ora il senso dell’episodio di Genesi 32 è questo: Giacobbe, se avesse dovuto lottare con Dio nella sua forma spirituale, non sarebbe durato un solo infinitesimale frammento di secondo, ma in quella umana dimostrò tutta la sua volontà a tal punto che poco dopo disse “Io ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita mi è stata risparmiata” (v.30), anche qui figura del futuro, espresso, restando nell’Antico Patto, in Salmo 17.15: “Ma io nella giustizia contemplerò il tuo volto, al risveglio mi sazierò della tua immagine” che anticipa 1 Giovanni 3.2, “Sappiamo però che quando egli sarà  manifestato noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è”.

Certo, la nostra parabola parla di “pane” chiesto all’amico per cui non possiamo pensare che il Signore non ci conceda anche quanto necessita per il nostro sostentamento, ma credo sia necessario spostare sempre l’attenzione sul significato spirituale delle cose. I nostri problemi materiali rientrano nel “dacci oggi il nostro pane quotidiano” (meglio tradotto con “necessario”) e col paragone che Gesù fa, nel sermone sul monte, con “i corvi” che “non seminano e non mietono, non hanno dispensa né granaio, eppure Dio li nutre. Quanto più degli uccelli valete voi!” (Luca 12.24). Fra l’altro, aggiungendo una nota strettamente personale ed altrettanto dolorosa, posso dire che fissarsi ed essere insistenti su cose che riteniamo necessarie senza chiederci davanti al Padre se lo siano davvero, potrebbe anche causare un esaudimento che poi ci si ritorce conto procurandoci sofferenze e fastidi per farci capire l’inopportunità della nostra posizione. Ci sono infatti dei lacci che tende l’Avversario, ma anche altri che, più o meno, siamo noi stessi a costruirci addosso perché siamo vittime della nostra stessa superficialità, o carnalità che dir si voglia.

È vero che l’uomo del nostro episodio chiede i pani, ma tale alimento è comunque figura di ciò che sta oltre, perché sappiamo che “l’uomo non vive di solo pane, ma di tutto ciò che procede dalla bocca di Dio” ed anche la parabola del giudice e della vedova, che solo apparentemente allude all’insistenza per avere qualcosa, termina con parole che vanno al di là dell’esempio: “Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente” (Luca 18.6-7).

Io credo che la prima cosa che abbiamo il diritto-dovere di chiedere in preghiera a Dio è il discernimento, cioè avere la possibilità che la nostra mente, attraverso lo Spirito, esca dalla umana ossessività che ci è propria. Dobbiamo tenere sempre presente che questa filtra tutte le nostre esigenze materiali e spirituali attraverso il nostro ego per cui istintivamente sbaglieremmo: di qui la preghiera per poter essere in grado, cercando alla luce della preghiera e dello Spirito, di poter abbracciare per quanto possibile il vero, reale, necessario alimento destinato a sostenerci per quello che possiamo essere, ricordando che “il Padre sa ciò di cui avete bisogno”: cosa possiamo dire di fronte al “sapere” di Dio che ci ha creati, che ci ha conosciuti prima della fondazione del mondo, che conosce il numero dei capelli del nostro capo?

Ecco perché il nostro episodio si chiude con tre promesse fondamentali, “sarà dato”, “troverete” e “vi sarà aperto” che si concretano nel momento in cui si “chiede”, si “cerca” e si “bussa”, azioni che solo il diretto interessato può intraprendere per ottenere ciò che cerca esattamente come la persona della parabola chiede con insistenza all’amico riluttante. E poiché si tratta di cose che Dio ha promesso, non può non mantenerle. Queste tre azioni vengono portate avanti da chi ha bisogno e riconosce che può trovare esaudimento solo presso di Lui: chiedo ciò che non ho, cerco ciò che mi manca, busso per entrare dove altrimenti non potrei stare sapendo, come dal verso decimo, che “chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto”. Amen.

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13.04 – MARTA E MARIA (LUCA 10.38-42)

13.04 – Marta e Maria (Luca 10.38-42)     

 

38Mentre erano in cammino, entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo ospitò. 39Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. 40Marta invece era distolta per i molti servizi. Allora si fece avanti e disse: «Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti». 41Ma il Signore le rispose: «Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, 42ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta».

 

Il verso di esordio, apparentemente scritto da Luca per raccordare i due episodi dell’insegnamento su chi fosse il “prossimo”e quello che abbiamo letto, presenta dei punti interessanti: Gesù, non da solo, “entrò in un villaggio”che sappiamo essere Betania, il cui nome significa “casa dei poveri”, oggi chiamato in arabo “Al-Azariyeh”, cioè “casa di Lazzaro”. Entrambi i nomi sono indicativi per quanto succederà: Marta e Maria infatti erano sorelle di Lazzaro, qui non citato, ed erano appunto di quella località come leggiamo in Giovanni 11.1: “Un certo Lazzaro di Betania, il villaggio di Maria e di Marta sua sorella, era malato”.

Elemento che dà un significato particolare al racconto e alla località, poi, lo abbiamo nel luogo in cui si verificò, poiché Betania si trovava lungo “la strada che scendeva da Gerusalemme a Gerico”(era a tre km da Gerusalemme) e quindi possiamo pensare che l’ambiente scelto da Gesù per l’esposizione della parabola del buon samaritano non fu casuale.

Altro elemento offertoci dal verso 38 è poi la citazione di Marta, “Signora”, nominata per prima perché sorella maggiore di Maria e responsabile della casa da loro abitata. Abbiamo poi il verbo, “lo ospitò”, tradotto da altri con “lo accolse in casa sua”: fu questa la prima volta? Fu qui che iniziò il rapporto tra Gesù e quella famiglia, Lazzaro compreso per quanto non nominato? Non possiamo stabilirlo con certezza, poiché è probabile che Nostro Signore fosse passato per Betania altre volte, diretto a Gerusalemme.

I verbi “entrare” e “ospitare”, poi, ci rimandano a come Gesù era solito agire e di come ordinò fare altrettanto ai suoi discepoli: “In qualunque città o villaggio entriate, fatevi indicare se vi sia qualche persona degna, e lì rimanete fino alla vostra partenza. Entrando nella casa, rivolgetele il saluto. Se quella casa ne sarà degna, la vostra pace scenda sopra di essa; ma se non ne sarà degna, la vostra pace ritorni a voi”(Matteo 10.11-13). Certo la situazione era diversa perché i discepoli avevano il Maestro con loro, che già sapeva quale fosse la casa in cui abitavano persone degne di riceverlo; oramai non era certo uno sconosciuto nemmeno per chi o coloro che non lo conoscevano di persona. Comunque siano andate le cose, visto che quello che propongo è un’interpretazione, un raccordo, certo è che Marta, quale responsabile della casa, “lo accolse”; dire quanti, quali e se vi fossero i discepoli, non è dato perché Luca, il solo che ha riportato l’episodio, potrebbe aver interpellato tanto uno dei dodici, quanto le due sorelle a Betania. Va tenuto però presente il plurale, “Mentre erano in cammino”.

Cercando di analizzare la figura di Marta, è evidente che fosse una persona energica e responsabile che cercava di svolgere al meglio quanto richiedeva la gestione di una casa. Come tutte le persone pratiche, forti di carattere e volenterose, badava al concreto delle cose senza valutarle nella loro globalità o, se preferiamo, considerarne le variabili. Ricordando infatti che, nell’occasione della morte del fratello Lazzaro, andò “incontro”a Gesù mentre sua sorella “stava seduta in casa”(a piangere) e che lo rimproverò: “Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!”, stesse parole che gli dirà poi Maria, ma con significato diverso. Marta, amata da Nostro Signore assieme alla sorella e al fratello (Giovanni 11.5), limitandoci al nostro episodio, è la figura della persona “calata nel proprio ruolo”, in questo caso per fare degna accoglienza all’ospite confondendo però tra il riguardo a lui dovuto umanamente e la profonda attenzione necessaria ai contenuti del messaggio che portava. Possiamo anche pensare che Marta fosse, al pari di sua sorella e del fratello, benestante perché la casa doveva essere grande, ammettendo che non si limitò ad ospitare Gesù, ma anche i dodici o una parte di loro. Il modo con cui il testo greco la presenta, infatti, “in casa sua”allude ad esserne padrona  nel senso di disporne, governarla, occuparsi di lei come vediamo in Giovanni 12.2 quando, sei giorni prima della Pasqua, leggiamo che “…qui fecero per lui una cena: Marta serviva e Lazzaro era uno dei commensali”.

Di tutt’altro carattere la sorella Maria, che viene descritta dai passi di cui disponiamo come una persona profondamente sensibile, che alla praticità delle cose preferisce il loro senso, distinguere ciò che è veramente utile da quanto non lo è; ciò lo vediamo non solo perché qui si pone a sedere ai piedi di Gesù, nella stessa posizione degli studenti ebrei coi loro maestri, ma soprattutto per l’episodio appena ricordato, quello della cena sei giorni prima della Pasqua, in cui viene contrapposta alla sorella che “serviva”: “Maria allora prese trecento grammi di profumo di puro nardo, assai prezioso, ne cosparse i piedi di Gesù, poi li asciugò con i suoi capelli, e tutta la casa si riempì dell’aroma di quel profumo”(vv.3,4).

Per quanto sarà un episodio che analizzeremo, vediamo che Maria valutò la persona e la presenza di Gesù in mezzo a loro tale da giustificare il versamento di quel profumo “assai prezioso”sulla Sua persona. Ricordiamo anche il comportamento assunto alla morte del fratello: quando Marta andò da lei in casa dicendole “«Il Maestro è qui, e ti chiama», udito questo, ella si alzò subito e andò da lui”(11.28,29) consapevole che solo da Gesù avrebbe potuto trovare consolazione, come effettivamente avvenne. Le parole che poi gli disse, identiche a quelle della sorella, “Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!”manifestano tutta la sua impotenza di fronte all’umano dolore oltre che alla visione limitata che aveva, ritenendo possibile che Gesù potesse operare solo se fosse stato fisicamente presente sul luogo. Fu una convinzione che corresse presto, visto che il profumo fu versato successivamente alla resurrezione del fratello, ricordandosi le parole “Non ti ho detto che, se crederai, vedrai la gloria di Dio?”(11.40).

Maria, quindi, è la figura dell’ascesa del credente da ciò che prima ignora e che poi sperimenta personalmente: infatti prima la vediamo “seduta ai piedi del Signore”, poi ci fu per lei il tempo della riflessione, dell’elaborazione di quanto ascoltato, quindi la sperimentazione degli effetti della parola di Dio con la risurrezione di Lazzaro, ed infine l’adesione totale a Lui con il versargli addosso il profumo.

Venendo ora all’episodio in esame, va sfatata l’ipotesi che vede in Marta un personaggio negativo. Semplicemente, è apparentemente meno positivo della sorella che sapeva benissimo, come lei, che per ricevere un ospite andavano osservate regole precise, a cominciare dall’acqua per lavare i piedi impolverati e forse a questo aveva adempiuto, ma tutto il resto, alla luce di ciò di cui Gesù parlava, non riteneva avesse ragione di essere. Marta era lieta di avere Gesù come ospite, era la responsabile della casa e in quanto tale era solo lei che poteva accoglierlo, però confonde l’accoglienza formale, diremmo noi “del galateo”, con quella spirituale. Per lei, per lo meno in questo episodio, era importante “fare bella figura” non a livello egoistico, ma non concepiva un atteggiamento diverso, per onorare il proprio ospite, da quello di approntare tutto il meglio per riceverlo e non capisce perché la sorella non debba comportarsi allo stesso modo. Certo che Maria sapeva che avrebbe dovuto comportarsi come Marta, ma non riuscì, c’era qualcosa che la teneva seduta e questo “qualcosa” era “la Parola di Gesù” che “ascoltava”consapevole, come altri del resto, che “nessuno parlò mai come costui”. Gesù non insegnava o parlava a una folla, ma a lei e alla sorella che, credo, ascoltava distrattamente, “distolta per i molti servizi”.

La nostra traduzione ha “Allora si fece avanti”, ma l’originale ha piuttosto “venne”che ci autorizza a pensare da un’altra stanza della casa, convinta che il suo rimprovero – ancora – fosse ben accolto da Gesù: “Non t’importa nulla che mia sorella mi ha lasciata sola a servire?”. “Mi ha lasciata”lascia intendere che all’inizio i comportamenti delle due furono identici, ma che poi Maria non poté fare a meno che sedersi ad ascoltare. Furono la sua sensibilità e la sua indole a portarla ad assumere quella posizione, null’altro importava. E qui esce una considerazione ovvia e cioè che anche noi, se ascoltiamo i richiami delle convenienze, dei doveri umani, della consuetudine, del “così si fa”, e ci concentriamo su di essi in nome di un nostro presunto dovere, non troviamo il tempo per ascoltare la Parola di Dio che ha per noi un messaggio individuale, preciso, specifico. Così facendo, però, ci priviamo inconsapevolmente di molto, dell’essenziale.

La risposta di Gesù fu questa (ripresa dalla traduzione di Giovanni Diodati che è preferibile): “Marta, Marta, tu sei sollecita e ti travagli intorno a molte cose. Ora di una sola cosa fa bisogno. Ma Maria ha scelto la buona parte, che non le sarà tolta”. I due termini, “essere solleciti” e “travagliarsi” hanno una quantità enorme di riferimenti nella Scrittura, comunque sempre rivolti, considerati come gli effetti che il mondo ha sulla persona. Marta era ansiosa e preoccupata perché i preparativi da lei messi in atto fossero degni della persona che ospitava, ma dimenticava che non poteva esservi accoglienza migliore se non l’ascolto di quanto aveva da dire, la “buona parte”,“di una cosa sola c’è bisogno”.

Possiamo fare un parallelo con Giovanni 14.23 “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio l’amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui”, cioè la stessa cosa veniva offerta tanto a Maria quanto a Marta, ma la prima non ebbe bisogno che Gesù glielo spiegasse. Credo che la differenza fra le sue sorelle sia stata spiegata molto bene da un fratello di cui riporto le parole: “Marta e Maria ci sono presentate come esempi di due aspetti diversi del carattere cristiano, cioè la devozione interna e l’attività pratica; quest’ultima è una qualità molto preziosa in un credente, ma tra le diverse occupazioni della vita può, se non si fa attenzione, diventare un tranello, permettendo alle cure e ai fastidi delle cure mondane di indebolire la vita spirituale dell’anima. D’altra parte c’è il pericolo che le sole occupazioni spirituali generino pigrizia e trascuratezza dei doveri che, quali cristiani, abbiamo verso le nostre famiglie, verso la Chiesa visibile e la società in generale. Contro questo pericolo le Marie devono stare in guardia, non meno delle Marte contro le attrazioni del mondo”. Per questo l’apostolo Paolo scelse di non dipendere dalle offerte dei credenti per il suo sostentamento, ma per mantenersi continuò il mestiere che conosceva, quello di tappezziere, e scrisse“Noi non siamo rimasti oziosi in mezzo a voi, né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di alcuno, ma abbiamo lavorato duramente, notte e giorno, per non essere di peso ad alcuno di voi. Non che non ne avessimo diritto, ma per darci a voi come modello da imitare. E infatti quando eravamo presso di voi, vi abbiamo sempre dato questa regola: chi non vuole lavorare, neppure mangi”(2 Tessalonicesi 3.7-10).

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13.02 – IL BUON SAMARITANO II: L’UOMO E I BRIGANTI (Luca 10.25-28)

13.02 – Il buon samaritano: l’uomo e i briganti (Luca 10.25-28)          

 

30Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. 31Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. 32Anche un levita, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. 33Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. 34Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. 35Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: «Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno». 36Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». 37Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ così».

 

Questa parabola, come sappiamo, fu esposta a un dottore della Legge che chiese a Gesù di dargli una definizione di “prossimo”. Il racconto parabolico, che secondo l’uso di quel tempo aveva fine didattico presso i Giudei e tramite il quale Nostro Signore si pone sullo stesso piano dell’interrogante che lo aveva chiamato “Maestro”, viene in realtà esposto per far sì che quel dottore potesse trarre le sue conclusioni e presenta quattro personaggi che cercheremo di analizzare; del primo sappiamo ben poco e viene lasciato volutamente nell’ombra anche se possiamo ipotizzare fosse un israelita che “scendeva da Gerusalemme a Gerico”: quella strada infatti copriva il dislivello di circa un km che intercorreva fra le due città. Si trattava, allora come fino a metà del secolo scorso, di un percorso rischioso perché infestato da bande di criminali che assalivano soprattutto le persone che viaggiavano da sole. Con l’andar del tempo, poi, la criminalità locale si organizzò in modo tale da riuscire ad affrontare e rapinare anche tutti coloro che viaggiassero privi di scorta.

Ebbene al protagonista della parabola “portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto”, cioè nelle condizioni di non poter chiedere aiuto perché quel “mezzo morto”ci descrive uno stato di privazione delle forze necessarie per muoversi, rialzarsi. La vittima dei briganti versava quindi in uno stato di immobilità, senza altra possibilità se non rimanere dov’era poiché, proseguendo nella lettura, leggiamo che chi passò vicino a lui “lo vide”, ma non ci è stata trasmesso alcun dialogo fra loro.

Questa è la lettura più immediata della parabola, cioè di quanto probabilmente avvenuto attenendosi ad essa, ma è facile riconoscere nelle azioni dei briganti, cioè nel portare via tutto, percuotere a sangue e lasciare la persona priva di forze, gli effetti del peccato che, quando lo assale, lascia l’individuo nelle stesse condizioni dal punto di vista spirituale. Ricordiamo anche quanto avvenuto alla guarigione di quel giovane indemoniato operata da Gesù quando i discepoli non riuscirono: ”Lo spirito, gridando e straziandolo fortemente, uscì”(Marco 9.36), fatto avvenuto comunque in altri episodi. Questo perché il peccato e la lontananza da Dio straziano sempre, paralizzano, rendono ciechi e sordi. Tutte le applicazioni possibili su questa prima parte della parabola riguardano proprio questa condizione.

A proposito del nostro personaggio leggiamo “gli portarono via tutto”, traduzione dall’originale “spogliatolo”anche qui come il peccato, e quindi l’Avversario, fece con i nostri progenitori che, da esseri rivestiti dalla grazia e luce di Dio (e soprattutto d’innocenza), si ritrovarono soli nel loro corpo di carne; ricordando il giudizio su Adamo sappiamo che non gli rimase nulla se non una vita a termine: “Con il sudore del tuo volto mangerai il pane, finché non tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere ritornerai”(Genesi 3.19). Se non è rivestito di Dio, l’uomo ha ben poco valore. Ecco allora che la creatura per cui esisteva un progetto di vita attiva, partecipe pienamente dell’eternità, sarebbe stato e tornato polvere, cioè la materia che Dio aveva utilizzato per crearlo, ma priva del Suo splendore. Avrebbe dovuto un giorno restituirgli l’anima, o la vita come altri traducono. Così infatti è detto nella parabola del ricco: “Stolto, questa stessa notte l’anima tua ti sarà richiesta. E le cose che hai accumulato, di chi saranno?”  (Luca 12.13-21).

A proposito dell’episodio in Eden va comunque rilevato che, se Satana riuscì a fare in modo che Adamo ed Eva fossero spogliati e decaduti, Dio comunque procurò loro un vestito idoneo (la pelle d’animale al posto delle foglie di fico intrecciate) e che ai cristiani è detto “Vi siete spogliati dell’uomo vecchio con le sue azioni– e qui dobbiamo verificare se si effettivamente così, visto che sta a noi farlo – e avete rivestito il nuovo– stessa verifica – che si rinnova, per una piena conoscenza, ad immagine del suo Creatore.(…). Rivestitevi dunque, come amati di Dio, santi e diletti, di sentimenti di misericordia, di bontà, di pazienza”(Colossesi 3.10-13).

I briganti, figura dell’Avversario, dei suoi ministri e del peccato, portano “via tutto”il necessario per vivere alla luce di Dio e ancora una volta il parallelo con Adamo ed Eva è inevitabile perché da loro abbiamo naturalmente ereditato la condizione di persone da Lui lontane e saremmo tuttora incapaci di vivere una vita vera se, a un certo punto, non fosse intervenuto Gesù Cristo. Secondo alcuni passi che conosciamo, infatti, Gesù è definito dall’apostolo Paolo come “ultimo Adamo”. Ricordando le parole “Come in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti– quelli che lo avranno accolto – riceveranno la vita”(1 Corinti 15.22), “Il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente, ma l’ultimo Adamo divenne spirito datore di vita”(v.45).

 

I briganti della parabola non si limitarono a spogliare il malcapitato, ma “lo percossero a sangue”, cioè non si accontentarono di rapinarlo tenendolo sotto la minaccia delle armi e non si fermarono in questa azione violenta fino a quando non videro il sangue e constatarono che la persona era rimasta lesionata a tal punto da non potersi più muovere. Possiamo idealmente paragonare la condizione di quel malcapitato, visto che il termine “parabola” significa appunto “paragone”, al gesto di Giobbe che, pur potendo parlare, subì la stessa sorte. Ricordiamo che anche Giobbe, dietro intervento di Satana, perse tutto: figli e figlie, servi e pecore, quindi fu spogliato di ogni cosa. Poi venne la malattia – ecco le percosse –: “Satana si ritirò dalla presenza del Signore e colpì Giobbe con una piaga maligna, dalla pianta dei piedi alla cima del capo. Giobbe prese un coccio per grattarsi e stava seduto in mezzo alla cenere”(2.7,8). E qui probabilmente abbiamo anche il sangue, che esce nel momento in cui si gratta una piaga.

Certo per Giobbe ci fu anche la tortura morale dei tre cosiddetti “amici venuti per consolarlo”che finiranno per affliggerlo con parole indubbiamente buone dal punto di vista morale e religioso, ma non certo spirituali e quindi adatte al suo caso. Di qui la necessità di parlare a chi soffre con parole appropriate, se ne abbiamo. Ricordiamo anche come Giobbe fu trovato da loro: “Alzarono gli occhi da lontano, ma non lo riconobbero. Levarono la loro voce e si misero a piangere. Ognuno si stracciò il mantello e lanciò polvere verso il cielo sul proprio capo. Poi sedettero accanto a lui in terra per sette giorni e sette notti. Nessuno gli rivolgeva una parola, perché vedevano che il suo dolore era molto grande”(2.12,13).

Gli effetti del peccato sono allora quelli appena descritti; possono essere visibili a tutti qualora si manifesti con la malattia del corpo o della mente – che in Eden non vi erano – oppure tramite una vita sregolata, persa ad inseguire il mito della realizzazione personale, in quale campo non importa; se non interviene Gesù a sanare, l’essere umano resta paralizzato, incapace di chiedere aiuto, non necessariamente si accorge di essere stato “spogliato di tutto”e “percosso a sangue”. O, meglio, quando se ne accorgerà sarà troppo tardi.

La terza condizione in cui versa l’anonimo è “mezzo morto”, espressione che nel nostro linguaggio comune viene intesa come “molto stanco, mal messo, sfinito” ma che Gesù, che non parlò mai usando termini esagerati per far meglio presa sui suoi uditori, intende come in stato di incoscienza, cioè con funzioni vitali minime. Essere incoscienti significa non avere consapevolezza della propria esistenza e non essere in grado di interagire con l’ambiente che ci circonda.

Tutto, dal racconto di Nostro Signore, lascia ipotizzare che il personaggio della parabola non fosse in grado di comunicare: non c’è infatti alcuna traccia di dialogo fra il samaritano e il ferito, ma sappiamo che le sue condizioni erano serie a tal punto da richiedere un ricovero nella speranza che guarisse. Effettuando allora un collegamento spirituale, quel “mezzo morto”è la descrizione dello sfinimento finale provocato dalla lontananza da Dio: avendo interrotti i rapporti con Lui, la persona non può vivere autonomamente in una sorta di limbo dove tanto il Signore che l’Avversario sono assenti, ma cadrà inevitabilmente vittima della seconda entità  come direi insegna tutta la Scrittura. Non abbiamo infatti un solo caso in cui un uomo o una donna abbiano vissuto in una condizione di neutralità, poiché “nessuno può servire a due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro”(Matteo 6.24).

“Mezzo morto”è chiaramente la descrizione di uno stato grave, ma in cui è lasciato spazio alla speranza nel senso che non è ancora intervenuta la morte a scrivere la parola “fine” a quell’esistenza. Se l’uomo assalito dai briganti fosse rimasto privo di un intervento teso a curarlo, sarebbe probabilmente deceduto e qui abbiamo i due riferimenti-significati della parabola perché, se nel primo è descritta la carità di un individuo verso il suo “prossimo”, nel secondo abbiamo l’intervento misericordioso del Cristo nei confronti dell’uomo preda dell’Avversario e quindi della lontananza da Dio, come già anticipato. Se prendiamo come appropriato il primo riferimento, abbiamo la descrizione di un’opera intrapresa nei confronti dell’ “altro” di cui non ci viene rivelato il risultato, cioè non sappiamo se quell’uomo guarì oppure no, ma se ci appropriamo del secondo, cioè l’intervento di Gesù, l’insuccesso non è neppure pensabile.

Perché però la persona si possa ristabilire, deve volerlo nel senso che può accettare o rifiutare le cure che gli vengono applicate e il fatto che il samaritano “lo portò in albergo e si prese cura di lui”ci lascia supporre che restò in quel luogo, un caravanserraglio, dedicandosi a lui per tutta la notte fino a quando non ebbe speranza che il suo paziente potesse riprendersi. Infatti leggiamo “Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore”perché si curasse di quell’uomo nell’attesa che ripassasse a pagare le altre, eventuali cure.

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13.01 – IL BUON SAMARITANO, INTRO (Luca 10.25-28)

13.01 – Il buon samaritano, introduzione (Luca 10.25-28)  

 

Con il discorso di Gesù come “buon pastore”si chiude la Sua permanenza a Gerusalemme. Da lì si porterà nei dintorni, con particolare riguardo per il territorio di Betania, poco distante. Affrontiamo così quello che è definito “il libro del grande viaggio”, cioè quell’insieme di episodi che Luca riporta da 9.57 a 13.9. Secondo questa sua narrazione avremmo così l’invio dei 72 discepoli, già trattato, gli episodi di Marta e Maria, oltre all’insegnamento del Padre Nostro.

Dando una brevissima panoramica, dopo circa due mesi di assenza Gesù ritornerà nuovamente a Gerusalemme per la festa della Dedicazione (novembre-dicembre), che ricordava la riconsacrazione del Tempio dopo la profanazione di Antioco IV; qui riprenderemo la lettura del capitolo 10 di Giovanni che temporaneamente abbandoniamo.

Dove avvenne l’esposizione di questa parabola non ci è dato sapere anche se il fatto che Gesù la inzi dicendo “un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico”lasci pensare che si trovasse ancora nei pressi della città. Rimandando l’esame del testo ad un prossimo intervento, occupiamoci delle premesse, cioè del contesto che ne provocò l’esposizione. Leggiamo:

 

25Ed ecco, un dottore della Legge si alzò per metterlo alla prova e chiese: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». 26Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?». 27Costui rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso». 28Gli disse: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai».28Ma quello, volendo giustificarsi, disse: «E chi è il mio prossimo?»

 

Il contesto, stando a Luca, è apparentemente quello in cui Gesù parlò ai discepoli in disparte dicendo “Beati gli occhi che vedono quello che voi vedete. Io vi dico che molti profeti e re hanno voluto vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo udirono”(vv. 23,24). È a questo punto che compare“un dottore della Legge”, anche se quel “Ed ecco”, tradotto da altri con“Allora”, non sta ad indicare necessariamente la sua presenza in quel contesto, ma è un modo che ha l’evangelista di collegare due episodi.

Vediamo ora la figura del “Dottore della Legge”, che apparteneva alla corporazione degli scribi, parte dei quali erano anche farisei. Sappiamo che gli scribi arrivavano a quella carica non prima dei quarant’anni e dopo studi severi e si occupavano della Mikrah, cioè delle Scritture. Sopra di loro c’erano i legali che studiavano la Misnah (ripetizione) che conteneva tutte le leggi relative alla vita spirituale, individuale e sociale del popolo disposte in sessantatré trattati. Infine, i dottori della Legge erano gli espositori della Ghemara, parola che deriva da una radice aramaica che significa “concludere, risolvere” e “apprendere”. Studiavano, commentavano, discutevano e ampliavano la Misnah e le loro conclusioni confluivano nel Talmud.

Ora occorre cercare di capire quali fossero le intenzioni di quell’uomo che “si alzò per metterlo alla prova”: era a lui ostile? Quel “metterlo alla prova”, che altri traducono “tentandolo”, era uno dei molti modi che l’autorità religiosa soleva avere nei Suoi confronti per “avere di che accusarlo”, oppure si voleva provare il sapere di Gesù alla luce delle sue conoscenze? Propendo per la seconda ipotesi perché la risposta di nostro Signore “Hai risposto bene, fa’ questo e vivrai” non contiene alcun rimprovero né una risposta criptica, tesa a realizzare quella situazione espressa altre volte, “perché udendo, non comprendano e, vedendo, non vedano”.

Una circostanza simile a questa è riportata altre due volte, rispettivamente da Matteo e Marco dopo una discussione sorta con i sadducei a proposito del “primo di tutti i comandamenti”: “Allora si avvicinò a lui uno degli scribi che li aveva uditi discutere e, visto come aveva risposto a loro, gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?» Gesù rispose: «Il primo è: Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza. Il secondo è questo: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Non c’è altro comandamento più grande di questi». Lo scriba gli disse: «Hai detti bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è l’unico e non vi è altri all’infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici». Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse: «Non sei lontano dal regno di Dio». E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo”(Marco 12.28-34). Quello scriba non era “lontano dal regno di Dio”; possiamo dire che “una sola cosa”gli mancava, “credere a Colui”che Dio Padre aveva mandato.

Va ora considerato il metodo di Gesù, che risponde alla domanda con un’altra, ribaltando le reciproche posizioni per cui quel dottore della Legge, da interrogante, diventa l’interrogato e colui che viene messo alla prova. La domanda “Che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?”racchiudeva in sé delle applicazioni insormontabili perché la Legge, che trovava il suo punto di espressione più alto nell’amore per Dio e per il prossimo, non riusciva ad applicarla completamente nessuno, per cui chi cercava di adempiere anche quei soli due punti si ritrovava puntualmente sconfitto. Se non si poteva ottenere la vita eterna mediante la Legge, la colpa non era di lei, ma dell’uomo che si ritrovava impotente di fronte ad essa.

L’apostolo Paolo, da fariseo, dà qualche cenno in proposito in Romani 3.20 quando scrive che “In base alle opere della Legge nessun vivente sarà giustificato davanti a Dio, perché per mezzo della Legge si ha la conoscenza del peccato”, quindi non si ha la possibilità di porvi rimedio nonostante i sacrifici e i riti prescritti, quando non interveniva la pena di morte per quelli più gravi. In 8.3 invece leggiamo che “Ciò che era impossibile alla Legge, resa impotente a causa della carne, Dio lo ha reso possibile: mandando il proprio Figlio in una carne simile a quella del peccato e a motivo del peccato, egli ha condannato il peccato nella carne perché la giustizia della Legge fosse compiuta in noi, che camminiamo non secondo la carne, ma secondo lo Spirito”. È quindi il camminare “secondo lo Spirito”che consente la liberazione e la giustizia della Legge “compiuta in noi”: non ci sono tecniche o metodi, ma solo la fede in quel Gesù, che ci ha liberati “dalla legge del peccato e dalla morte”.

In Galati 2.15,16 Paolo chiama poi in causa il suo far parte del popolo eletto: “Noi, che per nascita siamo Giudei e non pagani peccatori, sapendo tuttavia che l’uomo non è giustificato per le opere della Legge ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo, abbiamo creduto anche noi in Cristo Gesù per essere giustificati per la fede in Cristo e non per le opere della Legge, poiché per le opere della Legge non verrà mai giustificato nessuno”. Nessuno, nemmeno l’apostolo stesso, nemmeno Pietro e neppure quel dottore che interroga Gesù nel nostro passo in esame.

A questo punto emerge però un elemento non trascurabile di quel dottore della Legge, e cioè la sue esperienza e capacità di filtrare, arrivare al nocciolo del problema posto: non parla di quante volte bisognava pregare al giorno, di come, se in piedi dondolando come erano soliti fare, quanti pellegrinaggi compiere o di osservare minuziosamente il sabato, ma si confessa implicitamente come persona di fronte alla quale stava l’irraggiungibilità del grande comandamento che chiamava in causa TUTTO: cuore, anima, forza e mente, elementi che racchiudono appunto la totalità del nostro essere senza lasciare posto ad altro, dove nulla di estraneo può avere spazio.

Certo, le parole da lui pronunciate si trovavano scritte su piccoli pezzi di pergamena chiusi nelle filatterie che i Giudei portavano e che dovevano recitare due volte al giorno nelle loro preghiere, ma ciò non toglie che avrebbe potuto rispondere diversamente, chiamando in causa le tradizioni e le regole minuziose della casta cui apparteneva, cosa che fecero e faranno gli oppositori di Gesù.

Chi ci riusciva ad adempiere quel comandamento, che chiamava in causa il prossimo in cui tutto l’amore per l’Iddio di Israele avrebbe dovuto confluire? Certo, ci si poteva auto illudere chiamando in causa quegli stessi meccanismi che fanno sì che delle nullità si credano qualcuno, che le meschinità della persona si trasformino in giustizia come accade a molti, ma il problema restava: i sepolcri, per quanto imbiancati, tali restano e, soprattutto, “all’esterno appaiono belli, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni marciume”(Matteo 23.27).

Il “gran comandamento” coinvolgeva il “cuore”, cioè il luogo in cui risiedono gli affetti e i sentimenti, quindi la nostra sensibilità. L’ “anima”è il nostro carattere, ciò a cui tendiamo per natura, l’attenzione naturale e l’attitudine, la “forza”è la volontà che applichiamo nelle nostre occupazioni e la “mente”è il nostro spirito, la parte più profonda della nostra persona e non per nulla è quella di cui può prendere possesso l’Avversario o un suo delegato. E tutto è, come sappiamo se ci conosciamo, fragile. Di qui l’impossibilità a mettere in pratica “Amerai il Signore tuo Dio con…”, parole che troviamo identiche in Deuteronomio 6.5 cui poi si aggiunge nei versi successivi “Questi precetti che io ti do, ti stiano fissi nel cuore. Li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando ti troverai in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Te li legherai alla mano come un segno, ti saranno come un pendaglio tra gli occhi e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte”.

A questo punto c’è la risposta di Gesù tesa a far concludere al Suo interrogante quanto fosse impossibile per lui ad arrivare a qualsiasi punto risolutivo: “Hai risposto bene, fa’ questo e vivrai”. Era come chiedere ad una persona di bere da una fonte inesistente nel deserto, o gettare un salvagente a una persona esausta in mare, cioè gli ponte dinnanzi qualcosa di impossibile, praticamente gli dice “se riesci, fallo e ti salverai”. La risposta corretta di quel dottore sarebbe stata “ma non posso!”; invece, confuso per aver ricevuto una risposta così semplice alla sua domanda, chiede una spiegazione su un termine molto semplice,“prossimo”, sull’interpretazione della quale neppure lui poteva avere dei dubbi visto che, per gli ebrei, il “prossimo”era chi era a loro vicino, cioè un altro ebreo.

A questo punto, Gesù espone una parabola chiara, parlando di sé, descrivendo quanto farà nei confronti della persona che accetta il suo aiuto.

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12.26 – IL RITORNO DEI SETTANTADUE (Luca 10.17-20)

12.26 – Il ritorno dei settantadue (Luca 10.17-20)

             

17I settantadue tornarono pieni di gioia, dicendo: «Signore, anche i demòni si sottomettono a noi nel tuo nome». 18Egli disse loro: «Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore. 19Ecco, io vi ho dato il potere di camminare sopra serpenti e scorpioni e sopra tutta la potenza del nemico: nulla potrà danneggiarvi. 20Non rallegratevi però perché i demòni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli».

 

Ci troviamo di fronte a un episodio impegnativo sia a livello di riflessioni quanto di collocazione temporale. Luca, che ci illustra ciò che avvenne da quando Gesù uscì da Gerusalemme, scrive che “I settantadue tornarono” senza specificare dove e quando. Ora, essendo stati mandati in missione all’atto della Sua partenza dalla Galilea per Gerusalemme, possiamo supporre che fu da loro raggiunto in quella città, ma gli evangelisti non hanno ritenuto opportuno specificare il momento in cui ciò avvenne anche perché non tornarono tutti insieme. Leggendo Giovanni, poiché pare esservi un breve vuoto narrativo tra l’uscita di Gesù dal Tempio e l’incontro con l’uomo cieco dalla nascita – in cui tra l’altro viene posta in risalto la presenza dei discepoli (Giovanni 9.1,2) – , ecco la scelta di inserire qui l’incontro con loro precisando che si tratta di una mia opinione personale che non vuole sminuire quanto ipotizzato da altri nel loro trattare l’argomento.

Il verso 17 contiene diversi momenti degni di sottolineatura, il primo dei quali è “tornarono” che ci parla di fedeltà alle istruzioni ricevute, tra le quali il luogo dell’appuntamento, ma anche del fatto che quei discepoli dimostrarono di non avere alternative a Gesù e il loro ritorno ci rivela che al di fuori del vivere attorno al loro Maestro non avrebbero saputo cosa fare, soprattutto una volta constatati gli effetti del mandato e la differenza col vivere nel mondo. Ricordiamo in proposito quando Pietro disse “Signore, a chi ce ne andremmo noi? Tu solo hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio” (Giovanni 6.68,69).

Tornare. In senso generale, tutti noi lo facciamo: a volte è un’abitudine, a volte è una scelta ma comunque, quando lo si fa, è perché il luogo o la/le persone che raggiungiamo costituiscono per noi un centro più o meno importante. In questo caso però la pericope “Tornarono pieni di gioia” esclude la routine, il semplice acquisito, qualcosa che si fa perché non si hanno alternative e allora ci si adegua allo status quo. E qui la “gioia” dei discepoli, che arrivarono da Gesù poco per volta stante i diversi luoghi da loro raggiunti, era diversa da quella che avrebbe potuto procurarne una umana. La loro “gioia” fu quella di chi constata l’adempimento delle promesse di Dio e di avere adempiuto correttamente le istruzioni ricevute; ricordiamole: “La messe è abbondante, ma pochi sono gli operai! Pregate dunque il signore della messe perché mandi operai nella sua messe! Andate, ecco, vi mando come agnelli in mezzo ai lupi; non portate borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada. In qualunque casa entriate, prima dite: «Pace a questa casa!». Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà a voi. Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché chi lavora ha diritto alla sua ricompensa. Non passate da una casa all’altra. Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà offerto, guarite i malati che vi si trovano e dite loro: «È vicino a voi il regno di Dio». Ma quando entrerete in una città e non vi accoglieranno, uscite sulle sue piazze e dite: «Anche la polvere della vostra città, che si è attaccata ai nostri piedi, noi la scuotiamo contro di voi; sappiate che il regno di Dio è vicino»” (Luca 10.2-11).

Ora è facile supporre che i settantadue si fossero attenuti scrupolosamente a tutto quanto ordinato, compreso il “pregate”, il non distrarsi per nessun motivo raffigurato nel non salutare “nessuno lungo la strada”; la conseguenza di questo loro comportamento andò al di là della guarigione dalle malattie perché “Anche i demòni si sottomettono nel tuo nome”. Quei discepoli erano consci che da soli non avrebbero mai potuto compiere nulla di quanto era stato ordinato loro. Era dunque la “gioia” del riscontro e della liberazione, dell’elevarsi, del servire con successo perché si erano attenuti alle disposizioni del Maestro senza esitazioni o titubanze ed erano stati premiati con un risultato che andava al di là delle loro aspettative, come rileviamo dall’ “anche” del verso in esame. Se raccordiamo questo successo con l’episodio in cui i dodici non erano riusciti a guarire un indemoniato (Luca 9.40), possiamo capire perché questi discepoli fossero nello stato che ci viene descritto.

La risposta di Gesù si articola su tre punti, il primo dei quali è un’altra dichiarazione della Sua presenza nell’eternità, “Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore”, con la quale dà una visione tanto dell’immediatezza del giudizio su questo personaggio, quanto della fine cui è destinato. Leggendo Isaia 14.12-15, infatti, abbiamo la stessa panoramica: “Come sei caduto dal cielo – tua residenza di un tempo –, astro del mattino, figlio dell’aurora? – la dignità che aveva – Come sei stato gettato a terra, signore di popoli? Eppure tu pensavi nel tuo cuore: «Salirò in cielo, sopra le stelle di Dio innalzerò il mio trono, dimorerò sul monte dell’assemblea, nella vera dimora divina. Salirò sulle regioni superiori delle nubi, mi farò uguale all’Altissimo» – ricordiamo le parole “sarete come Dio” dette ad Eva . E invece sei stato precipitato negli inferi – cioè nelle assolute regioni inferiori –, nelle profondità dell’abisso! Quanti ti vedono ti guardano fisso, ti osservano attentamente: «È questo l’individuo che sconvolgeva la terra, che faceva tremare i regni, che riduceva il mondo a un deserto, che ne distruggeva le città – con una morale perversa –  che non apriva le porte del carcere ai suoi prigionieri?» – perché se non interviene il Cristo a liberare è impossibile che Satana rinunci a tenere l’uomo per sé – Tutti i re dei popoli, tutti riposano con onore, ognuno nella sua tomba. Tu, invece, sei stato gettato fuori dal sepolcro, come un virgulto spregevole; sei circondato da uccisi trafitti da spada – l’onta della sconfitta –, deposti sulle pietre della fossa, come una carogna calpestata – cioè contaminata, immonda, e contaminante –. Tu non sarai unito a loro nella sepoltura, perché hai rovinato la tua terra, hai assassinato il tuo popolo”.

Le parole di Gesù si raccordano anche a Ezechiele 12-19 di cui riporto la parte dal 17: “Il tuo cuore si era inorgoglito per la tua bellezza, la tua saggezza si era corrotta a causa del tuo splendore: ti ho gettato a terra e ti ho posto davanti ai re, perché ti vedano. Con la gravità dei tuoi delitti, con la disonestà del tuo commercio hai profanato i tuoi santuari; perciò in mezzo a te ho fatto sprigionare un fuoco per divorarti. Ti ho ridotto in cenere sulla terra, sotto gli occhi di quanti ti guardano. Quanti fra i popoli ti hanno conosciuto, sono rimasti attoniti per te, sei divenuto oggetto di terrore, finito per sempre”.

La valenza della parole di Gesù, come tutte del resto, è anche in questo caso enorme perché ci parla al tempo stesso della rapidità del giudizio sull’Avversario che cadde dall’alto dei cieli intesi come dimora di Dio ed elevazione spirituale infinita non tanto sulla terra quanto a pianeta, ma nei suoi abissi, nell’inferiorità assoluta come abbiamo visto nella scorsa riflessione. Scrive l’apostolo Pietro nella sua seconda lettera: “Dio infatti non risparmiò gli angeli che avevano peccato, ma li precipitò in abissi tenebrosi, tenendoli prigionieri per il giudizio. Ugualmente non risparmiò il mondo antico, ma con altre sette persone salvò Noè, messaggero di giustizia, inondando con il diluvio un mondo di malvagi. Così pure condannò alla distruzione le città di Sodoma e Gomorra, riducendole in cenere, lasciando un segno ammonitore a quelli che sarebbero vissuti senza Dio. Liberò invece Lot, uomo giusto, che era angustiato per la condotta immorale di uomini senza legge. Quel giusto infatti, per quello che vedeva e udiva mentre abitava in mezzo a loro, giorno dopo giorno si tormentava a motivo delle opere malvagie. Il Signore dunque sa liberare dalla prova chi gli è devoto, mentre riserva, per il castigo nel giorno del giudizio, gli iniqui, soprattutto coloro che vanno dietro alla carne con empie passioni e disprezzano il Signore” (4-10).

E sono convinto che nel “giusto Lot” ci possiamo identificare anche noi, testimoni del degrado morale e dell’indottrinamento satanico di questi ultimi tempi che viviamo.

La citazione di questi versi avrebbe potuto limitarsi al quarto, ma riportarli tutti può aiutare nel considerare come l’Avversario e i suoi angeli costituiscono un tutt’uno con l’uomo che li segue esattamente come chi crede è un tutt’uno con Colui che li ha salvati. Infatti: “…ma costoro – gli iniqui –, irragionevoli e istintivi, nati per essere presi e uccisi, bestemmiando quello che ignorano, andranno in perdizione per la loro condotta immorale, subendo il castigo della loro iniquità. (…) Costoro sono come sorgenti senz’acqua e come nuvole agitate dalla tempesta, e a loro è riservata l’oscurità delle tenebre. Con discorsi arroganti e vuoti e mediante sfrenate passioni carnali adescano quelli che da poco si sono allontanati da chi vive nell’errore. Promettono loro libertà, mentre sono essi stessi schiavi della corruzione. L’uomo infatti è schiavo di ciò che lo domina” (vv. 12,13; 17-19).

Oltre a tutti questi versi dei profeti e di Pietro, non possiamo non citare l’atto finale: Satana è stato privato di tutta la sua regalità e dignità, ma se ne è costruita una propria come del resto fa qualunque persona lontana da Dio, ignorando in realtà di rendersi schiavo di chi non lo libererà mai, come abbiamo letto. Satana, “che seduce tutta la terra abitata, fu precipitato sulla terra e con lui anche i suoi angeli” (Apocalisse 12.9), ma soprattutto sarà gettato “nello stagno di fuoco” assieme alla morte, agli inferi” e a chi non risulterà “scritto nel libro della vita” (20.14,15). E sono convinto che anche qui, cadrà “come una folgore”.

Ora, tornando al nostro episodio, Gesù ricorda a tutti coloro che gli appartengono che, ascoltando e servendo Colui che ha visto “Satana cadere dal cielo come una folgore”, non hanno nulla di cui temere: sono dalla parte di chi è più potente di lui e infatti disse “Nulla potrà danneggiarvi”, certo “se rimanete fedeli alla mia parola” e non, come sostengono alcuni, a prescindere. Ricordiamo Giovanni 8.38,39: “Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi”.

Nostro Signore conclude poi il suo intervento esortando i discepoli a vedere il successo della loro missione non come qualcosa di personale o di umano: certo avevano guarito da malattie e possessioni, ma solo in quanto conseguenza della loro fede e, paradossalmente, i loro risultati andavano ridimensionati, ricondotti all’origine del loro essere figli di Dio. I miracoli, infatti, sono la conseguenza dell’essere vicini a Dio, ma possono anche essere prodotti dall’Avversario per “sedurre se possibile anche gli eletti”. Era quindi importante considerare l’origine, la causa e non l’effetto: “rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli”, la vera gioia assoluta. I – presumo tanti – miracoli operati avevano contribuito allo sviluppo del Vangelo da loro annunciato e non era certo poca cosa, ma il motivo della gioia doveva risiedere nel fatto che i nomi di quei discepoli erano scritti nel libro della vita a prescindere dalle loro opere. Se Gesù  non avesse specificato questo, avrebbe lasciato i futuri credenti nella convinzione che solo chi fa miracoli e gira il mondo a predicare sia degno di Lui. La “gioia” che i settantadue provavano, se non correttamente indirizzata, avrebbe potuto col tempo inorgoglirli: i miracoli compiuti, tangibili, incontestabili, saranno infatti usati con parsimonia dagli stessi apostoli nei libro degli Atti e, come tutti quelli dei Vangeli operati da Gesù, rimarranno nella Chiesa a memoria e si diraderanno una volta acquisito il concetto che il vero miracolo è appunto quello del nome scritto nel registro di Dio.

“Molti, ve l’ho già detto più volte e ora con le lacrime agli occhi ve lo ripeto, si comportano da nemici della croce di Cristo. La loro sorte finale sarà la perdizione, il ventre è il loro dio. Si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi e non pensano che alle cose della terra. La nostra cittadinanza infatti è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che egli ha di sottomettere a sé tutte le cose” (Filippesi 3.18-20).

Ecco il vero motivo della gioia, la radice: il nostro nome scritto, il nostro corpo di morte che è stato riscattato in vista della resurrezione e dell’ultima chiamata ad unirci a Lui, ora e quando ritornerà per rapire la Sua Chiesa o in giudizio. Amen.

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12.02 – LA MISIONE DEI SETTANTADUE (Luca 10.1-12)

12.02 – La missione dei settantadue (Luca 10.1-12)

1Dopo questi fatti il Signore designò altri settantadue e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi. 2Diceva loro: «La messe è abbondante, ma pochi sono gli operai! Pregate dunque il Signore della messe, perché mandi degli operai nella sua messe! 3Andate, ecco, vi mando come agnelli in mezzo ai lupi; 4non portate borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada. 5In qualunque casa entriate, prima dite «Pace a questa casa!» 6Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi. 7Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché chi lavora ha diritto alla sua ricompensa. Non passate da una casa all’altra. 8Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà offerto, 9guarite i malati che vi si trovano e dite loro: «È vicino il regno di Dio!». 10Ma quando entrerete e non vi accoglieranno, uscite sulle piazze e dite: 11«Anche la polvere della vostra città, che si è attaccata ai nostri piedi, noi la scuotiamo contro di voi; sappiate però che il regno di Dio è vicino». 12Io vi dico che, in quel giorno, Sodoma sarà trattata meno duramente di quella città”.

            Episodio riportato dal solo Luca, ha una collocazione temporale incerta, ma siccome abbiamo dedicato le precedenti riflessioni al fatto che Gesù, prima di essere respinto da un villaggio Samaritano, aveva inviato “dei messaggeri davanti a sé” (9.52), ho pensato che l’invio dei settantadue discepoli possa essere avvenuto quando, lasciando la Samaria ed entrando nella Galilea, sapendo che avrebbe avuto un’accoglienza diversa, mandò appunto questi discepoli ad annunziarne l’arrivo e organizzare la sosta per il gruppo. Certo, tutto può essere, anche il fatto che questi settantadue siano partiti da Capernaum e avessero raggiunto i villaggi lungo il tragitto che Nostro Signore aveva prestabilito, che fossero anche loro stessi quei “messaggeri” di cui lo stesso evangelista ha scritto nello scorso episodio: semplicemente a lui non interessa la cronologia, ma ciò che avvenne e i discorsi di Gesù che furono letti per la prima volta dal sommo sacerdote Teofilo cui dedica il suo Vangelo.

Sappiamo che i settantadue vennero inviati e che, come poi esamineremo, “…tornarono pieni di gioia dicendo «Signore, anche i demoni si sottomettono nel tuo nome»” (10.17), ma non ci viene detto dove e quando si ritrovarono, per cui in questa ricostruzione temporale ci troviamo soli, essendo i periodi della vita di Gesù a volte tracciati con precisione, altre volte meno perché ciò che è veramente importante è appunto il contenuto, la descrizione e non un racconto biografico che, se lo si vuole ricostruire, avviene con tutte le lacune del caso. Anzi, si corre il rischio di far dire agli autori ciò che non hanno voluto: ecco perché sono prudente e avverto sempre che questo lavoro, portato avanti con fatica, va preso colo beneficio del dubbio là dove le difficoltà sono evidenti.

La stessa pericope “Dopo questi fatti” al verso uno è di interpretazione difficile, perché ci chiediamo quali siano: ammettendo il rifiuto samaritano e i tre incontri descritti in 9.57-62 già affrontati, verrebbe da sé che Gesù avesse inviato i discepoli appena entrato in Giudea, ma avrebbe dovuto dar loro il tempo di agire come ordinato; se invece la missione loro affidata ebbe luogo in Galilea, allora si potrebbe pensare che fu una parte di loro ad essere giunta in Samaria e che poi lo abbia preceduto in Giudea. È una questione credo tuttora aperta alla luce del fatto che l’importanza di quanto Luca racconta risiede in altri particolari, prima di tutto nel numero degli inviati, settantadue, spesso ridotti a settanta forse perché è una cifra più facile a memorizzarsi e interpretare. La stessa cosa si fa con gli anziani destinati ad essere di aiuto a Mosè e con la cosiddetta “tavola dei popoli” di Genesi 10. Inoltre, con riguardo al nostro episodio, alcune traduzioni hanno “ne mandò altri settanta”, dove quell’ “altri” allude al dopo i dodici cui aveva rimesso un mandato simile, ma non si può escludere che questi “altri” siano in aggiunta a quelli mandati nell’innominato villaggio samaritano, che non possiamo dimostrare essere stato gli apostoli, oppure altri. Ancora, per sottolineare la delicatezza del tema, vi è chi ha proposto una lettura diversa e cioè che l’invio di cui stiamo parlando sia avvenuto in un luogo imprecisato all’interno del “grande viaggio” che Luca riporta nei capitoli da 9.57 a 13.9.

La vera domanda allora è come debba essere interpretato il numero, o per meglio dire i numeri. Cominciando dal settanta, è immediato il richiamo alla perfezione e all’infinito, come visto nella quantità delle volte in cui Pietro avrebbe dovuto perdonare al fratello che mancava verso di lui. Probabilmente la domanda dell’apostolo fu rivolta a Gesù consapevole del rimprovero che aveva ricevuto quando gli disse “Ciò non ti accadrà mai” una volta che fu annunciata la Sua morte e risurrezione e di cui chiedeva perdóno. Il 70 è il risultato della moltiplicazione del 7, numero perfetto secondo Dio, con il 10, che in questo caso ha riferimento con ciò che Lui si aspetta dall’uomo e di cui i dieci comandamenti sono l’esempio. Diverso è il 72, ottenuto dalla moltiplicazione del 6, numero perfetto secondo l’uomo come abbiamo già visto, e il 12, altra cifra che allude al progetto di Dio per la Sua creatura di cui troviamo esempio nelle tribù di Israele e nel numero degli apostoli che ritroveremo nel 24 citato nell’Apocalisse a proposito degli anziani “seduti ai loro seggi nel cospetto di Dio” (11.16), 12 per la Grazia più altrettanti per la Legge, ma anche in altri passi.

Gesù quindi inviò in un primo momento i dodici, due a due, perché era ad Israele che si sarebbero dovuti rivolgere, ma qui ne manda settantadue quanti sono i popoli, vicini e lontani, citati in Genesi 10 e, a copertura generale del tutto, ricordiamo il 6×12 a significare che il Suo messaggio era a perfetta misura di ogni uomo a prescindere dalla sua nazione di appartenenza. I settantadue vengono inviati “in ogni luogo dove stava per recarsi”, ma per noi è facile capire, guardando al significato rivestito dal 6×12, che in tutto ciò ancora una volta il Perfetto e il Santo si piega verso l’imperfetto e il contaminato, conosce la sua natura vista nel 6 e si propone di guarirlo perché il 12 è già sinonimo di un piano, appunto visto nelle tribù prima e negli apostoli poi.

Ecco allora che il 70 si riferisce a qualcosa che l’uomo guarda da lontano consapevole di quanto è distante, la stessa sensazione che provò l’apostolo Pietro quando capì l’immensità del perdono che avrebbe dovuto praticare. Anche le 70 settimane riportate in Daniele 9, che danno il tempo fossato da Dio sul mondo, è qualcosa che è stabilita, un periodo assoluto che all’essere umano, piaccia o meno, deve compiersi, come la morte.

A Pietro viene detto “Settanta volte” (sette) e già lì è implicito un imperativo ed ecco perché il numero 70×7, 490 non si riferisce al numero massimo di volte in cui bisogna perdonare perché sarebbe ridicolo tenere la contabilità della remissione del debito e poi fermarsi. Con il 72 è però tutto diverso, non richiede adeguamento, ma abbandono perché così sarà possibile una pace duratura, prima col Dio che si china e poi anche con se stessi. È quella pace che dà Gesù, il Cristo, ben diversa da come la dà il mondo, temporanea, illusoria, ma soprattutto inevitabilmente destinata a non essere più. La “pace” che si raggiunge coi propri mezzi, è possiamo definirla fragile come un castello di carte, senza contare le attinenze con la casa costruita sulla sabbia.

Veniamo ora alle istruzioni che Gesù diede a questi discepoli, simili ma non identiche a quelle precedentemente impartite ai dodici: la prima cosa che ho notato è la mancanza di un componente, cioè il bastone che solo apparentemente ci fa pensare ad un’arma di difesa da eventuali animali o persone violente, o a qualcosa che garantisce sostegno. In realtà, sul “bastone” che gli israeliti portavano era incisa la storia della loro tribù e l’autorità che avevano in seno ad essa, di modo che chiunque avrebbe potuto verificare chi erano i dodici apostoli inviati ad annunciare il Vangelo e a guarire gli infermi. Era allora cominciato un periodo nuovo, diverso, testimoniato anche dalla mancanza di questo strumento oltre che dalla proibizione, come precedentemente detto ai dodici, “Non andate tra i pagani e non entrate nelle città dei samaritani” (Matteo 10).

Ancora, guardando alle istruzioni date nell’occasione dei primo invio e tornando sul bastone, abbiamo tra i testi un’apparente contraddizione: per Marco 6.7 Gesù disse di non portare “nient’altro che un bastone” mentre Luca 9 “Non portate nulla per il viaggio, né bastone, né sacco, né pane, né denari e non portate due tuniche”, dove abbiamo due usi diversi di questo attrezzo nel senso che avrebbe dovuto essere portato l’uno e non l’altro, dove vi sarebbe dovuta essere identità e non offesa.

Differenza fra i due episodi la si riscontra anche nella premessa, non fatta agli apostoli quando furono inviati, “La messe è abbondante, ma pochi sono gli operai! Pregate dunque il Signore della messe, perché mandi degli operai nella sua messe!” (v.2): è una frase non nuova (Matteo 9.37,38), un soggetto di preghiera che verrà rinnovato dall’apostolo Paolo in 2 Tessalonicesi 3.1 con le parole “Pregate per noi, perché la parola del Signore corra e sia glorificata” in quanto era fondamentale che il Vangelo della Grazia, allora sconosciuto, fosse rivelato e si sviluppasse, come effettivamente avvenne. Il pregare per “gli operai” non è azione che consiste in un ricordare a Dio di inviarli, ma l’espressione di una volontà di partecipazione al Suo piano: guardando al periodo storico in cui Gesù disse quelle parole, poi riprese da Paolo, c’era un intero mondo da evangelizzare, a differenza di oggi in cui esiste una Chiesa ufficiale che ha operato e opera scandali e sotto certi aspetti anche crimini, allontanando le persone anziché portare luce, ma in cui comunque il Vangelo è lì, alla portata di chiunque voglia leggerlo per poi capirlo e salvarsi. Si tratta di una Chiesa in cui comunque opera ed è presente un “rimanente fedele” nonostante tutto.

Credo che per i tempi bui in cui viviamo la preghiera del cristiano debba essere rivolta al Signore perché possa preservare e aiutare tutti coloro che ancora non hanno ancora fatto una professione di fede nell’Avversario, chiedendogli di essere noi stessi nelle condizioni di diventare degli strumenti idonei. La questione allora non è pregare dicendo “manda degli operai perché io non posso”, ma il pregare perché possiamo essere sempre di più strumenti per la testimonianza del Vangelo e la trasmissione ad altri di ciò che abbiamo ricevuto.

Le parole di Gesù, per i tempi che viviamo, non sono tanto quelle dette ai settantadue, ma piuttosto “Questo vangelo del regno sarà annunciato in tutto il mondo, perché ne sia data testimonianza a tutti i popoli, e allora verrà la fine” (Matteo 24.14) per cui è responsabilità del credente riconoscere i segni premonitori del ritorno e operare nei confronti del suo prossimo non attraverso una predicazione generalizzata allo scopo di far proseliti, ma una testimonianza diretta là dove incontra degli spiriti non ostili. E se vogliamo, velatamente, un discorso di questo tipo Gesù lo fece tanto ai dodici quanto ai settantadue dicendo loro “Non andate di casa in casa” come fanno i Testimoni di Geova. Al contrario, tanto gli uni che gli altri discepoli si sarebbero dovuti stabilire là dove la loro pace sarebbe stata accolta e scesa sui componenti della famiglia che avrebbe accolto il Vangelo e da lì avrebbe dovuto partire la diffusione del messaggio “il regno dei cieli è vicino”.

Altra raccomandazione data è quella di non fermarsi “a salutare nessuno lungo la strada”, quindi evitare accuratamente le perdite di tempo, parole analoghe a quelle che disse Eliseo a Giezi suo servo: “Se incontrerai qualcuno, non salutarlo; se ti saluta, non rispondergli” (2 Re 4.29), altra occasione in cui ogni secondo era prezioso (il figlio della sunamita in 2 Re 4.8-16).).

Ecco allora che, per il cristiano che si ritiene impegnato nel discepolato, è vitale “non salutare e non rispondere” nel senso di frequentare persone che gli farebbero perdere quel tempo che altrimenti potrebbe dedicare alle opere dello Spirito. Non è questa un’affermazione estremista, discriminatoria, ma va inquadrata da un lato sotto l’ottica del mandato (se ricevuto), dall’altro nel saper individuare il momento in cui agire e quello di fermarsi: i settantadue non avrebbero dovuto fermarsi a salutare per la durata dell’incarico e non a prescindere.

Guardando alla vita dell’uomo Salomone scrisse: “Per tutto c’è il suo tempo, c’è il suo momento per ogni cosa sotto il cielo: un tempo per nascere e un tempo per morire – quindi lo spazio che viviamo dalla culla alla bara di cui dovremo rispondere –, un tempo per piantare e un tempo per sradicare ciò che è piantato, un tempo per uccidere e un tempo per guarire, un tempo per demolire e uno per costruire; un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per far cordoglio e un tempo per ballare, un tempo per gettar via pietre e un tempo per raccoglierle, un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci, un tempo per cercare e un tempo per perdere, un tempo per conservare e un tempo per buttar via, un tempo per strappare e un tempo per cucire, un tempo per tacere e un tempo per parlare; un tempo per amare e un tempo per odiare, un tempo per la guerra e un tempo per la pace” (Qoèlet 3.1-8).

Sono questi versi molto significativi, che non necessariamente una persona sperimenta tutti assieme nella propria vita, ma che ci parlano, in qualunque situazione ci possiamo venire a trovare, che questo “tempo per” è inevitabile, va accettato e rispettato, che è impossibile provare la gioia senza il dolore, la vita senza la morte perché quello che conta è il percorso, che non può essere subìto, ma richiede una partecipazione attiva e, in ogni caso, questo “tempo” non va perso. Amen.

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12.01 – I SAMARITANI RESPINGONO GESÙ (Luca 9.51-56)

12.01 – I Samaritani respingono Gesù (Luca 9.51-56)

51Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, egli prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme 52e mandò messaggeri davanti a sé. Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per preparargli l’ingresso. 53Ma essi non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme. 54Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». 55Si voltò e li rimproverò. 56E si misero in cammino verso un altro villaggio.

            Concluso il “discorso ecclesiologico”, inizia un nuovo periodo della vita di Gesù, dalla ricostruzione cronologica non semplice e dove forse l’interpretazione si fa più opinione che dato incontrovertibile. Si tratta di un tempo ricco di episodi e insegnamenti particolari riportati in modo estremamente dettagliato che ci parlano quasi dell’urgenza, stante la vita umana di Gesù che stava per concludersi, di rivelare il maggior numero possibile di contenuti ai credenti che si sarebbero succeduti nella dispensazione della Grazia, ma anche dopo. E qui viene chiamata indirettamente in causa l’utilità e la funzione del Libro che ha guidato e guida gli uomini di Dio di ogni epoca; ricordiamo infatti che “Allora parlarono tra di loro i timorati di Dio. Il Signore porse l’orecchio e li ascoltò: un libro di memorie fu scritto davanti a lui per coloro che lo temono e che onorano il suo nome”(Malachia 3.16): questo Libro ha attraversato i secoli e durerà fino a quando non sarà più necessario, cioè con la creazione di quel mondo nuovo, con altri cieli e altra terra, più volte anticipato tanto negli scritti dell’Antico che soprattutto nel Nuovo patto.

Luca stesso, con “la ferma decisione”di Gesù sembra avvertire il suo lettore che ci fu un tempo preciso, un cambiamento, quasi che fosse stato premuto il tasto di un cronometro nella vita del Figlio dell’uomo, e il verso 51 ci dice che stavano “compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto”: viene posto quindi l’accento non sulla Sua morte, ma sulla resurrezione ed ascensione mediante la quale la vinse e con cui viene dimostrato ufficialmente che ogni cosa era stata messa in atto per la salvezza dell’uomo. Certo, anche il fatto che Satana era stato sconfitto perché nulla aveva potuto contro di Lui tranne che ferirlo al “calcagno”. Gesù quindi era entrato nella parte conclusiva del Suo Ministero, anche se da lì alla resurrezione passerà ancora un anno circa.

C’è poi, sempre nello stesso verso lucano, la “ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme”, traduzione piuttosto libera che indubbiamente rende il senso di quanto Gesù intendeva fare, ma che il testo originale descrive diversamente, cioè “fermò la sua faccia”, o “indurì il volto”. Pensiamo alla diversità con cui fu descritto il Suo volto alla trasfigurazione, quando “brillò come il sole”(Matteo17.2) che qui è “indurito”nel momento in cui la “ferma decisione”non implica lo stabilire una partenza per raggiungere in fretta un determinato luogo, ma il rinnovare l’accettazione del percorso che il Padre aveva stabilito per Lui sapendo che il tempo a lui dato stava per finire. Il “volto indurito”di Nostro Signore significa questo, è il volto dell’uomo consapevole delle sofferenze che dovrà affrontare, è il volto del Dio fatto uomo che avrebbe “tolto”, cioè preso su di sé, “il peccato del mondo”. Purtroppo la Chiesa ha fatto poco per chiarire il significato di questo “togliere” quando, mutando progressivamente la lingua italiana, è prevalso quello di“portare via qualcosa da un luogo, levare, rimuovere”.

Ma torniamo al volto qui descritto da Luca, che dà l’idea di un’inflessibile risoluzione: troviamo un corrispettivo ebraico del “fermò la faccia”in tre passi, il primo del quali è nei cantici del servo, in Isaia 50.7 “Il Signore mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro”, dal letterale, dopo “Il Signore mi ha aperto l’orecchio”, “ho reso la mia faccia simile ad un macigno, e so che non sarò svergognato”. Il secondo passo è reperibile in Geremia 21.10, nell’oracolo contro Gerusalemme: “Chi rimane in questa città morirà di spada, di fame e di peste; chi uscirà e si consegnerà ai Caldei che vi cingono d’assedio, vivrà e gli sarà lasciata la vita come bottino, perché io ho volto la faccia contro questa città, per il suo danno e non per il suo bene. Oracolo del Signore. Essa sarà data in mano al re di Babilonia, che la darà alle fiamme”. Infine il terzo lo abbiamo in Ezechiele 6.2: “Figlio dell’uomo, volgiti verso i monti d’Israele e profetizza contro di essi”, anche qui con l’originale “volgi la tua faccia”.

La descrizione del volto di Gesù, allora, da una parte rivela tutto il Suo impegno e dall’altra anticipa sempre di più la divisione netta tra ciò che è santo e ciò che non lo è, tra chi gli appartiene e chi no e infatti, dopo questo episodio secondo la mia lettura, vi saranno i guai profetizzati contro Betsaida, Capernaum e Corazin.

Sappiamo già che Nostro Signore non volle aggregarsi alla carovana coi suoi fratelli, e che partì poco dopo per Gerusalemme, ma troviamo un’azione mai riportata prima di allora, e cioè “mandò messaggeri davanti a sé”la cui identità è sconosciuta: possiamo pensare che fossero alcuni dei “settanta” che invierà di lì a poco tempo, ma non i dodici, per lo meno non Pietro, Giacomo e Giovanni. Il compito di questi inviati era quello di“preparargli l’ingresso”, letteralmente“preparare per lui”in quanto era necessario trattare coi samaritani, come sappiamo tradizionalmente avversi agli ebrei per ragioni che abbiamo già esaminato, per avere ospitalità e non essere confusi con gli altri coi quali c’era un rapporto di ostilità: ricordiamo infatti le parole della donna al pozzo di Giacobbe in Sichar, “Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?” (Giovanni 4.9).

Gesù e il Suo gruppo, però, erano “chiaramente in cammino verso Gerusalemme” (v.53): per quei samaritani il loro era un viaggio “religioso” data la festa in corso in quella città e, dal momento in cui era aperta la questione del legittimo Tempio, se quello “ufficiale” o il loro sul Gherizim, non acconsentirono ad accoglierli.

Saputo questo, mentre il loro Maestro taceva, Giacomo e Giovanni, soprannominati “Boanerges, cioè figli del tuono”, manifestarono il loro carattere, offesi dal diniego ricevuto, riferendosi all’episodio di 2 Re 1.11,12 quando leggiamo che, davanti a due compagnie di uomini mandati ad arrestarlo, Elia disse“Se sono un uomo di Dio, scenda un fuoco dal cielo e divori te e i tuoi uomini”, come effettivamente avvenne. Da notare che i due discepoli sembrano chiedere il permesso di agire in tal modo, ma in realtà si ergono a difensori di Gesù, volendo intervenire al Suo posto, quasi che fosse debole o, secondo loro, non avesse capito la portata dell’offesa. È in sostanza come se gli avessero detto “Vuoi che ci pensiamo noi?”, dimostrando di essere dominati da uno spirito carnale che, di fronte alla non reazione del Maestro secondo i loro parametri, si sente in dovere di intervenire. Giacomo e Giovanni avrebbero dovuto ricordarsi della reazione che avrebbero dovuto avere di fronte al rifiuto ad accoglierli: “E se alcuni non vi ricevono, uscite da quella città, e scuotete la polvere dai vostri piedi, in testimonianza contro di loro”(Luca 9.5). Con quel gesto, infatti, i discepoli avrebbero dichiarato da un lato la loro totale estraneità al rifiuto del messaggio che portavano, lasciando a quella gente l’intera responsabilità della loro opposizione al Vangelo.

Possiamo capire allora che non compete a chi porta il Vangelo chiedere un giudizio di Dio quando una persona gli si oppone, ma solo la consapevolezza del fatto che la pace che vorrebbe portare, una volta rigettata, ritorna a lui: “Se quella casa ne è degna, la vostra pace scenda su di essa; ma se non ne è degna, la vostra pace ritorni a voi”(Matteo10.13). Al contrario l’uomo naturale, quello che “non comprende le cose di Dio perché per lui sono follia”, quando si trova di fronte a una non accoglienza delle sue idee o proposte, si offende, si contraria, reagisce in malo modo come un bambino, cosa che appunto fecero Giacomo e Giovanni ed ecco perché Gesù disse loro “Voi non sapete di che spirito siete”, non riportata dalla nostra versione, ma da altre: non avevano capito nulla, confondendo l’intervento di Dio, autonomo, preciso e chirurgico, con il loro volere in quel momento estremamente distante da Lui. Ancora una volta emerge l’incapacità dell’essere umano di fare i raccordi opportuni per poter capire e avere una reazione proporzionata: i due fratelli, memori di aver visto Elia parlare con Gesù alla trasfigurazione, lo citano confondendo il fatto che l’uno apparteneva a una dispensazione e loro ad un’altra e quanto da Lui operato in quella della Legge non poteva trovare applicazione in quella della Grazia.

Il testo che utilizziamo, al verso 55, è generico perché leggiamo “Si voltò e li rimproverò”, ma altre versioni hanno “Voi non sapete di quale spirito siete, poiché il Figlio dell’uomo non è venuto per perdere le anime degli uomini, ma per salvarle”. Ecco allora – aprendo una breve parentesi – quanto è importante dotarsi di una traduzione affidabile operata da persone che tengano conto del testo antico e, sotto l’azione dello Spirito e non solo del tradurre critico come fosse un semplice scritto, possano aiutare chi legge a una comprensione maggiore, che non ometta o riassuma fatti o parole, non informi ma possa formare.

Giovanni, scrivendo il suo Vangelo, dimostrò di aver compreso molto bene le parole di Gesù, poiché leggiamo proprio che “Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui. Chi crede non è condannato, ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito figlio di Dio”(3.17,18). Ancora, in 3.36, “Chi crede nel Figlio ha la vita eterna; chi non obbedisce al Figlio non vedrà la vita, ma l’ira di Dio incombe su di lui”: possiamo sottolineare che abbiamo l’essere “già condannato”,ma è quell’ “incombe su di lui”, non “cade”, che costituisce al tempo stesso un pesante avvertimento e una speranza, poiché una cosa che “incombe” allude a un pericolo imminente, che grava ma può essere rimosso e ciò si verifica nel momento in cui una persona crede.

Il “salvare ciò che era– altrimenti – perito”, significa proprio questo: Gesù vuole salvare, cioè recuperare e la Sua azione è definita come uno strappare, “ha dato se stesso per i nostri peccati al fine di strapparci da questo mondo malvagio”(Galati 1.4). È sufficiente quindi che l’uomo si abbandoni a Lui ed in quel momento si verifica il Suo intervento. Paolo di Tarso scrisse nella sua prima lettera a Timoteo “Cristo è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io”(1.15). Gesù, come Dio, avrebbe potuto far scendere quel “fuoco”di cui gli parlarono Giacomo e Giovanni, ma non lo fece perché quell’avvenimento sarebbe stato incompatibile con la Sua funzione: a quei samaritani sarebbe stato concesso del tempo anche se il loro era “sempre pronto”. Gli abitanti di quel villaggio era impossibile non avessero sentito parlare di Gesù, poiché passare per la Samaria era la via più breve tra la Galilea e la Giudea, ma non Lo presero in considerazione, vedendo in Lui un Giudeo che andando a Gerusalemme, dimostrava di non tenere in alcun conto il loro Tempio né le loro tradizioni. Ma non si scompose e, semplicemente, “andarono in un altro villaggio”, non è detto quale, né se si trovasse in Samaria o in Giudea.

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08.09 – LA PRIMA VISITA A NAZARETH II/II (Luca 4. 24-30)

8.09 – La prima visita a Nazareth 2 (Luca 4.24-30)

 

24Poi aggiunse: «In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria. 25Anzi, in verità io vi dico: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elia, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; 26ma a nessuna di esse fu mandato Elia, se non a una vedova a Sarepta di Sidone. 27C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo; ma nessuno di loro fu purificato, se non Naamàn, il Siro». 28All’udire queste cose, tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. 29Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù. 30Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino”.

 

C’è un senso conclusivo nel concetto in base al quale “nessun profeta è bene accetto nella sua patria” e infatti alcuni studiosi sostengono che i richiami ad Elia e Naaman, con tutto quel che seguì, quindi i versi da 25 a 30, appartengano ad una terza visita a Nazareth che Gesù avrebbe compiuto. La frase di Gesù, che poi divenne proverbio tuttora in uso, preceduta dal suo amen, “in verità”, fu pronunciata quale triste commento ai pensieri dei suoi concittadini e denuncia la tendenza umana ad apprezzare più ciò che viene da fuori anziché quanto si ha naturalmente a disposizione. Guardiamo le varianti di questa frase: Matteo scrive “Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua” (13.57), Marco “tra i suoi parenti e in casa sua” (6.4) e Giovanni “Gesù aveva dichiarato che nessun profeta riceve onore nella sua patria” (4.44); se si fosse trattato di un proverbio già esistente, tutti e quattro lo avrebbero riportato identico.

La cerchia familiare stretta e allargata, così come l’ambito sociale in cui una persona cresce, fa sì che nei suoi membri si fissino i ricordi di quello che è stata anziché valutarne i progressi e soprattutto quello che è diventato realmente, spesso a prezzo di esperienze dolorose. Chi “viene da fuori” invece, di cui non si sa nulla e quindi dal quale ci si attende chissà cosa, viene ascoltato proiettando istintivamente su di lui le aspettative che si hanno. In una comunità che ho frequentato ho assistito a questo fenomeno tante volte, ma qualunque “profeta”, cioè chi parla di Dio, ha un messaggio che, una volta udito, occorre valutare indipendentemente dalla provenienza che questo ha.

Gesù, in pratica, per i nazareni era “il figlio di Giuseppe” e tale doveva restare. Le sue “parole di grazia” che avevano ascoltato, anziché venire accolte e metabolizzate, destavano incredulità perché era impossibile che il figlio di un falegname parlasse in quel modo. E il triste è che, nonostante l’affermazione sul profeta non accetto in patria, i Suoi concittadini pensarono ancora peggio in una volta successiva perché coinvolsero Maria, i fratelli e le sorelle di Gesù a sostenere che la Sua conoscenza delle Scritture non poteva essere reale. Quindi, come scrive un importante esegeta, “considerazioni egoistiche, interessi locali e pregiudizi nati da una lunga familiarità, si mescolarono assieme” impedendo loro un giudizio obiettivo.

E arriviamo al verso 25 in cui viene portato il primo esempio, quello di Elia e la vedova di Sarepta. Si tratta di un fatto avvenuto approssimativamente 850 anni prima del nostro episodio, quando regnava Achab che, come diversi suoi predecessori, portò il popolo all’idolatria. Conseguentemente gli fu preannunciato da Elia il castigo consistente in tre anni di carestia, per il quale fu lo stesso profeta a pregare che ciò avvenisse. Da notare che il Re era colui che guidava Israele ed era responsabile della sua condotta, e che il popolo stesso doveva sapere molto bene che non vi era altro dio al di fuori di YHWH: accettando di adorare elementi estranei, si rese colpevole allo stesso modo. Questo era il comportamento degli israeliti che invece erano stati eletti, scelti dal Creatore perché fosse luce alle genti, quelle che guardava – come oggi – con disprezzo.

Ebbene pensiamo alla situazione che dovette verificarsi in quel periodo di carestia, con ricchi che vivevano con difficoltà e poveri nella disperazione, per non parlare delle vedove che si trovavano nell’impossibilità di sostenere anche i loro figli, qualora ne avessero avuti, e trovando disattese le promesse di Dio nei loro confronti proprio a motivo del comportamento idolatra che aveva coinvolto tutti, loro comprese. Vanno tenuti presenti i due significati del termine “idolatria”: da un lato l’adorazione di uno o più idoli, ma dall’altro amore e devozione per elementi che non hanno ragione di averla. Perché ciò accada è necessario abbandonare ciò che si è seguito in precedenza e Israele, scegliendo di adorare dèi estranei, non è che “cambiasse religione” o una moda, ma sostituiva il reale con l’immaginario, rinnegando tutte le esperienze soprannaturali di cui era stato l’unico beneficiario nel corso dei secoli.

Elia, a carestia inoltrata, viene “mandato” a Sarepta, in territorio fenicio, in cui c’era “una vedova alla quale ho dato ordine di sostenerti” (1 Re 17.9): Dio allora aveva parlato a una pagana, una donna povera che fu testimone del miracolo della farina e dell’olio che non si esaurirono e del ritorno in vita del proprio figlio. Quindi, citando l’episodio, Gesù ricorda ai suoi ex concittadini che Dio si serve delle cose “pazze del mondo per svergognare le savie”, cioè davanti a Lui nel confronto tra l’umile e il presuntuoso a vincere è sempre il primo. In più, in questo passo, abbiamo l’abbandono delle attenzioni di un profeta per i suoi connazionali a favore di una donna pagana che tuttavia il Signore lo cercava, per quanto “a tentoni”.

La figura di Naaman, poi, siriano, è altrettanto singolare ed emerge al tempo in cui viveva Eliseo, che di Elia prese il posto. Nonostante la presenza di questo profeta sul territorio, a lui non si rivolse nessun lebbroso israelita, ma fu Joram, re di Siria, dietro suggerimento indiretto di una ragazza ebrea, a inviare Naaman da lui. La lettura del quinto capitolo di 2 Re può aiutarci a capire nel dettaglio la vicenda, ma appare chiaro che la condotta di questo generale, inizialmente, fu caratterizzata dall’incredulità dovuta a ignoranza e non da un ostinato rigetto della luce e della verità come in Israele a quel tempo. La confessione di fede di quest’uomo, “Ora so che non c’è Dio su tutta la terra se non in Israele” (v. 19) suona indubbiamente come una condanna nei confronti di tutti quelli che videro i miracoli di Nostro Signore e non si convertirono.

Ebbene quando Gesù, nel portare gli esempi di questi personaggi, pronunciò le parole “ve ne erano tanti… eppure”, scoppiarono i sentimenti dello sdegno e dell’ira nel cuore dei presenti nella Sinagoga. È stato giustamente osservato che con queste parole Nostro Signore accusa i nazareni di indegnità ammonendoli che dovevano fare molta attenzione a che il medesimo abbandono ricordato nei tempi antichi non si verificasse anche per loro, con conseguenze peggiori di quelle che avvennero in quei tre anni di carestia.

È singolare che, per la prima e unica volta nei Vangeli, c’è la testimonianza dell’interruzione di una riunione sacra: i presenti quindi erano talmente sdegnati da perdere ogni controllo e perché feriti nel proprio orgoglio e campanilismo. Non vi fu spazio per un esame di coscienza, per una riflessione, pur breve, ma solo per una reazione violenta: tutti volevano cacciarlo dalla città e, evidentemente la maggioranza, voleva gettarlo giù da uno dei dirupi che allora erano presenti nei pressi della città, essendo costruita sull’orlo di un monte, in una posizione diversa da quella della Nazareth odierna.

Prima di spiegare come fece Gesù a sottrarsi alla loro volontà omicida, ricordiamoci che la reazione violenta a una contestazione verbale appartiene sempre a chi, pur essendo adulto, vuole difendere in modo infantile il proprio modo di pensare e agire senza preoccuparsi del fatto che questo sia giusto o sbagliato. Ciò avviene soprattutto nell’ambito religioso, o politico. Violenza fisica in questo caso, oppure verbale e con metodi altrettanto violenti che prevedono, oggi perché la gente è ritenuta più “civile” senza esserlo, l’umiliazione e l’isolamento fino ad arrivare, se possibile, all’annientamento delle idee e della volontà di chi li rimprovera. Perché chi contesta con argomenti validi e colpisce le coscienze va annichilito, perché chi sceglie la violenza e l’urlo sa che non può controbattere in altro modo.

Ai tempi di Gesù e poco dopo, parlo del libro degli Atti, abbiamo due esempi: il primo si verifica con la lapidazione di Stefano quando viene descritta, al termine dei suo discorso dinnanzi al Sinedrio che si concluse con le parole “Ecco, contemplo i cieli aperti e il Figlio dell’uomo che sta alla destra di Dio”, la reazione dei suoi membri: “Allora, gridando a gran voce, si turarono le orecchie e si scagliarono tutti insieme contro di lui, lo trascinarono fuori dalla città e si misero a lapidarlo” (Atti 7.56-58).

Lo stesso apostolo Paolo, allora conosciuto come Saulo di Tarso ai cui piedi avevano deposto i loro mantelli, allora consenziente con quella esecuzione, si troverà a fare i conti con questo atteggiamento quando, dopo aver riferito le parole che Gesù gli disse, “Va’, perché io ti manderò lontano, alle nazioni”, sapiamo che “Fino a queste parole erano stati ad ascoltarlo, ma a questo punto alzarono la voce gridando: «Togli di mezzo costui, non deve più vivere!». E poiché continuavano a urlare, gettare via i mantelli e a lanciare polvere in aria, il comandante lo fece portare nella fortezza, ordinando di interrogarlo a colpi di flagello, per sapere perché mai gli gridassero contro in quel modo”. (Atti 22.21-24). In tutti questi esempi, nazareni compresi, non esiste un solo attimo in cui si dà spazio all’autoesame, ma alla reazione infantile di adulti irrisolti.

Reazione ben diversa vi fu da parte degli ebrei testimoni della discesa dello Spirito Santo al capitolo due, sempre del libro degli Atti: quando infatti Pietro, a conclusione del suo primo discorso pubblico, “Sappia dunque con certezza tutta la casa d’Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso” , leggiamo che “All’udire queste cose si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: «Fratelli, che cosa dobbiamo fare?» (2.36,37). Quella volta è scritto che “coloro che accolsero la sua parola  furono battezzati e quel giorno furono aggiunte circa tremila persone” (v.41).

Tornando al nostro episodio, è una breve frase a concluderlo: “Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino”. Nessuno, nonostante quelle manifestazioni isteriche, poté mettere in atto i suoi propositi. Come già rilevato, non era ancora giunto il momento in cui Gesù doveva essere dato in mano agli uomini e questo sicuramente fu il motivo per cui non poterono fargli nulla e nessuno, visto che è sempre da uno che parte un’azione offensiva, osò affrontarLo per primo, forse perché intimoriti dalla Sua autorità. Gesù era l’ “Io sono”, “lo stesso di ieri, di oggi e di sempre” che ancora oggi chiama e riprende la sua creatura perché lo accetti, lo segua, diventi con Lui figlio del Padre. Amen.

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08.08 – LA PRIMA VISITA A NAZARETH (Luca 4.16-30) I/II

8.08 – La prima visita a Nazareth 1 (Luca 4.16)

 

Premessa

Affrontare la o le visite di Gesù a Nazareth pone problemi sul numero di volte in cui si recò nella città che lo vide diventare adulto, da quando aveva circa tre anni e mezzo fino ai trenta. A parte il ritorno dall’Egitto, la questione di quante furono le volte in cui si recò “nella sua città” è ancora aperta anche se, leggendo i racconti dei sinottici, si possono distinguere due episodi, per quanto vi sia chi sostiene fossero stati tre. Luca, nel passo che esamineremo, introduce quanto avvenne con le parole “Gesù, sospinto dallo Spirito, se ne tornò in Galilea e la sua fama andò per tutta la contrada circonvicina. Ed egli insegnava nelle loro sinagoghe, essendo onorato da tutti. E venne in Nazareth, dove era stato cresciuto” (4.14-16): si tratta di una premessa di ampio respiro al nostro episodio, che comprende molte attività svolte da Nostro Signore e il particolare dei concittadini che volevano buttarlo giù da una rupe, non citato da Matteo e Marco, lascia intendere che i due evangelisti non si riferiscano allo stesso avvenimento.

Considerando il mio metodo d’indagine, lo stesso peraltro di molti, è indubbio che leggere cronologicamente il Vangelo può portare a capire meglio alcuni fatti, evitare una lettura approssimativa e valutare più agevolmente il perché di certe frasi, ma è anche innegabile che la questione dell’esatta disposizione temporale non sia stata considerata rilevante dagli evangelisti che giustamente decisero di scrivere dei libri “aperti”, che parlassero a tutti nell’immediato essendo il “regno dei cieli”, allora come oggi, “vicino”. Luca lascia intendere che Gesù andò una prima volta a Nazareth quando entrò nella Galilea per stabilirvisi; Matteo (13) la colloca dopo l’esposizione delle parabole del Regno e Marco (6) prima dell’invio dei dodici in missione: è il loro racconto, più o meno temporalmente coincidente, a farmi optare per il fatto che quella città fu visitata due volte. Vediamo, sotto questo mio modo di disporre gli episodi, ciò che scrive Luca:

 

16Venne a Nàzaret, dove era cresciuto, e secondo il suo solito, di sabato, entrò nella sinagoga e si alzò a leggere. 17Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; aprì il rotolo e trovò il passo dove era scritto: 18Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi, 19a proclamare l’anno di grazia del Signore. 20Riavvolse il rotolo, lo riconsegnò all’inserviente e sedette. Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui. 21Allora cominciò a dire loro: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato».  22Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è costui il figlio di Giuseppe?». 23Ma egli rispose loro: «Certamente voi mi citerete questo proverbio: «Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafàrnao, fallo anche qui, nella tua patria!»». 24Poi aggiunse: «In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria. 25Anzi, in verità io vi dico: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elia, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; 26ma a nessuna di esse fu mandato Elia, se non a una vedova a Sarepta di Sidone. 27C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo; ma nessuno di loro fu purificato, se non Naamàn, il Siro». 28All’udire queste cose, tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. 29Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù. 30Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino”.

 

Il verso 16 inizia in modo solo apparentemente banale: la prima pericope “Venne a Nazareth” racchiude uno scopo, un piano per gli abitanti di quella città e lascerebbe intendere, se non conoscessimo ciò che avvenne, uno sviluppo positivo di quell’arrivo in mezzo a loro. “Venne a Nazareth” ci autorizzerebbe a pensare che contenga una speranza, un accoglimento del “lieto annunzio” da parte degli abitanti di quella città che, proprio perché conoscevano Gesù, lo avrebbero accettato. La seconda pericope, “dove era cresciuto”, ne accentua l’idea perché l’essere cresciuto in una cittadina equivale all’avere una reputazione, nel bene o nel male. E sappiamo che proprio a Nazareth è scritto che “…il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui” (Luca 2.40), particolare che dobbiamo tener presente perché quanto detto nel verso non costituiva un fatto privato, ma pubblico nel senso che era impossibile non riconoscere quanto avveniva in quel giovane. Il verso citato si riferisce al Gesù bambino, fino ai dodici anni; ma ciò che fu dopo il suo bar mitzwah, quindi dopo i tredici, è detto che “…cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini” (v.52). Ora, calcolando che la permanenza in Egitto durò dai due ai tre anni e mezzo, gli abitanti di Nazareth ebbero modo di farsi un’opinione su Gesù per 27 anni circa in cui lo videro lavorare, lo sentirono parlare e lo videro agire non certo a sproposito, frequentare la Sinagoga assiduamente così come prendere la parola come consuetudine nelle sue riunioni. Va ricordato che i bambini erano ammessi nelle Sinagoghe dall’età di sei anni e dovevano frequentarle con assiduità dopo i tredici. Quindi la conoscenza che gli abitanti di Nazareth avevano di Gesù, che lo incontravano ogni sabato nelle assemblee, fu costante per quattordici anni, sempre parlando approssimativamente.

Viene spontaneo pensare che, se quando Gesù era dodicenne parlava in mezzo ai sapienti di Gerusalemme e “…tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte” (Luca 2.47), le volte in cui fu invitato a parlare e commentare dei passi nella Sinagoga in Nazareth non furono poche. Riesce difficile pensare che, fino a quando non iniziò il Suo Ministero, Gesù abbia taciuto sulle verità scritturali nonostante sarà la vittoria sull’Avversario nel deserto a sancire ufficialmente l’inizio del Suo Ministero, che era veramente Lui “l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo”.

Non credo sia azzardato pensare che Nostro Signore “si alzò” perché invitato dal responsabile dell’assemblea – come in uso ancora oggi ance se con qualche variante –, ma dobbiamo porre la nostra attenzione su quel “gli fu dato il rotolo…” e “trovò il passo”.

Qui va fatta una premessa, cioè che la lettura della Legge o dei Profeti, come parte del servizio nella Sinagoga, rendeva necessaria la loro divisione in sezioni in modo tale che, nel giro di tre anni, tutta la Scrittura potesse essere letta e commentata interamente. La Chiesa di Roma ha adottato questo stesso metodo nelle letture che vengono proposte nella Messa quotidiana in cui, appunto in tre anni, viene letta tutta la Bibbia anche se, purtroppo, ben pochi se ne accorgono o frequentano le sue assemblee quotidianamente.

Secondo quest’usanza ebraica, allora, Gesù “trovò il passo” richiesto per quel sabato in cui ricorreva il giorno della purificazione, quello dell’espiazione dei peccati che si celebrava il 10 di Tizri (ottobre). Era lo Yom Kippur, considerato il giorno più santo e solenne dell’anno ancora oggi. Credo che in quella Sinagoga stava avvenendo qualcosa di straordinario: nel giorno della purificazione si leggeva Isaia 61.1,2 “Lo spirito del Signore Dio è su di me – come visualizzato al Suo battesimo – perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione – le credenziali del perfetto inviato, il Cristo, il Messia –; mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l’anno di grazia del Signore”.

Oggi” si compiva “questa scrittura” che i presenti avevano “ascoltato”. Si trattava di un annuncio formidabile che avrebbe dovuto riempire di gioia i suoi uditori anche perché molti erano gli elementi che andavano a convergere in un unico punto, cioè Gesù stesso. È fondamentale sottolineare che il verso di Isaia 61.2 è letto parzialmente, essendo nella sua interezza “…a promulgare l’anno di grazia del signore, il giorno di vendetta del nostro Dio, per consolare gli afflitti”: perché Gesù si fermò, nella sua lettura, all’ “anno di grazia”?  Oppure: perché Matteo non scrive interamente il passo? Perché intendeva sottolineare qualcosa che gli israeliti conoscevano molto bene, cioè il Giubileo che ricorreva ogni 50 anni in cui venivano rimessi tutti i debiti, messi i prigionieri in libertà, affrancati gli schiavi e le terre che erano state confiscate venivano restituite ai proprietari (Levitico 25.9-17). Il Giubileo era stato quindi istituito come simbolo per  anticipare le conseguenze della venuta del Cristo. È interessante, nel capitolo citato del Levitico, il fatto della terra restituita: terra dove abitare che rimanda sia a quella promessa, scelta da Dio per il suo popolo, sia a quella nuova, ai famosi “nuovi cieli e nuova terra”; questa almeno è l’applicazione che mi sento di fare attorno al verso 23 di Levitico 25: “Le terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e ospiti. Perciò, in tutta la terra che avete in possesso, concederete il diritto di riscatto per i terreni”. È un verso che allora rivendicava il potere di YHWH sul creato, ma che oggi pone chi crede in una posizione radicalmente diversa: “Voi non siete più stranieri né ospiti, ma concittadini dei santi e membri della famiglia di Dio” (Efesi 2.12).

Leggiamo che prima di parlare “Gli occhi di tutti erano fissi su di lui”, cioè sapevano chi era e ancor più come stava operando nelle città a loro vicine e lontane, ma non si soffermarono sulla frase d’esordio, “Oggi si è compiuta questa Scrittura che avete ascoltato”. Ascoltarono, ma non compresero, o non vi dettero peso. Certo Gesù non si limitò a quella, ma il suo discorso fu teso a dimostrare il perché di quelle parole, delle Sue e di quelle del testo, e da ciò che leggiamo, “Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati dalle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca”, è impossibile che non rispondessero emotivamente di fronte a quella predicazione. “Tutti gli davano testimonianza” sta a significare che riconoscevano che le voci che erano giunte a Nazareth sulla forza delle parole e dei ragionamenti del loro concittadino erano vere, che “parlava con autorità” e che era in grado di spiegare la Scrittura meglio di qualunque Scriba o Fariseo. E il responsabile della Sinagoga che Lo invitò a leggere e commentare Lo conosceva.

Purtroppo, alla positività racchiusa nella prima reazione, quella cioè di dargli “testimonianza”, subito se ne aggiunge una negativa vista nel fatto che “erano meravigliati”: i presenti cioè non erano in preda ad un sentimento di stupore entusiasta che porta ad aderire a una posizione precisa, ma erano all’inizio di un tentativo per giustificare razionalmente quanto stava avvenendo in quella Sinagoga. In pratica tutto quanto Gesù diceva loro non veniva accolto nel cuore e nella mente, ma passava attraverso il filtro della diffidenza vanificando le Sue parole. A differenza di ciò che avverrà nella seconda visita in quella città, si chiesero: “Non è costui il figlio di Giuseppe?”, quindi uno di noi, nato qui, uno che ha lavorato il legno fino a poco tempo prima di andarsene a predicare e fare miracoli?

Ecco, è proprio da quella definizione, “il figlio di Giuseppe”, che inizia il processo di screditamento: dimenticavano che Giuseppe discendeva da Davide come Gesù, le promesse ascoltate per chissà quanto tempo nella Sinagoga sul Cristo che sarebbe arrivato, le voci a loro giunte sui miracoli operati e su quanto potente fosse la Sua predicazione. Quella “testimonianza” resta all’inizio si era trasformata in livore perché alla diffidenza cui erano passati si aggiunse l’orgoglio campanilista di cui Gesù si accorse subito e iniziò a parlare dicendo “Certamente voi mi citerete questo proverbio: «Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito accadde a Capernaum, fallo anche qui, nella tua patria!»” (v. 23).

Il proverbio citato, “Medico, cura te stesso”, in uso ancora oggi, non sta a sottintendere che gli abitanti di Nazareth vedessero in Gesù un malato che prima di guarire gli altri doveva pensare a curarsi, ma che in quel “te stesso” rientrassero a pieno titolo loro in quanto Suo prossimo storico e diretto. In altri termini, prima di fare miracoli e predicare all’esterno del loro territorio, avrebbe dovuto iniziare da lì, dalla città di Nazareth, per renderla illustre come Capernaum, oppure fermarsi e compiere in mezzo a loro le identiche, potenti operazioni.

Sappiamo però che Gesù non fece mai un miracolo per soddisfare la curiosità della gente o peggio per pubblicizzare un territorio, ma per testimonianza che doveva essere ricevuta di chi voleva comprendere il piano di Dio: “le opere che il Padre mi ha dato da compiere, quelle stesse opere che io sto facendo, testimoniano di me che il Padre mi ha mandato” (Giovanni 5.36).

Il ragionamento dei nazareni, invece, si configurava nelle parole successive a quelle ora riportate: “Ma voi non avete mai ascoltato la sua voce né mai avete visto il suo volto, e la sua parola non rimane in voi: infatti non credete a colui che egli ha mandato” (vv 36,38).

Concludendo questa prima parte: Gesù, come suo solito, predicò con autorità, grazia e verità, elementi che furono riconosciuti da quanti lo ascoltavano. Il suo fu però un seme caduto sulla strada, subito asportato dagli uccelli del cielo, figura in questo caso dell’Avversario che per la prima volta cercò di ucciderlo, spingendo gli abitanti di Nazareth a buttarlo giù “dal ciglio del monte”. Anche questa volta rimase sconfitto.

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08.07 – IL MUTO INDEMONIATO (Matteo 9.32-34; Luca 11.14-20)

8.07 – Il muto indemoniato (Matteo 9.32-34; Luca 11.14-20)

 

32Usciti costoro, gli presentarono un muto indemoniato. 33E dopo che il demonio fu scacciato, quel muto cominciò a parlare. E le folle, prese da stupore, dicevano: «Non si è mai vista una cosa simile in Israele». 34Ma i Farisei dicevano: «Egli scaccia i demoni per opera del principe dei demoni”.

 

Prima di affrontare l’episodio è giusto sfatare un’opinione errata che purtroppo compare in diversi commentari i cui autori, trovando delle analogie con il racconto del cieco muto (indemoniato) reperibile in 12.22, sostengono essere il medesimo. È però chiaro che Matteo, che non scrisse il suo Vangelo con disattenzione, non poteva ripetersi e per questo distingue il muto dal cieco muto nonostante sia identica la reazione dei Farisei sostenenti che, se i demoni uscivano dalle persone, era perché Gesù li scacciava con l’aiuto del loro principe. Questa frase, una volta escogitata, verrà presa quasi come norma e ripetuta altre volte dagli avversari di Nostro Signore per spiegare gli esorcismi che operava. Loro intento era quello di confondere la folla, ammirata per quello che vedeva quando era Lui a intervenire: “Non si è mai vista una cosa simile il Israele”. Lasciando quindi l’episodio dell’indemoniato cieco muto ad un successivo commento, possiamo occuparci della versione di Luca, più ricca dal punto di vista dei dialoghi coi detrattori del Signore.

 

14Gesù stava scacciando un demonio che era muto. Uscito il demonio, il muto cominciò a parlare e le folle furono prese da stupore. 15Ma alcuni dissero: «È per mezzo di Beelzebul, capo dei demoni, che egli scaccia i demoni». 16Altri poi, per metterlo alla prova, gli domandavano un segno dal cielo. 17Egli, conoscendo le loro intenzioni, disse: «Ogni regno diviso in se stesso va in rovina e una casa cade sull’altra. 18Ora, se anche Satana è diviso in se stesso, come potrà stare in piedi il suo regno? Voi dite che io scaccio i demoni per Beelzebul. 19Ma se io scaccio i demoni per mezzo di Beelzebul, i vostri figli per mezzo di chi li scacciano? Per questo saranno loro i vostri giudici. 20Se invece io scaccio i demoni con il dito di Dio, allora è giunto a voi il regno di Dio»”.

 

Venendo all’episodio, è importante partire da Matteo perché leggiamo “Usciti costoro”, ancora una volta traduzione dettata dall’opportunità narrativa dall’originale “venendo fuori” che pone maggiormente l’accento sulla continuità dell’opera di Gesù che aveva appena guarito i due ciechi. Leggiamo poi “gli presentarono” che ci parla della solidarietà, penso di amici e/o parenti, che abbiamo già incontrato nel caso del paralitico che, sempre in quella stessa casa, fu calato dal tetto perché entrarvi era impossibile a causa della folla. A differenza di tutti gli altri infermi che lo avevano preceduto, l’indemoniato muto non sarebbe mai stato in grado di chiedere aiuto da solo. Mi spiego: l’handicap di quella persona era il mutismo e pertanto avrebbe teoricamente potuto andare da Nostro Signore ed esprimersi con Lui a gesti ma, essendo indemoniato, era impedito a farlo dallo spirito impuro che lo abitava. Di qui l’intervento di amici e parenti che glielo portarono.

Poi, in questo miracolo, di singolare c’è la causa del mutismo dovuta non a sordità, cecità o a un grave trauma infantile, ma al demonio che si era impossessato di quella persona lasciandolo così, incapace di comunicare senza che avesse manifestazioni considerate eclatanti come l’aggressività vista a Gherghesa. Da ciò consegue che Satana può servirsi non solo di uomini a lui soggetti per far male ad altri (indipendentemente dalla quantità), ma anche accanirsi su un singolo per danneggiarlo. Nella complessa trattazione dell’indemoniato di Gherghesa ho citato alcuni tipi di spiriti immondi in base a come si caratterizzano senza citare quello muto perché in un certo senso li compendia tutti in quanto rende chi è dipendente da questo spirito nell’impossibilità non solo di formulare qualunque concetto spirituale, ma neppure di concepirlo lontanamente. Si può essere muti anche parlando e si può parlare facendo del male anche senza essere indemoniati: tutto dipende dalla misura in cui si è abitati e da chi si è abitati. Nel caso dell’innominato protagonista dell’episodio lo spirito impuro gli impediva qualsiasi forma di comunicazione perché, se scopo del parlare è manifestare il proprio pensiero e volontà, limitarsi ad impedire il semplice interloquire non avrebbe avuto senso in quanto chi è muto ricorre a gesti, magari scrive o escogita altri sistemi. Oggi ad esempio, nei casi più gravi, ci sono tetraplegici o persone colpite da ictus gravi che riescono a comunicare guardando le lettere su uno schermo.

Tornando all’episodio sta di fatto che il demonio, in presenza di chi è più forte di lui, a un certo punto – e chiaramente dietro ordine di Gesù – non può fare altro che uscire provocando immediatamente una reazione vista nel cominciare a parlare. A questo punto Matteo riassume in poche parole quanto avvenne, mentre Luca dà più spazio alle reazioni dei presenti: ancora una volta le persone “normali” si stupiscono, ma i Farisei, compresi quelli venuti da Gerusalemme, spiegano, come abbiamo letto, il perché di quell’esorcismo. Alcuni di loro addirittura hanno una reazione forse peggiore, cioè chiedono “un segno per metterlo alla prova” o, come altri traducono “tentandolo”, cioè per avere altri elementi per deriderlo, ma ancora di più accusarlo. Da notare che quella gente non chiede un segno generico, ma “dal cielo”, cioè un avvenimento che fosse inequivocabilmente attribuibile a Dio, quale non riesco a comprendere, quasi che tutto quanto avvenuto anche solo quel giorno, cioè la guarigione della donna emorraissa, della giovanissima figlia di Giairo e dei due ciechi, non fosse sufficiente. A costoro Gesù non risponde nemmeno.

Interessante invece è il personaggio nominato, Beelzebul, o Beelzebub, riferentesi ad una divinità filistea da Baal (signore, padrone) e Zebub (mosca). “Zebul”, però, significava anche letame, idoli, oggetti offensivi e abominevoli per cui il nome può significare “Dio delle mosche” o “delle immondizie”. Era diventato il nome che gli ebrei davano a Satana , come in questo caso.

Siccome però l’ebraico, che se ci pensiamo è la lingua che parlava Dio con Adamo ed Eva e quella in uso prima della confusione a Babele, non può non avere una caratteristica spirituale, ecco che “zebul”, secondo un’accezione totalmente diversa, significa anche “casa, abitazione” per cui Baalzebul è anche il “Signore della casa” visto nel corpo della persona che abita. Ecco perché Gesù, dopo l’ovvio richiamo all’impossibilità che ha un regno diviso si resistere, passerà a parlare di un’abitazione, l’uomo, che non può che venire occupata dallo Spirito di Dio o da un demonio cacciato in precedenza.

Rimaniamo però ai nostri versi: “un regno diviso in se stesso va in rovina”. Col termine “regno” possiamo intendere qualunque sistema organizzato, quindi uno Stato indipendentemente dal tipo di governo, ma anche una famiglia oltre alla stessa, singola persona. Tutto ciò che ha una struttura ha bisogno di un’unitarietà di intenti, progetti, aspirazioni, mete. Quando, ad esempio nel rapporto di coppia, l’uomo e la donna agiscono in modo non tanto indipendente, quanto contrario alle esigenze e alle visioni dell’altro, inevitabilmente questo è destinato a sfaldarsi. E così tutti gli altri rapporti umani indipendentemente dal grado di parentela. Allo stesso modo una persona che subisce delle contraddizioni forti e violente, non in grado di gestire la coerenza, che oggi prova una cosa e domani il suo esatto contrario, non può che sdoppiarsi all’estremo e vivere in una condizione meschina che gli precluderà un rapporto sano col prossimo oltre che con se stesso. Questo è uno dei motivi per cui è scritto “Dio non è un dio di confusione, ma di ordine” (1 Corinti 11.33), frase riferita alle assemblee di una Chiesa e alla Chiesa stessa indipendentemente dalla regione in cui si colloca. Anche lei, certo parlando di quella locale, può sfaldarsi e conoscere defezioni fino a estinguersi, spegnersi, trasformarsi in un’organizzazione in cui prevalgono tradizioni, credenze e riti estranei alla fede.

Quindi Gesù, parlando ai Farisei, fa un primo enunciato sul fatto che Satana ha un regno ben organizzato e non può cacciare se stesso; se mai sappiamo che “si traveste da angelo di luce”, altra frase che aprirebbe considerazioni infinite sulle presunte manifestazioni ritenute “sacre” nella storia anche recente. Il regno di Satana, poi, deve sussistere fino a quando non sarà distrutto, per cui questo personaggio non può permettersi che l’uomo possa venire guarito o salvato. E Gesù era ed è l’unico in grado di potersi a lui opporre.

A questo punto ecco una domanda che ammutolì i detrattori di Gesù: “Se io scaccio i demoni per mezzo di Beelzebul, i vostri figli per mezzo di chi li scacciano?” (v.19). Questa frase ci consente di aprire una parentesi storica. I Padri della Chiesa hanno creduto di riconoscere ne “i vostri figli” gli apostoli in quanto ebrei, ma si tratta di un’ipotesi che non regge anche perché, a quel tempo, nessuno di loro aveva ancora compiuto un miracolo a parte quando furono inviati in missione. Piuttosto sappiamo da Giuseppe Flavio e da un episodio in Atti 19.13 che in Israele a quel tempo c’erano degli esorcisti che ogni tanto qualche risultato lo ottenevano. Si badi bene: ogni tanto, perché altrimenti gli indemoniati li avrebbero portati a loro e non a Gesù. Ebbene questi esorcisti appartenevano alla cerchia degli Scribi e Farisei, più precisamente erano dei loro discepoli che venivano chiamati “figli dei Profeti”.

Gli esorcisti di allora vanno inquadrati nella dispensazione della Legge, in cui la loro efficacia era direttamente proporzionale a quella della Legge stessa paragonata a quella della Grazia che Gesù era venuto ad annunciare non senza adempiere compiutamente quella precedente. Ricordiamoci bene del cortocircuito che si scatenò nel passo di Atti 19.13-16: “Alcuni giudei, che erano esorcisti itineranti, provarono anch’essi a invocare il nome del Signore Gesù sopra quanti avevano spiriti cattivi, dicendo: «Vi scongiuro per quel Gesù che Paolo predica». Così facevano i figli di un certo Sceva, uno dei capi dei sacerdoti, giudeo. Ma lo spirito cattivo rispose loro: «Conosco Gesù e so chi è Paolo, ma voi chi siete?». E l’uomo che aveva lo spirito cattivo si scagliò contro di loro, ebbe il sopravvento su tutti e li trattò con tale violenza che essi fuggirono da quella casa nudi e coperti di ferite”.

Sta di fatto che comunque Scribi e Farisei avevano i loro esorcisti e che credevano nelle loro imprese, ma a questo punto dovevano spiegare chi stava realmente dietro a tutto: anche “i loro figli” scacciavano i demoni per Beelzebul? Quegli uomini certo non potevano rispondere affermativamente. Non solo, ma sarebbero stati quegli stessi esorcisti a giudicarli, per cui facessero attenzione alle loro parole.

La conclusione quindi è: nel momento in cui Satana non può cacciare se stesso, se Gesù lo mandava via con “il dito di Dio”, espressione che si rifaceva all’intervento persona di YHWH, altro non poteva significare che era giunto a loro quel regno che con estrema ostinazione rifiutavano.

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07.14 – I FACILI ENTUSIASMI DI FRONTE AL VANGELO: TRE PERSONAGGI (3/3) (Luca 9.61-62)

7.14 – I facili entusiasmi di fronte al Vangelo 3/3: il discepolo irrisoluto (Luca 9.61-62)

61Un altro disse: «Ti seguirò, Signore; prima però lascia che io mi congedi da quelli di casa mia». 62Ma Gesù gli rispose: «Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio».”

Con questi versi di Luca terminano tre ritratti di discepoli che, secondo una mia classificazione, ho ritenuto dedicati ai facili entusiasmi. Scriba a parte abbiamo avuto il discepolo “temporeggiatore” che si era appellato alla pietas nei confronti del proprio padre, ora è il turno di quello “irrisoluto”, che in comune al precedente ha il voler anteporre qualcosa a Gesù: uno si appella al comandamento “Onora tuo padre e tua madre” dandone un’interpretazione personale e l’altro, se come credo frequentasse la Sinagoga e ne fosse quindi a conoscenza, all’episodio in cui Elia chiama Eliseo a seguirlo di cui troviamo testimonianza in 1 Re 19.19-21: “Partito di lì(dopo un colloquio con Dio sul monte Oreb), Elia trovò Eliseo, figlio di Safat. Costui arava con dodici paia di buoi davanti a sé, mentre egli stesso guidava il dodicesimo. Elia, passandovi vicino, gli gettò addosso il suo mantello. Quello lasciò i buoi e corse dietro a Elia, dicendogli: «Andrò a baciare mio padre e mia madre, poi ti seguirò». Elia disse: «Va’ e torna, perché sai che cosa ho fatto per te». Allontanatosi da lui, Eliseo prese un paio di buoi e li uccise; con la legna del giogo dei buoi fece cuocere la carne e la diede al popolo, perché la mangiasse. Quindi si alzò e seguì Elia, entrando al suo servizio”.

Capire questo episodio, che presenta una richiesta molto simile a quella raccontata da Luca, è molto importante, non senza sottolineare che in entrambi gli àmbiti viene nominato l’aratro. Prima di tutto Elia non incontrò Eliseo a caso, ma Dio stesso gli aveva parlato di lui: “Ungerai Eliseo (…) come profeta al tuo posto” (Ibid., v.16).

Dal numero dei buoi, importante perché abbiamo il dodici e il ventiquattro, deduciamo che Eliseo apparteneva a una famiglia facoltosa ed era intento nel proprio lavoro, particolarmente impegnativo perché per utilizzare quella quantità di animali l’aratro doveva rivoltare il terreno molto in profondità, altrimenti sarebbero stati sufficienti uno o due animali.

Elia, passando e proseguendo il cammino, getta il proprio mantello su Eliseo che capisce immediatamente il significato di quel gesto: il mantello simboleggiava la personalità e i diritti di chi lo possedeva; quello di pelo dei profeti era il loro abito ufficiale (2 Re 1.8; Zaccaria 13.4) e il gettarlo su un altro costituiva una specie di investitura e iniziazione. Ciò fu subito capito da quel giovane, che fu costretto a lasciare i buoi e correre dietro ad Elia, fermarlo e dirgli che, prima di seguirlo, sarebbe andato a baciare suo padre e sua madre. La risposta del profeta non è tradotta da tutti traducono allo stesso modo: la nostra versione, tratta dalla Bibbia di Gerusalemme, interpreta il senso, “Va’ e torna, perché sai cos’ho fatto per te”, alludendo al gesto del mantello e a ciò che implicava; altri invece hanno:

 

  1. Ricciotti: “Va’ e torna, perché quello che toccava a me io l’ho fatto”;
  2. Luzzi: “Va’ e torna, ma prima pensa a quel che t’ho fatto”;
  3. Diodati 1607:“Va’ e torna, perciocché che t’ho io fatto?”;
  4. Diodati Riv.: “Va’ e torna, perché sai che ti ho fatto?

 

Deduciamo allora dal testo che Eliseo abbia ottenuto il permesso da Elia a recarsi dai suoi, ma tenendo presente l’elezione che aveva appena ricevuto. Elia non aveva gettato il suo mantello a caso, ma in obbedienza a un ordine ricevuto e leggiamo che Eliseo andò non solo ad accomiatarsi dai suoi, ma che sacrificò due buoi, distrusse i suoi attrezzi da lavoro bruciandoli per cuocere le carni degli animali dandole al popolo perché mangiasse, tutti segni inequivocabili coi quali rinunciava alla sua vita passata, ricchezza della sua famiglia compresa, non avendo una moglie e dei figli a cui provvedere.

Sappiamo che anche Matteo, dopo la chiamata di Gesù, offrì un banchetto attraverso il quale dava l’addio alla vita che aveva fino a quel momento condotto. Andrea, Pietro, Giacomo e Giovanni, prima di venire chiamati da Gesù a seguirlo definitivamente, ebbero del tempo per trarre le loro conclusioni su di Lui come del resto il nostro Evangelista, che prima di seguirlo ne sentì molto parlare.

Tornando a Eliseo, un segno eloquente del fatto che avesse compreso l’onore di avere il mantello lo vediamo dalla prontezza con la quale, ricevutolo, abbandonò i buoi: già lì capiva che l’aratura apparteneva ormai al suo passato. Eliseo prese commiato dai suoi non sapendo se avrebbe potuto far ritorno a loro o se per lui ci sarebbero potuti essere altri piani, per cui possiamo notare la docilità e la flessibilità con la quale offerse la propria vita non ad Elia, quanto a Dio che in quel momento era da lui rappresentato. Se ad Eliseo fu concesso di andare a salutare i suoi genitori, ci chiediamo perché Gesù non rispose consentendo a quel discepolo di fare altrettanto.

Evidentemente, conoscendo quello che realmente risiedeva nel cuore dell’uomo, Gesù sapeva che quella persona aveva ancora dei conti in sospeso con il suo passato, non era disposto ad abbandonare ciò che aveva e il desiderio di avere un ultimo contatto coi suoi famigliari era indice di un attaccamento dal quale difficilmente si sarebbe liberato. E il fatto che Nostro Signore stesse per salire sulla barca o andasse verso Gerusalemme secondo Luca, è irrilevante, non c’era tempo: il discepolo irrisoluto era “inadatto al regno di Dio” per tutto questo insieme di motivi.

Ogni vero cristiano ha avuto una chiamata, profondamente diversa l’uno dall’altro e allo stesso tempo comune: un giorno, ha incontrato Gesù e gli ha risposto e subito ha dovuto lasciare qualcosa perché ha scoperto di non essere più quello di prima. Il nocciolo è tutto qui e il resto, l’abbandono di metodi di comportamento, reazioni, azioni che in precedenza erano comuni a tutti gli altri esseri umani, viene col tempo, con la maturità e la pratica perché il credente non è catapultato in un mondo nuovo in cui tutto risulta facile, ma al contrario cresce, come abbiamo visto nella parabola del seminatore, “con sofferenza”. Per questo coloro che hanno compiti di responsabilità nella Chiesa dovrebbero mettere in pratica il discernimento, cercando di raffreddare gli entusiasmi dei giovani anziché agevolarli, invitandoli a tenere i piedi accuratamente per terra affinché possano verificare prima di tutto la loro eventuale vocazione. Ricordiamo l’esortazione, valida per tutti sempre e comunque, ad essere sì “Semplici come colombe”, ma “Prudenti come serpenti” (Matteo 10.16).

Esaminiamo ora le parole di Gesù a quel discepolo, “Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto al regno di Dio”: l’aratura è un’operazione più complessa di quanto si creda. Non può essere fatta in qualsiasi stagione, richiede condizioni precise del terreno che non può essere troppo secco, né troppo umido. L’aratura, a prescindere dalla profondità con la quale l’aratro deve scavare, dev’essere uniforme, cosa possibile solo se chi a quell’epoca guidava gli animali non si distraeva perché, lasciando delle zone vuote o irregolari, ne avrebbe risentito la semina successiva. Chi arava il campo poteva fermarsi a riposare, ma poi doveva riprendere dal punto di sosta con la stessa intensità e proseguire.

Notiamo che qui Gesù non parla di distrazione, ma di voltarsi indietro: chi si comporta così è perché rimpiange qualcosa, perché ciò che ha lasciato è ancora per lui vincolante. Voltarsi, significa perdere di vista ciò che è davanti. Se ciò si verifica non sta a significare che alla persona sia preclusa la grazia, ma che questa non è ancora pronta per il discepolato che richiede abnegazione. L’aratro rappresenta ciò che c’è da fare, la missione, il compito che ogni credente ha, fosse anche “solo” quello di pregare, di ascoltare, di frequentare i radunamenti della Comunità alla quale appartiene. In poche parole, compiere il proprio pellegrinaggio.

Spesso mi capita di analizzare ciò che ho fatto: vedo cose positive e negative, gli errori anche gravi che ho commesso per immaturità e perché ciò che il mondo insegna quando si proviene da ambienti non veramente cristiani, penalizza; ho avuto esempi positivi e negativi e spesso ho seguito i secondi anziché i primi. Ma ringraziando il Signore questi appartengono a un passato che non mi è consentito rivisitare a livello nostalgico perché non mi posso voltare indietro, come tutti i miei fratelli e sorelle. O meglio, se lo facessi, rimpiangendo ambienti e persone, perderei quello che ho costruito e poi dovrei ricominciare da capo ritrovandomi profondamente umiliato. Mi rendo conto della complessità del ragionamento e, fortunatamente, non tutti hanno avuto le mie esperienze, frutto comunque di mancati calcoli e irresponsabilità giovanile. E colossali fraintendimenti. Anch’io, quando il Signore mi ha chiamato a seguirlo, penso di aver risposto in modo non adeguato, di non aver lasciato quanto dovevo e di avere fatto dei compromessi. Dico questo per non dare di me, eventualmente, l’impressione di colui che condanna i personaggi negativi narrati nel Vangelo.

Voltarsi indietro è spesso un’azione che implica quella di tornare a ciò che si era, come in Ebrei 10.37,38: “Ancora un poco, un poco appena, e colui che deve venire verrà e non tarderà. Il mio giusto per fede vivrà, ma se cede, non porrò in lui il mio amore”. Sono parole pesanti, rivolti a quelli che “cedono” nel senso di abbandonare volontariamente il percorso stabilito per loro. Si può tornare a vecchie abitudini, usi, modo di ragionare anche solo rimpiangendoli, come fu per la moglie di Lot, evento facile da connettere all’episodio, che nonostante fosse stata avvertita, si voltò indietro quando Sodoma e il suo territorio venivano distrutti. Perché voltarsi è il primo passo, rivelatore di una mancata realizzazione di uno stato, come quello della liberazione dal peccato, dando retta alla carne.

Posso dire che questo episodio parla comunque a tutti i cristiani, indipendentemente dal fatto che siano discepoli, o semplici credenti: quello che abbiamo da compiere, dobbiamo farlo per non venire rimproverati, tenendo sempre a mente le parole di Gesù, “Chi mette mano all’aratro– cioè inizia un cammino di lavoro e fatica per il Signore – e si poi volta indietro, non è adatto al regno di Dio”. Direi che la Scrittura è piena di esempi, positivi e negativi in proposito, ed è bello considerare Romani 15.4: “Tutto ciò che è stato scritto prima di noi, è stato scritto per nostra istruzione perché, in virtù della perseveranza e dalla consolazione che provengono dalle Scritture, teniamo viva la speranza”. Perché non c’è prova, sofferenza o situazione che altri non abbiano provato prima di noi: “Siate sobri, vegliate. Il vostro nemico, il diavolo, come un leone ruggente va in giro cercando chi possa divorare. Resistetegli saldi nella fede, sapendo che le medesime sofferenze sono imposte ai vostri fratelli sparsi per il mondo” (1 Pietro 5.8,9). È la vita. Sono scelte fatte sulla terra. Amen.

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07.12 – I FACILI ENTUSIASMI DI FRONTE AL VANGELO: TRE PERSONAGGI (1/3) (Matteo 8.18-22)

7.12 – I facili entusiasmi di fronte al Vangelo (1/3) (Matteo 8.18,22)

 

18Vedendo la folla attorno a sé, Gesù ordinò di passare all’altra riva. 19Allora uno scriba si avvicinò e gli disse: «Maestro, ti seguirò ovunque tu vada». 20Gli rispose Gesù: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo». 21E un altro dei suoi discepoli gli disse: «Signore, permettimi prima di andare a seppellire mio padre». 22Ma Gesù gli rispose: «Seguimi e lascia che i morti seppelliscano i loro morti».

 

            Questo episodio è riportato da Matteo e da Luca, per quanto in contesti differenti: il primo lo colloca poco prima che Gesù partisse alla volta del territorio di Gadara, il secondo nel corso del Suo ultimo viaggio verso Gerusalemme. Il racconto di Luca è interessante perché, pur riportando le stesse parole di Matteo, aggiunge l’intervento di un terzo discepolo, o aspirante tale (cap. 9).

 

61Un altro disse: «Ti seguirò, Signore; prima però lascia che io mi congedi da quelli di casa mia». 62Ma Gesù gli rispose: «Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio».”

 

Se è facile pensare che l’incontro con questi tre personaggi sia effettivamente avvenuto lungo la strada per Gerusalemme come raccontato da Luca, non è neppure da escludere che, tra la folla presente alla partenza di Gesù per “l’altra riva” corrispondente al territorio della Decapoli, quindi Hippos, fossero stati presenti questi uomini che gli si avvicinarono. Il primo è uno scriba, il secondo un discepolo, del terzo non ci è detto quale posizione avesse, ma di certo non era rimasto indifferente al messaggio e allo stile di vita di Gesù a tal punto da dirgli “Ti seguirò, Signore”, frase espressa al futuro, quindi già sottintendendo che prima aveva qualcosa da fare.

 

LO SCRIBA

Abbiamo già avuto modo di parlare di questa categoria di persone: istruivano il popolo nella Legge, rappresentavano accanto ai farisei il potere religioso e, tutti loro assieme sadducei, quello politico nel Sinedrio. Chi di loro si fosse apertamente schierato dalla parte di Gesù, sarebbe stato estromesso dalla Congregazione di Israele e non avrebbe potuto partecipare alle assemblee della sinagoga, nessuno gli avrebbe più parlato, né lo avrebbe salutato, né instaurato rapporti di qualsiasi tipo con lui. “Ti seguirò ovunque tu vada”, era quindi una frase molto impegnativa anche sotto questo aspetto, oltre che rappresentare una confessione esplicita del fatto di non sapere, di voler lasciarsi alle spalle credenze religiose magari belle nella forma, ma inutili per la salvezza.

La risposta di Gesù, “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”, è illuminante: dichiarandosi “Figlio dell’uomo”, Gesù, sapendo con chi parlava, ricorda allo scriba la definizione che Daniele diede di Lui in 7.13,14: “Ecco venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio d’uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui. Gli furono dati potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano: il suo potere è eterno, che non finirà mai e il suo regno non sarà mai distrutto”. Quindi a quello scriba viene data una rivelazione e al tempo stesso una conferma, nel senso che viene avvisato prima di tutto – o gli si conferma a seconda di come vogliamo interpretare la frase – che Colui che desiderava seguire era il “Figlio dell’uomo” visto da Daniele. Non si dichiarò così solo a lui, ma fu una definizione che usò molto spesso: addirittura, parlando coi Giudei e definendosi in tal modo, quelli non capendolo gli dissero “Noi abbiamo appreso dalla Legge che il Cristo rimane in eterno; come puoi dire che il Figlio dell’uomo dev’essere innalzato? Chi è questo Figlio dell’uomo?” (Giovanni 12.34). Rivelavano così la loro ignoranza.

Con la frase “…mail Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”, allora, Gesù avverte quello scriba che, seguendolo “ovunque” lui fosse andato, avrebbe dovuto accettare di condurre la Sua stessa vita, come avevano fatto i dodici, che ne condivisero l’incessante attività missionaria. Tutto lascia supporre che, dopo quelle parole, anziché montare su una delle barche, se ne sia tornato a casa.

Mi sono chiesto cosa vogliono dire per noi oggi queste parole, “non ha da posare il capo”, partendo dal presupposto che gli evangelisti riportano i detti di Gesù in modo tale che parlino ai credenti di ogni tempo. Vero è che l’attività missionaria non si può fermare, ma va tenuto conto dei doni ricevuti e soprattutto bisogna chiedersi se seguire Cristo debba per forza consistere nel girare il mondo a predicare, oppure non si tratti di perseguire un’attività incessante che consista nell’essere presenti dove occorre e assenti quando la nostra presenza è inutile; in altri termini, selezionare le attività, gli impegni, le compagnie, gli interventi. Chiederci se, dove andiamo o mentre facciamo qualcosa, possiamo portare Cristo con noi o sarebbe “meglio” lasciarlo da parte, anche nei nostri pensieri. Credo che anche questo sia un impegno totale, perché “svestire l’uomo vecchio con i suoi atti e rivestire il nuovo” (Colossesi 3.10) non sempre è facile. Non è poco, nessuno ci obbliga a farlo, è una libera scelta, una pratica che si sviluppa negli anni e dura tutta la vita. È un’attività che conosce successi ed insuccessi.

Per far questo alcuni scelgono di chiudersi in un monastero, altri si fanno eremiti, ma si può sempre portare i germi del mondo dentro di sé e non risolvere nulla, finendo per creare delle comunità, grandi o piccole, in cui si pensano e si fanno le stesse cose degli “altri”, per quanto in pochi. L’apostolo Paolo in 1 Corinti 5.9,10 scrive “Vi ho scritto nella lettera precedente– c’è chi sostiene sia andata perduta – di non mescolarvi con gli impudichi. Non mi riferivo però agli impudichi di questo mondo o agli avari, al ladri o agli idolatri: altrimenti dovreste uscire dal mondo!”. È quindi necessario mantenere il proprio equilibrio, assimilare realmente il concetto del pellegrinaggio, contrastare la carne conoscendo i nostri limiti e andando a combattere là dove siamo sensibili perché, nonostante il mondo sia fondato sul trinomio soldi – sesso – potere, non tutti subiamo le stesse tentazioni.

Infatti Giacomo 1.14 scrive “Ciascuno è tentato dalla propria concupiscenza che lo attrae e lo seduce”. E l’attrazione è una forza naturale che spinge al contatto, mentre la seduzione consiste nell’indurre una persona a fare qualcosa quasi senza che questa se ne renda conto. Contrastare la “propria concupiscenza” credo sia un’attività incessante come quella di chi deve tenere pulita una casa che si trova a ordinare e togliere una polvere che si riformerà continuamente. Eppure, nonostante la si possa considerare come una battaglia sotto certi aspetti persa in partenza, lo si fa per non avere magari allergie, problemi respiratori, per igiene.

Ancora in 1 Corinti leggiamo “…anzi tratto duramente il mio corpo e lo riduco in schiavitù perché non succeda che, dopo aver predicato agli altri, io stesso venga squalificato” (9.27). Nemmeno Paolo aveva “dove posare il capo”. Nessuno che voglia applicarsi seriamente nelle cose di Dio lo ha, e infatti nei versi precedenti viene fatto il paragone con l’atleta che si allena “per ottenere una corona che appassisce, noi invece una che dura per sempre” (v.25).

Per il cristiano non avere “dove posare il capo” è leggere la propria vita alla luce della Parola, porre una scala di valori, usare il setaccio, accogliere o separare, gettare o mettere da parte, fondare la propria casa su Cristo perché non crolli quando verranno le piogge, strariperanno i torrenti o soffieranno i venti.

Alla luce della frase “Il figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”, non sarebbe giusto parlare solo dell’essere umano perché Gesù accentra prima di tutto quella definizione su di lui ed è rivolta allo scriba – e quindi a noi – per riflesso. Egli infatti era “…cresciuto come un virgulto davanti a lui e come una radice in terra arida. Non ha apparenza né bellezza da attirare i nostri sguardi, non splendore per poterci piacere. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia; era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima. Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori; e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti” (Isaia 53.2,5).

Tutto il capitolo sarebbe da studiare, e lo faremo tra breve, ma quanto riportato può bastare ai nostri scopi: Gesù è cresciuto davanti al Padre come un virgulto, cioè un ramoscello sottile, oppure un arbusto; quindi, andando alle parabole, fu anche lui una piantina, una “radice” che dovette crescere e svilupparsi non in un “buon terreno”, ma in una “terra arida”, quindi con sofferenza, patimenti, difficoltà, avversità. Contrariamente alle rappresentazioni che il mondo religioso-pagano ha dato di Lui, non era una persona che si distinguesse per aspetto e fu “disprezzato e reietto dagli uomini” per le realtà così distanti da loro che predicava. Ciò nonostante, non obbligato da qualcuno, ma per libera scelta, si fece carico della nostra condizione di peccato subendone le conseguenze come se ne fosse stato l’agente, il responsabile, portandone il castigo sulla morte infamante della croce.

Conoscete la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà” (2 Corinti 8.9): con la sua morte, Gesù ha trasmesso quindi a tutti quelli che avrebbero creduto in Lui la sua ricchezza, rinunciandovi per tutta la sua vita terrena. Un Dio che muore è, per gli ebrei e teoricamente per gli uomini tutti, un controsenso: non credendo alla resurrezione, si fermano alla sua morte, che senza il non risorgere sarebbe stata totalmente inutile come i miracoli, la predicazione, le promesse.

Ecco, fino alla morte Gesù non ebbe dove posare il capo, tutto questo solo per l’interesse degli uomini che in lui avrebbero creduto, perché viceversa i loro nomi non sarebbero mai stati scritti nel libro della vita che non avrebbe mai potuto essere aperto. E qui rimango muto perché trovare le parole è impossibile. Posso solo pensare al silenzio “per circa mezzora” che si fece in cielo “quando l’Agnello aprì il settimo sigillo”, l’ultimo, quello che consentirà la lettura di quel libro (Apocalisse 8.1). Quel “cielo” che fino ad allora si era riempito di lodi, di vita, di anime, di parole, di eventi, di angeli e creature celesti, allora tacque perché l’eternità stava per incontrarsi con il tempo. Perché questo potesse realizzarsi il Figlio dell’uomo non aveva ove posare il capo. Amen.

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07.11 – I PARENTI DI GESÙ (Luca 8.19-21)

7.11 – I parenti di Gesù (Luca 8.19,21)

 

“19E andarono a lui la madre e i suoi fratelli, ma non potevano avvicinarlo a causa della folla. 20Gli fecero sapere: «Tua madre e i suoi fratelli stanno fuori e desiderano vederti» 21Ma egli rispose loro: «Mia madre e i miei fratelli sono questi: coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica»”.

 

            Si tratta di un episodio difficilmente collocabile nel tempo: alcuni commentatori che hanno preso in esame il Vangelo da un punto di vista cronologico, prudentemente lo omettono, mentre l’abate Ricciotti lo pone all’interno del capitolo dedicato al “ministero spicciolo” in cui prende in esame le donne al seguito di Gesù, prima della tempesta sedata e dell’indemoniato di Gadara e dell’esposizione delle parabole del regno. La lettura dei sinottici per collocare l’episodio, in effetti, non ci aiuta: Matteo scrive che avvenne dopo una disputa coi farisei, quando “mentre parlava alla folla, ecco, sua madre e i suoi fratelli stavano fuori e cercavano di parlargli. Qualcuno gli disse: «Ecco, tua madre e i tuoi fratelli stanno fuori e cercano di parlarti». Ed egli, rispondendo a chi gli parlava, disse: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?». Poi, tendendo la mano verso i suoi discepoli, disse: «Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, egli è per me fratello, sorella e madre».” (12.46-50). Anche Marco ci presenta un contesto simile, che ci potrebbe far pensare al pranzo a casa del fariseo Simone, ma non ciò può essere per un particolare: “Entrò in una casa e di nuovo si radunò una folla, tanto che non potevano neppure mangiare. Allora i suoi, sentito questo, uscirono per andare a prenderlo; dicevano infatti: «È fuori di sé»” (3.20,32). Qui l’evangelista Marco prosegue con il principio dell’impossibilità, da parte di Satana, di cacciare se stesso e poi riferisce della madre e dei fratelli di Gesù con parole simili. Luca, come abbiamo letto, pone quest’intervento tra l’ultima parabola del regno e l’ordine ai discepoli di passare “all’altra riva”. Personalmente ritengo che questa collocazione temporale sia preferibile, più agevolmente inquadrabile, poiché all’umanissimo, carnale tentativo da parte dei parenti di Gesù di “farlo ragionare” corrisponde l’inizio del Suo viaggio missionario al seguito degli apostoli e dei discepoli.

Secondo la mia lettura, quindi, avremmo una giornata in cui vi fu il pranzo da Simone con l’episodio della peccatrice innominata, il discorso alla folla in parabole, la spiegazione di esse e l’esposizione di altre in una casa, in privato ai discepoli, l’arrivo dei suoi parenti che lo volevano far desistere dalla sua attività e quindi la partenza verso l’altra riva del mare di Galilea, verso sera. Ciò confermerebbe, a proposito delle giornate molto impegnative di Gesù, quanto avvenne poco prima della loro partenza: “Vedendo la folla attorno a sé, Gesù ordinò di passare all’altra riva. Allora uno scriba gli si avvicinò e gli disse: «Maestro, ti seguirò ovunque tu vada». Gli rispose Gesù: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo»” (Matteo 8.18,20).

Venendo all’episodio ed armonizzando i tre racconti, è Marco a rivelarci che la madre e i fratelli di Gesù si mossero quando seppero della folla radunata per ascoltarlo e che lui predicava e insegnava instancabilmente: per la seconda volta abbiamo così una reazione umana soprattutto da parte di Maria nei confronti di un figlio da cui si aspettava un comportamento umanamente comune a quello di tutti gli altri. Ricordiamo quando, dodicenne, lo aveva cercato con seria preoccupazione con Giuseppe quando seppe che non era con la carovana al rientro da Gerusalemme e lo aveva trovato, “dopo tre giorni” di ricerche, “in mezzo ai maestri, mentre li ascoltava” (Luca 2.46). Già allora, se le avesse realmente acquisite, Maria avrebbe dovuto ricordarsi delle parole dell’angelo Gabriele e delle profezie dell’Antico Patto che riguardavano suo figlio. Ricordiamo le parole: “Rallegrati, o favorita dalla grazia, il Signore è con te.(…) Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio (YHWH)gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine” (Luca 1.28-33). Tutto questo senza contare l’assistenza avuta in Egitto, quando lei, Giuseppe e Gesù scamparono dal progetto omicida di Erode il Grande grazie all’angelo in sogno che li avvertì.

Maria quindi, tornando all’annunciazione, era stata destinataria di un messaggio assolutamente esclusivo da parte di Dio: aveva “trovato grazia” presso di Lui ed era stata “favorita”. Le era stato detto “Non temere” e spiegato chi sarebbe diventato colui che avrebbe partorito, eppure nonostante tutto era stata in angoscia perché non lo trovava, cercandolo sempre più ansiosamente per tre giorni, e adesso chiede aiuto agli altri figli ritenendo Gesù “fuori di sé”. Quindi tutti loro, col comportamento adottato, confermano la nota di Giovanni 7.5 “Neppure i suoi fratelli credevano in lui”, ma non solo: nonostante molti commentatori del ramo cattolico romano abbiano cercato di attenuare il significato della definizione “è fuori di sé”, qui imbarazzante soprattutto perché Maria la condivideva, lo troviamo solo nell’episodio in cui fu definito nello stesso modo dai Giudei: “Molti di loro dicevano: «È indemoniato ed è fuori di sé; perché state ad ascoltarlo?». Altri dicevano: «Queste parole non sono di un indemoniato; può forse un demonio aprire gli occhi ai ciechi?»” (Giovanni 10.20,21).

Ciò che pensavano Maria e i fratelli di Gesù era quindi frutto di un ragionamento umano, di un metro valutativo che evidentemente aveva concluso che quanto stava avvenendo, cioè tutta quella massa di gente e l’ennesimo predicare, andava fermato o quanto meno ridotto: erano stanchi di quella notorietà, consideravano tutto quanto Gesù faceva come qualcosa di inopportuno perché non si comportava come gli altri, non pensava a condurre quella vita tranquilla e semplice fatta di lavoro e famiglia che conducevano tutti in paese. Omologazione, insomma, sottintendendo che, se proprio voleva, poteva anche predicare e far miracoli, ma a tutto c’era un limite. L’omologazione, il livellarsi alle usanze del “mondo” è però il ragionamento tipico di chi non crede né ha idea di cosa significhi avere un preciso mandato da Dio. L’apostolo Paolo lo evidenzia in una breve frase: “Se siamo stati fuori di senno, era per Dio; se siamo assennati, è per voi” (2 Corinti 5.13), cioè il confronto “fuori di senno” – “assennati” sottolinea la differente lettura tra ciò che viene reputato dal mondo che non ha la minima conoscenza della sfera spirituale e chi invece sì. Al verso successivo infatti leggiamo “L’amore del Cristo ci possiede”.

È infatti l’amore del Cristo, quindi quello che ha provato lui per noi, che spinge inevitabilmente chi crede a comportarsi in modo naturalmente diverso da quello che ha chi non lo conosce. Quanti hanno provato gli effetti della Parola di Dio non possono che testimoniare quanto leggiamo in Ebrei 4.12,13: “…è viva, efficace e più tagliente di una spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture delle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore. Non vi è creatura che possa nascondersi davanti a Dio, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi di colui al quale noi dobbiamo rendere conto”.

Ebbene Gesù, quale Dio Onnisciente, sapendo della presenza di madre e fratelli prima che una persona premurosa lo informasse, non poteva che rimarcare la divisione tra ciò che appartiene al mondo materiale e a quello spirituale: non caccia via i suoi parenti, non li umilia sgridandoli, ma è cosciente del fatto che, al momento, la loro realtà è quella che è sapendo che alcuni, fra i quali proprio la madre, lo avrebbero in seguito accettato in piena coscienza come loro salvatore. Fino a quando le relazioni umane di parentela avrebbero preso il sopravvento su quelle spirituali, non avrebbero avuto alcun senso, cioè sarebbero state fuori luogo per la vera realtà, per l’essenza, la struttura del rapporto che avrebbe dovuto intercorrere fra creatura e Creatore o, meglio, tra quelli “nati da Dio” e Colui che li ha generati.

Ricordiamo il dialogo con Nicodemo? Fu il primo in cui Gesù pose chiaramente il confine, la netta separazione tra la nascita umana in cui si trasmette la vita “per volontà di carne” e quella nuova, “d’acqua e di spirito” in cui davvero si nasce chiedendolo e non senza subire l’ingresso in un mondo di cui, almeno per quanto mi riguarda, avrei sotto certi aspetti fatto volentieri a meno. Prima di nascere di nuovo, non sapevo che la mia vita poteva avere un senso, una strada, venire costruita su un progetto non transitorio, destinato ad esaurirsi con la mia morte.

Tornando al testo è chiaro che l’ignoto che informò Gesù della presenza dei parenti che volevano parlargli, lo fece ad alta voce, ascoltato dai presenti; questo Gli diede l’occasione per un altro insegnamento: la domanda “Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?” viene formulata per avere una risposta che sarebbe stata logica per i suoi uditori. Invece Nostro Signore risponde con un atteggiamento particolare: guarda tutte quelle persone sedute girando lo sguardo (Marco), tende la mano verso i discepoli (Matteo) e dice “Ecco mia madre e i miei fratelli!”, parole che fanno irruzione nella mente perché  tradizionalmente si vede nel vincolo famigliare qualcosa di assolutamente preferenziale, riservato, intimo perché in famiglia si cresce, non è detto nell’amore e nella comprensione reciproca, ma comunque a lei si appartiene.

Le parole successive di Gesù spiegano il concetto: “Mia madre e i miei fratelli sono questi: coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica”, le due fasi della vita cristiana, ascoltare (ritenendo) e mettere in pratica, impossibile l’una senza l’altra.

Fra l’altro la risposta di Gesù credo risolva una volta per tutte la controversia sul termine “fratello”, con la quale nel mondo antico potevano indicarsi anche i cugini, che poi è “il cavallo di battaglia” di coloro che sostengono che Maria sia rimasta vergine dopo il parto – ma perché avrebbe dovuto, anche dottrinalmente parlando? – e che non abbia avuto altri figli: Gesù è detto spiritualmente “il primogenito di molti fratelli” (Romani 8.29), non cugini che renderebbe il verso assurdo, così come non avrebbe senso che chi ascolta e mette in pratica la Parola sia un cugino del Signore.

Dicotomia ancora maggiore fu espressa in un altro episodio in cui una donna espose un altro concetto che lasciava trasparire un orgoglio tipicamente femminile: “«Beato il grembo che ti ha portato e il seno che ti ha allattato!» Ma egli disse: «Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano»” (Luca 11.27,28).

Cosa significhi “osservare” lo troviamo spiegato in Romani 12.2: “Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto”. Abbiamo qui le due basi dalle quali partire per una vita cristiana florida: non conformarsi, cioè “non rendersi come”, quindi non essere quelli di prima, e “lasciarsi trasformare”, cioè seguire senza resistenza quella naturale corrente che Dio attiva in modo naturale col canale dello Spirito. È una corrente che possiamo rallentare e fermare solo noi, e purtroppo lo facciamo quando agiamo più o meno consciamente volendo essere noi a guidare. Se però ci lasciamo condurre dove Lui vuole, il risultato sarà il discernimento tra ciò che è buono oppure no e la sua messa in pratica. Amen.

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07.02 – LE PARABOLE DEL REGNO, INTRODUZIONE

7.02 – Le parabole del regno (Introduzione)

 

            Tutti i sinottici, scrivendo del periodo trascorso da Gesù e i suoi lontano da Capernaum “per città e villaggi predicando e annunciando la buona notizia del regno di Dio”, pongono un accento particolare, nella prima parte della loro cronaca, su quello che Lui disse, sui suoi insegnamenti, esattamente come avvenuto sul sermone sul monte che abbiamo analizzato in Matteo 5. Il viaggio missionario di Nostro Signore, sotto l’aspetto della predicazione, partì proprio dalla città in cui viveva in un contesto preciso riferito da Matteo: “Ora in quello stesso giorno Gesù, uscito di casa, si pose a sedere presso il mare. E grandi folle si radunarono intorno a lui, così che egli, salito su una barca, si pose a sedere, e tutta la folla stava in piedi sulla riva” (Matteo 13.1,2).

La nota “In quello stesso giorno” per Matteo è riferito a discorsi che per ragioni narrative e dottrinali raggruppa in un unico contesto, ma che suppongo fosse lo stesso in cui avvenne il pranzo a casa di Simone il fariseo. Prima di esaminare il gruppo cosiddetto delle “parabole del regno”, dobbiamo vedere cosa effettivamente fosse la parabola e perché Gesù l’utilizzò così frequentemente.

Contrariamente a quanto si possa supporre, il metodo della parabole non fu usato solo da Lui, ma era un genere letterario utilizzato per illustrare, con esempi immaginari ma assolutamente veritieri o possibili, una verità morale e religiosa. La parabola può essere confusa con la favola anche se essa ha per protagonisti animali in situazioni inverosimili e ha per lo più lo scopo di intrattenere le persone. Nel mondo antico entrambi i generi abbondavano, ma soprattutto nel giudaismo esisteva il màshàl, il genere parabolico, che troviamo a volte anche nel Talmud e nella Midrash (insegnamento); anche ai tempi di Gesù i Rabbini ne facevano uso per spiegare le Scritture al popolo che le apprezzava e le ricordava con facilità abbinandole al loro corretto significato spiegato dai maestri.

Attraverso le parabole, soprattutto quelle relative al “Regno”, Nostro Signore cercava di proporre delle verità che andavano a cozzare contro l’idea che il popolo aveva di un regno instaurato sulla terra, che come sappiamo si sarebbe dovuto caratterizzare tramite un Messia potente che, alla guida di un esercito invincibile, avrebbe sottomesso tutte le nazioni e le avrebbe governate assieme al suo popolo. Ecco allora che Gesù non dovette solo rifiutarsi di venire proclamato re quando il popolo voleva farlo, ma soprattutto far capire che il regno che avrebbe instaurato un giorno sarebbe stato profondamente diverso da quello che si aspettavano: fu quindi necessario spiegare le verità di quello non dichiarandole apertamente, dando così l’opportunità ai suoi avversari di attaccarlo più di quanto già non facessero, ma velandole, dicendo le stesse cose in maniera diversa. Se ci pensiamo, riguardo alle verità fruibili a pochi, è quello che non solo Gesù, ma tutta la Scrittura fa continuamente presentando simboli, situazioni, verità e descrizioni che possono essere lette solo per la grazia e l’intercessione dello Spirito Santo, deputato alla rivelazione e mettendo da sempre ogni metodo di lettura a lui estraneo nell’errore.

Il discorso che Nostro Signore tenne sulle rive del lago di Galilea, e in privato coi discepoli, è un aggiornamento del sermone sul monte in cui aveva trattato la Legge perché qui, fondamentalmente, parte dai diversi effetti che ha la Parola sulle persone che l’ascoltano (il seminatore) per arrivare alla fine, quando la zizzania verrà legata in fasce per essere bruciata e il grano “riposto nel granaio” o, nella parabola dei pesci, quando “verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà il pianto e lo stridore dei denti”.

In questo nostro studio ci rifaremo alle parabole così come esposte da Matteo che, a differenza di Marco e Luca, le organizza in modo completo: Luca riporta solo quella del seminatore e Marco vi aggiunge quella del granello di senape, specificando “Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro, ma ai discepoli, in privato, spiegava ogni cosa” (Marco 4.33,34).

Questo contesto può generare un falso interrogativo, a parte quanto già detto sulla necessità di un insegnamento prudente da parte di Gesù: la spiegazione del suo insegnamento “simbolico” non era qualcosa di riservato a degli eletti particolari, ma a quanti erano desiderosi di capire. Infatti proprio al termine dell’esposizione della prima parabola, quella del seminatore per noi neppure tanto complicata, leggiamo che “Allora i discepoli gli domandarono che cosa significasse quella parabola” (Luca 8.9): furono i discepoli a chiederlo e non gli altri, che ascoltavano senza capire e nulla dicevano evidentemente perché mancava loro la volontà di approfondire, la sensibilità per recepire, la possibilità di scegliere tra la vita e la morte come aveva fatto da poco l’innominata peccatrice, che arrivò a comprendere di aver bisogno del perdono di Gesù dopo aver assemblato le Sue parole e raggiunta la consapevolezza che avrebbe potuto guarirla dalla condizione di peccato in cui versava.

Al contrario i presenti, certo non tutti perché alla luce dell’esempio della donna che unse i piedi di Gesù i frutti della Parola raramente sono immediati, avevano un interesse che non andava oltre la curiosità e volevano restare ancorati alle loro convinzioni: infatti leggiamo “A voi è dato di conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato.(…) Perché il cuore di questo popolo è divenuto insensibile, essi sono diventati duri d’orecchi e hanno chiuso gli occhi, perché non vedano con gli occhi e non ascoltino con le orecchie, e non intendano col cuore e non si convertano, e io li guarisca” (Matteo 13.11-15).

Si noti che la distinzione “A voi è dato, ma a loro no”, non si riferisce a una scelta arbitraria di Nostro Signore, che in base alle proprie simpatie favorisce alcuni a danno di altri, ma alla condizione spirituale in cui versavano i due gruppi: i discepoli, gli apostoli, chi Lo seguiva e ascoltava dava quotidianamente prova di mettere la propria persona in second’ordine, aveva lasciato ciò che lo legava alla sua quotidianità, rinunciato a ciò che possedeva per seguirlo volendo vivere la vita del Vangelo per capire con le proprie povere forze visto che lo Spirito di Verità non era ancora sceso su di loro. Le altre persone presenti costituivano un grande insieme di estranei al cui interno forse si mescolava qualcuno che sarebbe stato colpito dalle parole di grazia e verità di Gesù e lo avrebbe avvicinato, come effettivamente avvenne. “A loro non è dato” perché non erano “delle sue pecore”.

C’è da precisare che le parole di Nostro Signore sul popolo “diventato insensibile” non sono sue, ma costituiscono un collegamento col profeta Isaia che, in 8.18 e 19.26, scrive le stesse cose. È giusto sottolineare il termine utilizzato, “è diventato insensibile” e “sono diventati duri d’orecchi”, evidentemente riferito a una condizione raggiunta dopo una serie di azioni volontarie, poiché si diventa qualcosa solo con l’esercizio e la pratica, conscia o inconscia. Il fatto che uno divenga insensibile o duro d’orecchi significa che prima non lo era, un po’ quello che avviene con quanti si ammalano dopo una serie di azioni che hanno intossicato il loro organismo. Ecco allora che l’uomo compie sempre, più o meno consapevolmente, un percorso spirituale con azioni che possono giovargli o nuocergli.

Citando poi Giuseppe Ricciotti, a proposito della parabola, scrive “…è chiara, ma anche oscura. È eloquente, ma anche reticente. Per chi la contempli con animo sereno e non preoccupato, è chiara ed eloquente; a chi la scruti con occhio torbido e animo prevenuto, non dice nulla, qualora per lui non dica il contrario di ciò che vuol dire. È dunque non tenebra, ma luce, e luce misericordiosamente adatta per occhi che si trovino in condizioni speciali, cioè puri, non malati”. Occhi che, secondo il testo di Isaia citato, sono stati chiusi deliberatamente, come nel caso dei due sommi sacerdoti che, informati della resurrezione di Lazzaro, anziché aprire gli occhi e voler indagare l’episodio per conoscere i fatti e se necessario riconoscere in Gesù il Figlio di Dio, decisero di far morire entrambi: “Ora i capi dei sacerdoti deliberarono di far morire anche Lazzaro, poiché a motivo di lui molti lasciavano i Giudei e credevano in Gesù” (Giovanni 12.10,11). Il timore di perdere onorabilità e rispetto, che la loro tradizione umana venisse infangata, prevalse sulla verità che avrebbero dovuto ammettere revisionando tutta la loro vita, mettendo in pratica quel “ravvedimento” di cui lo stesso Giovanni Battista aveva predicato, la metànoia.

Il “non udire” di cui parlò Nostro Signore ai discepoli quindi era riferito al fatto che, per la struttura mentale che si era venuta a creare nel popolo a causa del suo rifiuto continuato al messaggio evangelico, questi udivano parole che non andavano oltre al timpano, l’orecchio esteriore, esattamente ciò che avviene nel primo caso offerto dalla parabola del seminatore: “Quando qualcuno ascolta la parola del regno e non la comprende, viene il maligno e rapisce ciò che era stato seminato nel suo cuore” (13.18). Interessante la versione di Marco: “…sono quelli in cui la parola è seminata e, una volta che l’hanno ascoltata, subito viene Satana, e toglie via la parola seminata nei loro cuori” (4.15); qui vediamo che c’è una connessione col non comprendere e l’intervento dell’Avversario che viene “subito” proprio perché la persona la disprezza già a monte, a prescindere. “Subito” perché non fa nessuna fatica: non deve neppure estirpare una piantina, ma semplicemente portar via un seme. La parola non è capita né apprezzata perché il cuore carnale ha già di che soddisfarsi, basta a sé stesso, è già sazio tanto allora quanto oggi. Là dove un cuore basta a se stesso, dove un orecchio non riesce ad udire e dove gli occhi sono chiusi, si ha quindi il verificarsi di quel “…ma a loro non è dato”, che suona come una sentenza.

Ecco allora che tutto torna e, alla fine, è l’uomo stesso che si condanna da solo. Ogni volta che in noi manca una reale volontà di sottomissione allo Spirito di Dio, alla profondità della Sua Parola, subentra la nostra e ci rende incapaci di seguirlo, di essere Suoi strumenti, di vivere pienamente e nella libertà che solo il Vangelo può dare. Amen.

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07.01 – LE DONNE AL SEGUITO DI GESÙ (Luca 8.1-3)

7.01 – Le donne al seguito di Gesù (Luca 8.1-3)

1In seguito egli se ne andava per città e villaggi, predicando e annunciando la buona notizia del regno di Dio. C’erano con lui i Dodici 2e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria, chiamata Maddalena, dalla quale erano usciti sette demòni; 3Giovanna, moglie di Cuza, amministratore di Erode; Susanna e molte altre, che li servivano con i loro beni”.

            Dopo quanto avvenuto in casa di Simone, Luca ci parla della scelta di Gesù di intraprendere un viaggio missionario “per città e villaggi” della Galilea a predicare: non si accontentava quindi del fatto che venisse a lui l’umanità più varia dai paesi circonvicini, ma andò personalmente a cercare quanti non avevano avuto possibilità di intraprendere un viaggio più o meno lungo per ascoltarlo. Il nostro testo specifica che il gruppo di Gesù era composto dagli apostoli e da donne che parteciparono alla vita di quel gruppo, rientrandone quindi a pieno titolo, condividendone fatiche e testimonianza. Un dettaglio molto significativo lo rileviamo al verso 2 e cioè che si trattava di persone “guarite da spiriti cattivi e da infermità” al pari di molti altri uomini nei cui confronti Nostro Signore aveva operato: dov’erano finiti? Perché non Lo avevano seguito, al pari di quelle donne, che se interpellati avrebbero potuto testimoniare quanto la loro vita fosse stata cambiata da una Sua semplice parola? Ricordiamo quanto dettogli dal centurione di Capernaum, “Di’ soltanto una parola, e il mio servo sarà guarito” (Matteo 8.8). Queste donne, quindi, non si accontentarono di avere ricevuto una guarigione nel corpo o nella mente, ma decisero di abbandonare quello che il mondo offriva loro per il servizio apostolico nella sua parte nascosta. E tutto il gruppo che partì da Capernaum seguì la strada della rinuncia prima ancora di quella che portava alle varie “città e villaggi” della Galilea che incontreremo.

Soffermiamoci brevemente sugli anni che aveva Gesù: erano trenta quando aveva iniziato il Suo Ministero Pubblico, in ossequio al fatto che i Leviti lo iniziavano proprio a quell’età secondo Numeri 4.3 “Registrate tutti gli uomini, dai trenta ai cinquant’anni: saranno arruolati per prestare servizio alla tenda dell’incontro”; c’è infatti un nesso tra il ministero sacerdotale degli appartenenti alla tribù di Levi e quello di Nostro Signore, poiché anche quegli uomini dipendevano da Dio non solo per le pratiche religiose, ma per il loro sostentamento essendo le altre tribù quelle che, tramite l’istituzione della decima, dovevano provvedere a loro. Infatti leggiamo “I Leviti non riceveranno in possesso un territorio come le altre tribù d’Israele. In cambio io do loro in possesso le decime che gli israeliti mi offriranno” (Numeri 18.24). È quindi giusto sostenere che Gesù e i suoi discepoli abbandonarono tutto per seguirlo e compiere quelle opere che il piano di salvezza per gli uomini contemplava. Ricordiamo Lui stesso, che aveva appreso il mestiere di falegname–carpentiere dal padre, avrebbe potuto tranquillamente vivere dignitosamente nella sua originaria città di residenza, Nazareth.

Altra considerazione poi va fatta guardando quei dodici che lo seguivano: anche loro avevano un lavoro e delle relazioni sociali che lasciarono vivendo come il loro Maestro. Come scrisse una amico, “A volte l’ospitalità risolveva in parte il loro «Dacci oggi il nostro pane necessario», ma anche altre occasioni consentivano la soluzione: ricordiamo ad esempio gli episodi delle necessità più evidenti, le “Nozze di Cana”, il “Convito a casa di Simone il fariseo” ed altri ancora”. Di quel viaggio e non solo abbiamo quindi due atteggiamenti, quello di Gesù e di coloro che lo seguivano: il primo sapeva tutto quel che avrebbe fatto, chi avrebbe incontrato, guarito e cosa avrebbe detto, i secondi altro non potevano fare se non mettere in pratica anzitempo quel metodo che poi stabilirà l’apostolo Paolo in Ebrei 12.2: “Teniamo lo sguardo fisso in Gesù: è lui che ci ha aperto la strada della fede e ci condurrà fino alla fine” che riassume in un solo verso uno degli aspetti fondamentali di quella che dovrebbe essere la nostra vita dall’incontro con Lui all’eterna dimora, la fine, il fine.

Non possiamo non “Tenere fisso lo sguardo in Gesù” quanto ad esempio e parole, che ci consentono di camminare su sentieri di vita e non di morte, di percorrere una strada senza distrarci perché c’è un obiettivo da raggiungere. E infatti la strada che percorriamo oggi è la stessa di quella intrapresa da molti altri fratelli e sorelle che ci hanno preceduti nel tempo e che ora l’hanno conclusa perché è Lui che, appunto, ci conduce “fino alla fine”.

Luca, poi, ci parla di “alcune donne” e ne menziona tre, segno che quelle citate per nome non furono le uniche: che vi fosse anche la peccatrice innominata che abbiamo incontrato recentemente, perdonata per l’amore dimostrato verso Gesù, in cui vedeva colui che la poteva salvare? Non lo sappiamo, certo è che Maria di Magdala, Giovanna e Susanna non erano persone comuni né per carattere, né per posizione.

 

Maria di Magdala

Era una donna indipendente come le altre del gruppo ed era originaria dell’omonima città chiamata anticamente “El Migdel”, cioè “Torre del faro”, posta sulle rive occidentali del Lago di Galilea. È falsamente ricordata dalla tradizione per essere stata una prostituta e, per giustificare il suo mestiere, si è venuto fare una connessione tra i “sette demoni” da cui fu effettivamente liberata, coi “sette peccati capitali” che sempre la tradizione ha estratto “filosoficamente” dalla lettura delle Scritture. I “sette demoni” hanno invece connessione con una totale infermità mentale che la spingeva a compiere azioni sconnesse in quanto l’Avversario era riuscito a soggiogarla totalmente, al punto da poterla mettere in relazione all’indemoniato di Gadara presso il quale dimorava una “legione di demoni”. Di questo innominato leggiamo: “Costui aveva la sua dimora fra le tombe e nessuno riusciva a tenerlo legato, neanche con catene, perché più volte era stato legato con ceppi e catene, ma aveva spezzato le catene e spaccato i ceppi, e nessuno riusciva più a domarlo. Continuamente, notte e giorno, fra le tombe e sui monti, gridava e si percuoteva con pietre” (Marco 5.3-5). Questo è un aspetto della possessione, non certo la vendita del proprio corpo ad altri.

Credo che di questa Maria non abbiamo nessun racconto riferito alla sua vita passata perché non rileva cos’era un essere umano prima del suo incontro col Cristo, ma quello che ha fatto dopo. Certo è che, con questo accenno ai sette demoni che la possedevano, possiamo capire che Maria seguiva Gesù ed ebbe con lui un rapporto che altre non ebbero proprio perché memore dell’esistenza che conduceva prima del suo incontro con Lui e del suo vecchio stato di miseria morale e spirituale.

È poco probabile che Maria sia stata presente dalla partenza del gruppo da Capernaum soprattutto perché le sue condizioni di indemoniata difficilmente le avrebbero consentito di fare un viaggio, da sola o accompagnata, da Magdala alla città in cui Gesù abitava. Dobbiamo perciò concludere che si aggregò al gruppo quando, dopo la seconda moltiplicazione dei pani, “Dopo aver rimandato a casa la folla, Gesù sì sulla barca e andò nel territorio di Magdala” (Marco 15.39).

La vediamo, a differenza di alcuni discepoli sfiduciati dopo la morte del loro Maestro che iniziavano a dubitare che potesse effettivamente risorgere, andare a visitare il sepolcro con Maria di Cleopa (Matteo 28.1), sappiamo che non temette di essere additata al pubblico disprezzo come sua seguace quando, con Maria madre di Jose, stava ad osservare dove veniva deposto il corpo del Signore. Maria Maddalena, poi, in un passo a me molto caro, è l’unica persona a chiamare Gesù con un possessivo identico, ma diverso a livello spirituale da quello di Tommaso, “Mio Signore”: “Hanno portato via il mio Signore e non so dove lo hanno posto” (Giovanni 20.13). È a lei che Gesù, premiandola, appare per prima una volta risorto: scrive infatti Marco “Risuscitato al mattino del primo giorno dopo il sabato, apparve prima a Maria di Magdala, dalla quale aveva cacciato sette demoni” dandole così anche il privilegio di annunciare ai suoi discepoli l’avvenuta risurrezione. Credo che le si possa attribuire, fatte le proporzioni fra maschile e femminile, la stessa importanza dell’apostolo Pietro, così come Giovanna per Giacomo e Susanna per Giovanni, testimoni di eventi che gli altri discepoli e apostoli non videro.

 

Giovanna

È la conferma del fatto che Gesù non è solo “venuto per i poveri” e che il “Guai a voi, ricchi” non riguarda la quantità dei beni che uno possiede, ma l’uso che se ne fa e l’importanza che questi rivestono nella vita della persona. Giovanna era un’aristocratica, ma se quel “Cuza” fosse stato quell’ ”ufficiale del re” che aveva il figlio che stava per morire, poi guarito da Nostro Signore (Giovanni 4.46-53), spiegherebbe il motivo della sua presenza nel gruppo. Giovanna, il cui nome significa “Amata da Dio”, sarebbe, secondo questa ipotesi, la madre di quel giovane e il marito, per gratitudine, non avrebbe certo posto opposizione di fronte alla sua scelta di seguire Gesù per il tempo che avrebbe voluto. È però doveroso segnalare che non troviamo altre sua notizie nei Vangeli, per cui l’abbinarla a quella guarigione va vista solo come ipotesi. Non si può escludere neppure che frutto della testimonianza di Giovanna fosse la conversione di quel “Menaen, compagno d’infanzia di Erode il Tetrarca” (quindi Antipa) che faceva parte della Comunità di Antiochia in Atti 13.1.

L’importanza dell’opera dello Spirito su Giovanna non è certo da sottovalutare perché pensiamo cos’abbia potuto significare, per una donna abituata alle comodità e agli agi di una corte, patire il caldo, la sete e sicuramente il disprezzo della gente come discepola di Gesù. Anche lei, come Maria di Magdala, Lo seguì perché liberata, anche se non da sette demoni, e comprese che la vera ricchezza e i veri onori non sono quelli che ci tributa il mondo, ma quelli futuri.

 

Susanna

Compare qui per la prima e unica volta. Di lei parla il significato del nome, “Giglio”, fiore importante soprattutto se messo in relazione al “Cantico” di Salomone quando leggiamo “Il mio amore è venuto a godersi il suo giardino, a raccogliere gigli tra aiuole di piante profumate. Io sono del mio amore e il mio amore è mio. Egli si diletta fra i gigli” (6.2). Ora il cantico, definito superficialmente come l’unico testo biblico che celebra l’amore carnale tra uomo e donna, ma che in realtà ha innumerevoli riferimenti al rapporto d’amore tra Cristo e la Chiesa, ha nel giglio un elemento importante perché riassume la bellezza, la purezza, l’innocenza e la fragilità. Il giglio è simbolo di salvezza e dell’intervento di Dio per il Suo popolo: “Sarò come rugiada per Israele, fiorirà come un giglio e metterà radici come un albero del libano” (Osea 14.6).

Susanna, alla luce di questi riferimenti, ritengo sia stata una persona che, per quanto un essere umano lo possa essere, rifletteva le caratteristiche di questo fiore. La sua capacità di distinguersi può essere parafrasata con un’espressione del Siracide: “Come un giglio fra i rovi, così l’amica mia fra le ragazze” (2.1,2). Ricordiamo le parole di Gesù nel discorso sul monte: “Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come loro” (Matteo 6.28,29).

Certo la Susanna di Luca non era quella prima del suo incontro con Gesù: attenta ascoltatrice nelle assemblee della sinagoga, aveva compreso sicuramente le letture relative all’impurità umana, in particolare di Geremia 2.22 “Anche se continui a lavarti con molto sapone, resterà sempre davanti ai miei occhi la macchia della tua colpa” ed aveva trovato nel perdono di Gesù quella purificazione dal peccato per la quale era venuto nel mondo.

Mi piace a questo punto citare le parole di un caro fratello: “Maria di Magdala, Giovanna e Susanna, sperimentarono e provarono cosa aveva significato e comportava essere del peccato introdotto nel mondo dalla disubbidienza di Eva, subendo quotidianamente tutte le conseguenze che ciò aveva comportato; ebbene come fu per Eva, ora anch’esse si trovavano nella stessa possibilità di scegliere tra l’albero della vita, Gesù Cristo, e l’albero della conoscenza del bene e del male, Satana. Saviamente, grazie anche alle opportunità che Gesù concesse loro, scelsero l’albero della vita sotto le cui fronde la morte non sarà più, come non ci sarà più pianto, cordoglio, dolore e la separazione da lui. Dio Padre e Dio figlio non solo hanno dimostrato la primordiale potenza creatrice formando l’uomo ad immagine e somiglianza divina, ma hanno donato la grazia eterna salvando l’uomo peccatore dall’inferno e dalla morte”, amen.

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06.12 – LA PECCATRICE INNOMINATA (Luca 7.36-50)

6.12 – La peccatrice innominata (Luca 7.36-50)

 

36Uno dei farisei lo invitò a mangiare da lui. Egli entrò nella casa del fariseo e si mise a tavola. 37Ed ecco, una donna, una peccatrice di quella città, saputo che si trovava nella casa del fariseo, portò un vaso di profumo; 38stando dietro, presso i piedi di lui, piangendo, cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di profumo. 39Vedendo questo,il fariseo che l’aveva invitato disse tra sé: «Se costui fosse un profeta, saprebbe chi è, e di quale genere è la donna che lo tocca: è una peccatrice!». 40Gesù allora gli disse: «Simone, ho da dirti qualcosa». Ed egli rispose: «Di’ pure, maestro». 41«Un creditore aveva due debitori: uno gli doveva cinquecento denari, l’altro cinquanta. 42Non avendo essi di che restituire, condonò il debito a tutti e due. Chi di loro dunque lo amerà di più?». 43Simone rispose: «Suppongo sia colui al quale ha condonato di più». Gli disse Gesù: «Hai giudicato bene». 44E, volgendosi verso la donna, disse a Simone: «Vedi questa donna? Sono entrato in casa tua e tu non mi hai dato l’acqua per i piedi; lei invece mi ha bagnato i piedi con le lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli. 45Tu non mi hai dato un bacio; lei invece, da quando sono entrato, non ha cessato di baciarmi i piedi. 46Tu non hai unto con olio il mio capo; lei invece mi ha cosparso i piedi di profumo.47Per questo io ti dico: sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato. Invece colui al quale si perdona poco, ama poco». 48Poi disse a lei: «I tuoi peccati sono perdonati». 49Allora i commensali cominciarono a dire tra sé: «Chi è costui che perdona anche i peccati?». 50Ma egli disse alla donna: «La tua fede ti ha salvata; va’ in pace!».”.

 

            Episodio particolarissimo, proprio di Luca, ci offre una narrazione semplice quanto a messaggio, molto più complessa se vogliamo capire le ragioni delle iniziative e i pensieri dei suoi personaggi. Gesù aveva appena finito il suo discorso riportato nei versi precedenti sulle “città impenitenti”, sulle cose “rivelate ai semplici”e il riposo che avrebbe dato alle anime di chi si sarebbe rivolto a lui ed ecco apparire tra i presenti la figura di Simone, nome che significa “Dio ha ascoltato la mia voce”, fariseo di Capernaum, città in cui si svolse l’episodio: uomo di Legge, pari di Nicodemo, incuriosito dal Suo messaggio, volle avere Gesù con sé a mangiare per farsi un’idea del personaggio più da vicino, per avere argomenti di poter parlare coi suoi pari, per metterlo alla prova. Ciò a cui Nostro Signore fu invitato, non fu certo paragonabile al convito organizzato da Levi Matteo, col quale dava l’addio alla sua professione e voleva forse rallegrarsi coi suoi conoscenti per l’inizio di una vita nuova. Quello di Simone non fu un atto di deferenza, ma un’azione volta alla ricerca di elementi positivi o negativi su Gesù a seconda di come si fosse comportato.

C’è poi la “peccatrice” che molti hanno voluto identificare con Maria di Magdala, o Maria sorella di Lazzaro, o hanno voluto collegare il termine usato da Luca col mestiere di prostituta quando, se così fosse stato, non sarebbe stata ammessa in casa del fariseo. Piuttosto il termine fa riferimento sia a una condizione di peccati non rimessi tramite il sacerdote attraverso i sacrifici della legge cerimoniale, sia a una reputazione non onorevole presso i suoi concittadini. Avrebbe potuto essere, ad esempio, la moglie di un pubblicano, ritenuto servo del potere romano e pertanto disprezzabile. Il “peccatore”, o il suo corrispettivo femminile, è colui che fa ciò che è male agli occhi del Signore e quindi attira un Suo giudizio indipendentemente dai comportamenti adottati.

Ora questa donna, della stessa città in cui Gesù aveva preso dimora con sua madre e i fratelli, per il comportamento avuto con Lui, sappiamo che senza dubbio era stata una Sua attenta ascoltatrice e sicuramente testimone a più di un miracolo perché nulla gli chiede e nulla gli dice, ma parla col linguaggio della riconoscenza senza chiedergli nulla.

A questo punto è necessario fare un breve accenno al momento del pranzo, che per noi è importante e tendiamo a viverlo in modo riservato: indipendentemente dal fatto che ci troviamo da soli o con persone care, quando mangiamo con altri tendiamo a porre delle barriere affinché la nostra tranquillità non sia turbata e se qualcuno ci chiama o suona alla porta in quel frangente ci sentiamo infastiditi. Non così era ai tempi del nostro episodio, perché proprio quando la gente pranzava era possibile entrare nelle case e parlare col proprietario o i suoi eventuali convitati. Nei pressi della tavola si potevano trovare ambulanti, mercanti, poveri che speravano in un boccone da mangiare (vedi la parabola del ricco e Lazzaro), curiosi e varia umanità che, magari passando e se c’era caldo, vedeva la tavolata all’aperto sotto un pergolato o un albero e si fermava coi commensali. Occorre poi considerare il modo di stare a tavola, diverso dal nostro: si pranzava a semicerchio o a ferro di cavallo e i partecipanti stavano sdraiati sul fianco appoggiati al braccio sinistro ripiegato a gomito, con i piedi rivolti all’esterno su delle specie letti come i triclini dei romani.

Torniamo ora alla donna e interroghiamoci, più che sul suo passato, sulle ragioni che la spinsero a comportarsi in quel modo: seppe che si Gesù si trovava a casa di Simone e andò là portando con sé le cose più importanti che aveva, se stessa e quel “vaso di profumo”, o “essenza profumata” che è stato identificato nel Balsamodendron Myrhae o nel nardo, entrambi molto preziosi. Giunta là, individua subito Nostro Signore, segno che doveva averlo visto in altre occasioni. Le modalità con cui si espresse ci consentono di stabilire che avesse fatto, col tempo, un percorso tutto suo di elaborazione sulle parole di Gesù e sugli episodi, non sappiamo quanti né quali, di cui era stata testimone.

Istintivamente viene da pensare che il suo comportamento fosse teso a solo chiedere perdono, ma dalle parole di Gesù “Sono perdonati i suoi peccati, perché ha molto amato”, in collegamento alla parabola dei due debitori, vedremo che non fu così. È e fu un momento delicato: guardando l’episodio per raccogliere gli elementi che ci suggerisce, vediamo che quella donna fa quattro cose, tutte frutto di uno stato d’animo e di un lungo ragionamento a monte: piange, bagna con le lacrime i piedi di Nostro Signore, li asciuga coi suoi capelli, e li cosparge di quel profumo che avrebbe potuto benissimo impiegare in altri modi, per lei più umanamente proficui, come ad esempio vederlo e spendere i soldi per soddisfarsi, cosa che venne in mente ad alcuni, fra cui Giuda, in un analogo episodio avvenuto in casa di un altro Simone, lebbroso: “«Perché questo spreco di profumo? Si poteva venderlo per più di trecento denari e darli ai poveri!» ed erano infuriati contro di lei” (Maro 14.3-9).

Il pianto di un adulto è diverso da quello di un bambino, che accompagna alle lacrime grida per farsi ascoltare fondamentalmente quando viene offeso, si spaventa o si fa male: un adulto piange dalla commozione, perché gli viene a mancare improvvisamente un riferimento, un orientamento e capisce che non ha possibilità di recuperare ciò che ha perso, oppure perché la tensione che ha a lungo accumulato cessa di colpo, quindi viene liberato improvvisamente da qualcosa. Teniamo presente quest’ultimo caso perché va collegato agli altri tre dei comportamenti e più si progredisce nel ragionamento più si acquisiscono certezze: a parte il fatto che era disonorevole per una donna di quel tempo mostrarsi coi capelli sciolti, che asciugare i piedi di una persona in quel modo era cosa da schiavi, è la scelta di quelle membra come luogo di pianto e profumo a dirci quanto lei avesse capito chi in realtà Gesù fosse.

La donna si pone dietro di Lui ponendosi dalla parte dei piedi, che nella Scrittura alludono sempre a un cammino riferito al percorso spirituale passato, presente e futuro indipendente che vadano al bene o al male. Ecco, tra l’altro, la ragione per la quale Nostro Signore lavò personalmente i piedi agli apostoli: quando Pietro chiese “Signore, tu lavi i piedi a me?”, la risposta fu “Quello che io faccio non lo capisci, lo capirai dopo.(…) Se non ti laverò, non avrai parte con me” (Giovanni 13.6-8).

Possiamo a questo punto capire che, rivolgendo le sue attenzioni ai piedi di Gesù, quella donna considerasse tutto quanto Lui aveva fatto fino ad allora, e da allora avrebbe fatto, per lei e per tutti quelli che Lo avrebbero riconosciuto come Figlio di Dio e figlio dell’uomo; guardò i piedi di Gesù da vicino e pensò a tutte le vie che aveva percorso e avrebbe intrapreso per salvare, predicare, guarire. Conscia della sua condizione, voleva che, tra le tante preghiere che i suoi contemporanei gli avevano rivolto, ci fosse posto anche per lei. Il pianto fu l’unico modo di comunicare con Lui. Non quello finto dei lamentatori di professione che venivano ingaggiati ai funerali, ma qualcosa che divenne preghiera da sé. Cosa avrebbe potuto chiedere o dire a Gesù? Sapeva di avere bisogno di perdono, di rinnovamento, di qualcosa che cambiasse la sua vita che continuava impossibile sotto il peso dei peccati, e si rivolge al solo in grado di salvarla. Nel suo parlare senza dire, c’era una richiesta alla quale si accompagnava un ringraziamento comunque. Non era poco. La frase “Signore, se tu vuoi puoi guarirmi” detta da un malato nel corpo è qualcosa di immediato perché tutti vedono quella malattia, ma quando un peccatore chiede a Gesù di essere perdonato, quindi di guarire ma in un altro modo, ci troviamo già di fronte a un miracolo. “Se tu vuoi, puoi” fu il senso di quelle lacrime, di quel profumo, di quei capelli. Al pianto si accompagnava un senso di profonda gratitudine. Anche oggi nella vita della persona ci possono essere preghiere che non vengono formulate mediante concetti ordinati e distinti, ma con suoni interiori e/o lacrime: lo stesso avvenne con la peccatrice innominata incapace di articolare un discorso perché troppe e tutte assieme sarebbero state le cose da dire. Tanti infatti sono i contenuti della sua preghiera, che è al tempo stesso una lode per il Suo esistere, e un perdono desiderato, ritenuto per certo perché fondato sulle Sue promesse, ma bisognoso di un cenno, di quel “di’ soltanto una parola” che avrebbe reso ufficiale l’alleggerimento da quella condizione di peccato importabile.

Se Nostro Signore capì immediatamente il linguaggio e lo spirito di quella persona, non così Simone, che giudica inopportuno tutto quanto stava avvenendo: quanto faceva quella donna non meritava la minima attenzione perché era una peccatrice che lo contaminava e Gesù non era il profeta che diceva di essere perché, non mandandola via, dimostrava di non sapere chi fosse. Conoscendo i pensieri del fariseo, Gesù inizia a parlargli ma la frase di apertura, “Simone, ho qualcosa da dirti”, è ben diversa dalle invettive con le quali si rivolge solitamente alla sua categoria segno che modo di ragionare di Simone, per quanto frutto della corrente cui apparteneva, era il risultato di una mente strutturata e condizionata dal sistema cui apparteneva e per questo, anziché un rimprovero, cerca un recupero. La religione, la fede non autentica, quella che non si dimostra con l’amore, rendono l’uomo presuntuoso e arrogante nei confronti dei propri simili soprattutto quando sbagliano perché, giudicandoli secondo rigide norme precostituite, a tutto li spinge tranne che cercare la “trave”nel proprio occhio, o a ricordare cos’erano prima della loro conversione. La prima cosa che fa un religioso è considerare gli altri impuri e vede in se stesso un privilegiato, un vivente in un mondo di morti: la questione però non è se questo sia vero o falso, ma se quell’esser vivi porti un frutto oppure no. E se è previsto che nel nome di Gesù si possa morire, è terribile e diabolico che nel Suo nome si possa uccidere, ferire, giudicare non secondo le logiche della carità. E solo un intervento di Dio può guarire da questa situazione, basta che la persona lo accetti.

E arriviamo così alla parabola dei due debitori ricordata poco sopra: entrambi dovevano al creditore una somma, ma il secondo era in difetto di un decimo rispetto al primo. Entrambi non avevano di che pagare e questa è la condizione di ogni essere umano nei confronti di Dio. Quindi con questa parabola Gesù intende far ragionare Simone sul fatto che, se quella donna era consapevole della sua posizione e aveva capito che poteva essere perdonata e iniziare una vita nuova, lui non lo era, cioè non solo ignorava di essere un debitore, ma quel l’idea non lo sfiorava nemmeno e il giudice restava sempre lui, con la sua Legge, le sue usanze, i suoi preconcetti. Il paragone tra i due creditori era ipotetico e teso a sottolineare l’importanza del comprendere il valore del perdono di Dio, che quella la donna aveva acquisito, e non il fatto che Simone fosse un privilegiato cui poco doveva essere rimesso. Non risulta che per lui ci sia stato perdono, per lo meno in quella circostanza.

Quando poi un visitatore entrava in una casa, il proprietario lo abbracciava, lo baciava e gli offriva l’acqua per lavarsi i piedi, sporchi di polvere o di fango, o glieli faceva lavare dai servitori, azioni che Simone non aveva fatto evidentemente per rimarcare la distanza tra lui e Gesù, che avrebbe dovuto essere l’ospite di maggiore riguardo. Ai convitati si era soliti offrire anche un po’ d’olio per ungersi il capo e la barba prima o durante il banchetto, altra usanza trascurata eppure per l’epoca importante. L’innominata peccatrice, invece, aveva trasformato un elemento del galateo di allora in un atto di adorazione e preghiera. La frase “da quando sono entrato”, poi, ci dice che era lì prima dell’arrivo di Nostro Signore ad aspettarlo, o che era tra la gente che lo accompagnava.

C’è poi quel “ha molto amato”, che riassume il sentimento che aveva animato quella persona non nel suo passato remoto, ma in quello prossimo, lì al pranzo, in cui aveva manifestato tutta la sua riconoscenza nel chiedere il perdono, che la propria vita venisse riscattata. Era un’idea che si era fatta in lei poco a poco, mettendo da parte le parole e le azioni chi di poteva rimettere i suoi peccati. E “Per questo le sono perdonati i suoi peccati”.

C’è poi la fede che l’aveva salvata, quindi la certezza del fatto che, se c’era stato un “prima” che ben conosceva, ci sarebbe stato un “dopo”: la guarigione dei tanti malati di cui aveva sentito parlare, o era stata testimone, era solo l’aspetto di un’altra guarigione, ben più importante, quella che l’avrebbe portata alla vita mettendola in condizione di ricominciare da capo. Così come Gesù aveva letto i pensieri di Simone rivelandoglieli, altrettanto aveva fatto con la donna, di cui conosceva il passato e le ragioni che l’avevano portata a quel pianto e a quei gesti. “La tua fede di ha salvata” è la conferma del fatto che solo la consapevolezza di quello che siamo davanti a Dio, e quindi a chiedere il perdono, può portarci all’esenzione dal destino comune che avranno tutti coloro che scelgono di vivere escludendosi dalla Sua realtà. Ed è anche qualcosa che, una volta avuta la Grazia, non possiamo permetterci di abbandonare, perché altrimenti avremmo avuto una remissione teorica, saremmo quella piantina di grano soffocata dalle spine: moriremmo. La fede va gestita nel quotidiano, non può essere un vestito o un oggetto che prendiamo solo quando ne abbiamo bisogno come faceva Simone che, nonostante la conoscenza che aveva della Parola scritta, l’aveva ridotta a un compendio di regole, orgoglioso di osservarle, ma senza possedere la capacità di valutazione e discernimento dell’umile.

Resta da capire cosa sia il “molto” e il “poco” di cui Gesù ha parlato: non credo che questi indichino la quantità dei peccati che una persona può avere nel suo passato e che si porti con sé fino a perdono raggiunto: è piuttosto una valutazione personale. In altri termini la “peccatrice” non era peggiore di Simone perché entrambi erano privi della Grazia, quindi volontariamente fuori dal progetto di Dio per loro; la differenza stava nel fatto che una voleva entrarvi e aveva compreso quanto fosse importante, l’altro era convinto di esservi già oppure non si poneva il problema essendo un maestro e confrontandosi, presumo quotidianamente, coi suoi pari seduti sulla loro giustizia e intenti in complesse dissertazioni dottrinali, attenti al particolare, ma incapaci di guardare al generale. Sappiamo invece, per esperienza, che l’istruzione passa attraverso un metodo opposto, cioè dal generale al particolare.

La donna sapeva di avere un debito molto grande e, per alleggerire il suo peso, avrebbe potuto ricorrere al metodo del confronto, vale a dire individuare chi era peggio di lei e consolarsi col fatto che, per quanto peccatrice, c’era sempre chi si comportava peggio, ma non lo fece. Simone invece è possibile che ringraziasse Dio di non essere “come gli altri uomini”, preghiera che leggiamo nella parabola del Fariseo e del pubblicano, la cui giustizia era fondata sui digiuni e le elemosine, fatti preferibilmente in modo tale che gli altri lo sapessero. Tutti questi personaggi si erano dimenticati che la salvezza non risiede in un’organizzazione o in un modo di pensare o vivere, ma nel confronto costante tra quello che si è e si dovrebbe essere, camminando mano nella mano con il Figlio di Dio che ci ha voluti salvare, il cui nome è benedetto in eterno. Amen.

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06.04 – QUESTA GENERAZIONE (Luca 7.31-35)

6.04 – Questa generazione (Luca 7.31-35)

31A chi dunque posso paragonare la gente di questa generazione? A chi è simile? 32È simile a bambini che, seduti in piazza, gridano gli uni agli altri così: «Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato, abbiamo cantato un lamento e non avete pianto!». 33È venuto infatti Giovanni il Battista, che non mangia pane e non beve vino, e voi dite: «È indemoniato». 34È venuto il Figlio dell’uomo, che mangia e beve, e voi dite: «Ecco un mangione e un beone, un amico di pubblicani e di peccatori!». 35Ma la Sapienza è stata riconosciuta giusta da tutti i suoi figli».”.

            Il testo che abbiamo letto costituisce la seconda parte di un discorso tenuto da Gesù alla folla dopo che i discepoli del Battista se ne andarono. Ora per capire meglio la parabola dei bambini e le parole successive, va tenuto presente il verso 30, “Ma i farisei e i dottori della Legge, non facendosi battezzare da lui, hanno reso vano il disegno di Dio su di loro” che dà a Nostro Signore l’occasione per delle considerazioni amare sulla “gente di questa generazione” che indica proprio quanti, tra il popolo, non solo non riconoscevano in Lui il Cristo, ma non accettavano neppure Giovanni come “l’Elia che doveva venire” nonostante tutti i riferimenti di cui potevano disporre andando ad indagare nelle loro Scritture. Come qualificare quel comportamento? Questa volta non ci sono invettive, manca il proferimento di “guai”, ma un’amara constatazione: quella generazione, che aveva il privilegio di poterlo vedere, conoscere ed ascoltare, viene paragonata a dei bambini capricciosi e malmostosi cui nulla va bene e che respingono qualunque iniziativa.

È qui importante raccordare il racconto di Luca con quello di Matteo: il primo scrive “gridano gli uni agli altri”, il secondo “stanno seduti in piazza e, rivolti ai loro compagni, gridano”. Alla fine, poi, Matteo scrive “La Sapienza è stata riconosciuta giusta per le opere che essa compie”, Luca “Ma la Sapienza è stata riconosciuta giusta da tutti i suoi figli”. L’atteggiamento infantile, in quanto tale naturale tipico nei bambini, lo è molto meno in età adulta quando dovrebbero essere stati sviluppati il senso critico e di valutazione obiettiva delle cose: questi bambini capricciosi, ma adulti, si erano così trincerati dietro scuse e comode valutazioni di cui leggeremo più volte, ad esempio quando accuseranno Gesù di cacciare i demoni con l’aiuto del loro principe.

Teniamo presente chi era Giovanni, per quello che era noto allora: si era presentato al popolo con le migliori credenziali perché era discendente da una famiglia di sacerdoti, aveva vissuto nel deserto rifiutando fin dalla giovane età il cibo comodo (il pane) e il vino che inebriava. Ebbene, Giovanni sarebbe stato stimato e rispettato se solo non avesse invitato il popolo al ravvedimento, cioè a mettere in discussione i loro pensieri e azioni facendo emergere tutto il sistema di peccato in cui vivevano. E sappiamo che per rimediare il peccato, a quel tempo, c’erano già i sacrifici, i sacerdoti, tutta un’organizzazione religiosa che già provvedeva a riparare – secondo loro – un rapporto incrinato con Dio. Loro, che si ritenevano giusti, non avevano trovato scusa migliore se non quella di dare a Giovanni dell’indemoniato. Teniamo presente che Farisei, Scribi e Dottori della Legge, erano granitici su un punto che troviamo, tra gli altri, in Giovanni 5.45-47: “Non crediate che sarò io ad accusarvi davanti al Padre; vi è già chi vi accusa: Mosè, nel quale riponete la vostra speranza. Se infatti credeste a Mosè, credereste anche a me, perché egli ha scritto di me. Ma se non credete ai suoi scritti, come potrete credere alle mie parole?”. Ecco ancora una volta il preconcetto, l’agire senza intelligenza, dando per scontato che sia sufficiente un impegno apparentemente morale sostenuto da una lettura e studio privo di spirito pur di definirsi credenti. E sì che Mosè aveva scritto “Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto” (Deuteronomio 18.15), là dove quel “pari a me” indica la funzione di guida perché così come Mosè avrebbe condotto il popolo fino alla terra promessa, allo stesso modo Gesù li avrebbe guidati verso il Padre in quel regno eterno preparato per loro.

Ed ecco tornare i bambini capricciosi adulti, che si aggrappano a qualunque pretesto pur di non partecipare alla vita degli altri, molto più semplici e spontanei: se la “generazione” di cui Gesù parla non gli credeva, era perché nel suo intimo non credeva neppure a quella Legge che tanto dichiaravano di osservare, essendo “un pedagogo che conduce verso Cristo” essendo Lui il suo fine.

Da notare il parallelismo che possiamo fare tra questi bambini oscuri e gli altri, che le hanno provate tutte pur di coinvolgerli, perché ci sono dei “piccoli” di cui è il regno dei cieli: “In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli” (Matteo 18.3). Non è un inno alla ingenuità, ma alla condizione di dipendenza naturale e di fiducia che un bambino nutre nei confronti dei o di un genitore col quale si sente al sicuro. È l’apostolo Paolo a spiegare cosa significhi essere veri “bambini” quando scrive “Fratelli, non comportatevi da bambini nei giudizi; siate come bambini quanto a malizia, ma uomini maturi quanto ai giudizi” (1 Corinti 14.20). Positività e negatività dell’essere infantile, positività e negatività dell’essere adulti.

Abbiamo visto la parabola dei bambini nelle piazze e le scuse del popolo per non credere al Battista dandogli dell’indemoniato, ma con Gesù non sono da meno: si attaccano al fatto che lui mangi e beva addirittura coi “pubblicani e coi peccatori”, termine questo che allude a tutti coloro che non appartenevano alla loro casta e non necessariamente a persone dedite al vizio. Ecco che l’essere dei bambini capricciosi si raccorda all’adulto schiavo dei suoi preconcetti, pronto al reperimento di qualunque scusa pur di non cedere di fronte all’immagine di se stesso che si è creata, cui si affianca la ferrea volontà di restare fermo sulle sue convinzioni. Ma rimanere fermi è impossibile perché, in realtà, si arretra sempre. Come uomini possiamo soltanto andare avanti o indietro, migliorare o peggiorare, crescere o regredire.

È bello per me considerare la positività del crescere, che ha dei sinonimi molto positivi quali “svilupparsi, migliorare, maturare, prosperare, germogliare, attecchire, fiorire” e la negatività del suo contrario: “aggravarsi, deteriorarsi, guastarsi, inasprirsi, precipitare, rovinarsi”. Leggerli tutti assieme credo renda molto bene l’idea delle conseguenze cui va incontro tanto chi va avanti, quanto chi crede di rimane fermo. E migliorarsi, per un credente, non dovrebbe essere cosa difficile, vivendo davanti a Cristo che ha dato la sua vita per lui e lo invita continuamente a un cammino in cui non lo lascia mai solo. Siamo noi che a volte ci dimentichiamo di Lui, mai il contrario.

E tornando al rimanere fermi manca l’inacidimento, quel “rancido del cuore” di cui parlava un amico: il guardare costantemente in basso, alla terra, porta l’essere umano all’insoddisfazione perenne che causa un comportamento simile a quello che quella “generazione” – non tutti – aveva nei confronti del Battista e di Gesù. È l’attaccamento alla terra che spinge l’uomo a non voler vedere il Dio che lo cerca. È l’attaccamento alla terra che porta l’umiliazione come frutto. È l’attaccamento alla terra che ci fa agitare, spaventare, gettare nel panico nel momento in cui quelli che riteniamo essere dei nostri punti fermi, vacillano per motivi più o meno gravi. Ma ancora ben più grave è quell’attaccamento alla terra che ci impedisce di credere, di cercare Gesù Cristo e di accoglierlo. Anche oggi c’è chi Lo nega a priori non solo in quanto Figlio di Dio, ma andando a minarne anche la sua esistenza storica. Qui l’attaccamento alla terra si fa dottrina, motivo di orgoglio umano senza accorgersi che in realtà si sta professando una fede, per quanto opposta. Al contrario, vediamo il cammino, la progressione, in 1 Corinti 1.30, “…voi siete in Cristo Gesù, il quale per noi è diventato sapienza per opera di Dio, giustizia, santificazione e redenzione”.

Proseguendo nel testo, vediamo che il verso 35 inizia con un “Ma”. A fronte di tutti i ragionamenti che adulti maliziosi con problemi non solo spirituali, ma di mancato sviluppo di personalità, portano avanti e sui quali si arroccano, basta un monosillabo a liquidarli. “Ma la sapienza è stata riconosciuta giusta da tutti i suoi figli”. Si può fare e dire, chiamare in causa l’arte più sottile del ragionamento, la razionalità, il calcolo, la scienza che a volte dice la verità e a volte bara pur di dimostrare ciò che non può , “MA” c’è la Sapienza, una sola, che viene “riconosciuta giusta” non da tutti, ma da chi le appartiene. Inutile contendere, inutile spiegare, ostacolare, resistere, lasciarsi coinvolgere in discussioni accademiche o da bar poco importa: la sapienza è. Esiste perché senza di Lei il mondo non potrebbe mai essere stato creato e vediamo che inevitabilmente arriviamo a Gesù Cristo, al Cristo che Salomone descrive nel libro dei Proverbi in cui, se sostituiamo “Sapienza” a Lui, ne vediamo effetti e conseguenze.

Consoni e a conclusione di queste riflessioni possiamo riportare i versi da 20 a 33 del capitolo primo: “La Sapienza grida per le strade, nelle piazze fa udire la sua voce; nei clamori della città essa chiama, pronuncia i suoi detti alle porte della città: «Fino a quando, o inesperti, amerete l’inesperienza e gli spavaldi si compiaceranno delle loro spavalderie e gli stolti avranno in odio la scienza? Tornate alle mie esortazioni: ecco, io effonderò il mio spirito su di voi e vi manifesterò le mie parole. Perché vi ho chiamati ma avete rifiutato, ho steso la mano e nessuno se ne è accorto. Avete trascurato ogni mio consiglio e i miei rimproveri non li avete accolti. Anch’io riderò delle vostre sventure, mi farò beffe quando su di voi verrà la paura, quando come una tempesta vi verrà addosso il terrore, quando la disgrazia vi raggiungerà come un uragano, quando vi colpiranno angoscia e tribolazione. Allora mi invocheranno, ma io non risponderò, mi cercheranno, ma non mi troveranno. Perché hanno odiato la sapienza e non hanno preferito il timore del Signore, non hanno accettato il mio consiglio e hanno disprezzato ogni mio rimprovero. Mangeranno perciò il frutto della loro condotta e si sazieranno delle loro trame. Sì, lo smarrimento degli inesperti li ucciderà e la spensieratezza degli sciocchi li farà perire. Ma chi ascolta me vivrà in pace e sarà sicuro senza temere alcun male»”.

Sono parole importanti, ben lontane da quelle apparentemente sagge dei cosiddetti “amici” di Giobbe perché qui non c’è un vuoto elogio del “timor di Dio” con frasi fatte e i luoghi comuni tipici dei tempi antichi, ma una serie di avvertimenti che riguardano gli stolti spirituali: la sapienza chiama “nei clamori della città” perché qui c’è l’invito a non seguire la maggioranza, non adattarsi ai suoi costumi, cercare sempre ciò che è al tempo stesso sopra e oltre. Chi segue la sapienza “vivrà in pace e sarà sicuro senza temere alcun male” a differenza di quelli che non l’avranno voluta ascoltare, per i quali abbiamo descrizioni molto dure e amare: paura, terrore, disgrazia, angoscia e tribolazione, di fronte alle quali non vi sarà alcun soccorso. I motivi sono due, l’uno la conseguenza dell’altro, che abbiamo trovato proprio nella scorsa lettura del Vangelo quando Gesù ha parlato del rendere vano il piano di Dio: “hanno odiato la sapienza e non hanno preferito il timore del Signore, non hanno accettato il mio consiglio e hanno disprezzato ogni mio rimprovero”.

Ognuno di noi mangerà il frutto della propria condotta, in bene o in male. Chi è “figlio della Sapienza” non è un orgoglioso, non s’impone, non fa “suonare la tromba davanti a sé”; al contrario, chi è figlio della sapienza umana, farà di tutto per apparire, guidare, gridare, ottenendo il seguito di chi ha bisogno di un capo, di un modello, di aderire a qualcosa per essere qualcuno. Salomone, addirittura, sapeva di un mondo futuro con il quale tutti i personaggi negativi che abbiamo visto non avrebbero avuto parte alcuna: “…in tal modo tu camminerai sulla strada dei buoni e rimarrai nei sentieri dei giusti; perché gli uomini retti abiteranno nel paese e gli integri vi resteranno. I malvagi invece saranno sterminati dalla terra e i perfidi ne saranno sradicati” (Proverbi 2.20-22).

MA la Sapienza è stata riconosciuta giusta da tutti i suoi figli”, sono le parole con le quali Gesù conclude il suo ragionamento alla folla riunita. Anche qui c’è un dato di fatto visto nei figli che la riconoscono, ma anche del richiamo, come già avvenuto sul monte, a parole che proprio quei Farisei e Dottori della Legge che lo ostacolavano in ogni modo, avrebbero dovuto conoscere ed esaminare: quelle del libro dei Proverbi che abbiamo citato e che alla Sapienza dedica i primi capitoli, per non dire tutto.

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06.03 – L’AMBASCIATA DI GIOVANNI BATTISTA (Luca 7.18-30)

6.03 – L’ambasciata di Giovanni (Luca 7.18-30)

 

18Giovanni fu informato dai suoi discepoli di tutte queste cose. Chiamati quindi due di loro, Giovanni 19li mandò a dire al Signore: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?». 20Venuti da lui, quegli uomini dissero: «Giovanni il Battista ci ha mandati da te per domandarti: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?»». 21In quello stesso momento Gesù guarì molti da malattie, da infermità, da spiriti cattivi e donò la vista a molti ciechi. 22Poi diede loro questa risposta: «Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordiodono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciata la buona notizia. 23E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!».
24Quando gli inviati di Giovanni furono partiti, Gesù si mise a parlare di Giovanni alle folle: «Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? 25Allora, che cosa siete andati a vedere? Un uomo vestito con abiti di lusso? Ecco, quelli che portano vesti sontuose e vivono nel lusso stanno nei palazzi dei re. 26Ebbene, che cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì, io vi dico, anzi, più che un profeta. 27Egli è colui del quale sta scritto:

Ecco, dinanzia te mando il mio messaggero,davanti a te egli preparerà la tua via.
28Io vi dico: fra i nati da donna non vi è alcuno più grande di Giovanni, ma il più piccolo nel regno di Dio è più grande di lui. 29Tutto il popolo che lo ascoltava, e anche i pubblicani, ricevendo il battesimo di Giovanni, hanno riconosciuto che Dio è giusto. 30Ma i farisei e i dottori della Legge, non facendosi battezzare da lui, hanno reso vano il disegno di Dio su di loro.
”.

 

Con questo episodio, ma in realtà anche nel precedente della resurrezione del figlio della vedova di Nain, inizia quello che definisco il “tratto incerto” di quella linea cronologica che ho voluto dare alla mia lettura dei Vangeli. Abbiamo infatti una serie di episodi, miracoli e insegnamenti il cui ordine non può essere stabilito con certezza a differenza di quanto avvenuto col periodo dell’infanzia di Gesù. Credo che, con la lettura che ho fin qui dato, dopo il miracolo a Nain Nostro Signore fosse rientrato a Capernaum perché altrimenti i discepoli del Battista difficilmente lo avrebbero potuto rintracciare.

Dal verso 18 acquisiamo un primo dato, cioè il rapporto tra Giovanni ed Erode Antipa che, pur tenendolo prigioniero, gli consentiva di ricevere delle visite. Nel Vangelo ci sono diversi passi che ci parlano dell’atteggiamento di questo “re” verso il Battista, che approfondiremo meglio nell’episodio della sua decapitazione; Giovanni rimproverava Erode (anche pubblicamente?) per la sua condotta adultera e al tempo stesso incestuosa (aveva sposato la moglie di suo fratello Filippo, vivente) proibita dalla legge di Mosè: Levitico 18.16 infatti recita “Non scoprirai la nudità della moglie di tuo fratello: è la nudità di tuo fratello”, e 20.10 “Se uno commette adulterio con la moglie del suo prossimo, l’adultero e l’adultera dovranno essere messi a morte”). Per questo Marco scrive “Erode aveva mandato a prendere Giovanni e l’aveva messo in carcere” (6.17) non appena, come abbiamo già visto e vedremo, era entrato nel suo territorio. Accanto a questo forte risentimento, sappiamo che “…lo temeva, sapendolo uomo giusto e santo” (19,20). In più “vigilava su di lui. Nell’ascoltarlo restava molto perplesso, tuttavia lo ascoltava volentieri” (20,21).

Si possono allora spendere due parole su Erode, che da un lato voleva far morire chi lo rimproverava e dall’altro lo temeva riconoscendogli giustizia e santità. Quando lo ascoltava, poi, si mescolavano perplessità e curiosità, essendo superstizioso e convinto che il potere umano che aveva sugli uomini, gli desse il diritto di disporre di tutto e di tutti. Antipa, per la posizione sociale che ricopriva, era convinto di essere un intoccabile, da Dio compreso, e che i rimproveri e le altre verità dettegli da Giovanni passassero in secondo piano di fronte alla sua persona. Come molti oggi, convinti di avere una libertà che non esiste.

Veniamo ora a Giovanni e alla domanda che inviò a Gesù tramite i suoi discepoli, due e non uno perché la testimonianza del singolo non era ritenuta valida (Deuteronomio 17.6): poteva dubitare il prigioniero di Erode della missione di chi aveva battezzato, dopo aver visto lo Spirito Santo scendere su di lui in forma di colomba e dopo tutto il periodo passato nel deserto istruito sulla sua funzione di precursore del Messia? Credo che il messaggio “Sei tu quello che deve venire, o ne dobbiamo aspettare un altro?” esprima certamente un dubbio, ma riveli tutta l’umanità del Battista che aveva annunciato, e annunciava ancora parlando in carcere e con Erode, Gesù come Messia. In pratica Giovanni, proprio come uomo, non aveva rinunciato all’idea di un Liberatore anche umano. Quindi da un lato Giovanni come profeta sapeva che Gesù era il Messia che aveva presentato alle folle sulle rive del Giordano, ma l’uomo che era in lui trovava difficile rapportare ciò che era la sua conoscenza del Messia con i dati che di lui gli giungevano in cella e che i suoi discepoli gli rapportavano. In poche parole con quella domanda Giovanni non voleva dire che temeva di essersi sbagliato presentando Gesù alla folla come “L’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo”, ma gli esprime i suoi dubbi in relazione all’idea che si era fatta di Lui, comune a tanti, del Re trionfante che avrebbe portato Israele (e quindi i suoi profeti, lui compreso) alla vittoria sulla terra. Giovanni, in prigione, sperava in manifestazioni eclatanti che lo togliessero da quella condizione di indubbia sofferenza nella quale versava e si chiedeva perché Erode non fosse ancora stato sconfitto. I suoi discepoli, visitandolo, gli portavano notizie di un Messia che girava per il territorio predicando e facendo miracoli, ma il dato obiettivo della vittoria sul peccato attraverso le guarigioni veniva messo in dubbio dal fatto che mancavano quelle grandi manifestazioni come ad esempio quella dell’esercito egiziano travolto dalle acque del mar Rosso, o una di quelle tante vittorie impossibili riportate da Israele sui suoi nemici di cui leggiamo nei libri storici; pensiamo solo a quella di Davide su Golia, episodio che tutti conoscono ancora oggi. Ricordiamo le parole di Giovanni 6.15 (“Gesù allora, sapendo che volevano prenderlo per farlo diventare re, se ne andò di nuovo verso la montagna, tutto solo”) che ci parlano di un re enormemente distante dal concetto umano.

Tornando al nostro episodio vediamo che a questo punto Nostro Signore non risponde subito a parole, ma agisce, rendendo i discepoli di Giovanni diretti testimoni dei fatti. L’incontro coi discepoli del Battista era evidentemente avvenuto all’aperto e forse in un intervallo tra un insegnamento e l’altro alla folla, infermi compresi. In quell’occasione Gesù prima guarì molti da malattie, presumo di vario genere fisiche e molte mentali, e poi lasciò ai discepoli il messaggio che leggiamo al verso 22 aggiungendo “E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo”, proprio perché sappiamo che il Cristo lo sarebbe stato, rappresentando quella famosa “pietra di inciampo” di cui parla Isaia 28.16 “Ecco, io pongo in Sion una pietra d’inciampo e una roccia di scandalo, ma chiunque crede in lui non sarà svergognato”. C’è quindi chi cade, ma c’è chi attraverso di lui vive.

Analizziamo meglio le parole di Gesù a Giovanni, che gli ricordano amorevolmente ciò che già sapeva, ma che la sua preoccupazione e la privazione della libertà iniziavano a far vacillare senza far venir meno la sua funzione; i miracoli che venivano fatti stavano a ricordare parte del contenuto di Isaia 35 che traccia una successione di eventi destinati a realizzarsi nei secoli e non subito, poiché il piano di Dio, prima di compiersi, richiede che il numero dei suoi eletti sia compiuto: “Dite agli smarriti di cuore: Coraggio, non temete! Ecco il vostro Dio, giunge la vendetta, la ricompensa divina, Egli viene a salvarvi. Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno le orecchie dei sordi. Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto, perché scaturiranno acque nel deserto, scorreranno torrenti nella steppa. La terra bruciata diventerà una palude, il suolo riarsi sorgenti d’acqua. I luoghi ove si sdraiavano gli sciacalli diventeranno canneti e giuncaie. Ci sarà un sentiero e una strada e la chiameranno via santa; nessun impuro la percorrerà. Sarà una via che il suo popolo potrà percorrere e gli ignoranti non si smarriranno. Non ci sarà più il leone, nessuna bestia feroce la percorrerà o vi sosterà. Vi cammineranno i redenti. Su di essa ritorneranno i riscattati dal Signore e verranno in Sion con giubilo; felicità perenne splenderà sul loro capo; gioia e felicità li seguiranno e fuggiranno tristezza e pianto”. Ecco, di queste parole Giovanni credeva si realizzassero anche gli ultimi versi, quelli che gli avevano fatto sorgere delle domande importanti, ma Gesù gli ricorda che prima di manifestarsi come vittorioso su ogni cosa, veniva il tempo per la guarigione dei ciechi, dei sordi, degli zoppi, dell’avvenire e speranza che sarebbe stato dato a tutti quanti avrebbero creduto in lui nei secoli.

Da non sottovalutare neppure la frase “ai poveri è annunciata la buona notizia”, cioè il Vangelo: ecco perché sono “beati i poveri” di cui abbiamo tanto parlato nelle riflessioni passate. Anche qui Nostro Signore fa qualcosa che era stato predetto da Isaia e che solo Lui poteva fare: “Lo Spirito del Signore Dio– quello visto da Giovanni in forma di colomba – è sopra di me, perché il Signore– non il popolo o un sommo sacerdote – mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri”. Giovanni pensava probabilmente di venire liberato da Gesù, non tenendo presente che veniva prima la liberazione dei prigionieri del peccato.

Dobbiamo fare quindi molta attenzione a non scambiare Giovanni Battista per un incredulo, tenendo sempre presente la funzione e la definizione stessa che Nostro Signore dà di lui proprio in questo episodio: “Tra i nati di donna non sorse mai nessuno maggiore di Giovanni Battista, ma il minimo nel regno dei cieli è maggiore di lui”. Perché? L’essere “maggiori” qui non ha nulla a che vedere col premio, ma con la dispensazione della Legge paragonata a quella della Grazia, così diverse tra loro. Dobbiamo ricordare che nella Grazia non siamo più servi, ma figli. Che le tenebre sono passate e già risplende la vera luce. Che la presenza dello Spirito Santo è data a tutti, a patto che non lo contristino. Tutti temi importanti che se ci sarà concesso esamineremo.

I discepoli di Giovanni, dimostrando di aver recepito il messaggio, partirono alla volta della fortezza in cui il loro maestro era rinchiuso. Il fatto Gesù che avesse parlato del Battista in pubblico, gli diede l’occasione non solo di pronunciare la frase sulla posizione spirituale diversa che hanno gli appartenenti alle due dispensazioni, ma di chiarire il ruolo dello stesso: non una “canna dimenata dal vento”, cioè un isolato abbandonato a se stesso, non “un uomo vestito con abiti di lusso”, cioè un cortigiano. Con questi due paragoni il Cristo afferma allora che il Battista non era una persona di cui non ci si potesse fidare, avente un comportamento come quello della canna al vento, volta ora di qua ora di là e neppure come quello di un cortigiano, da sempre disposto ad assecondare gli umori del proprio re e ad adularlo ipocritamente, attento a non perdere il proprio ruolo. Anzi, chi era andato ad ascoltarlo e a farsi battezzare, si era presentato addirittura ad uno che era “più che un profeta”. Un bell’elogio del Precursore che, se avesse peccato di incredulità, non sarebbe mai stato fatto.

Al contrario, con la domanda “Sei tu quello che deve venire, o dobbiamo aspettarne un altro?”, Giovanni si qualifica semplicemente come un uomo di Dio colto da un dubbio sorto in base ad osservazioni che chiunque nella dispensazione della Legge avrebbe fatto. E qui sta uno degli aspetti secondo cui il minimo nel regno dei cieli è a lui maggiore: non si tratta di importanza, ma di posizione, di prospettive differenti, di visuale maggiore che ogni credente può avere perché accettare Gesù, nonostante quel che si dica, non è semplice. Altrimenti non sarebbe una beatitudine, come dalle parole “Beati coloro che non hanno visto e hanno creduto” (Giovanni 20.29).

A questo punto il racconto di Luca differisce da quello di Matteo nelle parole finali, che però si raccordano perfettamente tra loro: “Dai giorni di Giovanni Battista fino ad ora, il regno dei cieli subisce violenza e i violenti se ne impadroniscono. Tutti i profeti e la Legge infatti hanno profetato fino a Giovanni. E, se volete comprendere, è lui quell’Elia che deve venire. Chi ha orecchi, ascolti” (11.12-15). Qui si parla di “subire violenza” e di “violenti” che, se guardiamo al termine come letterale, rendono il verso impossibile a meno che si tratti di insistenza e sforzo, quello che abbiamo visto nell’invito “sforzatevi di entrare per la porta stretta”. Non a caso il verbo greco qui impiegato parla di forza ed è utilizzato nella versione dei LXX anche in Genesi 33.11: “Così quegli insistette, ed egli accettò”. È un concetto che nel Vangelo compare molte volte.

Dopo questo, Gesù passa a indicare in Giovanni “Elia che doveva venire”, non il Tisbita che tutti aspettavano e cui alludevano quando gli chiesero se fosse Elia, ricevendo risposta negativa (Giovanni 1.21), ma quello indicato da Malachia in 4.5 “Ecco, io vi mando Elia, prima che venga quel grande e spaventevole giorno del Signore” quindi colui che avrebbe preparato la strada al Messia battezzando sulle rive del Giordano.

Di Luca restano i versi 29 e 30 che ci parlano di personaggi agli antipodi: da una parte abbiamo il popolo che ascoltava Giovanni con i pubblicani; questi, facendosi battezzare, riconoscevano che Dio era giusto a differenza di loro stessi, ma dall’altra quelli che avrebbero dovuto gioire più di tutti, i Farisei e i Dottori della Legge, che lo disprezzarono rendendo “vano il disegno di Dio su di loro”, espressione ben più grave che va oltre la semplice opinione, con superficialità non degno di attenzione. Quel “rendere vano” è un oltraggio, un atto cosciente, è un costringere Dio a prendere provvedimenti di esclusione dai suoi piani. Anche oggi sono davvero tanti quelli che si comportano allo stesso modo, rifiutando il messaggio di Cristo perché vogliono sopravvivere, restare nel loro sistema di vita, grande o piccolo, importante o insignificante non importa. Senza sforzarsi, impegnarsi, chiedersi “le ragioni della loro origine e fine” o impostare un metodo per affrontare un giorno l’eternità. C’è un disegno di Dio per ogni essere umano, che contempla la vita eterna, il bando definitivo dell’umiliazione, come abbiamo letto nei versi di Isaia all’inizio: “Gioia e felicità li seguiranno, fuggiranno tristezza e pianto”. Credo che sia contro l’interesse dell’uomo non affrontare questo problema, perché sappiamo che, là dove non ci sarà gioia, si troverà il “pianto e lo stridore dei denti”. Amen.

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06.02 – IL FIGLIO DELLA VEDOVA DI NAIN (LUCA 7.1-17)

6.02 – Il figlio della vedova di Nain (Luca 7.1-17)

11In seguito Gesù si recò in una città chiamata Nain, e con lui camminavano i suoi discepoli e una grande folla. 12Quando fu vicino alla porta della città, ecco, veniva portato alla tomba un morto, unico figlio di una madre rimasta vedova; e molta gente della città era con lei. 13Vedendola, il Signore fu preso da grande compassione per lei e le disse: «Non piangere!». 14Si avvicinò e toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Poi disse: «Ragazzo, dico a te, àlzati!». 15Il morto si mise seduto e cominciò a parlare. Ed egli lo restituì a sua madre. 16Tutti furono presi da timore e glorificavano Dio, dicendo: «Un grande profeta è sorto tra noi», e: «Dio ha visitato il suo popolo». 17Questa fama di lui si diffuse per tutta quanta la Giudea e in tutta la regione circostante.”.

È solo Luca a riportare quest’episodio collocandolo qualche tempo dopo il miracolo della guarigione del servo del centurione. “In seguito”, con cui il verso 11 inizia, è letterale dal greco, è stato tradotto da altri con “il giorno dopo”; fatto sta che Gesù, nella sua onniscienza, decise di partire da Capernaum affrontando un cammino di otto-nove ore per raggiungere Nain, fino ad allora anonimo villaggio a Sud-Ovest, dove giunse verso sera, ora alla quale si portavano a seppellire i morti. Chi vuole cercare di leggere i Vangeli in modo cronologico, si trova comunque a dover affrontare un problema perché non è possibile quantificare quel “in seguito” e c’è chi ipotizza che il miracolo di questa resurrezione sia avvenuto in un altro periodo, cioè dopo che gli apostoli furono mandati in missione per le città della Galilea. Matteo, infatti, scrive in proposito che “Dopo che Gesù ebbe finito di dare disposizioni ai suoi dodici discepoli, se ne andò di là per insegnare e predicare nelle loro città” (11.1) per cui, se si accetta questa tesi, i “discepoli” di cui si parla in questo episodio furono altri e non i dodici. Sempre Matteo, proprio dopo questo verso, riporta l’ambasciata di Giovanni Battista che, prigioniero nel Macheronte, gli inviò due suoi discepoli a dirgli “Sei tu colui che deve venire, o dobbiamo aspettarne un altro?”.

Venendo al nostro testo la prima osservazione che possiamo fare è proprio su quanti lo seguivano: facevano questo senza sapere dove Gesù li avrebbe portati e cosa avrebbe detto. Penso che dei semplici curiosi, o gente animata dallo stesso desiderio di Erode di cui è scritto che “sperava di vedere qualche miracolo fatto da lui”(luca 22.8), si sarebbero stancati presto. Quelle persone lo seguivano certe che avrebbero avuto, presto o tardi, un insegnamento o visto cose che li avrebbero confortati, rincuorati, dato loro degli elementi per essere testimoni, vivere come parte integrante del piano di Dio. Un semplice curioso, alla luce del cammino da percorrere a piedi, come già rilevato, avrebbe presto desistito e preferendo tornarsene in città a Capernaum perché, tanto, cosa Gesù avrebbe fatto o detto se lo sarebbe potuto sempre far raccontare da altri. I presenti all’episodio dissero, “un gran profeta è sorto tra noi”, frase che denota non che quelli si fossero convertiti o avessero avuto un’illuminazione, ma che erano nella condizione di giungere alla Sua corretta conoscenza, se i loro cuori fossero stati aperti.

È così che, sul far della sera, abbiamo l’incontro del corteo della vita con quello della morte, oltre a quello di Gesù con lei che del peccato “è il salario” (Romani 6.23), cioè il suo risultato. Non così era quando, alla collocazione in Eden, l’essere umano era in origine progettato per essere eterno e santo come il suo creatore. Non può sfuggire, in questo episodio, che Nostro Signore interviene senza che alcuno glielo chieda, quasi fosse inevitabile che la sua presenza annullasse gli effetti della morte se solo avesse comandato all’anima di quel giovane di tornare in lui.

Ora la presenza di molte persone al corteo funebre, abbiamo letto “molta gente della città era con lei”, ci lascia pensare che il decesso di quel giovane lasciò molti colpiti e amareggiati essendo quella donna conosciuta. Nain era una città piccola e i presenti vollero esprimere il loro cordoglio alla vedova come meglio potevano, quasi a voler garantirle un sostegno morale per il periodo di solitudine che avrebbe dovuto affrontare, solidali con lei. Ma di più non potevano fare. Il dolore di quella vedova, la sua disperazione, trovava la sua prima spiegazione senz’altro nella perdita di quel giovane, che presumo non avesse ancora raggiunto la maggiore età (dodici – tredici anni per gli ebrei), ma anche nel fatto che il nome del marito si sarebbe estinto, visto che l’unico figlio avuto da lui era morto. E l’uomo che l’aveva sposata, evidentemente, non aveva un fratello che, secondo la legge data da Dio a Mosè, avrebbe dovuto occuparsi di lei prendendola in moglie. Ricordiamo le parole di Deuteronomio 25.5,6: “Se dei fratelli staranno insieme e uno di loro morirà senza lasciare figli, la moglie del defunto non si sposerà fuori, con uno straniero. Suo cognato verrà da lei e se la prenderà per moglie, compiendo così verso di lei il suo dovere di cognato; e il primogenito che lei partorirà porterà il nome del fratello defunto, affinché questo nome non sia estinto in Israele”.

I presenti al funerale, quindi, cercavano come meglio potevano di consolarla, se non altro con la loro muta presenza, per tutti quei pensieri che la straziavano.

E Gesù, che legge nei cuori e nelle menti degli uomini, che conosce la loro storia, “Ne ebbe grande compassione”, termine che, prima ancora di alludere a un sentimento comprensivo e soccorrevole verso uno stato penoso, è un termine che etimologicamente richiama a un “patire assieme”, a un’identificazione con chi soffre partecipando attivamente e concretamente al suo dolore. Possiamo dire che anche gli abitanti di Nain compativano quella donna, ma per quanto si condolessero con lei, non avrebbero potuto fare nulla per alleviarne la condizione. Dirle “Non piangere”, non avrebbe risolto proprio nulla, perché se l’essere umano può accettare la morte di un genitore come un fatto naturale, gestire il contrario credo sia molto più difficile, al di là della fede e del senso di realtà delle cose, benché sappiamo che dal momento in cui uno nasce può solo morire.

Il compatire di Nostro Signore, però, porta a una reazione risolutiva. Il suo “Non piangere” è diverso da quello che una persona avrebbe potuto dire a quella donna. E qui abbiamo una serie di parole e gesti assolutamente importanti: dopo l’invito a non piangere, si avvicinò e “toccò la bara”, non come le nostre, ma una tavola di legno dotata di bordo per non far cadere il cadavere, avvolto in lenzuola, durante il trasporto. Ebbene Gesù si avvicina, tocca la bara e parla dicendo “Ragazzo, dico a te, àlzati”. Si tratta di una situazione ben diversa rispetto a miracoli solo apparentemente analoghi operati dai profeti nell’Antico e Nuovo patto: le risurrezioni da loro prodotte furono sempre precedute da una preghiera, cioè quegli uomini di Dio furono degli strumenti nelle Sue mani per quel miracolo, ma non avevano in loro stessi, cioè per natura, nessuna autorità per farli, nessuna possibilità. I profeti pregarono perché la risurrezione avvenisse o furono informati da Dio su come fare per produrla, ma Gesù parla direttamente al ragazzo e gli ordina di alzarsi. “Dico a te”esattamente come ha detto a ciascuno di noi “mentre eravamo morti negli errori e nel peccato”e, come leggiamo in Efesi 5.19, “Svegliati, o tu che dormi, e Cristo ti inonderà di luce”. Non esiste Sua iniziativa che non produca un risultato.

Il “non piangere” detto a quella vedova conteneva quindi un perché, a differenza di quello che avrebbe potuto dire un uomo comune, che tuttavia sarebbe rimasto muto di fronte a una frase del tipo “dammi un motivo per non piangere”. In assenza di un intervento di Dio o del Suo aiuto l’uomo è e resterà sempre da solo. Quello che voleva dire Gesù alla vedova era: “non piangere perché ci sono io”, alludendo al pianto di disperazione che appartiene a chi non ha speranza, certezza di vita, esperienza provata di un incontro e di un cammino con lui.

Leggiamo che, dopo l’ordine di alzarsi, “il morto si mise seduto e cominciò a parlare, ed Egli lo restituì a sua madre”: Gesù usò quindi la Sua stessa parola, quella per cui “tutte le cose sono state create”e fu in grado di produrre l’impossibile, cioè il ritorno in vita di una persona deceduta, per quanto non da giorni come nel caso di Lazzaro. E di fronte a Lui è il tempo a soccombere.

L’importanza di questo miracolo è grandissima: fu è la seconda risurrezione prodotta (ricordiamo la figlia di Giairo), e quindi torna a parlarci del potere di Gesù collegato alle parole “Io sono il primo e l’ultimo, e il vivente. Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi”(Apocalisse 1.17,18). Con la resurrezione di questo giovane, il Cristo anticipa in un certo senso la propria annullando concettualmente la distanza tra un corpo morto di carne e lo spirito e l’anima che lo hanno abitata e che quindi tornano. Non è affatto poco, al di là dell’effetto che l’episodio di quel ragazzo ebbe sui presenti che dissero, superficialmente ma in base alle loro possibilità intellettive di allora, “Un grande profeta è sorto tra noi” e “Dio ha visitato il suo popolo”: Gesù in quest’episodio dimostra, al di là delle guarigioni effettuate su ogni male fisico e spirituale, di andare oltre, avendo le chiavi della vita e della morte a parte la sua persona, che risorgerà dopo tre giorni. In pratica dimostra la sua autorità totale, poiché non credo che ci sia, per quanto riguarda la nostra vita terrena, alcun punto più grande e fermo della morte che, orizzontalmente parlando, rappresenta la fine di tutto, il vero punto di non ritorno, idea che qui viene ribaltata. La risurrezione di quel giovane non fu contestata da nessuno, impossibile trovare una testimonianza discordante visto che avvenne alla presenza non solo degli abitanti di una cittadina di poco conto, ma di quanti erano al seguito di Gesù viste forse nei settanta discepoli, ma ancora di più da tutti coloro che provenivano dalle zone più svariate e che si erano messi a seguirlo, cioè la “folla”.

Se però vedessimo in questo miracolo unicamente una “buona azione” di Gesù per togliere un dolore praticamente importabile a quella donna, sbaglieremmo: fu dato un elemento importante di considerazione a tutti i presenti, e quindi anche a quelli che avrebbero letto come noi l’episodio. Fu data veridicità e garanzia di altre affermazioni che riguardano gli avvenimenti passati e futuri di cui leggiamo nella Bibbia; per il passato abbiamo, a parte le risurrezioni dei profeti, quel verso che si tende ad ignorare quando vengono descritti gli eventi che si succedettero alla morte della croce e che riporta “i sepolcri si aprirono e molti corpi dei santi, che dormivano, risuscitarono; e, usciti dai sepolcri, entrarono nella santa città e apparvero a molti” (Matteo 27.52,53).

Ma soprattutto, la resurrezione di quel giovane e di altri, assieme a quella di Gesù, rende veritiere, se ce ne fosse bisogno, le parole dell’apostolo Giovanni che, contemplando la visione dell’ultimo, definitivo Giudizio sull’umanità, scrive che “..il mare restituì i morti che esso custodiva e la morte e gli inferi resero i morti da loro custoditi e ciascuno venne giudicato secondo le sue opere. Poi la morte e gli inferi furono gettati nello stagno di fuoco. Questa è la seconda morte, lo stagno di fuoco” (Apocalisse 20.13,14). Il testo prosegue con un ultimo verso, al quale tutti coloro che non sono salvati dovrebbero prestare la massima attenzione: “E se qualcuno non fu trovato scritto nel libro della vita, fu gettato nello stagno di fuoco”.

La resurrezione del figlio della vedova di Nain, quindi, ci parla dell’amore di Gesù, che “Si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori” (Isaia 53.4) e che “fu per loro un salvatore in tutte le loro tribolazioni. Non un inviato né un angelo, ma egli stesso li ha salvati” (63.8.9). Al tempo stesso, è un episodio che attesta che, in futuro, c’è una resurrezione che attende tutti, in salvezza o in giudizio.

Leggiamo poi “Gesù lo diede a sua madre”. Avrebbe potuto ritenere conclusa la sua opera nel momento in cui il ragazzo si fosse svegliato, ma quel gesto di restituzione ebbe una valenza enorme: è una restituzione personale di un bene fino a poco prima perduto e che mai avrebbe potuto ritornare senza un suo intervento. A quella donna non solo, per quanto detto all’inizio, era stato restituito un figlio, ma la sopravvivenza, tanto importante, della sua progenie nel tempo, dell’identità sua e del marito che non c’era più.

E noi? Valgono le parole dell’apostolo Paolo “mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. A maggior ragione ora, giustificati per il suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui. Se infatti, quando eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto di più ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita” (Romani 5.8-109). Amen.

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05.53 – RICCHI E POVERI NEL VANGELO (Luca 6.20-26)

05.53 – Ricchi e poveri nel Vangelo (Luca 6. 20-26)

20Ed egli, alzàti gli occhi verso i suoi discepoli, diceva: «Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio. 21Beati voi, che ora avete fame, perché sarete saziati. Beati voi, che ora piangete, perché riderete. 22Beati voi, quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e vi insulteranno e disprezzeranno il vostro nome come infame, a causa del Figlio dell’uomo. 23Rallegratevi in quel giorno ed esultate perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nel cielo. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i profeti. 24Ma guai a voi, ricchi, perché avete già ricevuto la vostra consolazione.25Guai a voi, che ora siete sazi, perché avrete fame.
Guai a voi, che ora ridete, perché sarete nel dolore e piangerete. 26Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i falsi profeti.
”.

 

Non credo sia giusto concludere il discorso di Gesù sul monte senza occuparci di questo particolare di Luca relativo alle beatitudini. Del sermone sul monte Luca ci dà un rapporto più breve eppure non meno edificante, per quanto la questione se si tratti di un unico sermone o di due, uno detto “del monte” e l’altro “della pianura”, sia ancora aperta. Non è quindi possibile stabilire con assoluta certezza se Luca e Matteo ci propongano due versioni di uno stesso discorso, oppure se vi siano stati due momenti e due predicazioni distinte, per quanto dai contenuti simili fra loro. Pare giusto ricordare gli argomenti a favore dell’una o dell’altra tesi. A favore della teoria sul fatto che entrambi gli evangelisti si rifacciano ad un unico evento abbiamo che:

  • Inizio e fine di entrambi sono praticamente identici;
  • I princìpi ricordati da Luca si trovano nello stesso ordine generale di Matteo e spesso con quasi gli stessi termini;
  • Entrambi gli evangelisti ricordano lo stesso miracolo, cioè la guarigione del servo del centurione, come accaduto poco dopo il sermone, quando il Signore entrò in Capernaum.

A favore della teoria che vede due discorsi in due luoghi diversi abbiamo:

  • La diversità del luogo. Il sermone di Matteo fu pronunciato sopra un monte, quello di Luca in una pianura, o su un terreno ondulato che Gesù aveva raggiunto.
  • La diversità di tempo. Se Matteo cita la guarigione di un lebbroso, e subito dopo quella del servo del centurione, Luca menziona quella del solo servo del centurione.
  • Nonostante sappiamo che la narrazione evangelica non segua un ordine cronologico rigoroso, è da notare che Matteo pone la sua chiamata molto tempo dopo il discorso sul monte, mentre Luca la mette prima. Se avessimo due versioni di uno stesso sermone, come scrive Steward, “sembra incredibile che Matteo non solo ometta l’ordinazione degli apostoli (che sarebbe accaduta prima), ma posponga perfino la propria vocazione”.
  • La differenza di uditori. Oltre alla moltitudine proveniente dalla Giudea e Galilea, Matteo parla di molti provenienti dalla Perea e dalla Decapoli, ebrei. Luca, però aggiunge come presenti al sermone anche dei pagani dalle coste di Tiro e Sidone.
  • La diversità di contenuto. Luca non riporta la maggior parte del contenuto di Matteo e fa precedere certe parti del sermone da frasi che, pur non essendovi nel primo Vangelo, si raccordano alle sue in modo naturale.

Cosa possiamo concludere? Come esiste effettivamente il dubbio dei due luoghi, è pur vero che i sinottici collaborano tra loro con intersezioni stupende, soffermandosi su particolari degli stessi episodi che variano anche molto tra loro. Tra gli esegeti, alcuni antichi e moderni non si pongono neppure il problema che i discorsi di Gesù alle folle fossero stati due, come hanno fatto i primi scrittori greci. Il primo a porsi delle domande in merito fu Sant’Agostino.

Venendo al nostro testo, Luca come Matteo inizia con le beatitudini, non otto, ma quattro. Il numero otto in realtà rimane invariato, ma lo si raggiunge considerando quattro beatitudini ed altrettanti guai, quindi possiamo dire quattro benedizioni e quattro maledizioni che contrappongono le realtà dell’uomo spirituale e di quello naturale. Se, come è stato giustamente osservato, “il discorso della montagna vuole essere, per contenuto e scenario, il contrappunto messianico alla legge mosaica”, (Ricciotti), vediamo la delicatezza con la quale Gesù affronta l’argomento, andando dritto alla persona, alla sua psicologia, alla sua realtà invitando i uditori e lettori ad un attento esame. E, per noi che abbiamo cercato di sviluppare il discorso della “casa”, che può essere costruita sulla sabbia (terra) o sulla roccia, capire la benedizione o maledizione del povero e del ricco dovrebbe essere agevole.

Troviamo scritto: “La parola del Signore sarà loro come insegnamento dopo insegnamento, insegnamento dopo insegnamento, linea dopo linea, linea dopo linea, un poco qui, un poco là” (Isaia 28.13). È un testo tradotto da Giovanni Diodati, che preferisco a quello della CEI che, semplificando per i lettori, parla di “precetto su precetto” e “norma su norma”; comunque questa interpretazione tende a mettere un accento sulla progressività del cammino del credente nella dottrina e nella conoscenza e si raccorda alla costruzione della casa, dallo scavo delle fondamenta alla posa di mattone dopo mattone. Perché, finite le fondamenta, c’è tutto il resto da costruire.

Così arriviamo al quattro, che abbiamo già visto essere il numero dell’equilibrio, quello che consente all’uomo di stare, o sentirsi, al sicuro. Quattro beatitudini: i poveri, gli affamati, chi è nel pianto, chi è disprezzato e perseguitato a causa del Vangelo. Quattro maledizioni: i ricchi, i sazi, chi ride, chi gode di buona fama presso il consorzio umano terreno. L’errore più grossolano che si può commettere cercando di spiegare questi punti è quello di cadere nel sentimentalismo, vedendo i “poveri” materiali destinatari di beatitudini future e i “ricchi” di disprezzo, collegandoli magari tutti a quello della parabola del “ricco e Lazzaro”: sappiamo che Gesù qui non parla tanto di povertà o ricchezza materiale, quanto della condizione d’animo e del cuore.

E questo lo ricaviamo da un banale pronome, “voi”. Nostro Signore non dice “Beati” o “Guai ai”, ma “Beati voi” o “Guai a voi”, cioè si rivolgeva al pubblico eterogeneo che era convenuto là per ascoltarlo. Gesù parla come profeta e Dio inviato dal Padre – attenzione – dopo che si era manifestato in quello stesso luogo e a quella stessa gente prima guarendo le malattie e cacciando gli spiriti impuri che tormentavano alcuni di loro (Luca 6.18-19). Leggiamo: “C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente (…) che erano venuti per ascoltarlo ed essere guariti dalle loro malattie; anche quelli che erano tormentati da spiriti impuri venivano guariti. Tutta la folla cercava di toccarlo, perché da lui usciva una forza che guariva tutti”.

Ecco. Io credo che tutti i presenti, indistintamente, ne fossero coscienti o meno, fossero potenzialmente dei poveri. Lo dimostrava il loro stesso trovarsi lì: “venuti per ascoltarlo” perché evidentemente il loro cuore e la loro mente non si era fino a quel momento saziata, mancava loro qualcosa, attendevano. “Essere guariti dalle loro malattie” perché la medicina, per quanto allora poco sviluppata, si era rivelata impotente a risolvere i loro problemi, come accade anche oggi nonostante il progresso e sia possibile connettere al corpo un arto artificiale e farlo funzionare collegando nervi trapiantati e reinnestati. Avevano bisogno di Cristo e solo loro sapevano se il loro essere là era dovuto alla volontà di risolvere un problema di contingenza o di eternità.

Chi è povero non guarisce dalla sua povertà con l’elemosina o un dono – ricordiamo le parole “I poveri con voi li avrete sempre”, (Marco 14.7) – chi ha fame l’avrà anche terminati gli effetti di un ricco pasto, chi piange tornerà a farlo e il perseguitato difficilmente troverà pace. Chi però si riconosce in queste categorie, o meglio nelle prime tre perché la quarta richiede un discorso a parte, in Cristo ha l’opportunità di ribaltare completamente la propria posizione: non sarà più uno dei tanti, ma diventerà un figlio di Dio, con tutte le prospettive di cui parla tutta la Bibbia, dalla Genesi all’Apocalisse. Sarà inserito nel Piano del Creatore perché gli avrà confessato il suo bisogno e desiderio.

Tutto poi è aumentato, stabilito, reso “ufficiale” dal numero quattro: le beatitudini e le maledizioni sono rivolte a chi si trova nella totalità della condizione del povero o del ricco. Eppure anche questa è una lettura frettolosa, per quanto veritiera; in realtà si riferisce alla condizione dell’uomo naturale nella sua essenza. L’apostolo Paolo un giorno scrisse “Io so che in me, cioè nella mia carne, non abita alcun bene” (Romani 7.18), descrizione perfetta della sua e nostra essenza: “in me, cioè nella mia carne” è riferito alle sue e nostre possibilità, capacità di realizzare qualcosa di positivo in termini spirituali. Sotto questo aspetto, e solo in questo, Paolo era povero. E infatti non mendicava, ma lavorava per mantenersi, facendo il tappezziere. La povertà è quindi interiore e solo in Dio può risolversi. Al termine della parabola dell’uomo ricco leggiamo: “Così è chi accumula tesori per sé, e non arricchisce davanti a Dio” (Luca 12.21). Ed ecco il guaio del ricco ipocrita che porta avanti se stesso, i suoi desideri, attaccato a ciò che possiede, materialmente o interiormente, e che difende non volendoli lasciare. Gli basta essere così, si compiace della stima dei suoi simili che ragionano secondo metri umani che umiliano.

Vediamo, nella parabola dell’uomo ricco, che tutti i progetti di quell’uomo s’infrangono di fronte alla chiamata di Dio “Stolto, questa stessa notte ti sarà ridomandata la tua anima, e di chi sarà ciò che hai ammassato?” (Luca 12.20). Quella persona viveva una sua stabilità, la stessa della casa sulla sabbia: era convinto di poter sussistere all’infinito, illuso che i suoi possedimenti e guadagni potessero garantirgli una sopravvivenza non volendo accettare il fatto che, un giorno, non solo avrebbe dovuto perdere tutto, ma affrontare la prova finale, la stessa degli elementi naturali che si abbatterono sulla casa costruita sulla sabbia, senza fondamenta. Quella del ricco di cui parla Gesù, è così la soddisfazione piena nelle cose terrene rifiutando l’idea che queste abbiano un termine, come testimoniano le agende ricche di impegni per i domani che non ci appartengono e non è detto ci siano concessi, che ne potremo disporre. Eloquente Proverbi 10.15: “I beni del ricco sono la sua roccaforte”, cioè una città fortificata, ritenuta inespugnabile fino a prova contraria. E la storia, antica e moderna, ci insegna quanto l’idea della roccaforte sia soggetta a mutare. Ancora: “Non affannarti per accumulare ricchezze, sii intelligente e rinuncia. Su di esse volano i tuoi occhi, ma già non sono più” (Proverbi 23.4). È quel “già non sono più” che ci parla del fatto che il tempo scorre senza che ce ne accorgiamo, perché abbiamo in noi il ricordo dell’eternità per la quale eravamo stati progettati e, se gli anni si succedono l’uno dopo l’altro, l’uomo fondamentalmente rimane sempre lo stesso, se guarda all’orizzontalità della vita e alla terra. Ecco perché, per chi non è ricco in Dio e tiene all’adulazione e considerazione dei suoi simili, verrà la rovina esattamente come quella casa costruita senza saggezza.

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5.01 – IL SERMONE SUL MONTE: INTRODUZIONE (Luca 6.17-19; Matteo 5.3-7;)

5.1 – Il sermone sul monte: introduzione (Luca 6.17-19; Matteo 5.3-7)

 17Disceso con loro, si fermò in un luogo pianeggiante. C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidone, 18che erano venuti per ascoltarlo ed essere guariti dalle loro malattie; anche quelli che erano tormentati da spiriti impuri venivano guariti. 19Tutta la folla cercava di toccarlo, perché da lui usciva una forza che guariva tutti.

Con il sermone sul monte entriamo nel territorio delle profondità dell’insegnamento di Gesù alla folla e ai discepoli di cui ci cui Matteo e Luca ci hanno lasciato tracce importanti. Numerose sono le differenze tra i due racconti: il primo evangelista lo riporta in 107 versi, il secondo in 30 perché entrambi adattano i contenuti in base agli scopi che si prefiggono nello scrivere e possiamo presumere che includano nel loro scritto anche parte degli insegnamenti che il loro Maestro faceva nella sinagoga. Sappiamo che Gesù aveva appena eletto i dodici, più in alto rispetto a quel “luogo pianeggiante” in cui trovò una folla composta da discepoli e la “gran moltitudine di gente” composta ormai da giudei, e forse qualche pagano, che avevano saputo delle Sue guarigioni e dell’autorità con la quale predicava commentando i contenuti della Legge e dei profeti. Gli apostoli stessi, da lui scelti, avevano fino ad allora ricevuto una formazione rudimentale, basata soprattutto su ciò che potevano sperimentare di persona attraverso un rapporto continuo e privilegiato con Lui: gli rivolsero domande, chiarimenti, pensieri che gli evangelisti non ci hanno trasmesso. Come qualcuno ha osservato, c’era un grosso divario tra i sentimenti che provavano per Gesù e il reale fondamento dottrinale che ancora non possedevano. Era quindi necessario non solo formare i dodici e gli altri discepoli, ma chiarire a tutti coloro che andavano a lui per farsi guarire tanto dalle malattie quanto tagli spiriti immondi che, se si fossero limitati alla risoluzione di un grave problema contingente quale poteva essere la cecità, la paralisi o la possessione, non avrebbero risolto nulla per le loro anime. E a proposito della “forza che usciva da lui che guariva tutti” (v.19) abbiamo un’anticipazione dell’episodio della donna emorraissa narrata in Matteo 9.20-22: “Ed ecco, una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni, gli si avvicinò alle spalle e toccò il lembo del suo mantello. Diceva infatti tra sé: «Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò salvata». Gesù si voltò, la vide e disse: «Coraggio, figlia, la tua fede ti ha salvata». E da quell’istante la donna fu guarita”.

Era quindi necessario che la gente sapesse. I miracoli che faceva alla presenza di tutti e che risolvevano il problema di una vita limitata, potevano trovare la loro ragione e destinazione finale con la soluzione del problema reale, la Vita vera vista nell’incontro con la Verità e la Via, l’unica, da percorrere. Ciò che Gesù faceva guarendo le infermità del corpo erano la figura di quello che avrebbe fatto guarendo l’anima. Per questo Nostro Signore apre il suo discorso, in Matteo, iniziando dalle beatitudini che analizzeremo. Ecco il testo di Matteo che inizia il suo quinto capitolo in modo più breve rispetto a Luca: “Vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo”…

3«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. 4Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. 5Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. 6Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. 7Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. 8Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. 9Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. 10Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. 11Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. 12Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti perseguitarono i profeti che furono prima di voi.”.

Contando le beatitudini non ne abbiamo nove, ma otto più una e quell’una si distacca dalle altre, apre un capitolo nuovo con quel “beati voi” così diverso da “beati i”. Ci soffermeremo pertanto solo sulle prime otto, numero dalle ampie prospettive.

Leggendo ora le categorie di persone nei confronti delle quali sono indirizzate le beatitudini (versione di Matteo) e considerandole da un punto di vista esclusivamente umano, queste non hanno umanamente senso perché per “beato”, dimenticando qualsiasi riferimento cosiddetto “religioso”, si intende una persona felice, pienamente appagata e soddisfatta e, nel mondo in cui viviamo, le caratteristiche che hanno i “beati” di cui Gesù parla sono quanto di più lontano dalla condizione che il termine esprime. Il “povero di spirito” è ritenuto una persona senza qualità intellettuali. Dall’afflitto ci si allontana perché mette tristezza . Chi ha fame e sete di giustizia è un povero essere che non ha ancora capito che deve mettersi alla ricerca di chi lo possa aiutare, raccomandare, di un potente che possa intervenire a suo favore. E così via col misericordioso, da sempre scambiato per debole, col puro di cuore quotidianamente calpestato dal potere che non lo tollera come documentano i tanti processi contro di lui, primi fra tutti quelli contro le mafie.

Il Vangelo però non lo si può leggere con gli occhi del mondo in cui viviamo. Il Vangelo propone realtà agli antipodi tra loro usando la stessa terminologia ma, proprio perché opposti, non hanno nulla in comune e il loro significato è diverso. Guardiamo l’episodio: Gesù ha appena eletto i dodici e scendendo trova la folla composta da discepoli, o da chi tale avrebbe voluto diventare, o da persone provenienti da ogni dove e affette da malattie, come ci ha descritto Luca. Gesù guarisce anche “involontariamente” nel senso che bastava toccarlo perché gli inconvenienti fisici cessassero, ma poi inizia a parlare rivolgendosi a tutti quelli che, tra la folla, si sarebbero riconosciuti nelle categorie che avrebbe elencato. Il suo appello, “Beati i” delle otto beatitudini non è lo stesso della nona, o prima dopo le otto, “Beati voi” in cui si rivolge ai discepoli, ai tanti che affollavano quel luogo. Notiamo un particolare al verso 2 di Matteo 5: “Ed Egli, aperta la bocca, li ammaestrava”, che in diverse traduzioni si abbrevia erroneamente con “Cominciò a parlare”, perché “aprire la bocca” era un formula, secondo l’uso ebraico, usata per indicare l’inizio di un discorso autorevole e solenne.

Ho iniziato queste riflessioni ponendo in contrasto la diversa interpretazione che il mondo dà al termine “beato” e quella opposta che dà l’àmbito spirituale, che si ritrova anche nel termine ebraico e biblico: il testo masoretico, la versione della Bibbia in uso fra gli ebrei, usa la parola ashré e indica lo stato interiore di chi vive nell’integrità perché si lascia guidare dai comandamenti di Dio. In questa parola è racchiusa anche l’idea del movimento, dell’alzarsi, dell’essere in cammino. Nel Salmo 128.1,2 leggiamo “Beato chi teme il Signore e cammina nelle sue vie. Della fatica delle tue mani ti nutrirai, sarai felice e avrai ogni bene”; la benedizione è cioè la conseguenza della beatitudine, non viceversa: in pratica, sei benedetto perché sei beato, hai scelto di temere il Signore e camminare nelle sue vie. Vie distanti, sconosciute, incomprensibili per il mondo in cui vivi. Il greco invece ha machàrios, cioè “felice, beato” con riferimento allo stato di chi è in tale condizione perché propria degli dèi, rappresentati sempre al di là di qualsiasi preoccupazione umana, quindi esenti dalla fatica, dal lavoro e dalla morte. “Makàrios” contemplava le caratteristiche di “lungo, ampio, grande” e “favore, dono, cura amorevole”, intesi come qualcosa di concesso. Nel caso di quanto dichiarato da Gesù, allora, i “Makàrioi” (plurale) sono i “felici, fortunati, favoriti perché curati con le cure di Dio”. La beatitudine, la felicità umana, terrena, era indicata con un altro termine, òlbia.

Allora l’essere “beato” è qualcosa che si ha, una caparra, un conto a giustizia, una condizione che a volte può essere sconosciuta e c’è bisogno di qualcuno che la dichiari, come nel caso di Pietro quando riconobbe in Gesù il Cristo, il Figlio dell’Iddio Vivente. Gli fu detto infatti “Tu sei beato Simone, figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te le hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli” (Matteo 16.17). Nel caso delle beatitudini, quindi, Gesù rivolge ai presenti e a tutti quelli che avrebbero letto le sue parole nei secoli a venire, un’esortazione a pensare al privilegio che hanno nel momento in cui si trovano nelle circostanze che andrà a descrivere, un invito amorevole che rivolgerà spesso ad andare oltre quelle che possono sembrare circostanze o posizioni negative perché nella realtà queste porteranno – o hanno già portato – a un risultato che andrà enormemente oltre. Più avanti, del resto, l’apostolo Paolo in Romani 8.28 scriverà che “tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio, per coloro che sono stati chiamati secondo il suo disegno”. Penso che ogni volta che Gesù sul monte abbia pronunciato quella parola, “beati”, intendesse in subordine anche questo.

Il cristiano quindi è un costruttore beato sia dal punto di vista greco, che suggerisce l’idea di ciò che si possiede già nonostante tutto, ed ebraico, che invece implica un cammino da compiere, è figura di chi è in movimento verso una meta, un progetto che ha garanzia di riuscita come abbiamo letto nella porzione del Salmo 128; la differenza è che, se nell’Antico Testamento la benedizione era tangibile mediante la riscossione di un risultato sulla terra, nel Nuovo è vista nel premio ultraterreno, come provano i verbi usati da Nostro Signore, che sono sempre al futuro.

Sappiamo che le beatitudini sono otto – più una che incorporeremo nella seconda parte del discorso sul monte – e che costituiscono una sorta di cerchio secondo me, ma che indiscutibilmente rappresentano un perimetro all’interno del quale ne sono rinchiuse anche altre, ricorrendo nel Nuovo Testamento la parola “Makàrios” 68 volte al singolare e 50 al plurale. Gesù non poteva dire tutto, ma fornire delle basi ai suoi uditori certamente sì: parlava a discepoli, a malati guariti ed ancor più a una categoria molto particolare rappresentata da quelli che erano tormentati da spiriti impuri, la cui condizione veniva a cessare.

La malattia affligge, lo spirito impuro tormenta perché prende possesso della mente costringendo il posseduto a fare ciò che non vorrebbe, lo umilia davanti a se stesso e spesso anche agli altri quando non si manifesta in modo sommesso, nascosto come nel caso dell’indemoniato guarito nella sinagoga di Capernaum. Ecco, molti dei presenti su quel pianoro avevano avuto una liberazione e si ritenevano beati, ma la vera gioia, il vero favore di Dio, la condizione per poter iniziare e proseguire un cammino vero, quelle persone la avrebbero avuta solo identificandosi nelle categorie di apertura contenute nel discorso che Gesù stava per iniziare. Alla liberazione delle infermità poteva seguire quella vera dal regno della morte e sarebbe avvenuta attraverso la comprensione della necessità di un percorso interiore, il riconoscerlo come il Liberatore Unico e  non, come la maggioranza voleva, vederlo e volerlo come un imperatore, un re terreno invincibile, uno dei tanti condottieri che avrebbero costituito territori politici a prezzo di vite umane, guerre ed oppressioni, per poi finire nel giro di poco tempo. Il Regno di cui parlerà fin dalla prima beatitudine sarebbe stato quello “dei cieli”, non relegato al un tempo che, pensando all’eternità, è poco a prescindere. Il Regno della terra, di cui Gesù non parla mai se non lasciando indizi, è stato dato a Satana che di questo mondo è il principe.

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4.05 – APOSTOLI 5 (Luca 6.12-16)

4.5 – Apostoli V (Luca 6.12-16)

 12In quei giorni egli se ne andò sul monte a pregare e passò tutta la notte pregando Dio. 13Quando fu giorno, chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede anche il nome di apostoli: 14Simone, al quale diede anche il nome di Pietro; Andrea, suo fratello; Giacomo, Giovanni, Filippo, Bartolomeo, 15Matteo, Tommaso; Giacomo, figlio di Alfeo; Simone, detto Zelota; 16Giuda, figlio di Giacomo; e Giuda Iscariota, che divenne il traditore.”

GIUDA DI GIACOMO

È chiamato anche Taddeo nell’elenco di Matteo e Marco e in alcuni manoscritti Lebbeo, parole che significano entrambe “Diletto, coraggioso”, che si è pensato essere dei soprannomi stanti a indicarne il carattere. A puro titolo di citazione, secondo Eusebio di Cesarea questo apostolo fu lo sposo innominato delle nozze di Cana, ma non abbiamo dati a suffragio di quest’ipotesi. È citato da Giovanni, che spesso dà dei ritratti veloci ma molto indicativi dei dodici, in 14.15-22, nell’occasione in cui Gesù promise il Consolatore facendo un distinguo tra gli uomini: “Se mi amate, osservate i miei comandamenti ed io pregherò il Padre ed Egli vi darà un altro Consolatore, che rimanga con voi per sempre, lo Spirito della verità che il mondo non può ricevere, perché non lo vede e non lo conosce; ma voi lo conoscerete, perché dimora con voi e sarà in voi.(…) Chi ha i miei comandamenti e li osserva, è uno che mi ama; e chi mi ama sarà amato dal Padre mio, e io lo amerò e mi manifesterò a lui. Giuda, non l’Iscariotha, gli disse «Signore, come mai ti manifesterai a noi e non al mondo?». Gesù rispose e gli disse «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio l’amerà, e noi verremo a lui e faremo dimora presso di lui»”.

La domanda di Giuda di Giacomo lo qualifica allora come uditore attento alle parole del Maestro, non uno che ricorda soltanto l’ultima frase e se ne accontenta. È ritenuto da alcuni l’autore dell’omonima epistola, presentandosi come “Giuda, servo di Gesù Cristo e fratello di Giacomo”, quel Giacomo detto “fratello del Signore” che è annoverato tra le colonne della Chiesa di Gerusalemme, ma altri negano questa possibilità, in particolare la critica moderna.

GIUDA ISCARIOTHA

Il secondo nome, Iscariotha, ha un doppio significato perché se l’ebraico potrebbe qualificare la sua provenienza, “Uomo di Kerioth” città del Sud della Giudea, il significato dall’aramaico è “il mentitore, l’ipocrita”. Dei dodici è sicuramente il personaggio più complesso e credo che una buona analisi su di lui debba attenersi il più possibile ai dati che abbiamo. Non sappiamo nulla riguardo al tempo intercorso tra il primo incontro con Gesù e la sua elezione ad apostolo; di certo c’è solo che fu eletto al pari di tutti gli altri, dopo un certo tempo vissuto con loro. Incontriamo Giuda per la prima volta in Giovanni 6 nell’episodio che abbiamo già ricordato quando, insegnando nella sinagoga di Capernaum, Gesù fece il suo discorso sul mangiare la sua carne e bere il suo sangue. Sappiamo che molti discepoli furono scandalizzati da questo discorso e si allontanarono da lui. Ora è scritto che disse “Tra voi vi sono alcuni che non credono” e, subito dopo, “Gesù infatti sapeva fin da principio chi erano quelli che credevano in lui e chi era colui che lo avrebbe tradito” (v.64). La prima differenza quindi è tra chi crede e chi no. Due mondi diversi nonostante il cielo sotto cui si vive sia lo stesso, ci si incontri per strada, si frequenti la stessa gente. Il fatto che Gesù sappia chi crede in lui, che legga nel cuore della persona, è garanzia della sua attenzione e protezione, ma allo stesso modo il contrario esiste per chi non crede per scelta, vale a dire trova alternative al Suo messaggio e le ritiene migliori. Molto spesso il non credere è una scelta che si fa per continuare a vivere ignorando il messaggio di Cristo, per fare i propri comodi, per non adeguarsi a Lui perché una vita senza gli obiettivi che hanno tutti e che tutti si tramandano da secoli, spaventa.

Secondo dato che i versi di Giovanni ci comunicano è che Gesù sapeva chi lo avrebbe tradito. Lo sapeva da sempre, prima ancora di chiamare l’Iscariotha nel numero dei 12 e possiamo dire che non lo avrebbe mai ammesso al gruppo degli apostoli se non avesse avuto il ruolo di consegnarlo di notte al sinedrio ebraico. Giuda Iscariotha non fu usato per compiere il tradimento, ma piuttosto partecipò alla vita comunitaria dei dodici, ascoltò gli insegnamenti di Gesù, vide molto più di noi che abbiamo solo un libro su cui basarci, ma non credette mai, neppure di fronte ai miracoli. Se avesse avuto anche un solo dubbio, se avesse posto in discussione il suo essere anche in una minima parte, avrebbe avuto il Maestro per un confronto.

Il fatto è che Giuda aveva un’altra caratteristica negativa; sempre nello stesso capitolo, alle parole di Pietro che riconosceva che Gesù era il solo ad avere parole di vita eterna, gli fu risposto: “«Non sono forse io che ho scelto voi, i dodici? Eppure uno di voi è un diavolo». Parlava di Giuda, figlio di Simone Iscariotha: costui infatti stava per tradirlo, ed era uno dei dodici” (v.70,71). Occorre prestare molta attenzione al termine “diavolo”, al quale associamo una figura repellente e macabra che ci è stata tramandata dalla superstizione o da dipinti di artisti più o meno grandi: il termine greco “diàbolos” è colui che divide, accusa, calunnia ed è quindi avverso, contrario, ostile. In altre parole, un nemico. Così “diabolico” è ciò che allontana da Dio e non necessariamente ciò che è perverso, malvagio, assolutamente riconoscibile come opposto al bene. E “diavolo” come persona concreta, nel senso etimologico, Giuda lo fu sempre, come possiamo dedurre dal terzo episodio in cui è citato da Giovanni in cui commenta in modo sprezzante quanto avvene alla cena di Betania: lì Maria, sorella di Lazzaro e Marta, aveva cosparso i piedi di Gesù con una libbra (300 grammi), di nardo puro, del valore di 300 denari, quasi la paga di un anno di un operaio che veniva pagato un denaro al giorno. Al verso 4 leggiamo “Allora Giuda Iscariotha, uno dei suoi discepoli che doveva poi tradirlo, disse «Perché quest’olio profumato non lo si è venduto per 300 denari per poi darlo ai poveri?». Disse questo non perché gli importasse dei poveri, ma perché era ladro e, siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro”. (vv.5.6).

Ora dire “era ladro” è diverso che, come alcuni traducono, “era un ladro”, perché la prima definizione indica uno stato d’animo, un atteggiamento, un’attitudine, mentre il secondo può riferirsi anche a qualcosa di occasionale e compiuto per necessità, come leggiamo in Proverbi 6.30 “Non si disprezza il ladro che ruba per soddisfare l’appetito quando ha fame; ma se viene colto in fallo, dovrà restituire sette volte, e dare tutti i beni della sua casa”. Giuda era quindi ladro dentro, privo di rispetto qualsiasi per la cosa altrui, pensava esclusivamente al suo vantaggio incurante della buona fede degli altri undici che lo ritenevano uno di loro, come disse Pietro con quel famoso “Signore, a chi ce ne andremo noi?”. Pensiamo al valore dato al denaro da personaggi che conosciamo: Maria aveva dato per ungere i piedi di Gesù 300 denari – ricordiamo che Filippo disse a Gesù che ce ne sarebbero voluti 200 per sfamare le persone al miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci -, e Nicodemo ne portò 100 libre, quindi 3.000, per l’imbalsamazione del corpo del crocifisso.

Giuda era insensibile a qualsiasi amore che non fosse per se stesso e rubava per il gusto del furto, non certo per arricchirsi, come Anania e Saffira in Atti 5.1-11 che avevano trattenuto per loro una parte del ricavato di un podere che avevano venduto, e arrivò a tradire Gesù per 30 sicli, il prezzo di uno schiavo. Tanto aveva stimato valere il proprio Maestro ed ecco perché Giuda fu un oppositore costante, un “diavolo”, un terreno impermeabile alla parola di Vita, ma permeabile a quella di morte perché in 13.2 Giovanni scrive “Mentre cenavano, il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda Iscariotha, figlio di Simone, di tradirlo.” Qui è l’opera dell’avversario che agisce non certo nei confronti di un innocente, ma di chi da sempre gli aveva dato sempre più spazio, come fosse un veicolo senza freni su una strada in discesa.

Sappiamo che Giuda il tradimento lo aveva già preparato: era già andato dai capi dei sacerdoti per fare arrestare Gesù (Marco 14.10), aveva già ricevuto il prezzo pattuito e “Da quell’ora cercava l’opportunità di tradirlo” (Matteo 26.15,16), ma l’accettazione piena e incondizionata del suo compito la accettò definitivamente nel prendere il “boccone intinto”: “E quel discepolo– Giovanni – chinatosi sul petto di Gesù, gli disse «Signore, chi è?». Gesù rispose «È colui al quale io darò il boccone, dopo averlo intinto» e, intinto il boccone lo diede a Giuda Iscariotha, figlio di Simone. Ora, dopo quel boccone, Satana entrò in lui” (Giovanni 13.25-27). Giuda, prendendo quanto Gesù gli porgeva, è come se avesse posto la propria firma a un terribile contratto stipulato con l’Avversario, gli diede il suo benestare anche se non possiamo escludere abbia pensato che, con tutti i miracoli che aveva fatto il suo Maestro, avrebbe potuto farne un altro, liberandosi come già avvenuto in altre occasioni. È l’unica attenuante che però non sminuisce la portata dell’atto, è come dire che chi fa un sorpasso azzardato a folle velocità, se causa un incidente in cui muoiono delle persone, non voleva uccidere. Non è un omicidio preterintenzionale.

C’è poi il pentimento: “Allora Giuda – colui che lo tradì -, vedendo che Gesù era stato condannato, preso dal rimorso, riportò le trenta monete d’argento ai capi dei sacerdoti e agli anziani, dicendo: «Ho peccato, perché ho tradito sangue innocente». Ma quelli dissero: «A noi che importa? Pensaci tu!». Egli allora, gettate le monete d’argento nel tempio, si allontanò e andò a impiccarsi. I capi dei sacerdoti, raccolte le monete, dissero: «Non è lecito metterle nel tesoro, perché sono prezzo di sangue». Tenuto consiglio, comprarono con esse il «Campo del vasaio» per la sepoltura degli stranieri. Perciò quel campo fu chiamato «Campo di sangue» fino al giorno d’oggi. Allora si compì quanto era stato detto per mezzo del profeta Geremia: E presero trenta monete d’argento, il prezzo di colui che a tal prezzo fu valutatodai figli d’Israele, e le diedero per il campo del vasaio, come mi aveva ordinato il Signore”(Matteo 27.3-10). Nel libro degli Atti Luca riporta le parole di Pietro che aggiunge dei particolari, vale a dire che Giuda aveva già acquistato un appezzamento di terra con quei soldi pur avendo poi restituito la somma ai capi dei sacerdoti: “In quei giorni Pietro si alzò in mezzo ai fratelli – il numero delle persone radunate era di circa centoventi – e disse: «Fratelli, era necessario che si compisse ciò che nella Scrittura fu predetto dallo Spirito Santo per bocca di Davide riguardo a Giuda, diventato la guida di quelli che arrestarono Gesù. Egli infatti era stato del nostro numero e aveva avuto in sorte lo stesso nostro ministero. Giuda dunque comprò un campo con il prezzo del suo delitto e poi, precipitando, si squarciò e si sparsero tutte le sue viscere. La cosa è divenuta nota a tutti gli abitanti di Gerusalemme, e così quel campo, nella loro lingua, è stato chiamato Akeldamà, cioè «Campo del sangue». Sta scritto infatti nel libro dei Salmi: La sua dimora diventi deserta e nessuno vi abiti, e il suo incarico lo prenda un altro”. (Atti 1. 16-19).

Giuda si rese conto di quello che aveva fatto, ma il suo fu un pentimento disperato, che non contemplava la possibilità del perdono. Scrive Paolo che “La tristezza secondo Dio produce un ravvedimento che porta alla salvezza e del quale non c’è mai da pentirsi, ma la tristezza del mondo produce la morte” (2 Corinti 7.10). Abbiamo detto che l’accettazione del boccone intinto fu la firma di Giuda a un contratto dal quale non poteva più tirarsi indietro: umanamente aveva ragionato fino a poco prima di tradirlo, poi aveva concesso a Satana di disporre di lui e da Satana fu abbandonato una volta raggiunto il suo scopo. Solo con se stesso, si ritrovò totalmente deserto con la propria colpa e il peso fu intollerabile perché non c’era chi potesse sollevarlo. La tristezza secondo il mondo produce la morte e la psicodinamica del suicidio è la disperazione che si forma nella persona quando non esiste più nulla in cui sperare, manca una prospettiva e il peso conseguente si fa insopportabile a tal punto che la non esistenza appare l’unica soluzione.

Pietro, dopo aver rinnegato Gesù per tre volte, è scritto che “pianse amaramente”: pianse sulla sua natura avendo agito per paura dopo una crisi nervosa vista in quel “cominciò a maledirsi”, pensando alla verità delle parole del Maestro che gli aveva predetto quel comportamento, ma a Giuda restava solo quel peccato, l’aver tradito quel “sangue innocente” che tanto aveva “amato il mondo”. Era possibile un perdono per lui? Se il pentimento può nascere solo dalla comprensione dell’errore, è indubbio che ci sia stato, ma questo stato d’animo può trovare rimedio solo rivolgendosi all’Unico in grado di dare perdono, cosa che non avvenne. Forse le parole che più lo tormentarono furono “Amico, tradisci il Figlio dell’uomo con un bacio?”. Amico.

Si possono concludere queste riflessioni con le parole di don Primo Mazzolari: “Credete voi che non ci fosse stato posto anche per Giuda, se avesse voluto? Se si fosse portato ai piedi del calvario, se l’avesse guardato almeno a un angolo o a una svolta della strada della via crucis, la salvezza sarebbe arrivata anche per lui. Povero Giuda, una croce e l’albero di un impiccato, dei chiodi e una corda”.

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4.04 – APOSTOLI 4 (Luca 6.12-16)

4.4 – Apostoli IV (Luca 6.12-16)

 

 12In quei giorni egli se ne andò sul monte a pregare e passò tutta la notte pregando Dio. 13Quando fu giorno, chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede anche il nome di apostoli: 14Simone, al quale diede anche il nome di Pietro; Andrea, suo fratello; Giacomo, Giovanni, Filippo, Bartolomeo, 15Matteo, Tommaso; Giacomo, figlio di Alfeo; Simone, detto Zelota; 16Giuda, figlio di Giacomo; e Giuda Iscariota, che divenne il traditore.”

BARTOLOMEO 

           Sappiamo che Natanaele e Bartolomeosono la stessa persona e che a lui si Filippo, non appena lo incontrò, gli parlò di Gesù che lo aveva da poco chiamato a seguirlo. Filippo, in questo modo, dette prova di essere una persona selettiva perché non parlò di Gesù a chiunque incontrava per la strada, ma si mise alla ricerca dell’amico col quale probabilmente aveva condiviso i discorsi su Colui che Giovanni Battista annunciava dicendo di non essere degno neppure di sciogliergli il laccio dei sandali. Se Filippo “era di Betsaida, città di Andrea e Pietro” (Giovanni 1.44), sapeva anche dello Spirito Santo sceso su di lui in forma di colomba, evento che agli attenti ebrei che aspettavano “la consolazione di Israele” non poteva sfuggire.

L’amicizia tra Filippo e Natanaele si basava allora, al di là di quella umana, proprio sul profondo interesse sull’arrivo del nuovo inviato di Dio per il quale abbiamo visto che lui pregava sotto il fico. Questo apostolo è una bella figura di uomo in attesa della rivelazione, della manifestazione del Signore aperta, nonostante la titubanza iniziale espressa con quel “può esserci qualcosa di buono da Nazareth?”; alla possibilità: all’affermazione “Noi abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti, il figlio di Giuseppe, da Nazareth”, risponde con un’obiezione cui non fa comunque seguito un’esclusione categorica. E infatti, seguì Filippo che lo condusse da Gesù che lo definì “Un israelita in cui non c’è falsità”, o come traduce Diodati “in cui non vi è frode alcuna”.

Natanaele, allora, era una persona onesta dal punto di vista morale e spirituale, simile a quel Simeone di cui parla Luca definendolo “Uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione di Israele”: al primo, Simeone, ormai vecchio, fu concesso di vedere Gesù nato da poco, al secondo, il cui nome significa “Dono di Dio”, di condividerne il ministero pubblico.

Tornando al loro primo incontro, vediamo che Nostro Signore gli si rivela come colui che già lo conosceva, perché prima lo definisce come uomo in cui non vi era falsità e poi di averlo visto sotto l’albero al quale si recava per pregare, dichiarazioni che compendiano sia la conoscenza dell’uomo, ma soprattutto la sua presenza spirituale: “Prima che Filippo ti chiamasse, ti ho visto quando eri sotto il fico”. Natanaele capì immediatamente il messaggio: Gesù non lo aveva visto perché passava di là, nei pressi dell’albero, ma perché era testimone della sua preghiera che non riguardava argomenti quotidiani personali, ma la venuta del Messia con particolare riguardo all’annuncio del Battista di cui pregava perché potesse averne parte.

Sappiamo che, alle parole su di lui, rispose “Rabbi, tu sei il Figlio di Dio, il Re di Israele”, una dichiarazione di fede completa, non senza la gioia per le sue preghiere esaudite che fece sgorgare spontanea una testimonianza che addirittura precede quella di Pietro: Natanaele chiama Gesù Rabbi, cioè “Mio maestro” più che “Maestro” in genere, poi “Figlio di Dio” riconoscendogli un’origine non terrena, e infine “Re d’Israele”, confermando di credere pienamente nella Sua funzione messianica. Soprattutto, poi, è quel “Figlio di Dio” posto fra gli altri due titoli a rivelare che Natanaele riconoscesse a Gesù quanto scritto in Salmo 2.7-9: “Voglio annunciare il decreto del Signore. Egli mi ha detto «Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato. Chiedimi e ti darò in eredità le genti e in tuo dominio le terre più lontane. Le spezzerai con scettro di ferro, come vaso di argilla le frantumerai”.

Soffermandoci molto brevemente su questa profezia, che ha per tema il sostentamento del Signore al Suo Consacrato, quell’ “oggi” si riferisce al momento in cui il Figlio sarebbe stato dichiarato agli uomini, cui segue la promessa dell’eredità sulle “genti e le terre più lontane”, cioè le popolazioni pagane che avrebbero creduto in Lui profetizzate da Noè stesso con le parole “Iddio allarghi Iafet, e dimori nelle tende di Sem” (Genesi 9.27). E la violenza che traspare dallo spezzare e frantumare è riferita non al destino finale di quelle genti e territori, ma di quella parte di umanità che muoverà guerra, in tempi che devono ancora venire, a tutto ciò che esulerà dalla religione dell’impero mondiale destinato a realizzarsi e di cui intravediamo oggi comunque il corpo.

Natanaele, chiamando Gesù in quel modo, si sentì certamente liberato, ascoltato, esaudito e stette sempre vicino a Gesù anche se di lui non sappiamo altro, se non che era di Cana di Galilea e fu testimone del miracolo dell’acqua mutata in vino. Era presente con tutti gli altri discepoli nella casa di Gerusalemme in cui si riuniva la Chiesa ed alcuni hanno ipotizzato che fosse uno scriba o comunque una persona versata nelle scritture: ciò coinciderebbe col fatto del fico, pianta sotto la quale gli scribi amavano studiare, con i tre attributi coi quali qualifica Gesù e con la stessa domanda su Nazareth perché gli scribi sapevano benissimo, come abbiamo visto nell’episodio in cui Erode si informa da loro su dove sarebbe nato il Messia, che era Bethlehem e non Nazareth il luogo in cui questi sarebbe nato.

 

LEVI MATTEO

Abbiamo sviluppato recentemente il carattere e la personalità di quest’apostolo nell’affrontare la sua chiamata, avvenuta mentre esercitava la sua professione. Era una persona colta, metodica e conoscitore delle scritture come ha testimoniato scrivendo il suo Vangelo, in lingua aramaica poi tradotto in greco, entrambe lingue parlate in Israele ai tempi di Nostro Signore. Scopo del suo scritto, il primo del canone, è quello di presentare Gesù come Re: “Dov’è il re dei giudei che è nato? Abbiamo visto spuntare la sua stella, e siamo venuti ad adorarlo” (Matteo 2.2). Parente di Gesù, era anche fratello di Giacomo di Alfeo, anche lui chiamato ad essere apostolo che nel passo di Luca è collocato al nono posto. Nel gruppo dei dodici, c’erano così tre coppie di fratelli.

 

TOMMASO

Non sappiamo quando avvenne la sua chiamata, ma è certo che seguisse il Signore come discepolo da tempo. Tommaso compare raramente, ma credo che per capirne il carattere occorra partire dal nome: “Toma” significa “Gemello” così come il suo nome greco, Didimo. Quando leggiamo quindi le traduzioni che scrivono “Tommaso detto Didimo” nei tre episodi narrati da Giovanni 11.16; 20.24 e 21.2, in realtà non abbiamo un soprannome, ma due nomi dal significato identico. Gemello è un doppio ed è indice di una personalità che, pur avendo indubbiamente dei pregi come la costanza di cui aveva dato prova seguendo Gesù nei suoi spostamenti da quando fu chiamato, era una persona spiritualmente instabile, in bilico tra il comprendere e non, capace di slanci impetuosi e di atteggiamenti che denotavano una mancata comprensione delle parole che sentiva da Gesù.

Il primo episodio, in Giovanni 11, è riferito alla malattia, poi morte, di Lazzaro che Gesù risusciterà e al clima che si era creato attorno a Lui da parte dei Farisei: quando Gesù dichiarò ai discepoli che voleva tornare in Galilea perché Betania, città di Lazzaro, era là, i suoi gli dissero “Maestro, i giudei poco fa cercavano di lapidarti, e tu vai di nuovo là?” (11.8), tranne Tommaso che sbottò dicendo “Andiamo anche noi a morire con lui!” (v.15), dichiarazione temeraria ma che dice molto su come Tommaso considerasse la propria vita e amasse il suo Maestro, pur con la sua natura rudimentale.

Abbiamo poi Giovanni 14, all’ultima cena, in cui rivela quanto poco avesse capito, o per meglio dire quanto poco in lui fosse rimasto, di tutte le parole che Gesù aveva detto in sua presenza: è un passo che molti conoscono ed è riferito alle ultime parole dette agli undici, poco dopo che Giuda era uscito dalla sala in cui mangiavano: “Il vostro cuore non sia turbato. Credete in Dio, e credete anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte stanze, se no ve l’avrei detto. Io vado a prepararvi un posto. E quando sarò andato e vi avrò preparato il posto, ritornerò e vi accoglierò presso di me, affinché dove sono io siate anche voi. Voi sapete dove io vado e conoscete anche la via”. Facciamo ora attenzione alle parole di Tommaso, che prende la parola esprimendosi al plurale: “Signore, noi non sappiamo dove vai; come possiamo dunque conoscere la via?” (vv.1-5). Le parole successive di Gesù furono “Io sono la via, la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se mi aveste conosciuto, avreste conosciuto anche mio Padre, fin da ora lo conoscete e l’avete visto”. Al che sappiamo che intervenne Filippo dicendo “Signore, mostraci il Padre e ci basta”.

Perché tanta ignoranza? Le reazioni dei discepoli testimoniano due realtà comuni a tutti gli uomini e connesse tra loro: la prima è che non basta sentire delle parole o un’esposizione chiara di concetti se non li si assimilano, soprattutto se questi hanno carattere spirituale. Si rischia di prenderli come dei dati di cui ne si intuisce l’importanza, ma senza un’illuminazione e la volontà onesta di capirle, ci si perde. La seconda è che, senza un’illuminazione, si corre il rischio di essere sterili, di fare magari molto, ma senza raccogliere un frutto. Con ciò non si vuole giudicare gli undici, ma fare un’applicazione alla nostra vita perché ci può essere lo zelo senza la conoscenza così come la conoscenza senza zelo che, entrambe, portano a un nulla, o a un poco, di fatto. Sempre Giovanni al capitolo 6 del suo Vangelo riporta un episodio interessante in proposito: si trovava nella sinagoga di Capernaum con molti giudei e discepoli quando Gesù prese a insegnare e fece un discorso che scandalizzò molti a tal punto che numerosi discepoli smisero di frequentarlo; fu quando disse che, se non avrebbero mangiato la sua carne e bevuto il suo sangue, non avrebbero avuto la vita in loro. Allora è scritto “Da quel momento molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui. Allora Gesù disse ai dodici: «Volete andarvene anche voi?» e Simon Pietro gli rispose «Signore, da chi ce ne andremo? Tu hai parole di vita eterna. E noi abbiamo creduto e abbiamo conosciuto che tu sei il Cristo, il Figlio dell’Iddio vivente»” (Giovanni 6.66-69). Ecco l’importanza del capire, del “credere” e “conoscere”: uno crede perché sperimenta, elabora dentro di sé, matura con tempi che non possono essere immediati, passo dopo passo, tempo dopo tempo, insegnamento dopo insegnamento.

La differenza esistente tra gli apostoli prima e dopo la discesa dello Spirito Santo credo che insegni questo: se Dio non dà una mente nuova, tutto resta inutile, vuoto, privo di risultato e qui sta la verità e l’essenza della condizione apostolica, perché lo Spirito Santo ricordò loro tutte le cose che Gesù aveva insegnato nella sua giusta dimensione. Non leggiamo più di errori dottrinali da parte degli apostoli, salvo un fraintendimento di Pietro sulla circoncisione. Forti di questo avvenimento, una parte del cristianesimo è convinta che sia sufficiente credere per venire illuminati su tutto e comprendere ogni passo della Bibbia che si legge, ma lo stato di apostolo fu unico e limitato agli undici, Mattia a parte che comunque era stato con loro per molto tempo. Purtroppo, costoro non tengono presente che la natura umana è ben presente in tutti e porta con sé presunzione, egoismo, o peggio integralismo, figlio di ignoranza e grettezza. Appartenere a una Chiesa non è appartenere a un gruppo da difendere, ma avere un’identità che si condivide con gli altri, è “essere uno” pur con le differenze di carattere, di doni e di chiamate. Ma ci vuole rispetto, carità reciproca e identificazione, altrimenti quella Chiesa sarà solo uno dei tanti gruppi religiosi che fanno propaganda. E si spegnerà spiritualmente.

Il terzo episodio di Tommaso è quello più conosciuto: non era con gli altri quando Gesù, risorto, si presentò a loro e, quando li raggiunse e gli dissero “Abbiamo visto il Signore”, rispose “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò” (20.25 e seguenti). Qui il “Gemello”, di nome e di fatto, dimostra due cose, cioè di non credere alla testimonianza degli altri e di difendere fino infondo quella parte di uomo in lui che si opponeva a credere una volta per tutte. Tommaso credo sia conosciuto ingiustamente come colui che non credeva perché poi riconoscerà Gesù come suo “Dio”, cosa che nessuno degli altri prima di allora aveva mai detto usando quelle parole. Tommaso dice agli altri che vuole verificare: non gli basta vedere Gesù risorto, vuole toccare con mano, esaminare che sia effettivamente Lui e non un sosia: dovevano esservi i segni dei chiodi non come cicatrici, ma ci avrebbe dovuto passare il dito e avrebbe dovuto mettere la mano nel costato, cioè nel torace, nel punto in cui entrò la lancia del soldato romano che causò la fuoriuscita di sangue ed acqua.

Giovanni ci informa che, quando Gesù ritornò ai dodici otto giorni dopo, non si oppose alla richiesta di Tommaso, non lo sgridò perché aveva messo in dubbio la sua risurrezione: “Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!»” (Giovanni 20.26,29).

Il giudizio di chi legge l’episodio è quasi sempre negativo su quest’apostolo, ma in realtà mostra una trasformazione definitiva da un essere a un divenire definitivo: non essere incredulo, ma (diventa) credente. Definendo Gesù “mio Dio”, Tommaso con quel possessivo capitola una volta per tutte. Don Claudio Doglio, nel suo “Personaggi giovannei” scrive a proposito dell’imperativo rivolto a Tommaso “È un cammino, è la prospettiva della vita, non diventare nella strada della incertezza, della infondatezza, della infedeltà, della sfiducia, ma diventa nella strada della fondatezza, della certezza, della fiducia, della fedeltà. Diventa, matura, cresci; nel dubbio, nella situazione doppia, scegli la strada giusta”.

Può concludere questa riflessione la beatitudine dichiarata da Gesù a tutti quelli che avrebbero creduto: la richiesta di Tommaso non è più possibile, il Figlio siede alla destra del Padre eppure il cristiano è il frutto della testimonianza dei dodici. Si crede per tanti motivi, ma primo fra tutti perché Egli è risorto, vincendo la morte e il peccato al nostro posto, perché avessimo vita nel Suo nome. Amen.

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4.03 – APOSTOLI 3 (Luca 6.12-16)

4.3 – Apostoli III (Luca 6.12-16)

12In quei giorni egli se ne andò sul monte a pregare e passò tutta la notte pregando Dio. 13Quando fu giorno, chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede anche il nome di apostoli: 14Simone, al quale diede anche il nome di Pietro; Andrea, suo fratello; Giacomo, Giovanni, Filippo, Bartolomeo, 15Matteo, Tommaso; Giacomo, figlio di Alfeo; Simone, detto Zelota; 16Giuda, figlio di Giacomo; e Giuda Iscariota, che divenne il traditore.”

GIACOMO E GIOVANNI

            Tratteremo questi due apostoli assieme per i dati a disposizione che spesso li accomunano, oltre che per parentela intercorrente fra loro. Sappiamo che erano figli di Zebedeo che sulle rive del lago di Galilea aveva una flotta di barche e dei dipendenti, per cui erano benestanti, ma a differenza di Pietro e Andrea di cui è ricordato solo il padre, Giona, per Giacomo e Giovanni abbiamo anche il nome della madre, Salome, che si distinguerà per far parte del gruppo di donne che condivideva, coi discepoli, i viaggi con Gesù nel suo ministero. Faceva parte del suo seguito, ma soprattutto fu presente alla crocifissione come ci dice Matteo 27.55,56 quando scrive “Vi erano là anche molte donne, che osservavano da lontano; esse avevano seguito Gesù dalla Galilea per servirlo. 56Tra queste c’erano Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo e di Giuseppe, e la madre dei figli di Zebedeo”. Salome non solo seguirà Gesù fino alla morte sulla croce, ma voleva occuparsi anche del suo corpo per imbalsamarlo. Sarà una componente della Chiesa di Gerusalemme e probabilmente faceva parte di quelle 120 persone sulle quali scenderà lo Spirito Santo.

Marco ci dice che a questi due apostoli Gesù “diede il nome di Boanèrges, cioè figli del tuono” a significare secondo molti il loro carattere umano energico e impetuoso che si rivelò in alcuni episodi nei Vangeli: ad esempio Giovanni era tra quelli che volevano impedire a un innominato di cacciare i demoni nel nome di Gesù (Marco 9.38) e col fratello rivolsero al loro Maestro una richiesta che denotava poca riflessione e una forte ambizione umana, probabilmente sobillati dalla loro madre col la quale avevano parlato. Scrive sempre Marco: “Gli si avvicinarono Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra». Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?». Gli risposero: «Lo possiamo». E Gesù disse loro: «Il calice che io bevo anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato»” (10.35-40). Matteo, nel passo parallelo, scrive che la richiesta fu portata avanti dalla loro madre Salome (20.20-24), ma il fatto che la risposta di Gesù anche in quella versione sia al plurale, “Voi non sapete quello che chiedete”, lascia supporre che i tre fossero concordi nel presentare quella richiesta. Questo episodio è scritto che provocò l’indignazione degli altri dieci apostoli: “All’udire questo, gli altri dieci furono indignati contro i due fratelli” (v. 24).

Altro passo particolare che denota il loro carattere lo troviamo in Luca 9.51,55: Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, egli prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme e mandò messaggeri davanti a sé. Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per preparargli l’ingresso. Ma essi non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme. Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». Si voltò e li rimproverò. E si misero in cammino verso un altro villaggio”.

A parte questi dati mi risulta però difficile pensare che Nostro Signore li chiamò “figli del tuono” unicamente per il loro carattere, così come non credo abbia chiamato Simone “Cefa” perché era il più robusto di tutti; piuttosto, Lui che guardava non all’uomo ma al suo cuore e a quello che sarebbe diventato con l’opera della Grazia e dello Spirito Santo, pensava al “tuono” come quella voce e presenza di Dio che la maggioranza non comprende e che va rivelata. Dopo il discorso di Gesù sulla sua imminente morte e resurrezione, quando disse “Padre, glorifica il tuo nome”, leggiamo che “Venne allora una voce dal cielo: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!». La folla, che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono. Altri dicevano: «Un angelo gli ha parlato»” (Giovanni 12.28,29). Un ultimo passo, che poi cronologicamente nella storia umana è il primo a mettere in connessione il tuono con la presenza di Dio, lo troviamo in Esodo 19.16: “Il terzo giorno, sul far del mattino, vi furono tuoni e lampi, una nube densa sul monte e un suono fortissimo di corno: tutto il popolo che era nell’accampamento fu scosso da tremore”.

Possiamo fare allora queste considerazioni: il tuono nella Scrittura è un suono sostitutivo di una realtà percepibile e pochi, ma incomprensibile a molti ed infatti, nel passo di Giovanni, fu quello sentito dalla folla e fu solo l’evangelista, e probabilmente quanti dei discepoli erano con lui, ad ascoltare le parole “L’ho glorificato e lo glorificherò ancora”. Ciò che non avvenne al battesimo di Gesù, quando la voce “Questo è il mio diletto figlio in cui mi sono compiaciuto” fu udita da tutti. Giacomo e Giovanni, allora, furono chiamati “figli del tuono” anche perché avrebbero rivelato ciò che Dio voleva fosse conosciuto dagli uomini senza possibilità di fraintendimento. Perché fossero formati, furono anch’essi testimoni di eventi che gli altri dodici non videro a parte Pietro: pensiamo alla trasfigurazione, alla resurrezione della figlia di Giairo, capo della sinagoga di Capernaum. A loro Gesù concesse di essergli vicini negli ultimi momenti nell’orto del Getsemani: “Allora Gesù andò con loro in un podere, chiamato Getsèmani, e disse ai discepoli: «Sedetevi qui, mentre io vado là a pregare». E, presi con sé Pietro e i due figli di Zebedeo, cominciò a provare tristezza e angoscia. E disse loro: «La mia anima è triste fino alla morte; restate qui e vegliate con me». Andò un poco più avanti, cadde faccia a terra e pregava, dicendo: «Padre mio, se è possibile, passi via da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!». Poi venne dai discepoli e li trovò addormentati. E disse a Pietro: «Così, non siete stati capaci di vegliare con me una sola ora? Vegliate e pregate, per non entrare in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole». Si allontanò una seconda volta e pregò dicendo: «Padre mio, se questo calice non può passare via senza che io lo beva, si compia la tua volontà». Poi venne e li trovò di nuovo addormentati, perché i loro occhi si erano fatti pesanti. Li lasciò, si allontanò di nuovo e pregò per la terza volta, ripetendo le stesse parole. Poi si avvicinò ai discepoli e disse loro: «Dormite pure e riposatevi! Ecco, l’ora è vicina e il Figlio dell’uomo viene consegnato in mano ai peccatori. Alzatevi, andiamo! Ecco, colui che mi tradisce è vicino» (Matteo 26.36-46).

Giacomo e Giovanni realizzarono il loro compito di “figli del tuono” come testimoni ed effettivamente bevvero quel “calice” ed ebbero quel “battesimo” di cui parlò loro Gesù dopo la richiesta non corretta che gli rivolsero; ciò avvenne con la testimonianza che dettero entrambi il primo come componente di spicco nella comunità di Gerusalemme divenendo martire della Chiesa, fatto uccidere da Erode Agrippa I: “In quel tempo il re Erode cominciò a perseguitare alcuni membri della Chiesa. Fece uccidere di spada Giacomo, fratello di Giovanni. Vedendo che ciò era gradito ai Giudei, vece arrestare anche Pietro” (Atti 12.1,2). Di Giovanni invece è noto che, pur non passando attraverso il martirio, subì tutte le forti persecuzioni di cui fu oggetta la Chiesa tanto per mano giudaica quanto sotto l’impero di Domiziano. Autore del quarto Vangelo, il più spontaneamente dottrinale, quello che può essere definito “il Vangelo dell’amore”, è autore di tre lettere e dell’Apocalisse, l’unico libro lasciato ai cristiani per riconoscere i tempi e gli eventi che avrebbero accompagnato la Chiesa nella sua storia dall’ascensione al cielo di Gesù al suo ritorno.

Giacomo, secondo una terminologia che non mi trova consenziente, è detto “il maggiore” per distinguerlo da un altro omonimo apostolo, che è già indicato negli elenchi come “Giacomo di Alfeo”. C’è poi anche un altro Giacomo, detto nel libro degli atti il “fratello del Signore”, che ebbe un ruolo importante nella Chiesa di Gerusalemme.

La singolarità del rapporto che Giovanni aveva col suo Maestro è descritta nel suo Vangelo dopo l’annuncio dell’imminente tradimento da parte di uno di loro: “I discepoli si guardavano l’un l’altro, non sapendo bene di chi parlasse. Ora uno dei discepoli, quello che Gesù amava, si trovava a tavola a fianco di Gesù. Simon Pietro gli fece cenno di informarsi chi fosse quello di cui parlava” (Giovanni 13.22-24). Giovanni accompagnerà Gesù fino alla crocifissione, che in quella occasione gli affidò sua madre: “Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: «Donna, ecco tuo figlio!». Poi disse al discepolo «Ecco tua madre». E da quell’ora il discepolo lo accolse con sé” (Giovanni 19.26,27).

È da notare che Gesù affida la propria madre a Giovanni quando Maria aveva altri figli e figlie che avrebbero potuto occuparsi di lei, ma non vi sarebbe stata la stessa parentela spirituale e quel discepolo sarebbe stato il più idoneo a sostenerla.

 

FILIPPO

Altro apostolo che conosciamo già in queste meditazioni cronologiche. Il suo carattere ed il retroterra culturale che lo caratterizzavano emergono proprio dai passi che abbiamo già affrontato: ricordiamo che mentre Giovanni e Andrea si recarono spontaneamente da Gesù, con Filippo che conoscevano fu il contrario: “Il giorno dopo Gesù volle partire per la Galilea, trovò Filippo e gli disse «Seguimi». Filippo era di Betsaida, la città di Andrea e di Pietro” (Giovanni 1.43,44). Il “Trovare”, che è tradotto anche con “incontrare”, se può significare imbattersi in qualcuno, implica però una ricerca, un’attesa. Certo Nostro Signore non s’imbatté per caso in Filippo perché sapeva che lo avrebbe incontrato e chiamato usando lo stesso invito che ebbe con Levi Matteo, “Seguimi”. E Filippo è scritto che subito dopo “trovò” Natanaele,: come Giovanni, Andrea e i loro fratelli, era un discepolo di Giovanni Battista che non solo non seppe trattenere la gioia del suo incontro col Maestro, ma diede prova di essere persona avveduta ed espansiva andando a cercare Natanaele (Bartolomeo) per dirgli “Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè, nella Legge, e i profeti: Gesù, figlio di Giuseppe, da Nazareth” (Giovanni 1.45). Persona discreta, scelse di non perdere tempo a convincerlo del fatto che Gesù fosse il Messia, ma preferì che fosse Natanaele stesso a sperimentarlo di persona con le parole “Vieni e vedi”.

Filippo era anche una persona aperta e pronta al servizio, come già abbiamo accennato mettendolo in relazione con Andrea nell’episodio dei greci che volevano vedere Gesù e, nell’occasione del miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci, fu messo alla prova dal Maestro con la frase “Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?” (Giovanni 6.5). Non ottenne altro che una risposta tecnica, cioè che duecento denari di pane non sarebbero bastati.

La figura di quest’apostolo, come accaduto con Pietro, è utile perché testimonia ancora una volta di quanto la natura umana sia sempre in opposizione alle esigenze, alle realtà di Dio e non possa comprenderle senza l’opera dello Spirito Santo: tornando ancora all’ultima cena, leggiamo ciò che avvenne dopo che Giuda uscì dalla sala.

Simon Pietro gli disse: «Signore, dove vai?». Gli rispose Gesù: «Dove io vado, tu per ora non puoi seguirmi; mi seguirai più tardi». Pietro disse: «Signore, perché non posso seguirti ora? Darò la mia vita per te!». Rispose Gesù: «Darai la tua vita per me? In verità, in verità io ti dico: non canterà il gallo, prima che tu non m’abbia rinnegato tre volte. Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: «Vado a prepararvi un posto»? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi. E del luogo dove io vado, conoscete la via». Gli disse Tommaso: «Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?». Gli disse Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre mio: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto». Gli disse Filippo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta». Gli rispose Gesù: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi tu dire: «Mostraci il Padre»? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me stesso; ma il Padre, che rimane in me, compie le sue opere. Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se non altro, credetelo per le opere stesse.” (Giovanni 13.36-38; 14.1-11).

Abbiamo qui un quadro desolante: Pietro si dichiara pronto a dare la vita per il suo Maestro ma, terrorizzato, lo avrebbe rinnegato tre volte. Tommaso, dopo tre anni di vita comune con lui, non aveva ancora capito che Gesù se ne sarebbe tornato al Padre soprattutto dopo il suo discorso sulla casa dalle molte stanze e Filippo, completamente fuori contesto, gli dice che a loro sarebbe bastato che gli fosse mostrato il Padre dimenticando le parole “Io e il Padre siamo uno”. Questo episodio è la prova di quanto qualsiasi uomo, in quanto tale, sia naturalmente distante da Dio nel momento in cui segue i propri pensieri, dà retta ai suoi impulsi, cerca di capire con il proprio metro e intelligenza ciò che invece dev’essere lo spirito a comunicare. Vero è che lo Spirito Santo non era ancora sceso, ma ricordiamo che già da allora erano possibili rivelazioni da parte del Padre, come quando Pietro riconobbe in Gesù “Il Cristo, il figlio dell’Iddio Vivente”.

Concludendo, anche la storia di Giacomo, Giovanni, Filippo e come vedremo di tutti gli undici, testimonia che per ogni essere umano che accetta di far entrare Gesù Cristo nella propria vita non può che esistere un prima e un dopo, una progressione nella conoscenza, nella grazia e nell’amore ricambiato di Dio. E lo stesso Pietro, nella sua prima lettera, cita Isaia scrivendo “Ecco, io pongo in Sion una pietra angolare, eletta e preziosa. E chi crederà in lei non resterà confuso”.

 

GIACOMO DI ALFEO

            Sono davvero pochi i dati su questo nono apostolo salvo che, come abbiamo visto con Matteo, fosse suo fratello. Di lui si sa solo che faceva parte della Chiesa di Gerusalemme e che era presente alla discesa dello Spirito Santo sui suoi componenti.

 

SIMONE LO ZELOTA

Così chiamato da Luca, ma da Matteo e Marco “Simone il cananita” che, contrariamente a quando si possa pensare, non indica una provenienza geografica, ma ha lo stesso significato perché l’ebraico “qana” si riferisce alla corrente degli zeloti fondata da Giuda il galileo di cui parlò Gamaliele in Atti 5-37: “Dopo di lui – Teuda – al tempo del censimento sorse Giuda il Galileo, che trascinò dietro a sé molta gente; anch’egli perì e tutti coloro che lo seguirono furono dispersi”. Come per Giacomo di Alfeo, null’altro sappiamo di questo apostolo se non che era stato un appartenente di quel gruppo, che oggi i media definirebbero “terrorista”. Gli zeloti infatti erano nati da una rivolta contro il censimento di Quirino ed erano divenuti una setta che faceva incursioni e uccideva sia i cittadini dell’impero romano che gli ebrei sospettati di collaborare con loro. I romani li chiamavano “sicari”, cioè “pugnalatori” per la loro tecnica più diffusa descritta da Giuseppe Flavio nella sua “Guerra giudaica”: “in Gerusalemme nacque una nuova forma di banditismo, quella dei cosiddetti sicari, che commettevano assassinii in pieno giorno nel mezzo della città. Era specialmente in occasione delle feste che essi si mescolavano alla folla, nascondevano sotto le vesti dei piccoli pugnali e con questo colpivano i loro avversari. Poi, quando questi cadevano, gli assassini si univano a coloro che esprimevano il loro orrore e recitavano così bene da essere creduti e quindi non riconoscibili”. Se Simone lo zelota era uno di loro, resta un testimone di quanto profondo sia stato il cambiamento avvenuto in lui, che accettò di condividere la vita dei dodici accanto a un pubblicano come Matteo e a vivere le adunanze di chiesa non solo con ebrei.

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4.02 – APOSTOLI 2 (Luca 6.12-16)

4.2 – Apostoli II (Luca 6.12-16)

 

 12In quei giorni egli se ne andò sul monte a pregare e passò tutta la notte pregando Dio. 13Quando fu giorno, chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede anche il nome di apostoli: 14Simone, al quale diede anche il nome di Pietro; Andrea, suo fratello; Giacomo, Giovanni, Filippo, Bartolomeo, 15Matteo, Tommaso; Giacomo, figlio di Alfeo; Simone, detto Zelota; 16Giuda, figlio di Giacomo; e Giuda Iscariota, che divenne il traditore.”

PIETRO

            Prima di iniziare a parlare di questo apostolo, ma anche di tutti gli altri, va tenuto presente che sarà necessario citare degli episodi o delle frasi che potranno essere sviluppate solo in parte. Le brevi note che si troveranno su tutti gli apostoli, quindi, vanno intese come dei semplici appunti in vista dell’approfondimento che verrà fatto quando si giungerà a commentare i passi veri e propri secondo la cronologia che ci siamo dati.

Dei dodici abbiamo quattro elenchi forniti dai sinottici e dal libro degli Atti, alcuni dei quali differiscono per nome e ordine, ma riferenti alle stesse persone. Pietro è il primo a comparire in tutti e Matteo scrive “Il primo è Simone, detto Pietro”, nome che sappiamo anticipatogli da Gesù nell’incontro che ebbe con lui per interessamento di suo fratello Andrea. In quell’occasione fu chiamato così in aramaico: “«Tu sei Simone, figlio di Giona; sarai chiamato Cefa», che significa pietra” (Giovanni 1.42). Cefa significa “sasso”, “pietra”, ma anche “roccia”, elementi da considerare perché costituiscono una profezia su di lui che riguardò la sua vita dopo la discesa dello Spirito Santo a Gerusalemme, ma è al tempo stesso connessa al fatto che fu Pietro il primo dei dodici a riconoscerlo come “Il Cristo, il figlio dell’Iddio vivente”. In quell’occasione Gesù gli disse “«Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli.E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli»” (Matteo 16.17-19). È questo un verso che purtroppo costituisce un terreno minato, un caso di contesa per la cristianità perché in essi la Chiesa Romana vede l’istituzione di Pietro come primo fra gli apostoli nel senso di capo e ha dato l’imprimatur a una versione che, con una licenza che quanto meno intristisce, al posto di “su questa pietra” ha “su di te”, stravolgendone il senso.

Pietro, per le ragioni che vedremo, era una persona dal carattere particolare e Gesù, chiamandolo Cefa, volle fare riferimento al ruolo che avrebbe avuto; nel verso di Matteo che abbiamo letto, impiegò il termine “pietra” definendo come tale la verità sulla quale poggia la fede del vero cristianesimo: Gesù è il Cristo, il Figlio dell’Iddio vivente. Simone sarebbe stato una pietra secondo quanto troviamo nella sua prima lettera in cui usa lo stesso termine: “Avvicinandovi a lui, pietra viva, rifiutata dagli uomini ma scelta e preziosa davanti a Dio, quali pietre vive siete costruiti anche voi come edificio spirituale, per un sacerdozio santo e per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, mediante Gesù Cristo” (1 Pietro 2.4). Ora l’apostolo fa un distinguo ben preciso fra la “pietra viva”, e le “pietre vive” divenute tali non per loro potere: queste costituiscono la Chiesa, composta da tutti coloro che credono e sono stati salvati di cui Gesù è la pietra angolare, la prima che viene posata e che sorregge tutto l’edificio, quella che i costruttori avevano disprezzato (Salmo 118.22), quella che Dio aveva “…posto come fondamento in Sion, una pietra provata, una pietra angolare e preziosa, un fondamento solido; chi confiderà in essa non avrà fretta di fuggire” (Isaia 28.16).

Se Gesù è quindi la pietra d’angolo, Cefa è una pietra come tutte le altre, ma particolare ed unica al tempo stesso proprio perché non solo sarà il primo a riconoscere in Gesù il Cristo, ma per tutto quello che darà in seguito, per il ruolo importante non solo di predicazione verso gli ebrei.

Cefa non sarà “la” pietra, ma “una” pietra e il testo di Matteo 16.18 su cui tanti hanno conteso significa proprio che Gesù avrebbe edificato la propria Chiesa non su Pietro come apostolo, ma sulla verità che lui espresse: “Tu sei il Cristo, il figlio dell’Iddio Vivente”. Pietro, attribuendo a Gesù il titolo di Cristo lo riconosce come il Messia che avrebbe dovuto venire un giorno e come “Figlio dell’Iddio vivente” cioè individua come procedenti da Dio tutti gli eventi che sarebbero accaduti, ammette che Gesù era non solo un inviato, ma dichiara chi veramente era, da dove venisse, la realtà spirituale e fisicamente eterna che lo contraddistingueva dagli altri. Impossibile una Chiesa che non si fondi su questa verità che non a caso fu minata dalle eresie che, fin dal primo secolo, iniziarono a mettere in discussione proprio la natura del Cristo. È da lì che si parte, dal Figlio di Dio che assunse forma di servo e che morì per noi. Senza quella dichiarazione di Pietro, fatta poi anche dagli altri, in cosa si crederebbe? Riconoscere Gesù nei termini che abbiamo visto è il primo passo, non ve ne possono essere di alternativi perché sarebbero inutili; non salva sapere che Lui è stato un pensatore e un predicatore d’amore, pace e fratellanza tra gli uomini: non è vero, è riduttivo, offensivo alla luce del fatto che, prima di tutto, Gesù mostrò l’amore dell’unico Dio vero e Santo a favore dell’uomo, così inadeguato e lontano, sacrificandosi per la salvezza di quanti lo avrebbero accolto.

Pietro fu un personaggio diverso dagli altri dodici: irruento, facile tanto ad entusiasmarsi quanto a cadere nella paura, energico e pronto a parlare a volte a sproposito nel momento in cui seguiva la propria umanità, era quello tenuto in più considerazione dal gruppo dei dodici senza che lo considerassero comunque un capo, vista la discussione che sorgerà tra loro in Marco 9.33,35: “Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?». 34Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande. 35Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti»”.

Pietro fu testimone, con Giacomo e Giovanni, di miracoli ed avvenimenti che gli altri apostoli non videro. Se il Vangelo ce lo dipinge come una persona molto “umana” nelle sue reazioni (l’orecchio tagliato di Malco, episodio che ci lascia supporre che quest’apostolo fosse corpulento, o il camminare sull’acqua salvo sprofondarvi dentro, il suo pianto amaro al terzo rinnegamento di Gesù), il libro degli Atti lo descrive come una persona di cui Dio si servì per la predicazione, istruendolo anche con visioni. Paolo lo cita come Cefa in Galati 2.9 come colonna della Chiesa assieme a Giacomo e Giovanni e qui, se vogliamo, possiamo vedere anche il significato di “roccia” come risultato dell’azione della Grazia che farà di lui un personaggio così importante per la predicazione del Vangelo e nell’edificazione della Chiesa primitiva essendogli affidato il compito di essere “l’apostolo degli incirconcisi”, cioè degli ebrei (Galati 2.8).

Pietro abbiamo detto essere interessante per la sua profonda umanità nel senso che, se fu un predicatore formidabile e per nulla timoroso di fronte all’autorità politica contraria al Vangelo, non fu esente da errori di comportamento trattando differentemente quanti si convertivano dal giudaismo e dal paganesimo. Si tratta di un episodio che può insegnare molto anche a noi perché possiamo capire quanto sia facile essere condizionati dalle nostre certezze presunte, dal nostro retaggio culturale. Il passo di riferimento è quello di Pietro che predica in casa del centurione romano Cornelio narrato in Atti 10.9-33. In quell’occasione, quando iniziò a parlare, l’apostolo disse “In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga”. Ebbene, questo concetto fondamentale fu da lui dimenticato nonostante la visione avuta e le parole udite in quell’occasione.

Pietro dovette essere ripreso da Paolo per la preferenza che dava ai giudei convertiti rispetto ai pagani e questo, anziché squalificarlo, rivela quanto sia facile cadere nell’errore nonostante rivelazioni che poi, involontariamente e per la nostra natura defettibile, si dimenticano. Ed è da sottolineare che in Pietro la potenza di Dio operava non poco, vista la resurrezione di Tabità a Giaffa operata poco tempo prima dell’incontro con Cornelio e la sua famiglia. Questo ci fa tornare al principio dell’impossibilità dell’esistenza del “conduttore perfetto” perché, se esistesse, non ci sarebbe bisogno de “il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. Pietro fu quindi “il primo” sotto le ottiche che abbiamo visto brevemente, ma non con funzioni direttive che ci autorizzino a ritenere che avesse autorità sugli apostoli: nella Chiesa non può esistere una gerarchia o una scala di importanza, ma uomini che hanno un dono e che lo esercitano rispondendo direttamente a Dio e che vanno riconosciuti, ma senza pensare ad un’autorità umana o di gradi come può accadere per l’esercito o altri corpi organizzati. La Chiesa di Cristo non può essere una multinazionale o una grande azienda, con dirigenti e operai, ma è una struttura spirituale, un tempio in cui ciascuno opera in base ai domi ricevuti e non dalle persone che “converte”, dal carisma umano o dalla cultura che possiede.

 

ANDREA

                  Sappiamo che fu il primo dei discepoli con cui Gesù Parlò, assieme a Giovanni. Il suo nome significa “Virile” o “Uomo di valore” e sappiamo essere fratello di Pietro, come lui pescatore, col quale aveva un rapporto di amicizia e di condivisione spirituale come rileviamo dalla frase che gli disse non appena lo incontrò, “Noi abbiamo trovato il Messia” (Giovanni 1.41). La Chiesa ortodossa, per questo episodio, lo definisce “Protòcletos”, cioè “il primo chiamato”. Come Giovanni, suo amico, era una persona sensibile e dette prova di riconoscersi peccatore e bisognoso del Cristo che sarebbe arrivato non limitandosi a farsi battezzare da Giovanni Battista, ma divenendo suo discepolo.

Andrea era una persona profondamente interessata alla predicazione di Gesù e desideroso di conoscere gli avvenimenti che avrebbero riguardato l’umanità in futuro. Leggiamo in proposito Marco 13.1-5: Mentre usciva dal tempio, uno dei suoi discepoli gli disse: «Maestro, guarda che pietre e che costruzioni!». Gesù gli rispose: «Vedi queste grandi costruzioni? Non sarà lasciata qui pietra su pietra che non venga distrutta». Mentre stava sul monte degli Ulivi, seduto di fronte al tempio, Pietro, Giacomo, Giovanni e Andrea lo interrogavano in disparte: «Di’ a noi: quando accadranno queste cose e quale sarà il segno quando tutte queste cose staranno per compiersi?»”. Questa fu una domanda che suscitò l’esposizione del cosiddetto “sermone profetico” e testimonia quanto Andrea, con gli altri tre che ebbero un rapporto con Gesù più ravvicinato che non i rimanenti otto,tenessero in considerazione le parole di Gesù in ogni cosa, comprese quelle che riguardavano avvenimenti non ancora avvenuti. Credo sia un particolare importante, perché un conto e credere a un miracolo che si constata di persona, e un altro è accettare per vere parole che non si ha modo di verificare.

Andrea, chiamato a seguire personalmente Gesù dopo la pesca miracolosa sul mare di Galilea con Pietro, Giacomo e Giovanni sulla quale abbiamo riflettuto, abitava con Pietro e sua moglie a Capernaum ed era di Betsaida. Come lo ha definito un caro fratello, era un “uomo di pubbliche relazioni” come vediamo nell’episodio degli ebrei greci che volevano vedere Gesù: “Tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c’erano anche alcuni Greci. Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli domandarono: «Signore, vogliamo vedere Gesù». Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù” (Giovanni 12.20-22).

Andrea aveva già dato prova di interessarsi delle persone che venivano alle predicazioni di Gesù, come leggiamo nel miracolo della prima moltiplicazione dei pani e dei pesci: fu lui infatti ad indicare che, in mezzo alla fola, c’era “un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due piccoli pesci, ma cos’è questo per tanta gente?” (Giovanni 6.9). In proposito e aprendo una piccola parentesi, è degno di nota come Papa Francesco Bergoglio ha inquadramento l’episodio quando, urtando non poco la suscettibilità dei tradizionalisti, disse che i pani e i pesci non si moltiplicarono, «ma semplicemente non finirono, come non finì la farina e l’olio della vedova. Quando uno dice “moltiplicare” può confondersi e credere che faccia una magia. No, semplicemente è la grandezza di Dio e dell’amore che ha messo nel nostro cuore che, se vogliamo, quello che possediamo non termina”.

In effetti a parlare di moltiplicazione sono coloro che si sono adoperati per scrivere i brevi titoli che precedono gli episodi dei Vangeli e non i diretti Autori e scrivere di “moltiplicazione dei pani” risulta più immediato che non “i pani che non finirono”; il paragone con la farina e l’olio della vedova, poi, appare quanto mai pertinente perché abbiamo due casi, tra loro simili, il primo dei quali ricordato in 1 Re 17.14-16: si tratta di un miracolo che operò il profeta Elia alla vedova di Sarepta: “«La farina della giara non si esaurirà e l’orcio dell’olio non diminuirà fino al giorno in cui il Signore manderà la pioggia sulla faccia della terra». Quella andò e fece come aveva detto Elia; poi mangiarono lei, lui e la casa di lei per diversi giorni. La farina della giara non venne meno e l’orcio dell’olio non diminuì, secondo la parola che il Signore aveva pronunciato per mezzo di Elia”.In 2 Re 4.1-38, ve ne fu un altro, operato invece da Eliseo, in cui fu un vasetto d’olio a riempire tutti i vasi che la vedova fu in grado di farsi prestare dai vicini.

Vero è che nel miracolo dei pani e dei pesci è scritto che ne avanzarono dodici ceste, ma furono appunto di avanzi, non pani o pesci interi; è scritto che “Raccolsero dodici ceste piene di pezzi di pane e di resti di pesci. Or coloro che avevano mangiato di quei pani erano cinquemila uomini” (Marco 6.43,44). Del resto ricordiamo il miracolo delle nozze di Cana, in cui mutò la sostanza e non cambiò il numero degli otri. Il gesto creativo di Dio non può essere limitato, iscritto nei confini delle possibilità umane.

Andrea viene citato un’ultima volta nel libro degli Atti in cui abbiamo il quarto elenco degli apostoli ed è, come negli altri tranne che in Marco, citato al secondo posto. Leggiamo che, dopo l’ascensione, tutti erano soliti riunirsi in una casa, in una stanza al piano superiore di essa: “Tutti questi erano perseveranti e concordi nella preghiera, insieme ad alcune donne e a Maria, la madre di Gesù, e ai fratelli di lui” (Atti 1.12-14).

Notizie successive non ce ne sono state trasmesse nel Nuovo Testamento, ma Eusebio di Cesarea, vissuto tra il 265 e il 340, considerato il primo ad occuparsi di storia della Chiesa, scrive che fu attivo in Asia Minore, lungo il Mar Nero, il Volga e a Kiev. Si tratta di un autore, Eusebio, i cui studi non sono accettati all’unanimità così come il suo racconto della morte di questo apostolo, tramite crocifissione a forma di “X” ancora oggi nota come “Croce di S. Andrea”.

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3.11 – L’UOMO DALLA MANO RATTRAPPITA (Luca 6.6-11)

3.11 – L’uomo dalla mano rattrappita (Luca 6.6-11)

 

6Un altro sabato egli entrò nella sinagoga e si mise a insegnare. C’era là un uomo che aveva la mano destra paralizzata. 7Gli scribi e i farisei lo osservavano per vedere se lo guariva in giorno di sabato, per trovare di che accusarlo. 8Ma Gesù conosceva i loro pensieri e disse all’uomo che aveva la mano paralizzata: «Àlzati e mettiti qui in mezzo!». Si alzò e si mise in mezzo. 9Poi Gesù disse loro: «Domando a voi: in giorno di sabato, è lecito fare del bene o fare del male, salvare una vita o sopprimerla?». 10E guardandoli tutti intorno, disse all’uomo: «Tendi la tua mano!». Egli lo fece e la sua mano fu guarita. 11Ma essi, fuori di sé dalla collera, si misero a discutere tra loro su quello che avrebbero potuto fare a Gesù.”

 

 

Siamo così giunti al terzo miracolo operato da Gesù in giorno di sabato, dopo la liberazione dell’indemoniato nella Sinagoga di Capernaum e della suocera di Simone dalla febbre. Apparentemente non sappiamo dove avvenne l’episodio, ma poiché Matteo scrive “…andò nella loro sinagoga”, quella cui facevano riferimento i farisei che avevano accusato i discepoli di infrangere il sabato strappando le spighe e mangiando i chicchi di grano, ci lascia ragionevolmente supporre sia stata la stessa.

Il racconto, che armonizzeremo con gli interventi di Marco e Matteo, non trova problemi interpretativi e può considerarsi complementare a quello precedente delle spighe strappate; ciò ci consente di dare qualche cenno sugli scribi, i farisei e gli erodiani, oltre che meditare quanto avvenuto. Eviterò di citare i casi in cui compaiono nei Vangeli ritenendo più utile avere una base storica, per quanto sommaria, per comprendere i passi in cui verranno citati nel corso della nostra lettura cronologica.

 

Gli scribi

Nascono in tempi molto antichi come persone versate nell’arte dello studio e dello scrivere e perciò tenute in grande considerazione nelle corti. Quando nell’esilio di Babilonia (VII° – VI° sec. a.C.) il popolo giudaico si trovò privato di tutti i suoi beni materiali e morali salvo che della Legge, vi furono uomini che consacrarono tutta la loro operosità e vita all’unico bene che era rimasto, la Legge, perché fosse conservata e trasmessa con ogni cura ed esattezza, per investigarla ed applicarla in tutta la sua scrupolosità: questi erano gli scribi. Lo scriba ai tempi del Nuovo Testamento è persona che non è mai disgiunto dal Rabbi, cioè dal maestro, dal dottore della Legge che la insegnava e la interpretava considerandola come l’unica, somma forma di erudizione. Si diventava Scriba dopo studi severi che duravano molti anni nelle scuole più importanti del tempo che erano quella di Hillel e di Shammai. Molti scribi erano anche Farisei ed è per questo che si trovano quasi sempre associati a loro nei racconti evangelici: aderivano cioè a quel movimento, o categoria di persone, che negli anni avevano finito per detenere il potere religioso assoluto assieme ai sadducei, che non abbiamo ancora incontrato, dai quali però si discostavano per la diversa tradizione che li caratterizzava. Per questo motivo non è sempre facile distinguere gli Scribi dai Farisei: potevano tanto formare un tutt’uno, quando costituire due gruppi distinti, ma non erano mai in contrasto tra loro. Non è azzardato ipotizzare che il fariseo potesse essere considerato uno scriba “perfetto”.

Con l’andar del tempo, man mano che gli scribi e i dottori della legge elaboravano il materiale della tradizione interpretativa della Torah scritta, questa diventò sempre più importante. Nel Talmud leggiamo che “Maggior forza hanno le parole degli Scribi che le parole della Torah”, che “È peggior cosa andar contro le parole degli Scribi che alle parole della Torah”, elementi che ci fanno capire quanto fosse facile portare all’estrema esasperazione i loro sentimenti, religiosi e non, quando leggiamo che Gesù “insegnava avendo autorità e non come gli scribi e i farisei”. Questo lo notavano anche loro e lo consideravano come un furto. Il sistema religioso fondato da questi personaggi era rigidamente dogmatico e li poneva al vertice di una piramide in cui trovava posto solo ed esclusivamente il loro orgoglio. Occorre però sottolineare che non tutta l’elaborazione della Legge fatta da scribi e farisei fosse menzognera; piuttosto, come osserva l’abate Ricciotti, “In un mare di futilità e pedanterie erano contenute vere perle preziose che rappresentavano l’eredità dell’insegnamento profetico spirituale. Ma troppa sproporzione correva tra l’ampiezza del mare e la scarsità delle perle, tra lo smisurato scenario giuridico e l’esigua impalcatura spirituale, cosicché l’utile rimaneva affogato fra tanto disutile.” Ad esempio una sentenza di Hillel, anteriore a Gesù di pochi anni, alla richiesta di un pagano che gli chiedeva di spiegargli tutta la legge nel tempo che riusciva a stare in equilibrio su un piede solo, gli disse “Ciò che non desideri per te, non fare al tuo prossimo. Questa è tutta la Legge, il resto è solo commento. Va’ e impara”. Facciamo attenzione a come conclude Hillel, “va’ e impara”, tipico detto degli scribi e farisei che Gesù utilizzò, rivoltandolo contro di loro quando disse “Andate e imparate ciò che vuol dire «Voglio misericordia e non sacrificio»”. La massima “Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”, attribuita a Gesù, è però soltanto di comodo poiché Gesù andò oltre dicendo “Le cose che vorreste fossero fatte a voi, fatele agli altri”.

 

I Farisei

È molto probabile che questo gruppo derivi storicamente da quello degli scribi e che farisei diventeranno quelli più radicali fra i componenti del gruppo originario, cioè degli scribi. Il termine “fariseo” significa “separato” da tutto ciò che non era religioso e giudaico. Se ciò può essere visto come qualcosa di apprezzabile stante la volontà di preservare le tradizioni, questo andava a sfociare in un formalismo rigido e in una minuziosità assoluta nello studio e interpretazione della Legge che aveva già portato ad un profondo disprezzo verso il popolo che, nonostante l’elezione che aveva perché appartenente a Dio, era chiamato con disprezzo “Popolo della terra”. Lo studio farisaico si basava su tre argomenti principali: il riposo del sabato, che era il primo. Ecco perché i Vangeli insistono sull’insegnamento di Gesù al riguardo, contrapposto al loro. Seguivano il pagamento delle decime e la purità rituale oltre l’immenso campo delle sentenze già emanate dalla loro tradizione che studiavano ed estendevano e andava a confluire nel Talmud che già i dottori della Legge avevano trasmesso. Giuseppe Flavio nelle Antichità Giudaiche scrive che ai tempi di Erode il Grande c’erano 6000 farisei in Israele, ricchi e poveri. Quelli che non appartenevano alla loro cerchia erano chiamati, come già sappiamo, con disprezzo “il popolo della terra”, cioè dei maledetti e per questo non avevano con loro alcun contatto nel senso che non potevano ospitare né farsi ospitare da un normale israelita o peggio contrarre vincoli matrimoniali con una donna che non fosse della loro cerchia: tutti erano giudicati in base alla conoscenza che avevano delle loro leggi, usanze, costumi. E sulla loro messa in pratica. Sempre lo storico Giuseppe Flavio scrive che “tanta potenza hanno sulla folla, che pure se dicano alcunché contro il re o contro il sommo sacerdote, sono immediatamente creduti”.

 

Gli Erodiani

Nel passo in esame gli erodiani compaiono per la prima volta. Erano questi dei giudei che sostenevano apertamente la dinastia degli Erodi costituendo una sorta di partito politico anziché una setta religiosa. Ligi al potere costituito, si opponevano a qualsiasi forma di ribellione che potesse causare l’intervento dei dominatori romani. Attenti quindi all’ordine pubblico, avevano capito che Gesù poteva essere un potenziale pericolo e perciò potevano essere usati dagli altri due gruppi per cospirare contro di lui. Pare che gli erodiani non fossero molto numerosi, ma il fatto che vengano citati indica che comunque un peso politico nella vita della nazione lo avessero, per quanto marginale. Il fatto è che tanto agli scribi che ai farisei serviva qualunque tipo di appoggio pur di giungere ad una futura eliminazione fisica di Gesù, ormai divenuto chiaramente e ufficialmente un loro avversario.

 

A parte gli erodiani di cui si sa poco, possiamo aprire una parentesi citando la preghiera di ringraziamento di Gesù al Padre al ritorno dei 70 discepoli inviati in missione: “Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli” (Luca 10.21). Quei discepoli, non appartenenti né agli scribi né ai farisei, erano persone comuni, non apprezzate per la loro scienza religiosa, ma “Tornarono pieni di gioia dicendo «Signore, anche i demoni si sottomettono nel tuo nome” (v.17) Sicuramente gli scribi e i farisei erano i “sapienti e i dotti” di cui parlò Gesù nella sua preghiera, ma non possiamo nemmeno annoverare nella categoria dei “semplici” coloro che sono convinti che sia sufficiente leggere il Vangelo e stare genericamente assieme per essere considerati tali.

L’uomo dalla mano paralizzata è un personaggio che ritengo particolare e su di lui hanno indagato molti a cominciare dalla ricerca di una traduzione corretta per stabilire con la maggiore esattezza possibile in cosa consistesse la sua infermità: così troviamo “mano secca”, “anchilosata”, “paralizzata”, “rattrappita” e ciò poteva essere avvenuto dalla nascita o per incidente sul lavoro. C’è chi ha pensato più alla seconda ipotesi, sostenendo che quest’uomo avesse potuto un tempo essere un muratore che si fosse accidentalmente schiacciato una mano e si trovasse nelle condizioni di non poter lavorare, e nulla ce lo dice e nulla ce lo lascia escludere. Di fatto però, quell’uomo si trovava nella sinagoga come tutti, quindi non aveva imputato a Dio la sua sventura tanto per il fatto di essere nato così, quanto per essersela lesionata sul lavoro, ritenendosi offeso per non essere stato protetto da Lui.

Dal suo comportamento si può dedurre che fosse un uomo dalla forte dignità, visto che un altro avrebbe potuto benissimo, nelle sue condizioni, chiedere l’elemosina, a meno di non avere soldi da parte o chi lo assisteva. Sicuramente si trovava in una situazione invalidante, ma non ritenne di chiedere a Gesù nulla: gli bastava l’attenzione che prestava, o stava per prestare, ai Suoi insegnamenti. E Nostro Signore, che sapeva la storia di ognuno dei presenti come abbiamo letto dalla frase “conosceva i loro pensieri” al v.8, colse l’occasione tanto per guarirlo quanto per dare un’ulteriore lezione a quanti nella sinagoga erano a lui ostili. Questo episodio, a parte il suo significato più immediato visto nell’insegnamento sul sabato, ci vuol dire che l’intervento di Dio nella vita di una persona può giungere anche in modo inaspettato, visto che è Lui che cerca.

Vediamo il clima che si venne a creare nella sinagoga confrontando il racconto dei sinottici: Matteo non espone i dettagli, ma si preoccupa di mettere in risalto i motivi che spinsero Gesù ad agire in giorno di sabato; Marco però, che ha una narrazione simile a quella di Luca, ci parla dell’attenzione che scribi e farisei misero per accusare Gesù di un’altra violazione del sabato tant’è che gli chiesero “È lecito guarire in giorno di sabato?” (Matteo 12.10). Fu allora che Nostro Signore mise a confronto i due atteggiamenti, quello ostile del suoi accusatori che lo interrogavano non certo per istruirsi, e quello di attesa dell’uomo nell’assemblea cui chiese di venire al centro non prima di rivolgere ai suoi oppositori due domande, la prima riportata da Marco e la seconda da Matteo: “È lecito in giorno di sabato fare del bene o del male, salvare una vita o ucciderla?“ (Marco 3.4).

A questa domanda, secondo i loro metodi di ragionamento, non poteva esserci risposta perché fare del male non era lecito in nessun giorno, mentre far del bene e salvare una vita, sempre. Quella domanda però aveva un significato che per noi, lettori che pensiamo sempre da un’ottica esterna data in gran parte dal tempo in cui viviamo e dal nostro bagaglio storico, è più recondito: Gesù parlava a persone in cui l’ostilità era sempre più in fase montante e già allora portava in sé l’idea dell’omicidio per cui quel “salvare una vita o ucciderla” era un riferimento alle loro intenzioni. A questa domanda Marco dice che quelli tacevano, credo perché non sapevano cosa rispondere, ma soprattutto perché pensavano a come fare per sbarazzarsi di lui. Era il loro un silenzio che non prendeva in considerazione la riflessione e nemmeno quella contesa dottrinale che avevano proposto, ma la sua eliminazione fisica che sfocerà in una discussione aperta tra loro, cioè scribi, farisei ed erodiani, su “quello che avrebbero potuto fare a Gesù” secondo Luca, “per farlo morire” secondo Marco. Sapevano che, se la predicazione di Gesù fosse proseguita, avrebbero perso il loro prestigio e il loro potere sul popolo.

Matteo riporta poi la seconda domanda: “Chi di voi, se possiede una pecora e questa in giorno di sabato cade in un fosso, non l’afferra e la tira fuori? Ora un uomo vale ben più di una pecora! Perciò è lecito in giorno di sabato fare del bene!”. Si tratta di una questione che Matteo inserisce qui, ma che probabilmente fu posta più avanti, in un altro miracolo operato sempre di sabato, il cui beneficiario fu un uomo idropico.

A questo punto Gesù ordina all’uomo di stendere la mano: per farlo, l’innominato infermo dovette ordinare alla mano di stendersi tramite il cervello esattamente come se si trattasse di un arto sano, quindi non ebbe titubanze, non rispose “è impossibile”, o “non riesco”: semplicemente, fece ciò che il Signore gli aveva chiesto. Se l’uomo vuole avere un risultato nella propria vita, deve farsi collaboratore di Dio che non gli chiede mai l’impossibile: a Naaman fu chiesto di bagnarsi sette volte nel Giordano, qui la richiesta fu di stendere la mano.

Abbiamo letto che a quel punto gli scribi, i farisei e gli erodiani, visto il risultato, uscirono dalla sinagoga e iniziarono a discutere sul da farsi per uccidere Gesù: fuori da quel luogo sacro, pensavano fosse possibile progettare un omicidio, quasi pensando che in quel modo Dio non li sentisse. Per loro, in quel giorno era lecito fare del male.

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3.07 – IL PARALITICO DI CAPERNAUM (Luca 5.17-26)

3.07 – Il paralitico di Capernaum (Luca 5.17-26)

 

17Un giorno stava insegnando. Sedevano là anche dei farisei e maestri della Legge, venuti da ogni villaggio della Galilea e della Giudea, e da Gerusalemme. E la potenza del Signore gli faceva operare guarigioni. 18Ed ecco, alcuni uomini, portando su un letto un uomo che era paralizzato, cercavano di farlo entrare e di metterlo davanti a lui. 19Non trovando da quale parte farlo entrare a causa della folla, salirono sul tetto e, attraverso le tegole, lo calarono con il lettuccio davanti a Gesù nel mezzo della stanza. 20Vedendo la loro fede, disse: «Uomo, ti sono perdonati i tuoi peccati». 21Gli scribi e i farisei cominciarono a discutere, dicendo: «Chi è costui che dice bestemmie? Chi può perdonare i peccati, se non Dio soltanto?». 22Ma Gesù, conosciuti i loro ragionamenti, rispose: «Perché pensate così nel vostro cuore? 23Che cosa è più facile: dire «Ti sono perdonati i tuoi peccati», oppure dire «Àlzati e cammina»? 24Ora, perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere sulla terra di perdonare i peccati, dico a te – disse al paralitico -: àlzati, prendi il tuo lettuccio e torna a casa tua». 25Subito egli si alzò davanti a loro, prese il lettuccio su cui era disteso e andò a casa sua, glorificando Dio. 26Tutti furono colti da stupore e davano gloria a Dio; pieni di timore dicevano: «Oggi abbiamo visto cose prodigiose»”.

 

La guarigione del paralitico di Capernaum è narrata da tutti i sinottici, per quanto con varianti che non mutano sostanzialmente il significato dell’episodio, anzi lo arricchiscono di particolari. Anche questo rientra in quei miracoli che gli evangelisti inseriscono senza una successione cronologica certa per quanto Matteo lo collochi dopo il discorso della montagna e l’intervento sugli indemoniati di Gadara, scrivendo “Salito su una barca, passò all’altra riva e giunse nella sua città”. Credo che agli evangelisti prema, nel caso dell’esposizione di questi miracoli, dare la precedenza più sul contenuto dottrinale che cronologico, problema che non si sono posti non ritenendolo importante al contrario degli autori del Pentateuco in cui la successione degli eventi è fondamentale e non può lasciare adito a dubbi pena la loro non comprensione. Marco scrive che Gesù tornò a Capernaum “dopo alcuni giorni” lasciando così indeterminato il periodo di predicazione in Galilea: lì sappiamo, ricordando Giovanni 2.12, che “dopo le nozze di Cana scese a Capernaum insieme a sua madre, ai suoi fratelli e ai suoi discepoli”.

Ora il fatto che fosse tornato là, fece sì che ricominciasse la sua attività spirituale alla quale si accompagnavano guarigioni di ogni tipo. La sua presenza in Capernaum attirò non solo il popolo comune, ma anche “farisei e dottori della Legge, venuti da ogni villaggio della Galilea e della Giudea, e da Gerusalemme”, segno che la guarigione del paralitico avvenne non immediatamente il suo ritorno in quella cittadina. Ci volle infatti del tempo tra il suo arrivo in città e che questa notizia si diffondesse, così come per il viaggio che dovettero fare alcuni da Gerusalemme alla casa di Gesù.

È triste constatare che quella che avrebbe dovuto essere teoricamente la parte migliore del popolo di Israele vista nei farisei e nei dottori della Legge, che avrebbero dovuto tramandarsi, tradizioni religiose a parte, anche quanto fosse profonda la dottrina che Gesù aveva dimostrato di possedere fin dall’età di dodici anni, era là non per ascoltarlo e confrontarsi con l’Unica fonte di vita, ma per giudicarlo e coglierlo in flagrante secondo il loro metodo. Non troviamo se non con Nicodemo, che era dei loro, un dialogo che denoti una volontà di capire, di raccordare il principio in base al quale “nessuno può fare i segni che tu fai, se Dio non è con lui ” con il voler assimilare la reale identità di Gesù. Quel fariseo però, nonostante il proprio bagaglio storico culturale che molto lo impedì nel suo cammino – ma chi, salvo rare eccezioni, non lo è? – era un onesto.

Ora c’era in Capernaum un paralitico – che in nessuno dei tre racconti dice mai una parola – che poteva contare sull’aiuto di alcune persone, almeno quattro, che volevano a tutti i costi fosse guarito: volevano portarlo a Gesù, ma capirono ben presto che i loro tentativi di entrare per la porta della casa sarebbero stati inutili a causa della folla che, essendo la casa piena, si accalcava per ascoltare il Maestro.

A questo punto è doveroso spendere qualche parola su come fossero fatte le case di allora: avevano un solo piano oltre il quale c’era una terrazza alla quale si accedeva tramite una stretta scalinata posta all’esterno. In alternativa, se la casa confinava con altre, c’era un muretto di divisione a dividere le due terrazze – e l’eventuale area cortilizia circostante –, che naturalmente avevano anche la funzione di tetto come leggiamo ad esempio in Matteo 24.17 “Chi si trova sul tetto della casa, e avrà le sue masserizie dentro la casa, non scenda a prenderle”. Allora come oggi, se vedere una persona su un tetto è cosa inusuale, certo non lo è se si tratta di una terrazza.

Ora è molto probabile che avvenne così: i quattro o più amici del paralitico arrivarono alla casa di Gesù e compresero l’impossibilità di entrarvi, stante la molta gente accalcata intorno; non riuscirono neppure a raggiungere la scalinata esterna per accedere alla terrazza e allora passarono da quella vicina. Scavalcarono, con tutta la fatica e la cautela del caso stante l’amico che trasportavano sul lettino, il muretto che divideva una terrazza dall’altra e così giunsero a quella della casa di Gesù. A questo punto, si misero a lavorare sul pavimento – soffitto, costituito da fango essicato o argilla che poggiava su un fitto strato di rami sostenuti da travi. Sulla terrazza esisteva molto spesso uno strumento particolare, una sorta di rullo, un cilindro che in caso di pioggia veniva fatto rotolare su e giù per il pavimento per compattare l’impasto di argilla ed evitare che piovesse in casa. Vero è che Luca, a differenza di Matteo e Marco, parla di “tegole”, ma il termine non va collegato al nostro; piuttosto alla sua etimologia dal latino “tegere”, cioè “coprire”. Ciascuno proteggeva il soffitto-terrazzo come poteva e non è escluso che vi fossero, nel punto scelto dagli amici del paralitico, magari delle tavole a protezione del pavimento che, per la natura del manufatto, avrebbe potuto essere riparato dagli stessi in breve tempo e con uno sforzo certo minore rispetto a quello fatto per condurre il loro amico infermo fin lì.

A quanto risulta dai sinottici, questi calarono il loro amico dal tetto senza dire nulla: il loro comportamento parlava da solo perché avevano fatto la fatica di portare quell’uomo fin lì e quindi ingegnarsi per raggiungere Gesù consapevoli che avrebbero dovuto fare in fretta stante le probabilità che, da un momento all’altro, finisse di parlare ed uscisse di casa per ritirarsi in qualche luogo sconosciuto a pregare. Ecco che il loro comportamento rivelava due cose: erano certi che Gesù avrebbe potuto guarire il loro amico e al tempo stesso denota l’amore che avevano per lui perché sicuramente quel trasporto era faticoso se non altro per il caldo, visto che non sappiamo quanto pesasse quel corpo incapace di muoversi e forse di parlare. Non credo di essere azzardato dicendo che quella che Gesù e i presenti videro altro non fu che una preghiera fatta con le opere e non con le parole, come ve ne saranno altre. E sappiamo molto bene che è quello che facciamo che rivela spesso il nostro pensiero al di là di ciò che possiamo dire.

A questo punto avviene qualcosa di estraneo alle aspettative di tutti: Gesù non dice “guarisci” o “àlzati”, ma “Uomo, ti sono rimessi i peccati”, frase che Matteo riporta leggermente diversa: “Coraggio, figlio, ti sono perdonati i peccati”, segno che Lui conosceva il passato, la storia di quella persona e che era la condizione di peccato in cui versava a renderlo paralitico per cui solo il perdono di Dio avrebbe potuto liberarlo. Ma posiamo anche andare oltre: perché Gesù avrebbe detto “Coraggio” se non ci fosse stato bisogno di consolarlo al di là della sua condizione fisica? Dire “Àlzati” avrebbe risolto tutto, e invece la prima parola fu “Coraggio”, cioè un invito morale. È così azzardato supporre che quell’uomo fosse angosciato, oltre che dalla sua paralisi, per uno o più peccati commessi che avevano finito per penalizzarlo in quel modo? Non credo che Gesù avesse pronunciato una frase del genere se non fosse stato il peccato che tormentava la coscienza e non la paralisi il problema di quell’uomo, né tantomeno che dire “ti sono rimessi i peccati” fosse stato uno strumento per suscitare la discussione, che poi avvenne, coi farisei e i dottori presenti che Robert Steward definisce “al tempo stesso giuristi e teologi, legislatori e sacerdoti della nazione giudaica”.

Ebbene, quei sapienti furono immediatamente scandalizzati: “Chi è costui che dice bestemmie? Chi può perdonare i peccati, se non Dio soltanto?”. Due sono gli elementi su cui soffermarsi, il “costui” usato in senso spregiativo, e il bestemmiare, che se nel greco classico si usa per denotare ogni sorta di maldicenza contro il prossimo, in quello ellenistico di Luca denota empietà e malvagio parlare contro Dio.

A questo punto Nostro Signore, che conosceva i ragionamenti dei suoi oppositori, li interroga sul perché pensassero quelle cose. Matteo scrive “Perché pensate cose malvagie nel vostro cuore? Che cosa infatti è più facile: dire «Ti sono perdonati i peccati», oppure «Àlzati e cammina»?”: fu sicuramente un rimprovero, ma con lo scopo di porre i suoi antagonisti di fronte alla loro coscienza. Parafrasando: “Perché pensi così? Prima che a me, rispondi a te stesso, cerca le ragioni di questo tuo astio alla luce di quello che sai giù su di me e a quello che vedrai”. La seconda parte delle parole di Gesù sono destinate a zittire i pensieri e i mormorii di quelli: è facile dire a una persona “ti sono rimessi i peccati”, ma non altrettanto a un paralitico di alzarsi e camminare, cosa che avvenne, lasciando muti e soli quei religiosi di fronte alle loro responsabilità. E il termine ebraico che indicava la parola “peccato” poteva indicare tanto una colpa commessa quanto le sue conseguenze ed era proprio l’infermità corporale grave e cronica che, come già visto in altri episodi, la denotava.

Venendo a noi, l’incontro con Gesù e le sue parole lascia sempre, all’inizio, l’essere umano solo di fronte a sé stesso: è a un bivio, deve inevitabilmente scegliere se rimanere nelle convinzioni di cui è vittima nonostante creda il contrario, oppure mettersi in discussione di fronte a quanto gli viene detto. Non è facile: richiede umiltà, apertura, disponibilità e sì, rinunciare a se stessi per seguirLo nel cammino. Il problema, la domanda, non è “cosa perdo se accetto Gesù Cristo”, ma “dove vado e a quale punto arrivo se seguo me stesso e dove vado e dove arrivo se seguo Lui”.

La vita che scorre da quando l’uomo è stato estromesso da Eden ad oggi è descritta in sintesi dal re Salomone in tutto il libro dell’Ecclesiaste, o Qoelet: “3Quale guadagno viene all’uomo
per tutta la fatica con cui si affanna sotto il sole? 4Una generazione se ne va e un’altra arriva,
ma la terra resta sempre la stessa. 5Il sole sorge, il sole tramonta e si affretta a tornare là dove rinasce.
6Il vento va verso sud e piega verso nord. Gira e va e sui suoi giri ritorna il vento.
7Tutti i fiumi scorrono verso il mare, eppure il mare non è mai pieno: al luogo dove i fiumi scorrono,
continuano a scorrere. 8Tutte le parole si esauriscono e nessuno è in grado di esprimersi a fondo.
Non si sazia l’occhio di guardare né l’orecchio è mai sazio di udire. 9Quel che è stato sar
e quel che si è fatto si rifarà; non c’è niente di nuovo sotto il sole. 10C’è forse qualcosa di cui si possa dire:
«Ecco, questa è una novità»? Proprio questa è già avvenuta nei secoli che ci hanno preceduto.
11Nessun ricordo resta degli antichi, ma neppure di coloro che saranno si conserverà memoria
presso quelli che verranno in seguito”
(Ecclesiaste 1.3-11). Anche questa è una paralisi, per quanto illusoriamente mobile.

Al paralitico vengono affidati tre compiti: alzarsi, prendere il lettino al quale per molto tempo e con sofferenza era stato costretto, e andarsene a casa sua. Sarebbe iniziata per lui una vita nuova, perfettamente conseguente al perdono dai peccati ricevuto. E non è certo sottovalutabile la sua reazione: “Subito egli si alzò davanti a loro, prese il lettuccio su cui era disteso e andò a casa sua, glorificando Iddio”. Si noti che non è scritto che ringraziò l’uomo Gesù, ma glorificò Iddio, cioè riconobbe che quanto avvenuto era stato possibile unicamente grazie a quel Dio che prima gli aveva fatto patire le conseguenze di una condizione di peccato e poi gli aveva rimesso ogni colpa. “Glorificare Dio” era la stessa cosa che ringraziare chi lo aveva guarito e, ancor di più, chi gli aveva rimesso i peccati. Da un lato abbiamo perdono e guarigione, dall’altro gli uomini della Legge orale e scritta che rimasero lì, induriti sulle loro posizioni senza un perché. Non si trattava più, come annota Giuseppe Ricciotti, “di qualche elegante questione casistica rabbinica, ad esempio di sapere se fosse lecito di sabato sciogliere il nodo di una fune o trasportare un fico secco”, ma di ammettere semplicemente che il Regno di Dio era finalmente giunto a loro e che Gesù stava dimostrando di essere l’incarnazione delle promesse fatte ai profeti a partire da Abrahamo, che loro ritenevano loro padre. Nessuno di loro lo fece.

Concludendo, abbiamo una cosa che in questo episodio accomuna gli ostili a Gesù, il paralitico e i suoi amici: tutti intraprendono un cammino per andare da Lui. I primi per accusarlo e il risultato che ottennero fu solo sconfitta e livore, i secondi consapevoli che solo Nostro Signore avrebbe potuto risolvere il loro grave problema, E la gioia fu il loro premio. I primi pensavano di essere qualcosa, i secondi partecipavano alla sofferenza dell’amico e andarono a Cristo per essere esauditi, o anche solo ascoltati attraverso le loro azioni. Solo la Parola di Dio che è Spirito e Vita può quindi risolvere la condizione di peccato in cui si trova l’uomo perché solo per mezzo della fede si riceve la giustificazione e la pace di Dio.

E Davide nel suo Salmo 108.13 scrive sotto la dispensazione della Legge “Il Signore è buono e pietoso, lento all’ira e grande nell’amore. Egli non continua a contestare e non conserva per sempre il suo sdegno, non ci tratta secondo le nostre colpe – cosa che il cristiano sa molto bene –. Come il cielo è alto sulla terra, così grande è la sua misericordia su quanti lo temono; come dista l’Oriente dall’Occidente, così allontana da noi le nostre colpe. Come un padre ha pietà dei suoi figli – il Padre Nostro che è nei cieli – così il Signore ha pietà di quanti lo temono”. Amen.

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3.06 – GESÙ IN PREGHIERA (Luca 5.15,16)

3.06 – Gesù in preghiera (Luca 5.15-16)

15Di lui si parlava sempre di più. E folle numerose venivano per ascoltarlo e farsi guarire dalle loro malattie. 16Ma Egli si ritirava in luoghi deserti a pregare”.

Con questa lettura ci troviamo di fronte a due situazioni distinte di cui solitamente si prende atto passandovi sopra, quasi ansiosi di leggere l’episodio successivo, tra la guarigione del lebbroso e quella del paralitico. Ciò che Luca descrive nei nostri versi è semplice: da un lato abbiamo le folle composte da curiosi che volevano vederlo, ascoltarlo e alcuni di loro guarire dalle malattie che li affliggevano, dall’altro vediamo la volontà di Gesù di ritirarsi in luoghi deserti e pregare, azione che lo accomuna a tutti gli altri uomini cui premeva e preme instaurare un rapporto con Dio.

Lui, il Figlio, tutt’uno con il Padre nella dimensione spirituale prima, durante e dopo la creazione, aveva assunto un corpo assolutamente identico al nostro provando la fatica, la fame e la sete. Lui, che teoricamente non aveva bisogno di nulla, si ritira in luoghi deserti per compiere un atto che per noi è indice di subordinazione e dipendenza, condizioni che si riferiscono al suo essere uomo per l’eredità materna che aveva ricevuto nella carne e alla quale non poteva sottrarsi. Questo era il limite di Gesù uomo, “limite” che scandalizza quelli che sono convinti che parlare di Dio impiegando espressioni come “non potere” o pensare che Lui potesse avere dei confini da non superare sia un oltraggio stante la sua onnipotenza.

La storia “interiore” di Gesù è spiegata in Filippesi 2.5-11: “Egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che al di sopra di ogni altro, perché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami «Gesù è il Signore!» a gloria di Dio Padre”.

Esaminiamo brevemente le fasi attraverso le quali passò Gesù descritte in questi veri. La prima è descritta in poche parole: era nella condizione di Dio, quindi in Lui e con Lui tanto prima che dopo la creazione. Era tutt’uno con quel Dio divenuto irraggiungibile dopo il peccato dei nostri progenitori perché Santo e quindi assolutamente distante e incompatibile con loro. Eppure, nei tempi da lui decretati, “non ritenne un privilegio essere come Dio, ma svuotò se steso assumendo una condizione di servo, divenendo simile agli uomini”. Si svuotò, scelse di farlo, l’azione del verbo riflessivo non lascia dubbi in proposito. Non era possibile diventare uomo senza rinunciare alla gloria e al posto che aveva quando era nella sua condizione originale e, per diventare creatura, dovette rinunciare ad essere creatore nel senso di essere quella “Parola” mediante la quale tutte le cose sono state create. “Parola” certo lo rimase e lo era, ma per portare agli uomini la “Grazia e la Verità che sono venute per mezzo di Gesù Cristo”. Assunse così “la condizione di servo, diventando simile agli uomini”. Pensiamo: Dio stesso, il Figlio, si fa uomo per servire, come nessun altro avrebbe mai potuto fare, il Padre., perché non c’era nessuno che potesse farlo. Atanasio di Alessandria, vescovo e teologo greco vissuto tra il 200 e il 300, scrisse che “Non volle semplicemente essere in un corpo né volle soltanto apparire in un corpo. Infatti, se avesse voluto semplicemente apparire, avrebbe potuto manifestare la sua divinità per mezzo di un essere più potente” come da sempre avvenuto – aggiungo io – nella mitologia tanto antica quanto moderna (Atanasio, L’incarnazione del verbo, cap.2). Era necessario un corpo di uomo, quella creatura che nonostante i suoi sforzi non riusciva mai ad essere interamente giusto a causa dei peccati che commetteva, accidentali o per semplice ignoranza. Ecco che Gesù si identifica con noi senza però condividere ed effettuando le nostre scelte.

Identico agli uomini per aspetto, Isaia 53.2 ci dice che “Non aveva né forma, né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per poterci piacere”, “umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte, e a una morte di croce”: l’umiliazione di Dio fu possibile unicamente grazie ad un amore smisurato più che dalla Sua onnipotenza: da un lato quello per il Padre visto nell’obbedienza alla legge, al suo “compimento”, e dall’altro quella per l’essere umano. Non fu facile: l’obbedienza fu faticosa e sofferente, che sempre Isaia nello stesso capitolo – per non parlare dei Vangeli quando affrontano il tema dall’arresto alla crocifissione e non solo – scrive “Eppure si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che dà salvezza si è abbattuto su di lui, per le sue piaghe noi siamo stati guariti”.

Gesù quindi, prendendo un corpo come il nostro, provò su di sé la separazione dal Padre cui era unito dall’eternità, la soggezione al tempo che mai aveva avuto, la debolezza sua e di quanti lo circondavano contro la quale non poteva permettersi di perdere a meno di rinunciare a salvare la creatura. Ecco allora spiegato quanto avesse da pregare e ancora di più il perché. Lui, in grado di esaudire le preghiere dei malati, non poteva pregare sé stesso, sarebbe stata una cosa incompatibile, avrebbe generato un cortocircuito e infatti non fece mai un miracolo che lo agevolasse. Fu infatti il Padre a inviargli degli angeli a servirlo e consolarlo dopo i quaranta giorni nel deserto, non Lui a chiamarli.

Capire la condizione di Gesù uomo è basilare non solo perché il suo essere tale è uno dei cardini della fede cristiana, ma piuttosto per avere un quadro del suo essere, di cosa provasse. E L’Antico Testamento, che contiene una quantità immensa di contenuti che trovano la loro rivelazione perfetta nel Nuovo, ci aiuta con due personaggi che si possono sotto certi aspetti collegare a Nostro Signore, cioè Mosè e il sommo sacerdote: il primo avrebbe dovuto condurre il popolo di Israele dall’Egitto alla terra promessa, ma purtroppo in quanto essere umano peccò e al suo posto fu Giosuè a portare a termine la sua opera. Si tratta di un avvenimento su cui occorre soffermarsi: in Numeri 27.12-14 leggiamo “12Il Signore disse a Mosè: «Sali su questo monte degli Abarìm e contempla la terra che io do agli Israeliti. 13Quando l’avrai vista, anche tu sarai riunito ai tuoi padri, come fu riunito Aronne tuo fratello, 14perché vi siete ribellati contro il mio ordine nel deserto di Sin, quando la comunità si ribellò, e non avete manifestato la mia santità agli occhi loro, a proposito di quelle acque». Sono le acque di Merìba di Kades, nel deserto di Sin”.

La lettura del passo di riferimento in Numeri 20.1-13, che narra della ribellione di Mosé, a prima vista passa sotto questo aspetto quasi inosservata; proviamo a leggerla: “1Ora tutta la comunità degli Israeliti arrivò al deserto di Sin il primo mese, e il popolo si fermò a Kades. Qui morì e fu sepolta Maria.2Mancava l’acqua per la comunità: ci fu un assembramento contro Mosè e contro Aronne. 3Il popolo ebbe una lite con Mosè, dicendo: «Magari fossimo morti quando morirono i nostri fratelli davanti al Signore! 4Perché avete condotto l’assemblea del Signore in questo deserto per far morire noi e il nostro bestiame? 5E perché ci avete fatto uscire dall’Egitto per condurci in questo luogo inospitale? Non è un luogo dove si possa seminare, non ci sono fichi, non vigne, non melograni, e non c’è acqua da bere».6Allora Mosè e Aronne si allontanarono dall’assemblea per recarsi all’ingresso della tenda del convegno; si prostrarono con la faccia a terra e la gloria del Signore apparve loro. 7Il Signore parlò a Mosè dicendo: 8«Prendi il bastone; tu e tuo fratello Aronne convocate la comunità e parlate alla roccia sotto i loro occhi, ed essa darà la sua acqua; tu farai uscire per loro l’acqua dalla roccia e darai da bere alla comunità e al loro bestiame». 9Mosè dunque prese il bastone che era davanti al Signore, come il Signore gli aveva ordinato. 10Mosè e Aronne radunarono l’assemblea davanti alla roccia e Mosè disse loro: «Ascoltate, o ribelli: vi faremo noi forse uscire acqua da questa roccia?». 11Mosè alzò la mano, percosse la roccia con il bastone due volte e ne uscì acqua in abbondanza; ne bevvero la comunità e il bestiame.12Ma il Signore disse a Mosè e ad Aronne: «Poiché non avete creduto in me, in modo che manifestassi la mia santità agli occhi degli Israeliti, voi non introdurrete quest’assemblea nella terra che io le do». 13Queste sono le acque di Merìba, dove gli Israeliti litigarono con il Signore e dove egli si dimostrò santo in mezzo a loro”.

Ecco, qui vediamo da un lato che la nostra mente umana non trova elementi per rimproverare qualcosa a Mosè, ma dall’altro che lui aggiunge delle parole che Dio non gli aveva ordinato di pronunciare (il rimprovero agli israeliti) e che usa il bastone percuotendo la roccia per due volte quando gli era stato detto di limitarsi a portarlo con sé. Questo bastò perché il Signore intervenisse prima con parole di rimprovero e poi con un intervento di esclusione. Al di là di tutte le applicazioni possibili su questi passi, per la natura di questo studio l’unica riflessione che mi sento di fare è che nessun uomo può essere un conduttore perfetto verso Dio, così come nessun uomo può essere un mediatore adeguato tra il suo simile e Lui. Mosè era stato scelto da YHWH, è considerato il legislatore nella storia del popolo eletto e già allora, velatamente, era possibile prendere atto di come che la Legge non aveva il potere di redimere, ma solo quello di dare il senso della enorme distanza che intercorreva tra Dio e gli uomini, una Legge che sappiamo fu definita dall’apostolo Paolo “Ombra dei futuri beni, non la forma reale stessa delle cose” (Ebrei 10.1). A Mosè non fu consentito di portare il popolo nella terra promessa, ma fu anche l’uomo che ebbe l’onore di essere sepolto da Dio stesso sul monte Nebo dopo avere visto il territorio in cui Israele sarebbe entrato. Elia ed Enoch furono da Lui rapiti in cielo, Mosé fu da lui sepolto. Noto adesso come, del tutto involontariamente, io continui a porre sempre due casi, due esempi, due che nella Bibbia è sia numero di contrapposizione che di collaborazione al tempo stesso.

C’è poi la figura del sommo sacerdote, che aveva una funzione del tutto particolare che gli altri, i semplici sacerdoti, non avevano. Era l’unico abilitato a entrare nel “Santo dei Santi”, la camera più interna del Tempio di Gerusalemme e poteva farlo una volta all’anno nella festa dello Yom Kippur, il giorno dell’espiazione, in cui offriva un sacrificio di espiazione per i peccati di tutto il popolo. Eppure anche lui aveva un limite: era un uomo come gli altri, come i suoi simili peccava, non poteva avere la dimensione del compatimento per le debolezze altrui perché preso a pensare alle proprie, era in una parola imperfetto nonostante l’assenza di difetti fisici che lo avrebbero reso incompatibile con la sua funzione. Ecco perché in Ebrei 4.14-16 sono spiegate le differenze tra il sommo sacerdote secondo la carne e Gesù stesso: “Dunque, poiché abbiamo un sommo sacerdote grande che è passato attraverso i cieli – con la sua ascensione – Gesù il Figlio di Dio, manteniamo ferma la nostra professione di fede. Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato. Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno”.

Ma l’apostolo Paolo, probabile autore di questa lettera, fariseo autorevole formatosi alla scuola rabbinica più autorevole del tempo, non si ferma qui, ma spiega l’umanità di Gesù mettendola in relazione all’espiazione dei peccati: “…perciò doveva rendersi in tutto simile ai fratelli per diventare un sommo sacerdote misericordioso e degno di fede nelle cose che riguardano Dio, allo scopo di espiare i peccati del popolo. Infatti, proprio per essere stato messo alla prova e avere sofferto personalmente, egli è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova” (Ebrei 2.17-18). Se il sommo sacerdote dell’antico patto offriva sacrifici anche per se stesso, Gesù offrì se stesso come sacrificio nonostante la sua perfezione. Se e quando il credente soffre per le prove che la vita inevitabilmente gli riserva, sa che prima di lui Gesù ha sofferto e non lo ha dimenticato. “È in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova”.

E per rendere ancora più chiara la funzione di Nostro Signore sotto questo aspetto, Paolo attinge ancora dalla memoria dell’Antico Patto specificando che “Cristo è venuto come sommo sacerdote dei beni futuri, attraverso una tenda più grande e più perfetta – che va oltre quindi al luogo santissimo – non costruita da mano d’uomo, cioè non appartenente a questa creazione. Egli entrò una volta per sempre nel santuario non mediante il sangue di capri e di vitelli, ma in virtù del proprio sangue, ottenendo così una redenzione eterna” (Ebrei 9.11,12).

Ecco, con questi versi che abbiamo citato ed esaminato brevemente, abbiamo un’idea dei motivi per cui Gesù pregasse, essendo necessaria una costante, continua comunione col Padre dal quale si era separato per poter condurre a termine la missione che aveva scelto di intraprendere. Solo attraverso la preghiera, con la quale confessava il bisogno che aveva dell’assistenza del Padre, poteva essere in grado di affrontare il compimento della Legge che gli era richiesto. “Non sono venuto per abolire la legge, ma per adempierla”. Lui, come Parola ab eterno, non ne aveva nessun bisogno, noi sì. Amen.

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3.04 – PESCATORI DI UOMINI (Luca 5.1-11)

3.04 – Pescatori di uomini (Luca 5.1-11 con riferimenti a Matteo 4.18-22 e Marco 1.16-20)

L’episodio della chiamata dei quattro, Simone e Andrea con Giacomo e Giovanni è riportato dai tre sinottici ed è fondamentale considerarli nella loro unitarietà perché a prima vista, leggendo Matteo e Marco, si può essere indotti a pensare che questa sia avvenuta all’inizio del ministero di Gesù, dopo il suo battesimo e la tentazione nel deserto. La versione di Matteo, più essenziale, dice: “18Mentre camminava lungo il mare di Galilea, vide due fratelli, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello, che gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. 19E disse loro: «Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini». 20Ed essi subito lasciarono le reti e lo seguirono. 21Andando oltre, vide altri due fratelli, Giacomo, figlio di Zebedeo, e Giovanni suo fratello, che nella barca, insieme a Zebedeo loro padre, riparavano le loro reti, e li chiamò. 22Ed essi subito lasciarono la barca e il loro padre e lo seguirono” (Matteo 4.18-22).

            Marco, dalla narrazione molto simile, aggiunge che “lasciarono il loro padre Zebedeo nella barca con i garzoni e andarono dietro a lui” (1.2’), ma Luca, accurato redattore sulla base delle testimonianze che riuscì a raccogliere, colloca con precisione l’episodio ponendolo al termine di un percorso che Gesù compì da solo, dopo aver lasciato che i quattro tornassero al loro mestiere. Leggiamo infatti: “Egli però disse loro «È necessario che io annunci la buona notizia del regno di Dio anche nelle altre città; per questo sono stato mandato. E andava predicando nelle sinagoghe della Galilea” (vv.43, 44). C’è chi ha calcolato che questo sia stato un itinerario di predicazione durato dai tre ai quattro mesi, dopo di che ci fu il ritorno a verso Capernaum, che toccò Bethsaida, che tradotto significa “Casa del pescatore” o le sue immediate vicinanze. Qui comincia il quinto capitolo di Luca.

 

1Mentre la folla gli faceva ressa attorno per ascoltare la parola di Dio, Gesù, stando presso il lago di Gennèsaret, 2vide due barche accostate alla sponda. I pescatori erano scesi e lavavano le reti. 3Salì in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra. Sedette e insegnava alle folle dalla barca. 4Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: «Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca». 5Simone rispose: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti». 6Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano. 7Allora fecero cenno ai compagni dell’altra barca, che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche fino a farle quasi affondare. 8Al vedere questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: «Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore». 9Lo stupore infatti aveva invaso lui e tutti quelli che erano con lui, per la pesca che avevano fatto; 10così pure Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, che erano soci di Simone. Gesù disse a Simone: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini». 11E, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono.”

 

            Ricordiamo che l’itinerario scelto da Gesù per la sua predicazione, come abbiamo già visto nel suo passare per la Samaria, fu sempre compiuto per motivi di ordine spirituale, che non fece mai nulla a caso e che quindi il passare lungo le rive del lago avesse come scopo proprio quello di chiamare i primi quattro discepoli a seguirlo. Veniamo al contesto umano descritto da Luca: Gesù era ormai conosciuto e riconosciuto da molti che lo attorniarono per ascoltarlo. Per quelle persone comportarsi in quel modo non era inusuale essendo costume dei rabbini del tempo insegnare nei luoghi più disparati e chiunque poteva fermarsi ad ascoltarli, quando non erano nelle loro scuole. Le acque del lago di Galilea erano evidentemente molto calme e la scelta di scostarsi un poco da terra fu la soluzione per poter parlare alla gente che avrebbe potuto ascoltarlo meglio.

Anche qui non abbiamo il contenuto del discorso che Gesù fece alla folla, ma lo troveremo in parte nella sua “summa” riportata nel discorso detto “della montagna”: ciò che preme a Luca non è qui riportare gli insegnamenti del Maestro, ma descrivere come e perché Simone, Andrea, Giacomo e Giovanni, che fino ad allora lo avevano seguito nei suoi spostamenti occasionalmente, scelsero di lasciare tutto per far parte dei discepoli, che poi chiamerà “apostoli”, cioè “inviati, rappresentanti”, a tempo pieno. Tra loro esisteva già familiarità, i quattro sapevano chi era Gesù, erano già stati resi edotti su chi Lui fosse prima da Giovanni Battista prima poi e da Lui stesso; avevano visto dei miracoli come la liberazione dell’indemoniato nella sinagoga e la guarigione della suocera di Simone dalla febbre, lo avevano ascoltato – non sappiamo se tutti – nei due giorni passati coi samaritani e ora erano lì, non più a lavare le reti, ma a sentire i suoi insegnamenti con gli altri. Questo ci conferma che fosse mattino presto: i pescatori lavoravano di notte a motivo delle reti che usavano: erano spesse, del tipo a tramaglio cioè costituite da tre reti distinte che, se fossero state usate di giorno, sarebbero state viste dai pesci che le avrebbero potute evitare. Erano reti di corda, pesanti, adatte al fondale roccioso della zona, che andavano poi lavate una volta rientrati pena il loro marcire. E il lavoro dei pescatori era particolarmente duro perché non disponevano di attrezzi meccanici a motore, né di cerate a proteggerli dall’acqua come oggi. E le reti non erano di nylon.

Finito di parlare alle folle, le prime parole furono per Pietro: “Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca”, una richiesta quanto meno curiosa. Simone aveva lavorato tutta la notte, lui e i suoi erano stremati e la risposta “sulla tua parola getterò le reti”, rivela la deferenza e il riguardo verso il suo futuro Maestro più che pensare a una buona riuscita della pesca, che la sua esperienza di esperto pescatore dava per impossibile. Da notare che Simone sapeva che, una volta gettate, quelle reti avrebbero dovuto essere lavate di nuovo con un conseguente, ulteriore dispendio di energie. Pietro sapeva che doveva esservi un motivo per quella richiesta, ma lo ignorava: agì “sulla tua parola”, cioè gli ubbidì senza addurre motivi di stanchezza dovuta alla fatica notturna e alla frustrazione dell’insuccesso che comunque gli fece presente. Oltretutto, era giorno e i pesci quelle reti le avrebbero sicuramente evitate. Simone, obbedendo alle parole di Gesù, fa qualcosa di umanamente e professionalmente irrazionale che può essere spiegato solo col termine con cui gli si rivolge, “Maestro” che, traducibile dal greco Epìstrata anche come “Guida”, “Uno che ha autorità sopra un altro”, che rivela i sentimenti che nutriva nei Suoi confronti. Se poi Pietro era stato presente alle nozze di Cana – nulla ci vieta di ipotizzarlo – implica sicuramente che si ricordasse di quell’ordine “riempite di acqua i recipienti fino all’orlo” apparentemente senza senso al pari di quella richiesta di gettare in acqua le reti. Pietro quindi, obbedendo senza discutere, compie un atto di fede: “Gettate le vostre reti per pescare”.

Fu allora che si rivelò non la conoscenza umana, ma quella di Dio: arrivò un banco di pesci, di quelli di cui hanno parlato scrittori più o meno antichi, tutti concordi nel descrivere il lago di Galilea come estremamente pescoso. Non solo ne parla Giuseppe Flavio, ma anche Henry Baker Tristram, storico naturale e viaggiatore vissuto nel 1800, che scrisse che quel lago era talmente ricco di pesce da avere dei banchi che a volte occupavano una superficie di circa 2,5 kmq. Difficile pensare che Simone e i suoi non lo sapessero; solo che i loro tentativi umani di quella notte non avevano prodotto alcun risultato, mentre bastò obbedire alla voce di Gesù per avere un esito ben oltre le loro aspettative. Questo fu il primo, diretto significato di quel miracolo. Il pesce era lì, c’era già, non fu creato sul momento apposta per loro, ma quei pescatori non potevano saperlo. Questo ci parla della quantità enorme delle cose che spesso non vediamo e continueremmo a non vedere se non ci affidassimo alle parole di Cristo e agli insegnamenti spirituali che abbiamo davanti. Non troviamo scritto che la pesca fu fruttuosa, ma che addirittura si trovarono in difficoltà a gestirla: “Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano. Allora fecero cenni ai compagni dell’altra barca, che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche fino a farle quasi affondare” (vv.6,7).

Possiamo immaginare lo stupore e la meraviglia di Simone e degli altri, che erano professionisti, mentre cercavano di far fronte come potevano a tutta quell’abbondanza e questo portò Pietro a concludere che quanto avvenuto sarebbe stato impossibile senza che Gesù sapesse che avrebbero pescato così tanto. Non gli rimase che ammettere la propria condizione: “Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore”. Conscio della sua inadeguatezza, il futuro apostolo ha una reazione che abbiamo già trovato negli scritti dell’Antico Patto che, dopo la creazione, praticamente si apre con l’incompatibilità dell’uomo con Dio una volta trasgredito il Suo unico comandamento. Adamo ed Eva infatti persero la loro innocenza e avrebbero trasmesso questa loro condizione a tutti quelli che avrebbero generato e così via in una catena. Ricordiamo Mosè, che quando Dio si presentò a lui è scritto che “…si coprì il volto, perché aveva paura di guardare verso Dio” (Esodo 3.6), e Isaia stesso, i cui scritti sono fondamentali per individuare in Gesù il Messia promesso, che descrisse la sua reazione di fronte alla visione del Signore seduto sul trono e di tutta la Corte celeste: “E dissi «Ohimè, io sono perduto, perché sono un uomo dalle labbra impure e abito in mezzo a un popolo dalle labbra impure, eppure i miei occhi hanno visto il re, il Signore degli eserciti” (1.5).

            Pietro era cosciente della propria condizione, di quanto fosse distante e piccolo di fronte alla santità di Gesù. “Signore – non più “Maestro” – allontanati da me – conscio della sua condizione di fronte a lui, ne ha paura e si sente profondamente inadeguato – perché sono un peccatore – quindi non degno della tua presenza”. Simone temeva che, in quanto peccatore, la sua stessa vicinanza al Signore avrebbe potuto offenderlo, era conscio dei mondi, delle dimensioni che li separavano. Simone non alludeva a un peccato specifico commesso, ma alla sua intera natura fatta di peccato cioè di imperfezione, lontananza da Dio e incompatibilità con Lui a meno di una grazia, di un “favore immeritato”, di un’accettazione da parte Sua di cui dubitava fortemente. Certo aveva vissuto con Gesù dei momenti intensi, aveva visto dei miracoli, ma non si era mai forse posto il problema del perché di quelli, più attratto da quegli eventi e dalle reazioni dei beneficiati e dei testimoni, ma su quella barca le cose erano diverse: per la prima volta toccava con mano la realtà in un campo che conosceva benissimo, il suo mestiere. Capì senza saperlo, in una condizione di profondo turbamento emotivo, quello che Gesù dirà apertamente più avanti, “Senza di me non potete far nulla”. Simone e quelli che erano con lui leggiamo che non gioirono per il risultato di quella pesca come se fosse una vincita al lotto o similari, ma ne furono spaventati, capendo che quanto stava avvenendo non rientrava nell’ambito di fatti che, pur eccezionali, potevano sempre accadere in quel lago: era qualcosa di incomprensibile avvenuto dietro l’ottemperanza ad un semplice ordine ricevuto. Ma in Salmo 8.7-10 leggiamo “Gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto ai suoi piedi: tutte le greggi e gli armenti e anche le bestie della campagna, gli uccelli del cielo e i pesci del mare, ogni essere che percorre le vie dei mari. O Signore, Signore nostro, quanto è mirabile il tuo nome su tutta la terra!”.

È molto importante a questo punto precisare una differenza che si riscontra nei sinottici: in Luca Gesù dice a Pietro, spaventato, “Non temere, d’ora innanzi sarai pescatore di uomini”, ma Matteo e Marco scrivono “Seguitemi, e vi farò pescatori di uomini”. Perché? La frase di Luca fu detta a Simone quando erano sulla barca alla presenza, oltre che del futuro apostolo, di Andrea suo fratello e di altri perché su quei mezzi l’equipaggio era solitamente composto da quattro persone. Luca ci riporta quindi una chiamata individuale. “Non temere” sappiamo essere un’esortazione che nella Bibbia compare 365 volte: ogni giorno porta la sua pena, ogni volta abbiamo questa esortazione. Col diventare “pescatore di uomini” poi viene prospettato a Simone il suo futuro che si sarebbe realizzato attraverso la predicazione e il governo della Chiesa in Gerusalemme e poi in Roma, anche se da qui a vederlo come Papa o “Vicario di Cristo in terra” ce ne corre.

Restavano Andrea, Giacomo e Giovanni che non potevano certo essere esclusi dall’invito a seguirlo, che si verificherà una volta arrivati a riva. Con quella chiamata esplicita, Gesù li pose di fronte a una scelta tra l’approfittare del guadagno che avrebbe rappresentato tutto quel pesce o il rinunciarvi per una vita diversa, cosa che avvenne consapevolmente e senza dubbi: “Tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono” (Luca), mentre per Giovanni e Giacomo “soci di Simone” è detto che “Subito lasciarono la barca e il loro padre, e lo seguirono”. Non lasciarono quindi Zebedeo in difficoltà, perché aveva dei dipendenti e avrebbe rimpiazzato i figli con altri, cioè il loro non fu un abbandono irresponsabile.

Si può allora concludere l’episodio con due considerazioni che, per la personale esperienza avuta nella Chiesa, mi sento di fare: la prima è che i quattro accettarono di seguire Gesù e che Lui stesso rivolse a loro l’elezione dopo che ciascuno di essi aveva compiuto un percorso individuale e profondo. Egli dette loro il tempo per vedere, ascoltare, lasciare che sedimentassero i facili entusiasmi, analizzare i sentimenti che provavano e soprattutto, riflettere. Non li assillò, non li costrinse, non fece su di loro alcun lavoro di “marketing psicologico” attivo o passivo perché la scelta di seguire Cristo non può essere condizionata da facili impulsi sopravvalutando le proprie forze, ma da un confronto tra quello che può essere la vita con Lui o senza, tra l’andare avanti a pescare conoscendo i successi e gli insuccessi del mestiere, il condurre una vita benestante destinata un giorno a conoscere il suo termine, o diventare dei “pescatori di uomini”.

Seconda considerazione: cosa vuol dire oggi per il cristiano essere “pescatore di uomini”? In molte Chiese si pensa che sia la predicazione all’esterno il dovere di ogni credente, ma così facendo si rischia di fare dei proseliti, mentre credo che siamo chiamati a “pescare noi stessi” per primi, pur avendo già creduto ed essendo stati già salvati. Non si diventa pescatori senza un lungo tirocinio, senza acquisire conoscenza e soprattutto esperienza. Non esiste persona uguale all’altra, ciascuna ha attitudini precise e soprattutto funzioni diverse, come illustrato dal paragone col corpo e le sue membra: “Come infatti il corpo, pur essendo uno, ha molte membra e tutte le membra, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche Cristo. E in realtà noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti ci siamo abbeverati a un solo Spirito. Ora il corpo non risulta di un membro solo, ma di molte membra. Se il piede dicesse: «Poiché io non sono mano, non appartengo al corpo», non per questo non farebbe più parte del corpo. E se l’orecchio dicesse: «Poiché io non sono occhio, non appartengo al corpo», non per questo non farebbe più parte del corpo. Se il corpo fosse tutto occhio, dove sarebbe l’udito? Se fosse tutto udito, dove l’odorato? Ora, invece, Dio ha disposto le membra in modo distinto nel corpo, come egli ha voluto. Se poi tutto fosse un membro solo, dove sarebbe il corpo? Invece molte sono le membra, ma uno solo è il corpo. Non può l’occhio dire alla mano: «Non ho bisogno di te»; né la testa ai piedi: «Non ho bisogno di voi». Anzi quelle membra del corpo che sembrano più deboli sono più necessarie; e quelle parti del corpo che riteniamo meno onorevoli le circondiamo di maggior rispetto, e quelle indecorose sono trattate con maggior decenza, mentre quelle decenti non ne hanno bisogno. Ma Dio ha composto il corpo, conferendo maggior onore a ciò che ne mancava, perché non vi fosse disunione nel corpo, ma anzi le varie membra avessero cura le une delle altre. Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui. Ora voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte”. (1 Corinzi 12.12-27)

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3.03 – LA SUOCERA DI PIETRO E I MALATI (Luca 4.38-44)

3.03 – La suocera di Pietro e i malati (Luca 4.38-44)

 

38Uscito dalla sinagoga, entrò nella casa di Simone. La suocera di Simone era in preda a una grande febbre e lo pregarono per lei. 39Si chinò su di lei, comandò alla febbre e la febbre la lasciò. E subito si alzò in piedi e li serviva.40Al calar del sole, tutti quelli che avevano infermi affetti da varie malattie li condussero a lui. Ed egli, imponendo su ciascuno le mani, li guariva. 41Da molti uscivano anche demòni, gridando: «Tu sei il Figlio di Dio!». Ma egli li minacciava e non li lasciava parlare, perché sapevano che era lui il Cristo.42Sul far del giorno uscì e si recò in un luogo deserto. Ma le folle lo cercavano, lo raggiunsero e tentarono di trattenerlo perché non se ne andasse via. 43Egli però disse loro: «È necessario che io annunci la buona notizia del regno di Dio anche alle altre città; per questo sono stato mandato». 44E andava predicando nelle sinagoghe della Giudea”.

Nulla sappiamo, come in numerosi casi di guarigione, dell’uomo liberato dallo spirito impuro che abbiamo visto nella scorsa riflessione se non che era stato messo nella condizione di ricominciare tutto da capo dopo un’attenta revisione del suo comportamento. Ora Luca e non solo, nell’episodio precedente, avendoci informato che tutto avvenne di sabato, ci consente di sapere che la casa di Pietro e Andrea era nei pressi della Sinagoga, poiché in quel giorno non potevano essere percorsi più di 890 metri, distanza stabilita dai rabbini studiando il passo di Giosuè 3.4 in cui si parla dello spazio che doveva intercorrere tra l’Arca dell’Alleanza, portata dai sacerdoti e dai leviti, e il resto del popolo. Anche il primo verso del nostro testo, “Uscito dalla sinagoga, entrò nella casa di Simone”, lascia pensare ad un’azione quasi immediata.

Marco riferisce che “Usciti dalla sinagoga vennero, con Giacomo e Giovanni, in casa di Simone e Andrea. Ora la suocera di Simone giaceva in letto, con la febbre, ed essi subito gliene parlarono” (1.30). È quindi probabile che quella casa fosse di proprietà di entrambi i fratelli, poiché erano benestanti stante il guadagno ottenuto dalla loro professione di pescatori. Il lago di Galilea infatti non era povero di fauna ittica e i guadagni erano consistenti (pensiamo a Zebedeo, padre di Giacomo e Giovanni, che aveva una flotta di barche e dei dipendenti al suo servizio).

Della febbre abbiamo già parlato in occasione della guarigione del figlio del funzionario reale, ma qui possiamo notare il diverso approccio: Gesù si chinò su di lei, “comandò alla febbre” – Marco scrive “La fece alzare” – “…e la febbre la lasciò”. Il chinarsi implica piegarsi con la persona verso qualcuno, in questo caso per sollevarla: è un gesto di aiuto verso un essere umano in difficoltà, a letto. Implica l’avvicinarsi ed è segno di compassione che denota volontà di aiutare, in questo caso guarire. È la prima volta in cui troviamo scritto che Nostro Signore si china su qualcuno, lui che avrebbe potuto agire stando distante come già avvenuto. Lui Figlio e Dio stesso, che poteva rimanere nella gloria e nell’onore che aveva, Creatore e Signore del cielo e della terra, si occupa di un essere umano chinandosi. Non so se quella donna fosse più grave del figlio del funzionario reale che stava per morire –, ma era in condizioni prossime alle sue perché Luca ci parla di “grande febbre” secondo l’uso di classificarla in “grande” o “piccola” di allora, come testimonia Galeno, medico greco del primo secolo D.C. i cui punti di vista hanno dominato la medicina occidentale fino al Rinascimento; con quel gesto Gesù volle manifestare la sua identificazione con l’essere umano nella sua condizione di impotenza a vivere come vorrebbe, cioè senza incappare in malattie e tutto quanto lo rallenta nelle sue attività quotidiane. Ricordiamo che la febbre poteva anche essere preludio di malattie più importanti, se non saliva e raggiungeva livelli tali da causare la morte. Gesù si china su di lei, denotando interesse e compassione. È giusto ripeterlo perché a volte, soggetti come tutti gli esseri umani istintivamente a reagire con ansia e paura di fronte alla malattia, tendiamo a dimenticare questo atteggiamento del Salvatore chino sull’uomo dimostrando prima di tutto si comprendere e sapere la condizione in cui la persona può venirsi a trovare.

Gesù opera non di sua iniziativa, ma perché i discepoli “lo pregarono per lei” diventando così un esempio anche per i cristiani, chiamati a pregare gli uni per gli altri e non solo per loro stessi. Troppe volte si tende a porre davanti a Lui i nostri problemi contingenti, si prega magari perché si hanno dei dolori fisici e non si fa caso alle sofferenze fisiche e morali del nostro prossimo, che crede come noi e forse non importuna Dio presentando i suoi problemi di salute perché ne ha di più importanti. I discepoli “Lo pregarono” perché sapevano che il suo intervento poteva essere risolutore. Gesù quindi operò come scrisse Isaia 750 anni prima della Sua venuta nel mondo in 53.4 quando scrisse “…eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori”.

Leggiamo che “comandò alla febbre”, altri traducono “sgridò la febbre”: non sappiamo quali parole usò, fatto sta che il Suo fu un comando pronunciato a voce alta e quella donna guarì istantaneamente: leggiamo “subito si alzò in piedi e li serviva”. La risposta a quella preghiera fu rapida, ma soprattutto inequivocabile come lo è qualsiasi intervento di Dio nei confronti nostri e di altri.

Per estensione, se la febbre naturale blocca le attività ordinarie dell’uomo, quella spirituale fa altrettanto e in un ambito più importante. Si contrae per ignoranza, per negligenza, trascuratezza, perché siamo esseri umani, di carne e può capitare che non sempre, per molte ragioni, siamo in grado di porre su noi stessi la vigilanza che dovremmo. Di qui l’importante contenuto della preghiera del “Padre Nostro” “non esporci alla tentazione”, traduzione più corretta rispetto a quella più usata, “non indurci”. Come cristiani, dovremmo avere il coraggio di riconoscere la nostra febbre, possibilmente quanto inizia appena ad insorgere, e chiedere a Dio l’aiuto per uscirne.

 

Ora la notizia di quella guarigione trapelò all’esterno e andò ad aggiungersi a quella della liberazione dell’indemoniato nella sinagoga fatta poco prima: era sabato, era proibito svolgere qualsiasi attività e per questo la gente attese, prima di portargli i malati nel prosieguo del racconto, che arrivasse il tramonto, cioè quando il giorno si concludeva e non si era più sotto il vincolo del quarto comandamento che è opportuno citare: “Ricordati del giorno di sabato per santificarlo. Sei giorni lavorerai e farai ogni tuo lavoro, ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: non farai alcun lavoro, né tu né tuo figlio né tua figlia, né il tuo schiavo o la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te” (Esodo 20.9,10). Ancora, Geremia 17.21,22 riporta “Così dice il Signore: per amor della vostra stessa vita, guardatevi dal trasportare un peso in giorno di sabato e di introdurlo per le porte di Gerusalemme. Non portate alcun peso fuori dalle vostre case in giorno di sabato e non fate alcun lavoro, ma santificate il giorno di sabato, come io ho comandato ai vostri padri”.

Rileggiamo ora i versi di Luca: “Al calar del sole, tutti quelli che avevano infermi affetti da varie malattie li condussero a lui. Ed egli, imponendo su ciascuno le mani, li guariva. Da molti uscivano anche demoni, gridando “Tu sei il Figlio di Dio!”. Ma egli li minacciava e non li lasciava parlare, perché sapevano che era lui il Cristo”. Marco completa l’episodio: “Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta. Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demoni, ma non permetteva ai demoni di parlare, perché lo conoscevano” (1.32-33).

Credo sia importante porre la nostra attenzione su due elementi, cioè la differenza intercorrente fra il “tutta la città”, o i “tutti” e i “molti”, che non indicano la stessa cosa. Si radunò davanti alla porta della casa di Simone una quantità impressionante di gente a tal punto che si può dire che tutta la città di Capernaum era presente, malati e indemoniati compresi portati là dai parenti. Però non tutti quelli portati a Gesù guarirono, poiché Marco scrive “Guarì molti”, cioè non adottò un comportamento universale, ma selettivo proprio perché altrove abbiamo letto che “conosceva quel che c’è nell’uomo”. Ecco allora che Nostro Signore guarì coloro che erano vittime e non protagoniste della loro condizione di peccato. La guarigione di un peccatore infatti ha senso solo se questi è disposto a ravvedersi e non per comportarsi come se nulla fosse una volta guarito perché tornerebbe nella sua condizione di prima, se non peggiore. Anche oggi credo che il Signore sappia fare distinzioni tra chi è protagonista o vittima di un peccato, quindi di se stesso nel profondo a livello di volontà, e che agisca di conseguenza. La Sua lettura dei cuori infatti è la capacità di valutare, più che i pensieri presenti in esso, ciò che è nell’anima e lo spirito che muove la persona, vale a dire il suo passato e il suo presente. E sì, anche il futuro che ne è spesso la conseguenza.

Poi ci sono gli indemoniati, persone che si manifestavano con i loro disturbi apertamente, a differenza dell’anonimo che abbiamo visto nella Sinagoga. Qui direi che è obbligatoria una domanda: si può escludere che Marco e Luca abbiano fatto rientrare nella categoria degli indemoniati anche delle persone disturbate mentalmente? Non a priori poiché il campo delle scienze che si occupano della mente è oggi molto vasto e una gran quantità degli interrogativi di allora hanno trovato una spiegazione nelle neuroscienze e nella psichiatria, per quanto non tutte. Piuttosto, l’indemoniato va raccordato al contesto storico di allora, in cui la lontananza da Dio del popolo di Israele aveva causato loro gravi danni: ricordiamo che non avevano profeti da 350 anni, che la presenza stessa dei malati, dei paralitici, ciechi e altre categorie a vasto raggio erano i sintomi di un allontanamento da quel Dio che aveva promesso, in caso di fedeltà ai suoi comandamenti, l’assenza di quelle che chiamiamo “sventure” e di qualsiasi tipo di malattie. Nell’Antico Patto, una malattia in Israele era sempre il risultato di un peccato, mentre per gli altri popoli era piuttosto la conseguenza della loro condizione ereditata da Adamo, vale a dire un corpo soggetto ad ammalarsi, logorarsi e infine morire. La presenza degli indemoniati tra il popolo testimoniava, in fin dei conti, quanto fosse lontana la loro mente dall’attesa del Cristo promesso.

Oggi Satana agisce in coloro che glielo consentono e ne fa dei suoi strumenti come fu il caso di Giuda Iscariotha di cui a un certo punto, nell’ultima cena di Gesù con gli apostoli, è scritto: “E intinto il boccone, lo prese e lo diede a Giuda Iscariotha, figlio di Simone. E allora, dopo quel boccone, Satana entrò in lui” (Giovanni 26,27). Ciò va detto per non incorrere nell’errore di alcune Chiese i cui componenti tendono a vedere l’opera del demonio ovunque, anche nelle persone depresse dimenticando che la mente, al pari del corpo, può sempre ammalarsi e va curata.

Credo che ogni cristiano debba piuttosto meditare quanto scrive Giovanni nella sua prima lettera: “Questo è il messaggio che abbiamo udito da lui e che noi vi annunciamo: Dio è luce e non vi è in lui tenebra alcuna. Se diciamo di essere in comunione con lui e camminiamo nelle tenebre, siamo bugiardi e non mettiamo in pratica la verità. Ma se camminiamo nella luce, come egli è nella luce, siamo in comunione gli uni con gli altri e il sangue di Gesù, il Figlio suo, ci purifica da ogni peccato. Se diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se confessiamo i nostri peccati, egli è fedele e giusto tanto da perdonarci i peccati e purificarci da ogni iniquità. Se diciamo di non avere peccato, facciamo di lui un bugiardo e la sua parola non è in noi” (1 Giovanni 5,10).

Tornando all’ultimo verso del nostro secondo episodio, leggiamo che i demoni lo qualificavano come Figlio di Dio, ma che Gesù non li lasciava parlare: erano testimoni di cui non aveva bisogno, inopportuni, che non avevano alcun diritto di qualificarlo in quel modo per quanto corrispondesse a verità. “Tu sei il Cristo, il Figlio dell’Iddio vivente”, come gli disse Pietro, è una frase che compete alla persona che Lo riconosce come Unico riferimento per la propria salvezza eterna.

 

Il terzo momento descritto da Luca ci conferma le due nature di Gesù, che dopo i tre episodi, cioè la guarigione dell’indemoniato, della suocera di Pietro e dei molti indemoniati, si alzò presto per pregare, cioè chiedere al Padre l’assistenza di cui aveva bisogno come uomo; ricordiamo le parole “Il mio cibo è fare la volontà di Colui che mi ha mandato”, quel cibo che i suoi discepoli non conoscevano. Gli abitanti di Capernaum non potevano certo dimenticare le guarigioni del giorno precedente e si misero a cercarlo. I primi a fare questo furono i discepoli, poi seguiti dagli altri. Infatti Marco scrive “E Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce. Lo trovarono e gli dissero «Tutti ti cercano»” (1.36,37): erano legati al fatto che dovesse restare lì, che avesse ancora molto da fare. Quelli di Capernaum però erano animati da un sentimento egoistico, come scrive Luca, perché “cercavano di trattenerlo perché non se ne andasse via” nel senso che volevano avere a loro disposizione quel Maestro così diverso dagli altri: prima doveva guarire le loro malattie e poi gli insegnare la Scrittura nella Sinagoga. Doveva essere motivo di vanto per Capernaum, città sulla quale poi pronuncerà una maledizione. Fu il loro un comportamento diverso da quello dei samaritani che abbiamo letto da poco, in cui Giovanni non riferisce di miracoli fatti in mezzo a loro, anche se non possiamo escludere che non siano avvenuti. I samaritani accolsero Gesù “con gioia”, a Capernaum inizia la volontà, non molto velata, di farne un condottiero politico o uno strumento di richiamo per la città al punto che più avanti, quando si recherà a Nazarth, i suoi concittadini pretendevano che facesse presso di loro gli stessi miracoli che aveva fatto là.

Su Capernaum Gesù formulerà un giudizio importante: “…e tu, Capernaum, sarai forse innalzata fino al cielo? Precipiterai fino agli inferi! Perché, se a Sodoma fossero avvenuti i prodigi che sono stati in mezzo a te, oggi essa esisterebbe ancora! Ebbene io vi dico, nel giorno del giudizio la terra di Sodoma sarà trattata meno duramente di te” (Matteo 11.22-24).

Gesù però non poteva accettare i sentimenti che animavano i suoi nuovi concittadini e, come lui stesso dice, la sua predicazione non poteva essere contenuta in un perimetro limitato, ma avrebbe dovuto essere per tutto il popolo di Israele: “È necessario che io annunci la buona notizia del regno anche alle altre città; per questo sono stato mandato”. Quindi, Luca dà un accenno su un periodo ulteriore: “E andava predicando nelle sinagoghe della Giudea”, che altre versioni indicano più correttamente nella Galilea dove si trovava. Un cammino che diversi commentatori hanno ritenuto abbia compiuto da solo.

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3.02 – L’INDEMONIATO NELLA SINAGOGA DI CAPERNAUM (Luca 31.37))

3.02 – L’indemoniato nella Sinagoga di Capernaum (Luca 4.31-37)

 

31Poi scese a Cafàrnao, città della Galilea, e in giorno di sabato insegnava alla gente. 32Erano stupiti del suo insegnamento perché la sua parola aveva autorità. 33Nella sinagoga c’era un uomo che era posseduto da un demonio impuro; cominciò a gridare forte: 34«Basta! Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!». 35Gesù gli ordinò severamente: «Taci! Esci da lui!». E il demonio lo gettò a terra in mezzo alla gente e uscì da lui, senza fargli alcun male. 36Tutti furono presi da timore e si dicevano l’un l’altro: «Che parola è mai questa, che comanda con autorità e potenza agli spiriti impuri ed essi se ne vanno?». 37E la sua fama si diffondeva in ogni luogo della regione circostante”.

Di questo episodio parlano Luca e Marco, che integra il racconto con una annotazione: “…erano stupiti dal suo insegnamento: Egli insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi” (1.22). Come abbiamo anticipato nello scorso episodio, la guarigione dell’indemoniato fu il primo dei sette miracoli compiuti da Gesù in giorno di sabato ed avvenne in una Sinagoga a sottolineare la continuità fra Antico e Nuovo Patto. Il contenuto della Sua predicazione fu probabilmente graduale: parlando a tutti, quindi in gran parte al popolo e poi agli eventuali dottori presenti, partiva dalle Scritture che lo riguardavano e le aggiornava, mostrando i veri contenuti della Legge e dei Profeti. Ma soprattutto la Legge, che secondo l’insegnamento dell’apostolo Paolo “possiede soltanto l’ombra dei futuri beni e non la realtà stessa delle cose”, andava esposta, commentata in modo tale da condurre il popolo a Lui.

Nello scorso capitolo ho accennato al fatto che a Capernaum inizia un tempo nuovo, un periodo di insegnamento e di dedizione totale alla creatura e lo vedremo nei miracoli, negli insegnamenti, nei segni di Cristo. Ora Credo che il Suo insegnamento consistesse appunto in questo: ampliare la conoscenza in merito agli avvenimenti e ai precetti che molti, se non tutti, conoscevano in modo limitato e freddamente osservante.

L’obiettivo di Gesù era quindi da un lato quello di portare in luce ciò che era in ombra, dall’altro dimostrare inconfutabilmente che, attraverso i segni che compiva e avrebbe compiuto, aveva un’autorità che procedeva da Dio, ciò per condurre gli uomini a riconoscerlo come il Figlio di Dio nel quale il Padre si era compiaciuto. Non era infatti lontano il tempo in cui, parlando nella Sinagoga di Nazareth e commentando Isaia dirà “Oggi si è compiuto quello che voi avete ascoltato” (Luca 4.21), facendo esplicito riferimento a se stesso. Insegnando nella Sinagoga, già provocava nella gente un senso di rispetto e di edificazione perché si distingueva da chiunque nell’esporre: era la sua consacrazione e la conseguente relazione che aveva con il Padre che produceva quell’insegnamento autorevole così distante da quello degli scribi che si limitavano a discorsi basati su concetti religiosi, osservanti l’estensione della tradizione orale così lontana dall’amare “il Signore Iddio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e tutta la tua mente”; ciò produceva un’esposizione magari accademica, ma certo non in grado di dissetare l’anima perché mancava l’acqua viva che doveva sgorgare. Luca 4.14 ha scritto “Insegnava nello loro sinagoghe e tutti gli rendevano lode”, cosa impossibile senza questa caratteristica. Anche oggi chi insegna il Vangelo dovrebbe essere in grado di presentarlo con l’autorità che deriva dall’esperienza, dall’aver provato prima di tutto i benefici della Grazia su di sé piuttosto che percorrere i sentieri della storia e della tradizione, a meno che non sia strettamente necessario e limitatamente all’inquadramento nel tempo di un determinato personaggio o corrente.

Qual era la destinazione, l’obiettivo a lunga scadenza che Gesù si prefiggeva? Dare la sua vita perché gli uomini credessero in Lui e si salvassero. Così Paolo in Ebrei 10.11-14: “Ogni sacerdote si presenta giorno per giorno a celebrare il culto e a offrire molte volte gli stessi sacrifici, che non possono mai eliminare i peccati. Cristo, invece, avendo offerto un solo sacrificio per il peccato, si è assiso per sempre alla destra di Dio, aspettando ormai che i suoi nemici vengano posti a sgabello dei suoi piedi. Infatti, con un’unica offerta, egli ha reso perfetti per sempre quelli che vengono santificati”.

Salvare l’uomo significa sottrarlo a Satana in vista del giudizio futuro su di lui e questo è uno dei motivi per cui lo spirito immondo, come abbiamo letto, gli si rivolterà contro. E qui abbiamo il primo dato: un vero insegnamento, fosse anche una semplice frase di natura spirituale, non può che generare una reazione in positivo o in negativo. In quella Sinagoga Luca e Marco ci dicono che c’era un uomo posseduto da uno spirito immondo di cui probabilmente nessuno si era mai accorto perché, in caso di comportamento sconnesso, gli sarebbe stato impedito l’accesso: frequentava allora le riunioni in quell’edificio probabilmente con regolarità e non aveva mai dato adito a preoccupazioni o provvedimenti tali da escluderlo dalla comunità. Ecco allora che quell’uomo frequentava l’assemblea sentendosi a suo agio tra le preghiere formali e gli insegnamenti frutto della scienza scritturale umana proposta dagli scribi. Anche oggi sono tanti quelli che frequentano i radunamenti di Chiesa per lavare le loro coscienze, oppure per sentirsi a posto senza pensare al Corpo di Cristo al quale appartengono. La Chiesa non è costituita da membri isolati gli uni dagli altri, ma da persone che interagiscono tra loro per un bene comune. In pratica sono un corpo solo, ciascuno con una funzionalità precisa. Chiamati fuori da un mondo che non riconosce Dio, rischiano di chiudersi dentro loro stessi, attratti più da eventuali riti e atteggiamenti esteriori più che dal vivere assieme in Cristo.

Ma torniamo all’episodio: non resta che concludere che la presenza di Gesù e le sue parole su un brano di scrittura specifico abbiano provocato nel demone che abitava quella persona anonima la reazione che abbiamo letto. Penso che Gesù abbia affrontato un passo impegnativo, come del resto tutti quelli che coinvolgono l’osservanza spirituale di un comandamento, quello che c’è dietro, le sue profonde implicazioni, della Legge o di una profezia sul trionfo del Messia sul peccato, su Satana e i suoi angeli. Prestiamo ora attenzione alle parole di Giacomo, fratello di Gesù nella sua lettera: “Tu credi che c’è un solo Dio? Fai bene, anche i demoni lo credono e tremano” (2.19). I demoni, come ha spiegato Giacomo, hanno due caratteristiche: la prima è che credono – ma per questo non sono salvati – perché lo hanno visto e conosciuto il Suo primo giudizio; la seconda è il tremare, verbo che ha come suo secondo significato l’essere in uno stato di agitazione, di ansia, di paura interiore.

I demoni infatti sanno che un giorno Satana avrà il capo schiacciato dalla progenie della donna e che il loro destino sarà l’essere gettati nello stagno di fuoco e di zolfo con lui, ma non quando. Ecco il perché della frase che quello spirito, che fino a quel momento era rimasto silente accontentandosi di vivere in quell’uomo dominandolo, ha una reazione che si caratterizza con delle frasi che iniziano quasi con un imperativo: “Basta!”, che tuttavia è più corretto tradurre con “Lasciaci” o con un grido, “Ah!”. Marco scrive infatti “diede in grido” (1.23). Quel demone non tollerava prima di tutto di ascoltare un insegnamento di vera dottrina perché, se lo Spirito convince di peccato, quella predicazione generava in lui un cortocircuito. La presenza e le parole di Gesù erano diventate letteralmente intollerabili.

Se l’intento di Satana è tenere l’uomo all’oscuro della verità in modo che l’uomo non giunga alla salvezza e di compromettere nella maniera più grave possibile il rapporto dei credenti, non poteva tollerare quelle parole di vita che, per lui, erano di morte. L’apostolo Giovanni, nella sua prima lettera in 3,8, scrive che “Gesù è venuto per distruggere le opere del diavolo“.

Lo spirito impuro, inoltre, si considerava un tutt’uno con la persona che occupava, la considerava già una sua proprietà e, infatti, parla al plurale, “Che vuoi da noi (…) sei venuto a rovinarci?”. Da qui possiamo fare un’altra riflessione: per possedere quella persona, vale a dire la sua anima e il suo spirito, voleva dire che la stessa glielo aveva permesso con un comportamento non consono alla Scrittura, in particolare nei confronti della Legge, con una ribellione sistematica a uno o più comandamenti, quel decalogo dato agli uomini per evitare che offendessero Dio. Dei dieci, diversi da quello che è insegnato nel catechismo della Chiesa di Roma, ne abbiamo quattro che riguardano la relazione con Dio (1. Non avere altri dèi oltre a me – 2. Non farti scultura, né immagine alcuna delle cose che sono lassù nel cielo o quaggiù sulla terra o nelle acque sotto la terra, non ti prostrare davanti a loro e non li servire – 3. Non pronunciare il nome del Signore, tuo Dio, invano – 4. Ricordati del giorno di riposo per santificarlo) e sei sono norme comportamentali tra simili che vanno a danneggiare uno o più soggetti in modo tale da rendere impossibile un contatto con Lui: “5. Onora tuo padre e tua madre – 6. Non uccidere – 7. Non commettere adulterio – 8. Non rubare – 9. Non attestare il falso contro il tuo prossimo – 10. Non desiderare la casa del tuo prossimo, non desiderarne la moglie né il suo servo, né la sua serva, né il suo bue né il suo asino, né cosa alcuna del tuo prossimo”.

Ora va fatta molta attenzione: i punti in cui quella persona era mancante alla luce del decalogo poteva riguardare il settimo comandamento “Non commettere adulterio” o l’ottavo “Non rubare”, azioni che possono diventare continuative, abitudinarie perché suscettibili, soddisfacendo la carne, ad essere continuate nel tempo e a coperte da una coscienza di per sé impura. Entrambe le infrazioni, poi, sono la conseguenza della coltivazione del decimo comandamento relativo al non desiderare ciò che è di altri, azione che non implica la semplice, bonaria invidia che porta ad esempio un uomo che manca di certe cose accessorie a considerare un suo simile fortunato perché invece le possiede e lì si ferma.

La pratica abituale del trascurare i comandamenti di Dio, soprattutto quelli che possono essere difficilmente scoperti, porta l’uomo a porsi in contrapposizione con Lui, ad adagiarsi su un sistema religioso fatto da uomini: “tanto nessuno mi vede”. Frequentando la Sinagoga, quell’uomo aveva trovato un compromesso e da un lato il recarsi alle riunioni soddisfaceva il suo senso religioso, quindi carnale. Era una situazione da sdoppiamento della persona, che si comportava ora in un modo ora in un altro senza alcun problema.

A questo punto occorre precisare che lo spirito impuro aveva trovato un terreno quanto mai fertile in quella persona per potersi stabilire al suo interno: l’innominato indemoniato aveva finito per diventare una vittima delle proprie concupiscenze materiali e paradossalmente aveva trovato un equilibrio nella sua incontinenza. Solo di fronte alla responsabilizzazione vista nella predicazione di Nostro Signore fu possibile una reazione perché l’impurità non può reggere di fronte alla santità di Dio che la giudica e condanna.

Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei, il Santo di Dio!” (v.34): vediamo che prima lo chiama “Nazareno”, in tono evidentemente spregiativo per denigrarlo davanti ai presenti che sapevano quanto fossero rozzi gli abitanti di quella città; poi abbiamo la domanda “Sei venuto a rovinarci?”, che in un altro episodio altri demoni aggiungeranno “prima del tempo?”.

Ecco, qui intervenire Giuda nella sua lettera ai versetti 5 e 6 che scrive “A voi che conoscete tutte queste cose, voglio ricordare che il Signore, dopo aver liberato il popolo dalla terra d’Egitto, fece poi morire quelli che non vollero credere e tiene in catene eterne, nelle tenebre, per il giudizio del grande giorno, gli angeli che non conservarono il loro grado ma abbandonarono la propria dimora”: sono catene che non li bloccano nella loro attività, ma non consentono loro di andare oltre a un certo punto, non hanno piena autonomia. Ecco perché possono agire solo in quei contesti in cui viene loro dato uno spazio.

E questo episodio ci insegna una realtà sulla persona indemoniata: il problema non è se indemoniato sia il malato mentale o chi ha problemi psichici che a volte la psicoterapia o le cure farmacologiche sono in grado di aiutare, ma l’uomo che, col suo comportamento, consente di lasciarsi dominare da istinti e forme di ragionamento che a lungo andare consentono a uno spirito immondo di abitarlo. Non tutti quelli che si comportano come l’indemoniato di Capernaum a livello di infrazioni ai comandamenti sono effettivamente tali, ma l’episodio ci insegna che questo è possibile. Non è un ragionamento superstizioso, anzi è un’estensione delle parole di Gesù a proposito di due realtà, entrambe attinenti al nostro caso.

In Luca 16.13 leggiamo che “Nessuno può servire a due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro”. Da questo importante passo rileviamo che l’uomo, che si ritiene autonomo e si proclama libero, in realtà è e rimane un servo; è l’entità con la quale si relaziona che determina il suo carattere e l’a chi sono rivolti i suoi pensieri.

La seconda ci è data per descrivere lo stato di una persona liberata dallo spirito immondo, che non può rimanere da sola, ma iniziare un cammino che abbia Cristo come fondamento: “Quando lo spirito impuro esce dall’uomo, si aggira per luoghi aridi cercando sollievo, ma non ne trova. Allora dice «Ritornerò da dove sono uscito». E, venuto, la trova vuota, spazzata e adorna. Allora va, prende con sé altri sette spiriti peggiori di lui, vi entrano e vi prendono dimora e l’ultima condizione di quell’uomo diventa peggiore della prima” (Matteo 12.43-45).

 

C’è una terza frase che lo spirito impuro pronuncia pubblicamente: “Io lo so chi sei, il Santo di Dio!”: non riconosce Gesù come profeta generico, ma gli dà quel titolo conosciuto dal popolo come Colui che doveva arrivare, era un titolo non morale, ma ufficiale e preciso che quello spirito non poteva pronunciare: se lo fece, era solo per evidenziare che il tempo per la sua fine non era ancora giunto e voleva essere lasciato stare, libero di occupare quell’uomo.

Satana conosce il suo destino, ma sa anche che prima della sua definitiva sconfitta avrà modo di sedurre “perfettamente” gli uomini degli ultimi tempi, quando si manifesterà tramite un sistema politico (la Bestia) e con un suo rappresentante – un presidente? – chiamato “falso profeta”: “Nessuno vi inganni in alcun modo! Prima infatti verrà l’apostasia e si rivelerà l’uomo della perdizione, l’avversario, colui che si innalza sopra ogni essere chiamato e adorato come Dio, fino a insediarsi nel tempio di Dio, pretendendo di essere Dio” (2 Tessalonicesi 2.3). Riconoscere in Gesù “Il Santo di Dio”, che costituisce per l’uomo salvezza, qui ha per conseguenza la proibizione di parlare e l’ordine di uscire da quell’uomo.

A questo punto il resoconto di Luca e di Marco sono diversi: Luca scrive “E il demonio lo gettò a terra in mezzo alla gente e uscì da lui, senza fargli alcun male”, mentre Marco “E lo spirito immondo, straziandolo e gridando forte, uscì da lui” (1.26). Mi sono chiesto il perché di questi punti di vista, apparentemente contraddittori perché tra lo straziare fortemente e il non fare alcun male esiste differenza. Luca esamina il fatto dal punto di vista medico e, considerato il fatto che quell’uomo ritornò in sé, pone l’accento sulla sua guarigione: non riportò fratture, sanguinamenti, tornò in sé. Marco, che ebbe Pietro come fonte primaria sicuramente presente nella Sinagoga, mette invece l’accento sulla sofferenza spirituale di quell’uomo. “Straziandolo forte” si riferisce probabilmente alla sofferenza che lo spirito impuro gli provocò, sofferenza psichica e morale: lo gettò a terra e con convulsioni. Un tentativo di rivalsa di fronte all’abbandono che gli era stato ordinato.

Sono senz’altro da citare le parole che un caro fratello scrisse un giorno: “Ecco un’importante verità alla quale tutti i credenti devono prestare la massima attenzione: quando noi consegniamo a Satana parte della nostra mente o del nostro corpo, ricordiamoci che, pur se aiutati, protetti e salvati da Gesù, prima di lasciarci il male cercherà di umiliare la nostra vita senza pietà come fece proprio con l’anonimo posseduto”. “Senza pietà”, sentimento che non appartiene né a Satana, né ai suoi angeli, siano essi spiriti immondi o esseri definiti “umani”.

L’episodio si conclude col timore che si impossessò dei presenti, abituati ad assemblee regolate da un susseguirsi di eventi senza che nulla le turbasse: non poteva essere altrimenti. Tuttavia il fatto generò delle domande importanti perché all’insegnamento con autorità di Gesù era subentrata la dimostrazione del suo dominio sugli spiriti a Lui contrari: “Che parola è mai questa, che comanda con autorità agli spiriti impuri, ed essi se ne vanno?”.

Marco scrive invece “Che è mai questo? Un insegnamento nuovo, dato con autorità – notare il termine “nuovo” –. Comanda persino agli spiriti impuri, ed essi gli obbediscono” (1.27). Con quest’ultima frase, i presenti confessano di non aver mai visto niente di simile, soprattutto gli anziani che probabilmente avevano anche visto spiriti impuri all’opera senza che nessuno avesse potuto far niente per scacciarli e farsi ubbidire da loro. Solo Gesù c’era riuscito, a conferma di essere l’unico liberatore possibile.

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3.01 – UN TEMPO NUOVO (Vari autori)

3.01 – Un tempo nuovo (vari).

 

Con la venuta di Gesù in Galilea ci raccordiamo a Marco 1.14,15 che dice “Ora, dopo che Giovanni fu messo in prigione, Gesù venne in Galilea predicando il Vangelo del Regno di Dio e dicendo «Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino. Ravvedetevi e credete al Vangelo”».

Matteo 4.13,17 scrive “Poi lasciò Nazareth e venne ad abitare a Capernaum, città posta sulla riva del mare, ai confini di Zabulon e Neftali. Affinché si adempisse ciò che fu detto dal profeta Isaia quando scrisse «Il paese di Zabulon, il paese di Neftali, sulla riva del mare, in regione al di là del Giordano, la Galilea dei Gentili, il popolo che giaceva nelle tenebre ha visto una gran luce, e su coloro che giacevano nella regione e nell’ombra della morte si è levata una gran luce». Da quel tempo Gesù cominciò a predicare e a dire: «Ravvedetevi, perché il regno dei cieli è vicino»”.

            Luca conferma l’attività di Gesù scrivendo che “…Gesù, nella potenza dello Spirito, se ne tornò in Galilea e la sua fama si sparse per tutta la regione circostante. Ed Egli insegnava nelle loro sinagoghe, essendo onorato da tutti” (4.14,15).

 

Entriamo in un nuovo periodo dell’attività di Gesù, un tempo nuovo che, almeno secondo la visione che ho avuto del Vangelo, inizia quando Gesù venne ad abitare a Capernaum, città posta sulle rive del lago, o mare di Galilea, detto anche di Tiberiade prendendo il nome dalla città costruita da Erode Antipa in onore di Tiberio Claudio Nerone nell’anno 20 circa. Capernaum era posta sulla riva del lago e da lei passavano le vie principali che dall’Egitto portavano in Siria e da Gerusalemme a Damasco. Gesù poteva così non solo incontrarsi con persone con cui non avrebbe mai potuto avere a che fare restando nella lontana Nazareth, ma da lì potevano essere diffuse nelle regioni circostanti le notizie dei suoi miracoli e i contenuti, seppur a grandi linee, della sua predicazione. Se nessuno poteva fare i segni che faceva se Dio non era con lui, come riconobbe Nicodemo, va da sé che alle notizie dei miracoli non si accompagnassero resoconti più o meno particolareggiati delle sue parole e dei suoi commenti alle Scritture esposti nelle Sinagoghe.

Da Capernaum, inoltre, Gesù poteva visitare più facilmente le città della Galilea senza contare che, usando una barca, poteva avere accesso alle città che si affacciavano sul lago e raggiungere così la Traconitide, la Perea e la Decapoli. Matteo, coprendo uno spazio temporale rilevante, ci dice “La Sua fama si diffuse per tutta la Siria e conducevano a lui tutti i malati tormentati da varie malattie e dolori, indemoniati, epilettici e paralitici, ed Egli li guarì. Grandi folle cominciarono a seguirlo dalla Galilea, dalla Decàpoli, da Gerusalemme, dalla Giudea e da oltre il Giordano” (4.24,25).

Matteo collega l’abitare di Gesù a Capernaum con l’adempimento della profezia di Isaia in 8.23 e 9.1,2 che quanti conoscevano non potevano non collegare al suo seguito, che l’evangelista non riporta: “Perché un bambino ci è nato, un figlio ci è stato dato. Sulle sue spalle è il potere e il suo nome sarà: Consigliere mirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace. Grande è il suo potere e la pace non avrà fine sul trono di Davide e sul suo regno, che egli viene a consolidare e rafforzare con il diritto e la giustizia, ora e per sempre” (Isaia 9.5,6). Notiamo i verbi, “nato” e “dato” che riassumono il periodo della vita di Gesù, “nato”, venuto al mondo come tutti gli altri uomini, e offerto, “dato”, in sacrificio per loro. Ai lettori ebrei che non ignoravano il libro di Isaia, Matteo offre un’altra possibilità di connessione, vale a dire con 11.2-4: “Su di lui si poserà lo Spirito del Signore – in forma di colomba e non solo – Spirito di sapienza e di intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e timore del Signore. Si compiacerà nel timore del Signore. Non giudicherà secondo le apparenze e non prenderà decisioni per sentito dire, ma giudicherà con giustizia i poveri e prenderà decisioni eque per gli oppressi del paese”.

 

Ho intitolato queste riflessioni “Un tempo nuovo”, preferendo “tempo” a “periodo”, parola forse più immediata ma che avrebbe definito in misura minore le implicazioni del prendere residenza in quella città. La profezia di Isaia riportata da Matteo che abbiamo letto è la settima usata in quel Vangelo, a sottolineare la pienezza dell’opera di Dio e a sottindendere che tutto quanto fatto da Gesù prima di allora era stato compiuto in maniera perfetta. Sappiamo che il settimo giorno, di riposo per quell’entità perfetta riassunta nel tetragramma YHWH, avvenne dopo la constatazione che “tutto era molto buono”. “Tempo nuovo” perché da Capernaum inizierà una predicazione pressoché ininterrotta consistente in insegnamenti, dottrina, miracoli e guarigioni.

Ricordiamo le profezie precedenti di Matteo:

 

  1. La nascita da una vergine, fatto tecnicamente impossibile senza l’opera dello Spirito Santo. Gesù non poteva avere un DNA unicamente umano, essere figlio carnale di Maria e Giuseppe, perché altrimenti non avrebbe potuto essere al tempo stesso Figlio dell’uomo e Figlio di Dio, vero Dio e vero uomo. Fu quello, oltre alla vittoria sul peccato, che lo fece risorgere. Il numero uno, come prima profezia, ci parla di un’esistenza autonoma, santa, non competente all’uomo che, piuttosto, trova la sua dimensione nei numeri pari. L’uno è l’esistere pieno, il tutto, l’autosufficienza, in poche parole l’“io sono colui che sono”;
  2. La nascita di Gesù a Betlehem, l’unica che avrebbe potuto dare i natali al “Capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele”. Non a caso abbiamo questo annuncio al secondo posto: è l’uomo Gesù che viene al mondo, perfetto connubio di due nature, umana e divina. Il due è condivisione e soccorso (“se uno cade l’altro lo rialza”), ma anche separazione vista nell’appartenere a Cristo oppure no, di scelta.
  3. Il ritorno in Israele dalla fuga in Egitto perché Erode il Grande voleva ucciderlo, “Dall’Egitto ho chiamato mio Figlio”. Terza profezia, tre come numero proprio di Dio e che ci questo caso ci parla di quanto sia inutile, oltre che controproducente, ostacolare i suoi piani che si realizzano e realizzeranno comunque;
  4. Il grido udito in Rama, la strage degli innocenti in cui Satana, cui Erode il Grande esattamente come col Faraone molti secoli prima aveva dato spazio nella sua persona, commise uno dei tanti suoi crimini. Il quattro è un numero che ha sempre riferimento alla materia e, in questo caso, a quanto avvenuto ad opera dell’avversario e quindi del peccato.
  5. L’abitare per circa 30 anni a Nazareth perché “Sarà chiamato Nazareno” con l’evidente riferimento, più che alla città dalla quale non poteva venire nulla di buono secondo le parole di Natanaele – Bartolomeo, al Germoglio che sarebbe uscito dal tronco di Jesse, padre di Davide da cui Gesù discendeva sia da parte di padre che di madre. Il cinque, numero intermedio, ci parla di uno stato che porta ad una progressione, ad uno sviluppo nelle mani di Dio e alla sua Grazia. Cinque è 4+1, cioè un dono di Dio aggiunto alla realtà dell’uomo.
  6. La persona e l’opera di Giovanni Battista, visto nella “Voce d’uno che grida nel deserto”. Da notare anche qui il numero sei, che sottintende l’uomo nella sua imperfezione e incompletezza se rimane da solo, dell’uomo che ha bisogno dell’”Uno” di Dio per completarsi. Solo se Giovanni avesse annunciato Gesù secondo l’insegnamento ricevuto nel deserto, come fece, avrebbe davvero assolto al compito lui affidatogli. Ricordiamo, a proposito della completezza, quel giovane ricco che voleva seguire Gesù che si sentì dire “Una cosa sola ti manca: va’, vendi ciò che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro nei cieli; poi vieni e seguimi” (Marco 10.21): al suo “6” mancava un “1” per essere perfetto.
  7. Terra di Zabulon e terra di Neftali, il popolo che giaceva nelle tenebre ha visto una gran luce”. Settimo passo citato, punto di arrivo e di partenza verso altre destinazioni spirituali. Arrivando a Capernaum Gesù conclude e inizia un periodo della sua vita, che fin qui ho cercato di sviluppare a grandi linee, per iniziarne uno nuovo e lo farà predicando nelle Sinagoghe e chiamando ufficialmente a sé coloro che diventeranno i suoi primi quattro apostoli (Natanaele in un certo senso era già stato chiamato nel breve dialogo riportato da Giovanni, “Vedrai cose più grandi di queste”).

 

Come tutta la creazione, l’universo, iniziò con la luce, allo stesso modo l’universo spirituale e nuovo iniziava con la “gran luce” vista dal popolo che abitava quelle terre, toccate in sorte alle due tribù di Zabulon e Neftali, rispettivamente la nona e la decima. Parte di questo territorio, quella settentrionale, era chiamato “La Galilea dei gentili” a motivo della sua prossimità con la Siria e la Fenicia e al fatto che pare che la popolazione fosse in parte un misto di ebrei e gentili. Ma in quali tenebre giaceva il popolo, a parte l’ovvio, inevitabile riferimento alla sua lontananza da Dio? Leggiamo due elementi negativi, “tenebre” e, da traduzione più corretta “nella regione e nell’ombra della morte”, riferita non alla Giudea, ma alla Galilea con particolare riguardo alle terre di Zabulon e Neftali. Le tenebre sono nella Scrittura una figura familiare per rappresentare non solo l’ignoranza e l’errore, ma la depravazione e la miseria morale e intellettiva di cui sono il frutto, la conseguenza: non possono esservi le une senza le altre. Ricordiamo le parole dell’apostolo Paolo che, con grande umiltà e verità, descrisse il suo passato: 12Rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me, 13che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento. Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo per ignoranza, lontano dalla fede, 14e così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù”. (1 Timoteo 1.12-14).

La luce si è levata su quel paese che, paradossalmente, avrebbe dovuto avere molte più difficoltà rispetto ai giudei nel riconoscerla, perché era lì che si era sviluppato lo studio della Legge, in Gerusalemme si esercitava il sacerdozio e si offrivano i sacrifici nel Tempio. I galilei erano considerati più corrotti e ignoranti dei giudei. “Una luce si è levata”, quella del Cristo, il solo a potere rivelare l’amore e la volontà del Padre e a compierla.

Proseguendo nella lettura di Matteo, questi riporta il senso della predicazione di Gesù, che sintetizza con parole familiari: “Ravvedetevi, perché il Regno dei cieli è vicino”, le stesse che diceva Giovanni Battista. Marco, invece, scrive “Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino: convertitevi e credete nel Vangelo”, frase che merita un breve approfondimento perché non può esservi conversione senza credere nel Vangelo nel suo senso etimologico di “buona notizia”, la sola di cui l’uomo ha bisogno. E la buona notizia era proprio che finalmente Dio recuperava ciò che altrimenti sarebbe stato perduto, la sua creatura. “Il tempo è compiuto” cioè “Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò suo Figlio, nato di donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli” (Galati 4.4). E “Il Regno di Dio è vicino” significa che sarebbe stato imminente, sarebbe stato prima “dentro di voi” e in futuro si sarebbe caratterizzato con la sconfitta di Satana, gettato nello stagno di fuoco coi suoi angeli, termine che ha riferimento sia con gli esseri spirituali che lo seguirono, ma anche con tutti quegli uomini che gli dettero spazio perché si potesse servire di loro. Ecco perché chi sentiva le parole di Gesù avrebbe dovuto credere nel Vangelo, quindi in Lui. Credere nel Vangelo implica un profondo ravvedimento, il sapere che così come si è, si agisce, si pensa, può condurre solo alla morte. Di qui il collegamento con le tenebre e la scelta di rimanere in loro fatta dalla maggior parte degli uomini: “Ma gli uomini hanno amato le tenebre più della luce”, verso su cui ci siamo già soffermati in breve.

Tornando ai versi che descrivono l’attività di Gesù in Galilea, che Matteo e Marco sintetizzano con l’accennare alla predicazione della necessità del ravvedersi e nel credere al Vangelo, Luca aggiunge un altro particolare: “Insegnava nelle loro sinagoghe, essendo onorato da tutti” (4.15). Perché è un particolare non marginale? Innanzitutto per la Sinagoga, parola che etimologicamente è formata da syn, insieme, e aghèin, condurre, portare. È un termine che quindi allude a un cammino comunitario e il verbo synàgo significa “radunare”. La sinagoga era ed è tuttora un luogo di preghiera e di istruzione religiosa; le sue adunanze si tenevano ogni sabato mattina e pomeriggio, ma anche in altri giorni; era proibito agli ebrei risiedere in luoghi ove la sinagoga non vi fosse e la sua esistenza era condizionata dalla presenza di non meno di dieci persone, al contrario della Chiesa che ne prevede dalle due o tre. Infatti “Dove due o tre sono radunati nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Matteo 18.20). Se la sinagoga era un luogo di preghiera e di lettura, la Chiesa radunata ha la presenza del Signore Gesù: è “in mezzo”, “tra” di loro come un familiare visto nella frase “Ecco, io sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Apocalisse 3.20). Si tratta di una frase particolare, detta all’Angelo della Chiesa di Laodicea sulla quale, se ci soffermassimo, andremmo fuori tema; tuttavia è interessante notare l’atteggiamento così diverso del Dio giudice inflessibile e tremendo dell’Antico Patto e quello aperto alla comprensione e al perdono del Nuovo: si tratta infatti di parole rivolte a quei credenti che hanno bisogno di ravvedersi ancora perché hanno contristato lo Spirito con una condotta non consona alla loro fede e vivono una condizione per cui sono definiti “tiepidi”.

Ma torniamo alla Sinagoga. La dinamica delle riunioni al suo interno era la seguente: prima vi era lo “Shemà”, (“Ascolta”) che si caratterizzava con la lettura di tre passi del Pentateuco, al quale seguivano una serie di diciotto brevi preghiere che esprimevano adorazione, sudditanza e speranza verso il Dio d’Israele, dopo di che si procedeva alla lettura e spiegazione dei testi sacri, vale a dire la Torà (il Pentateuco) suddivisa in 154 sezioni di modo che veniva letta integralmente in tre anni, e poi i Profeti, cioè i libri da Giosuè in poi. Terminata la lettura, in ebraico e nella lingua di allora che era l’aramaico, seguiva un commento istruttivo che poteva essere tenuto da chiunque tra i presenti giudicati più adatti dal responsabile locale.

Nella pratica chi svolgeva tale ufficio, visto che era richiesta una conoscenza dei testi, era uno scriba o un fariseo, ma Luca ci dice che era Nostro Signore a prendere la parola, o chiamato dal responsabile della Sinagoga o di sua iniziativa visto che ciò era consentito. L’adunanza terminava poi con la benedizione sacerdotale, che recitava il testo di Numeri 6.24-26: “Ti benedica il Signore e ti custodisca. Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia. Il Signore rivolga verso di te il suo volto e ti conceda pace”. I presenti rispondevano “Amen”. Proprio nella sinagoga di Capernaum Gesù compirà il suo primo miracolo dei sette in giorno di sabato, oggetto della nostra prossima riflessione.

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01.20 – GESÙ A DODICI ANNI (Luca 2.41.52)

01.20 – Gesù a dodici anni (Luca 2.41-52)

 

41I suoi genitori si recavano ogni anno a Gerusalemme per la festa di Pasqua. 42Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono secondo la consuetudine della festa. 43Ma, trascorsi i giorni, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero. 44Credendo che egli fosse nella comitiva, fecero una giornata di viaggio e poi si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti; 45non avendolo trovato, tornarono in cerca di lui a Gerusalemme. 46Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai maestri, mentre li ascoltava e li interrogava. 47E tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte. 48Al vederlo restarono stupiti, e sua madre gli disse: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo». 49Ed egli rispose loro: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». 50Ma essi non compresero ciò che aveva detto loro. 51Scese dunque con loro e venne a Nàzaret e stava loro sottomesso. Sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore. 52E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini.”.

 

Torniamo da Luca, che omette gli episodi visti in precedenza, riassume il periodo di silenzio dei Vangeli sull’infanzia di Gesù con il verso 40: “Intanto il bambino cresceva e si fortificava nello Spirito, essendo ripieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui”. Il silenzio su ciò che fece Nostro Signore dal ritorno dall’Egitto a quando iniziò il Suo Ministero pubblico è interrotto solo da questo evangelista.

Cerchiamo ora di collocare l’episodio dal punto di vista delle usanze del popolo di Israele: la Pasqua che troviamo citata al verso 41 era la prima delle cosiddette “feste del pellegrinaggio”, cui seguivano quella della Pentecoste e dei Tabernacoli. Erano chiamate “del pellegrinaggio” perché, in occasione di quelle, ogni maschio era obbligato a recarsi al Gerusalemme al Tempio. In occasione della Pasqua l’affluenza era tale che, per evitare un ammasso incontrollato di persone in quel luogo, si stabilivano tre turni a partire dalle ore 14 e, tra l’uno e l’altro, si chiudevano le porte.

Arrivare alla Città Santa per la Pasqua, per chi veniva da lontano come Giuseppe, Maria e Gesù (120 km circa partendo da Nazareth), significava aggregarsi a una carovana che non aveva una disciplina rigida nel senso che poteva benissimo essere composta da numerosi gruppi indipendenti l’uno dall’altro che si ritrovavano poi assieme la sera per il pernottamento. L’età di Gesù è poi importante perché raggiunti i 12 anni era considerato maggiorenne: i bambini maschi iniziavano ad essere istruiti nella Legge dall’età di cinque, a 10 studiavano la Mishnà (ripetizione, insegnamento), la Torah orale e, una volta raggiunti i 12, si raggiungeva l’età in base alla quale dopo un altro anno il ragazzo veniva dichiarato “Bar Atorah”, cioè “Figlio della Legge”, o “Bar Mitzwah”, “Figlio del comandamento”. Si trattava di una cerimonia in cui il padre del giovane dichiarava pubblicamente che suo figlio aveva piena conoscenza della Legge e quindi, da quel momento, sarebbe divenuto responsabile dei suoi peccati. Da quel momento, inoltre, il giovane avrebbe iniziato ad apprendere un mestiere, solitamente quello del padre. I dodici anni, allora, sono da intendersi come il compimento, la presenza di basi solide su cui costruire la persona dell’israelita che avrebbe conosciuto al compimento del tredicesimo anno la sua piena personalità di essere responsabile davanti a Dio e agli uomini.

Gesù quindi, tornando a quanto scritto sulla carovana, al pari di un adulto poteva aggregarsi all’uno o all’altro gruppo senza problemi. Ecco perché i suoi genitori non si preoccuparono subito del fatto che non fosse con loro.

Era anche consuetudine che ragazzi della sua età fossero guardati con attenzione dai dottori della Legge, dai rabbini e in qualche caso dai sommi sacerdoti che conversavano con loro per valutarli; dove esistevano le scuole, erano proprio i Maestri a scegliere i bambini che avrebbero studiato con loro dall’età di sei anni. La scuola antica, così diversa dalle nostre, prevedeva discussioni e insegnamenti col metodo maieutico oltre che approfondimenti sui testi delle Scritture (la Legge e i Profeti). Gesù stava là, in mezzo a loro, e siccome la dinamica della scuola si manifestava non attraverso banali interrogazioni, ma piuttosto sull’esposizione di pensieri e domande che maestri e discepoli si ponevano vicendevolmente, ecco emergere la conoscenza di Nostro Signore che parlava, discuteva in modo tale da meravigliare coloro che lo ascoltavano: quelli che Gesù stupiva “per la sua intelligenza e le sue risposte” non erano persone ordinarie, ma dottori della Legge che sedevano su sgabelli mentre i discepoli sedevano a terra (ecco perché l’espressione “seduto ai piedi di” per indicare l’appartenenza a una determinata scuola).

I verbi usati dalla traduzione italiana del verso 46, “ascoltare” e “interrogare”, sottintendono un chiedere rispettosamente e seriamente spiegazioni, cosa che esclude la docenza: in pratica Gesù, per il quale non era ancora giunto il momento in cui avrebbe dovuto manifestarsi al mondo, si distingueva dagli altri ragazzi della sua età confermando le parole che già abbiamo letto nel Vangelo di Luca quando descrive i Suoi anni giovanili: “si fortificava in Spirito, essendo ripieno di sapienza, e la grazia di Dio era sopra di lui”. Sicuramente questa era la Sua priorità espressa con la replica al rimprovero di sua madre: “Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?”.

Ecco, Luca ci riporta questa frase che, stante il suo metodo di ricerca, fu Maria stessa a riferirgli, che sottintende il verso di Davide in Salmo 40.8,9 “Dio mio, io prendo piacere nel fare la tua volontà, e la tua legge è dentro il mio cuore – quindi non una formalità da adempiere per essere in pace con la propria coscienza –. Ho proclamato la tua giustizia nella grande assemblea: ecco, io non tengo chiuse le mie labbra. O Eterno, tu lo sai”.

Gesù dodicenne disse “devo occuparmi delle cose del Padre mio”, parole che tradotte letteralmente suonano “essere nelle cose di mio Padre”, quindi uniscono in una cosa sola la Sua vita terrena e tutto il Suo esistere, la Sua missione. Mentre Giovanni Battista cresceva e si fortificava, preparandosi ad affrontare il deserto per poter ascoltare un’unica voce, Gesù cresceva in mezzo agli uomini rimanendo nelle cose di Suo Padre, cioè senza distaccarsene mai. Un esempio per noi, per i cristiani tenuti non tanto ad “occuparsi” del Vangelo, ma di “essere”, di “vivere” in Lui.

Al verso 49 troviamo due domande: la prima (“Perché mi cercate?”) esprime solo apparentemente stupore. In realtà Gesù vuol far riflettere sua madre sul fatto che, se avesse davvero assimilato le parole dell’Angelo sulla Sua missione, non avrebbe dovuto preoccuparsi di lui trattandolo come un figlio qualunque. Come scrive Robert Stewart, “Se si fosse rammentata delle parole di Gabriele, di Simeone e di Anna, Maria avrebbe subito capito che il Tempio era il luogo che maggiormente si addiceva a lui”. Al rimprovero “Tuo padre ed io ti cercavamo”, Gesù fa notare alla madre che il Suo vero Padre era un altro e che il fatto che vivesse ancora con loro non poteva intralciare l’opera che avrebbe dovuto compiere un giorno e che lì si poteva intravedere per la prima volta, per lo meno per quanto Luca ci racconta.

Le Sue sono parole importanti, dividono il ragionare umano da quello spirituale e vengono pronunciate in un momento rappresentativo della Sua vita: se possiamo ragionevolmente supporre che Gesù per la Pasqua fosse andato al Tempio anche l’anno prima e il successivo, quei suoi dodici anni erano importanti quale spartiacque tra l’età dell’innocenza e quella responsabile senza contare che solo a Gerusalemme il dodicenne ebreo si sarebbe potuto confrontare coi dottori della Legge, le maggiori autorità religiose del tempo. Lì c’era il centro della scienza religiosa, le scuole migliori, i Rabbi più conosciuti.

Il rimanere là nel Tempio ad ascoltare e porre domande non fu quindi una “disubbidienza” di Gesù ai suoi genitori e il fatto che troviamo scritto che tornato a Nazareth, “stava loro sottomesso” non va inteso come una sorta di pentimento di fronte ad uno sbaglio e di un modo per farsi perdonare, ma ha attinenza con lo scopo della sua venuta in quanto fu con noi non per abolire, ma per adempiere. Gesù si identificò sempre con l’uomo, mai con il peccato. La Sua doveva essere una vita che trascorresse in perfetta santità e l’unico modo che aveva per essere veramente “l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo”, come lo presentò Giovanni Battista, era venire sacrificato innocente al momento stabilito. Un’innocenza che non ebbe mai bisogno di rinnovarsi con pentimentoe/o la confessione perché altrimenti non avrebbe potuto essere quel “Cristo nostra Pasqua che è stato immolato” (1 Corinti 5.7).

Il comportamento di Gesù che “stava loro sottomesso” è poi l’antitesi di Deuteronomio 21.18-21: “Se uno avrà un figlio testardo e ribelle che non obbedisce alla voce né di suo padre, né di sua madre, e benché l’abbiano castigato non darà loro retta, suo padre e sua madre lo prenderanno e lo condurranno dagli anziani della città, alla porta del luogo dove abita e diranno agli anziani della città «Questo nostro figlio è testardo e ribelle, non vuole ubbidire alla nostra voce, è uno sfrenato e un bevitore». Allora tutti gli uomini della sua città lo lapideranno ed egli morirà, così estirperai da te il male e tutto Israele lo saprà e avrà timore”.

La Pasqua in Gerusalemme, tornando all’episodio, era terminata da pochissimo. Penso alla quantità enorme di agnelli offerti in occasione di quella festa il cui numero, nell’anno 65 stando a un calcolo fatto per Nerone, furono 255.600, come scrive Giuseppe Flavio. La vita di Gesù, che come sappiamo ebbe una durata di circa 33 anni, fu una testimonianza continua fatta di scelte sempre e solo indirizzate al compiacere il Padre, cosa che nessun uomo era mai riuscito a fare: “Non sapete voi che devo essere nelle cose del Padre mio?”.

Essere, risiedere, crescere nella grazia, conoscenza e autorità: se non fosse stato perché occorreva salvare l’uomo, certo non ne aveva alcun bisogno, Lui presente alla creazione, Lui che era là, che come “Parola” diede il primo ordine, “Sia la luce”, perché la creazione avesse inizio: “Prima che Abramo fosse, io sono” (Giovanni 8.58).

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01.15 – ANNA (Luca 2.36-38)

01.15 – Anna (Luca 2.36-38)

 

36C’era anche una profetessa, Anna, figliola di Fanuele, della tribù di Aser. Era molto avanzata in età, aveva vissuto col marito sette anni dal tempo in cui era ragazza, 37era poi rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal Tempio, servendo dio notte e giorno con digiuni e preghiere. 38Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme”.

 

Se Simeone si distaccava profondamente dagli altri uomini suoi contemporanei, Anna è il suo corrispettivo femminile, è fondamentalmente una persona che ha fatto una scelta, un personaggio i cui dati biografici sono più dettagliati dei suoi discorsi perché è importante accreditarla di fronte ai lettori del Vangelo e al tempo stessa dare un peso rilevante al significato delle sue parole ai suoi contemporanei. Cosa disse Simeone? Benedì Maria e Giuseppe, fece una profezia su cosa avrebbe rappresentato il loro figlio, ma fu comunque un avvenimento privato, mentre questa profetessa, conosciuta a Gerusalemme, che stava stabilmente nel tempio negli spazi che poteva occupare come donna, il cortile dei gentili e quello riservato alle donne, parlò di Gesù pubblicamente “a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme”.

L’importanza di Anna, il cui nome significa “colei che beneficia della grazia di Dio”, è data anche dal fatto che è si colloca all’ottavo posto con nome proprio dopo le sette che contano i rabbini nell’Antico Patto. Di lei conosciamo il nome di suo padre, Fanuele (“volto di Dio”) e che apparteneva alla tribù di Aser, figlio di Giacobbe avuto da Zilpa schiava di Lea, che prima aveva partorito Gad. Ottavo figlio di Giacobbe, ricevette da lui una benedizione particolare: “Da Aser verrà il pane saporito, egli fornirà delizie da re” (Genesi 49.20). Entrato in Egitto assieme ai suoi fratelli grazie a Giuseppe, fu il capostipite della tribù omonima e Mosè lo benedisse con queste parole “Benedetto tra i figli è Aser, sia favorito tra i suoi fratelli e intinga il suo piede nell’olio. Di ferro e di rame siano i tuoi catenacci e quanto i tuoi giorni duri il tuo vigore” (Deuteronomio 33.24,25).

La tribù di Aser occupò una regione molto fertile dal Mediterraneo alle falde del Libano e si stabilì in mezzo ai cananei senza combatterli come avevano fatto altre tribù, quindi non respinse le tradizioni e i costumi delle popolazioni pagane, né partecipò a guerre anche se rispose all’appello di Gedeone contro i madianiti che avevano corrotto i costumi del popolo di Israele. Quando però si trattò di andare a Gerusalemme per celebrare la Pasqua secondo l’editto di Ezechia è detto che “Solo alcuni di Aser, Manasse e Zabulon si umiliarono e vennero in Gerusalemme” (v. 11).

Aser quindi sta a indicare un comportamento privo di una linea particolarmente coerente, che a volte fa compromessi con un mondo estraneo ai princìpi di Dio indebolendosi, che a volte ritorna per poi ancora spegnersi. Però, come sappiamo, gli “alcuni”, i “superstiti”, i pochi “giusti”, ci sono sempre e sono di benedizione per gli altri. Probabilmente è proprio per questo che Luca specifica a quale tribù appartenesse Anna, a ricordare che Dio aveva stabilito un patto anche con Aser e i suoi discendenti e che avrebbe conservato un rimanente fedele, come ha fatto a partire da Enos di cui in Genesi 4.26 è detto “E a Set – figlio di Adamo in sostituzione di Abele – ancora nacque un figlio ed egli gli pose il nome di Enos. Allora si cominciò a nominare una parte degli uomini nel Nome del Signore”. Da allora in poi il “rimanente fedele” non è mai venuto meno e così sarà fino ai tempi futuri descritti in Apocalisse 12.17 in cui si parla del drago, Satana, che se ne va a “far guerra contro il resto della sua discendenza – della donna –, contro quelli che custodiscono i comandamenti di Dio e sono in possesso della testimonianza di Gesù”.

Anna ha una storia tutta particolare: si era sposata, come tutte le donne di allora ad un’età che poteva essere compresa tra i 13 e i 15 anni, ma era rimasta vedova dopo sette, quindi si era trovata sola tra i 20 e i 22, in giovane età, in una condizione che potremmo definire umanamente molto triste perché si era trovata priva del sostegno necessario proveniente dal marito. E qui abbiamo la prima scelta di questa donna: avrebbe potuto sposarsi nuovamente, liberandosi per lo meno dalle preoccupazioni economiche, ma non lo fece, preferendo fondare la sua esistenza sulle promesse che Dio aveva riservato alle donne nelle sue condizioni. Umanamente, razionalmente parlando, si trattava di lasciare una prospettiva di sicurezza che un secondo matrimonio poteva dare, per l’incerto. “Circoncidete dunque il vostro cuore ostinato – cosa ben più difficile della circoncisione ordinaria – e non indurite più la vostra cervice; perché il signore, vostro Dio, è il Dio degli dèi, il Signore dei signori, il Dio grande, forte e terribile, che non usa parzialità e non accetta i regali, rende giustizia all’orfano e alla vedova, ama il forestiero e gli dà pane e vestito” (Deuteronomio 10.16-18). Salmo 146.9,10 recita “il Signore ridona la vista ai ciechi, il Signore rialza chi è caduto, il Signore ama i giusti, il Signore protegge i forestieri, egli sostiene l’orfano e la vedova, ma sconvolge le vie dei malvagi”, senza contare la condanna per coloro che opprimevano questa categoria di persone.

Anna fece di più che affidarsi a una promessa di Dio, ma pose in atto, con fede inconcepibile per la mentalità per lo meno del mondo in cui viviamo oggi, un metodo di vita in cui perseverava da 84 anni, quindi ne aveva più di cento: stava là, nel tempio, senza lasciarlo mai, profondamente conscia del fatto che era lì, o meglio nel luogo santissimo, che Dio aveva la sua dimora per gli uomini. E lei era un essere umano. Dio abitava lì, era lì per lei.

Il Tempio aveva un spazio per i gentili, cioè i pagani, figura della loro futura ammissione al popolo di Dio, poi uno spazio per le donne, quindi per gli uomini, poi per i Sacerdoti, e infine per Lui stesso, in un perimetro in cui nessuno poteva entrare salvo il Sommo Sacerdote una volta all’anno.

Lei, definita “molto attempata” perché aveva superato i 100 anni, era praticamente risiedente

nello spazio dedicato alle donne e sicuramente col tempo si era guadagnata la stima e l’ammirazione di quanti lo frequentavano: da lì abbiamo letto che non si allontanava mai, avverbio che ci parla di una continuità assoluta, di pensieri ininterrotti e a lei, e a quelle come lei, pensava l’apostolo Paolo che, rivolto al suo discepolo Timoteo nella sua prima lettera, gli scrive “Colei che è veramente vedova ed è rimasta sola, ha messo la speranza in Dio e si consacra all’orazione e alla preghiera giorno e notte; al contrario, quella che si abbandona ai piaceri, anche se vive, è già morta. Raccomanda queste cose, perché siano irreprensibili. Se poi qualcuno non si prende cura dei suoi cari, soprattutto di quelli della sua famiglia, costui ha rinnegato la fede ed è peggiore di un infedele. Una vedova sia iscritta nel catalogo delle vedove quando abbia non meno di sessant’anni, sia moglie di un solo uomo, 1sia conosciuta per le sue opere buone: abbia cioè allevato figli, praticato l’ospitalità, lavato i piedi ai santi, sia venuta in soccorso agli afflitti, abbia esercitato ogni opera di bene. Le vedove più giovani non accettarle, perché, quando vogliono sposarsi di nuovo, abbandonano Cristo e si attirano così un giudizio di condanna, perché infedeli al loro primo impegno. Inoltre, non avendo nulla da fare, si abituano a girare qua e là per le case e sono non soltanto oziose, ma pettegole e curiose, parlando di ciò che non conviene. Desidero quindi che le più giovani si risposino, abbiano figli, governino la loro casa, per non dare ai vostri avversari alcun motivo di biasimo. Alcune infatti si sono già perse dietro a Satana. Se qualche donna credente ha con sé delle vedove, provveda lei a loro, e il peso non ricada sulla Chiesa, perché questa possa venire incontro a quelle che sono veramente vedove” (5.5-16).

Anna aveva scelto un compito difficile: “servire Dio notte e giorno in digiuno e preghiere”, identificandosi in quelli che stavano “nella casa del Signore durante la notte” (Salmo 134.1) pregando e digiunando, termine che indica una profonda rinuncia poiché è esteso non solo al cibo, ma da quanto può distrarre l’essere umano dal suo rapporto con Dio. Si può praticare il digiuno in senso stretto rinunciando all’alimentazione, ma a nulla serve se non è preceduto dalla rinuncia, dall’astensione progressiva di quanto impedisce una comunione con Dio. Si può dire che ogni volta che scegliamo di dedicare del tempo a Dio per la nostra crescita spirituale, digiuniamo. Infatti c’è una via dei giusti e una via dei peccatori, una via di Dio perfetta che Davide chiedeva di conoscere (“Mostrami Signore la tua via, guidami sul retto cammino”, Salmo 27.11) e che Gesù esortò a percorrere quanti lo ascoltavano con un invito preciso: “Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa è la via che conduce alla perdizione, e molti sono coloro che vi entrano” (Matteo 7.11).

Tornando al testo, Anna arrivò probabilmente mentre Simeone parlava a Maria e Giuseppe: il verbo usato, epistràsa cioè “stando vicina”, “avvicinandosi” è indice quasi di contemporaneità, iniziò a lodare Dio parlando di quel bambino non a chiunque, ma a quel rimanente di Gerusalemme

che, animati dagli stessi intenti suoi e di Simeone, aspettavano la redenzione. Questi due personaggi non erano quindi soli, ma piuttosto erano i rappresentanti, coloro che meglio di altri attendevano e si dedicavano alla preghiera e alla pratica di vita scritturale. L’importanza di questo principio risiede qui: Dio tramite Anna non rivolse il Suo annuncio a delle persone – se può passare il termine – “perfette” come lei o Simeone, ma a uomini e donne di fede, che avevano fatto proprie le profezie dell’Antico Testamento, che sapevano e aspettavano. Uomini e donne che sapevano, non speravano soltanto. E alcuni hanno interpretato il verso conclusivo, “parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di – o più propriamente “in” – Gerusalemme” come un andarli a cercare nelle loro case. Di certo Anna era in relazione con loro, così come ancora oggi capita che i credenti si riconoscano l’un l’altro senza essersi mai visti. Possiamo ricordare le parole di Malachia 3.16-18: “Allora parlarono tra loro i timorati di Dio. Il Signore porse l’orecchio e li ascoltò: un libro di memorie fu scritto davanti a lui per coloro che lo temono e che onorano il suo nome. Essi diverranno – dice il Signore degli eserciti –un tesoro riposto nel giorno che io preparo. Avrò cura di loro come il padre ha cura del figlio che lo serve. Voi allora di nuovo vedrete la differenza fra il giusto e il malvagio, fra chi serve Dio e chi non lo serve”.

            Dopo questo suo parlare, Anna non è più nominata, come Simeone. Entrambi, come altri personaggi, sono un ponte tra l’Antico che stava per concludersi e il Nuovo che stava per arrivare. E resto sempre affascinato quando l’orologio di Dio, così incommensurabilmente distante, si china per scandire all’unisono con quello degli uomini, sue creature che ha voluto salvare, risparmiare dal loro altrimenti inevitabile destino di morte.

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01.14 – SIMEONE (Luca 2.25-35)

01.14 – Simeone (Luca 2.25-35)

 

25Ora a Gerusalemme c’era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d’Israele, e lo Spirito Santo era su di lui. 26Lo Spirito Santo gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore. 27Mosso dallo Spirito, si recò al tempio e, mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per fare ciò che la Legge prescriveva a suo riguardo, 28anch’egli lo accolse tra le braccia e benedisse Dio, dicendo:29«Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, 30perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, 31preparata da te davanti a tutti i popoli: 32luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele». 33Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. 34Simeone li benedisse e a Maria, sua madre, disse: «Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione 35– e anche a te una spada trafiggerà l’anima -, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori»”.

 

Luca ci presenta qui un personaggio singolare nel vero senso del termine: a Gerusalemme, città che all’epoca si calcola avesse circa 100mila abitanti, viveva “un uomo” la cui posizione ha suscitato in me diversi interrogativi, primo dei quali se Luca, scrivendo appunto “un uomo” intendesse dare un riferimento numerico nel senso che il rapporto uomo giusto – abitanti di Gerusalemme fosse di 1:100.000 oppure no. Per rispondere occorre tener presente diversi aspetti che caratterizzano il personaggio. L’unicità di Simeone, il cui nome significa “Dio ha ascoltato”, è data da tre caratteristiche, tutte in stretta relazione tra loro: era “giusto”, aggettivo già utilizzato finora da Luca per indicare Zaccaria, Elisabetta e Giuseppe. La loro “giustizia” è da intendersi come caratteristica interiore, quella che viene dalla fede che governa tutto l’agire dell’essere umano che, nel loro caso visto il tempo in cui vivevano, si manifestava attraverso l’attenzione alla legge morale originata dal timor di Dio. Sbaglieremmo se volessimo vedere in questi personaggi delle “brave persone” che credevano nelle promesse ricevute tramite la Legge e i Profeti e cercavano di osservare i comandamenti: la loro era una disposizione di cuore, un attaccamento, l’aver realizzato che in nessun altro potevano trovare la loro consolazione spirituale, la loro dignità di esseri umani. Questo atteggiamento era il risultato di una lunga assimilazione, di una pratica che aveva finito per permeare tutta la loto vita, quella che fa dire al salmista “Cerca la gioia nel Signore – l’unico che può dare quella stabile –: esaudirà i desideri del tuo cuore. Affida al Signore la tua via, confida in lui ed Egli agirà: farà brillare come luce la tua giustizia, il tuo diritto come il mezzogiorno. Sta’ in silenzio davanti al Signore – perché è lui e non tu che deve parlare – e spera in lui; non irritarti per l’uomo che ha successo, per l’uomo che trama insidie. Desisti dall’ira e deponi lo sdegno, non irritarti, non ne verrebbe che male. Perché i malvagi saranno eliminati, ma chi spera nel Signore avrà in eredità la terra”.

La giustizia di Simeone, pari a quella di Abramo perché poggiata sulla fede, si basava sulla certezza dell’ereditare la terra, quella nuova che sarà creata in sostituzione dell’attuale corrotta, che sarà popolata dai giusti, cioè da coloro che Lo cercarono, trovandolo. Simeone era un uomo paziente e soprattutto attento ai segni del suo tempo a tal punto che lo Spirito Santo gli aveva rivelato che non sarebbe morto senza aver visto il Cristo. Fu un premio analogo a quello che fu concesso ad Abrahamo, citato da Gesù con queste parole: “Abrahamo, vostro Padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e fu pieno di gioia” (Giovanni 8.56).

La seconda caratteristica di Simeone è “timorato di Dio”, termine che non ha a che fare con la paura, ma piuttosto con il rispetto e il sapere che ogni azione contraria alle Sue aspettative produce una conseguenza. L’assenza del timore di Dio rende l’uomo presuntuosamente autonomo e tutto ciò porta con sé, come sappiamo dalla disubbidienza di Adamo e sua moglie, conseguenze terribili viste nella morte con tutte le sue applicazioni. Al contrario l’esperienza degli uomini “giusti” che ci hanno preceduto li ha spinti a lasciare parole importanti per il nostro orientamento: “Principio della sapienza è il timore del Signore e conoscere il Santo è intelligenza. Per mezzo mio – è la sapienza che parla – si moltiplicheranno i tuoi giorni, ti saranno aumentati gli anni di vita. Se sei sapiente, lo sei a tuo vantaggio; se sei spavaldo, tu solo ne porterai la pena” (Proverbi 9.10-12). Ancora: “Nel timore del Signore sta la fiducia del forte; anche per i suoi figli egli sarà un rifugio. Il timore del Signore è fonte di vita per sfuggire ai lacci della morte” (Ibid. 14.26-27).

Questi versi, appartenenti all’Antico Patto ma validi ancora oggi fatte le dovute estensioni dateci dalla Grazia, credo che illustrino molto bene l’atteggiamento e la ricerca di Simeone: la sua condotta si basava su una profonda acquisizione del suo essere in rapporto con quel Dio che aveva promesso “la consolazione di Israele”, uno degli attributi coi quali veniva indicato il Messia e che i rabbini sostengono sia stato l’argomento di cui parlarono Elia ed Eliseo poco prima che il profeta venisse rapito: in 2 Re 2.11 leggiamo “Mentre continuavano a camminare conversando, ecco un carro di fuoco e cavalli di fuoco si interposero fra loro due. Elia salì nel turbine verso il cielo”.

La “consolazione di Israele” la possiamo vedere in diversi passi della Scrittura, ad esempio Isaia: “Giubilate, o cieli, rallegrati, o terra, gridate di gioia, o monti, perché il Signore consola il suo popolo e ha misericordia dei suoi poveri. Sion ha detto «Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato»: si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere?” (Isaia 49.13-15). Ancora, “Come una madre consola il figlio, così io vi consolerò. A Gerusalemme sarete consolati” (66.13).

Simeone, a differenza di molti, non aspettava un liberatore terreno e temporale dal dominio di Roma pagana, ma “la consolazione di Israele”, temine unico, preciso, riferito non a un uomo buono e compassionevole, ma a quell’unica persona deputata da Dio ad essere l’Emanuele, il liberatore dal peccato. Al Re potente e glorioso che il popolo attendeva, Simeone preferiva quello di un consolatore individuale e collettivo al tempo stesso.

Leggiamo una quarta caratteristica di quest’uomo, conseguente alle altre: “Lo Spirito Santo era sopra di lui”. Non era cosa da poco, considerati i tempi di allora in cui regnava una notevole confusione religiosa, con l’esercizio dell’apparenza a scapito di quello della pietà, come troviamo riferito nella cosiddetta parabola del buon samaritano (Luca 10.25-37) e in quella del Fariseo e del pubblicano (Luca 18.9-14). Conseguenza dell’allontanamento del popolo dalla giustizia e dal timor di Dio era la presenza, oltre che dei romani dominatori, di molte malattie e indemoniati che verranno guariti da Nostro Signore.

Ebbene quello Spirito di Dio aveva rivelato a Simeone – non è detto in che modo – che non sarebbe morto senza aver visto il Cristo, l’Unto del Signore: si trattò di un premio di fronte alla sua costanza fatta di riflessioni, preghiere ed opere. E probabilmente quest’uomo era un Rabbi. Uno su centomila aspettava in modo corretto, non religioso, ma vivo, spontaneo. A uno su centomila fu rivelato qualcosa di assolutamente particolare, come se fosse un profeta muto perché gli eventi avrebbero parlato per lui. Simeone faceva parte di quei superstiti di cui parla Isaia nel suo capitolo primo descrivendo (anche) la posizione spirituale dell’Israele del tempo: “«Ho allevato e fatto crescere figli, ma essi si sono ribellati contro di me. Il bue conosce il suo proprietario e l’asino la greppia del suo padrone, ma Israele non conosce, il mio popolo non comprende». Guai, gente peccatrice, popolo carico d’iniquità! Razza di scellerati – vedi Giovanni battista, che disse “razza di vipere” –, figli corrotti! Hanno abbandonato il Signore, hanno disprezzato il Santo d’Israele, si sono voltati indietro. Perché volete ancora essere colpiti, accumulando ribellioni? Tutta la testa è malata, tutto il cuore langue. Dalla pianta dei piedi alla testa non c’è nulla di sano, ma ferite e lividure e piaghe aperte, che non sono state ripulite né fasciate né curate con olio. La vostra terra è un deserto, le vostre città arse dal fuoco. La vostra campagna, sotto i vostri occhi, la divorano gli stranieri; è un deserto come la devastazione di Sòdoma. È rimasta sola la figlia di Sion, come una capanna in una vigna, come una tenda in un campo di cetrioli, come una città assediata. Se il Signore degli eserciti non ci avesse lasciato qualche superstite, già saremmo come Sòdoma, assomiglieremmo a Gomorra”.(Isaia 1. 3-9)

Il “superstite”, oltre alla citazione di Sodoma, ci ricorda Abramo quando, parlando con Dio, fece intercessione per i giusti che eventualmente la abitavano, perché non perissero nella sua distruzione (Genesi 18) e che si riassume con la frase “Davvero tu sterminerai il giusto con l’empio?”. A Sodoma come sappiamo abitava Lot che, come scrive Pietro nella sua prima lettera, era “angustiato dal comportamento immorale di quegli scellerati. Quel giusto infatti, per quello che vedeva e udiva mentre abitava in mezzo a loro, si tormentava ogni giorno nella sua anima giusta per tali ignominie”

(1 Pietro 2.8,9).

Ci sono però altre considerazioni. Quando un essere umano si annulla e si fa docile, pronto a ricevere continuamente l’amore di Dio che ricambia, gli consente di agire e diventa un tutt’uno con lui, fatti salvi i confini penalizzanti del corpo e le sue limitazioni: mosso dallo Spirito, Simeone va al Tempio proprio quando Maria e Giuseppe stavano portandovi il bambino. Simeone non va là per fare un giro o senza sapere perché, ma “mosso dallo Spirito” proprio quando Maria e Giuseppe portavano il loro primogenito al Tempio per la sua consacrazione. Si adempì così la profezia di Malachia 3.1 “L’angelo del patto, che voi desiderate, verrà nel suo tempio”. A uno su centomila fu rivelato questo.

Simeone riconobbe il bambino, non sappiamo fra quanti, leggiamo che lo accolse tra le braccia – i rabbini prendevano in braccio i bambini per benedirli – e fece una solenne dichiarazione perché si trovò di fronte il compimento della rivelazione fattagli dallo Spirito Santo: quell’ “ora lascia che il tuo servo vada in pace” non lascia alcun dubbio sul fatto che non desiderasse altro dalla vita terrena che riteneva conclusa nel modo migliore.

È importante il termine greco usato per indicare “Signore”, piuttosto raro nel Nuovo Testamento, che allude a un padrone assoluto, proprietario delle persone o delle cose; lo troviamo in

Atti 4.24 (“Signore, tu che hai creato il cielo, la terra, il mare e tutto ciò che è in essi”) e in 2 Timoteo 2.21

(“Chi si manterrà puro astenendosi da tali cose, sarà un vaso nobile, santificato, utile al padrone, pronto per ogni opera buona”). Simeone allora qui si fa esempio. Per lui il “Signore” non è un essere superiore da chiamare con un titolo onorifico, ma Colui che con la sua autorità e santità dispone di tutto ed è il padrone di ogni cosa, quindi anche della vita dell’uomo. Oggi come ieri sono purtroppo in tanti a qualificare Dio come “Signore”, ma poi dimostrano coi loro atti che in realtà Lui è qualcosa di estraneo per loro, buono tutt’al più per preghiere che non portano a nessun esaudimento.

C’è poi un particolare, una precisazione molto interessante nelle parole di quest’uomo, cioè che la salvezza non sarebbe stata monopolio di un solo popolo, ma sarebbe diventata patrimonio di tutti, anche dei pagani, degli stranieri che avrebbero creduto in Lui. Se quindi Zaccaria aveva pronunciato il suo cantico da sacerdote che pensava alla promessa specifica del Messia e sapeva il ruolo che avrebbe avuto il figlio Giovanni, Simeone va oltre, allarga la prospettiva riferendosi, con il termine “Luce per illuminare le genti” a Isaia 42.6,7: “«Io, il Signore, ti ho chiamato per la giustizia e ti ho preso per mano; ti ho formato e ti ho stabilito come alleanza del popolo e luce delle nazioni, perché tu apra gli occhi ai ciechi e faccia uscire dal carcere i prigionieri, dalla reclusione coloro che abitano nelle tenebre. Io sono il Signore: questo è il mio nome; non cederò la mia gloria ad altri, né il mio onore agli idoli. I primi fatti, ecco, sono avvenuti e i nuovi io preannuncio; prima che spuntino, ve li faccio sentire»”.

Guardando agli avvenimenti passati e futuri in relazione alle parole di Simeone e ad Isaia 60.3 che scrive “Cammineranno le genti alla tua luce”, sono certamente da leggere le parole dell’apostolo Paolo nella Sinagoga di Antiochia: “«Era necessario che fosse proclamata prima di tutto a voi la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco: noi ci rivolgiamo ai pagani. 47Così infatti ci ha ordinato il Signore: Io ti ho posto per essere luce delle genti, perché tu porti la salvezza sino all’estremità della terra». 48Nell’udire ciò, i pagani si rallegravano e glorificavano la parola del Signore, e tutti quelli che erano destinati alla vita eterna credettero. 49La parola del Signore si diffondeva per tutta la regione”. (Atti 13.46,49).

Leggiamo poi che Giuseppe e Maria si meravigliarono di quelle parole: non era un sentimento di scetticismo o di incomprensione, ma piuttosto di meraviglia raccordando tutti gli avvenimenti di cui erano stati testimoni. Maria aveva avuto l’annuncio dell’angelo, Giuseppe aveva ricevuto l’invito a non abbandonarla in sogno, poi avevano avuto la visita dei pastori: raccordando tutte queste cose, lo stupore di fronte alla perfetta coincidenza tra l’esperienza spirituale avuta e ciò che sperimentavano “toccando con mano”, è pienamente comprensibile. Ma Simeone ebbe anche delle parole per loro: “li benedisse e parlò a Maria, sua madre: «Egli è qui per la rovina e il sollevamento di molti in Israele, segno di contraddizione, perché siano svelati i pensieri di molti cuori. E anche a te una spada trafiggerà l’anima”.

Rovina” e “sollevamento di molti”: due destini contrari. Qui c’è una conferma personale e diretta di Isaia 8.14,15: “Egli sarà insidia e pietra di ostacolo e scoglio d’inciampo per le due case di Israele – tutti gli ebrei –, laccio e trabocchetto per gli abitanti di Gerusalemme. Tra di loro molti inciamperanno, cadranno e si sfracelleranno, saranno presi e catturati”.

“Rovina” e “sollevamento” intesa in senso spirituale che sarà la divisione tra quanti crederanno in Lui oppure Lo rifiuteranno. Infatti Gesù disse: “Se non fossi venuto e non avessi parlato loro, non avrebbero alcun peccato, ma ora non hanno scusa per il loro peccato. Chi odia me, odia il Padre mio. Se non avessi fatto in mezzo a loro opere che nessuno ha mai fatto, non avrebbero alcun peccato; ora invece hanno visto e hanno odiato me e il Padre mio, questo perché si adempisse la parola scritta nella loro legge «Mi hanno odiato senza ragione»” (Giovanni 15.22-25). Il “sollevamento”, poi, è usato da Luca in altri passi per indicare la resurrezione.

Gesù sarà un segno di contraddizione sotto questo aspetto, perché siano svelati i pensieri di molti cuori: la lettura dei Vangeli dimostra questa profezia con le reazioni di tutti coloro che ebbero a che fare con lui in giudizio – e penso all’entusiasmo del giovane ricco, convinto di essere un buon osservante, ma che si allontanò contristato quando gli fu chiesto di abbandonare tutto e di unirsi ai discepoli – o in salvezza. È la reazione all’annuncio o alla proposta della Parola che rivela i pensieri dei cuori, cioè ciò che abita realmente la persona. Qui si aprirebbe un capitolo sterminato.

L’ultima frase, è per Maria. La presenza della spada qui denota dolore e angoscia, l’anima come riferimento a tutto l’essere della persona e credo abbia connessione col dolore che proverà questa donna da lì a 33 anni ai piedi della croce quale punto culminante dopo tutte le sofferenze che infliggeranno i romani, dietro istigazione degli abitanti di Gerusalemme, al figlio. La strada della salvezza è lastricata di dolore, speranza, resistenza, certezza, dell’essere e farsi strumento nelle mani di Dio. Amen.

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01.13 – CIRCONCISIONE E PRESENTAZIONE (Luca 2.21-24)

01.13 – Circoncisione e presentazione (Luca 2.21-24)

 

21Quando furono compiuti gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo prima che fosse concepito nel grembo. 22Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore – 23come è scritto nella legge del Signore: Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore – 24e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o due giovani colombi, come prescrive la legge del Signore”.

 

Il giorno della circoncisione, occasione di festa per gli ebrei perché da quel momento in poi il bambino avrebbe portato nel proprio corpo il segno dell’appartenenza al popolo di Israele, non è descritto da Luca come quello di Giovanni Battista, cioè accompagnato dalle congratulazioni di parenti ed amici ai genitori. Forse a Betlemme Giuseppe e Maria non avevano più famigliari oppure, cosa più probabile, a Luca preme porre l’accento su quell’intervento prescritto già dai tempi di Abramo anche se la Legge non era stata ancora rivelata pienamente come a Mosè. Ricordiamo il patto di Dio: “Quindi ti farò divenire nazioni e da te usciranno dei re. E stabilirò il mio patto fra me e te, e i tuoi discendenti dopo di te, di generazione in generazione sarà un patto eterno, impegnandomi ad essere il Dio tuo e della tua discendenza dopo di te” (Genesi 17.7). Si può dire che questa rivelazione, questa nuova iniziativa, questo patto, richiedeva una firma, un benestare da parte dell’uomo che riconosceva nella circoncisione il segno esteriore dell’appartenenza al popolo eletto: “Questo è il patto che voi osserverete, tra me e voi e la tua discendenza dopo di te: ogni maschio fra voi sarà circonciso. E sarete circoncisi nella carne del vostro prepuzio, e questo sarà un segno del mio patto fra me e voi. All’età di otto giorni, ogni maschio tra voi sarà circonciso. Di generazione in generazione, tanto quello nato in casa, come quello comprato con denaro da qualunque straniero che non sia della tua discendenza. Sì, tanto chi è nato in casa tua come chi è comprato con denaro dovrà essere circonciso; e il mio patto nella vostra carne sarà un patto eterno. E il maschio incirconciso, che non è stato circonciso nella carne del suo prepuzio, sarà tagliato fuori dal suo popolo, perché ha violato il mio patto” (Genesi 17.10-14).

Per quanto praticata anche da altri popoli, la circoncisione non aveva lo stesso significato per Israele in cui si aveva un segno indelebile, esteriore, nella carne che ricordava non solo l’appartenenza al popolo eletto, ma soprattutto l’immedesimazione nelle promesse ricevute, il volerne far parte, l’essere un tutt’uno con esse. C’era, nelle parole che abbiamo letto, una profezia di riscatto: era vista nell’espressione “da te usciranno dei re” che racchiudeva tutto un lungo panorama storico che avrebbe avuto la suo punto culminante con la venuta del Re per eccellenza, quel Messia il cui ruolo e funzione si sarebbe sempre più delineato nel corso dei secoli fino alla Sua venuta.

C’è anche un raccordo possibile tra il tempo in cui l’adempimento delle promesse era ancora lontano e il nostro: doveva essere circonciso non solo il “nato in casa tua”, quindi l’israelita, ma anche ogni maschio che per qualsiasi ragione fosse inserito nella società ebraica, quindi lo straniero che rinunciava alle sue credenze per aderire al popolo di Dio: questa è una figura, un’anticipazione del fatto che l’appartenere al popolo santo non sarebbe stata un giorno prerogativa degli ebrei. Il fatto che potesse venire inserito nel suo àmbito anche lo straniero, poi, ci testimonia di come ci fosse un piano futuro anche per gli altri popoli.

Molte volte avremo a sottolineare che la Legge è, come dice la Scrittura, “ombra dei futuri beni”: guardando il verso che conclude il patto della circoncisione, vediamo che se il rifiuto di far circoncidere il proprio figlio, all’età di otto giorni perché lì il sangue possiede il suo maggiore potere coagulante, equivaleva a rifiutare il patto stipulato da Dio con Abramo. Come doveva essere “reciso dal popolo” chi rifiutava la circoncisione, così saranno tagliati fuori dal nuovo popolo di Dio coloro che non avranno creduto, condividendo quel “pianto e stridore di denti” e lo stagno ardente di fuoco e zolfo dove verranno gettati Satana e i suoi angeli.

Se possiamo avere le idee chiare sul significato della circoncisione è grazie all’opera dell’apostolo Paolo, in cui tratta l’argomento. Dando qualche accenno, al capitolo quarto della lettera ai Romani, si parla della giustificazione per fede di Abramo; dopo avere chiarito che fu considerato giusto per fede e non per opere, Paolo scrive: “Davide stesso proclama la beatitudine dell’uomo a cui Dio imputa la giustizia senza opere dicendo «Beati coloro le cui iniquità sono perdonate e i peccati coperti. Beato l’uomo a cui il Signore non imputa il peccato». Ora dunque questa beatitudine vale solo per i circoncisi, o anche per coloro che non sono circoncisi? Perché noi diciamo che la fede fu imputata ad Abramo come giustizia. In che modo dunque gli fu imputata, mentre era circonciso, o quando non lo era? Quando non lo era. Poi ricevette il segno della circoncisione come sigillo della giustizia della fede che aveva avuto mentre non era ancora circonciso, affinché fosse il padre di tutti quelli che credono, anche se non circoncisi, affinché anche a loro la giustizia sia imputata” (Romani 4.6-12). Più avanti scriverà “Come sta scritto, «Io ti costituirò padre di molte nazioni», è padre di tutti noi davanti a Dio a cui egli credette” (v. 17).

La Chiesa di Roma ha voluto collegare la circoncisione dell’Antico Patto al battesimo dei bambini, ma in questo modo ne ha stravolto il significato perché il battesimo, a differenza della circoncisione che veniva imposta, è evidentemente un atto che va adempiuto da chi è capace di intendere e di volere. Pietro dice nella sua prima lettera che il battesimo, praticato per immersione in acqua, non è “la rimozione della sporcizia della carne – quindi un bagno – ma la richiesta di una buona coscienza presso Dio” (3.21). Si tratta della richiesta che una persona che si scopre salvata, redenta dal sangue di Cristo, chiede a Dio di essere sua, di appartenergli ottemperando al Suo comandamento.

La circoncisione di Gesù è un fatto molto importante perché, per quanto non dipendente da lui, fu il suo primo atto di sottomissione a quella Legge che era venuto “Non per abolire, ma per adempiere” per, come spiegherà più avanti Paolo ai Galati, “…riscattare coloro che erano sotto la Legge” (4.4-5). Possiamo definire la dispensazione che ci ha preceduti, quella della Legge, come un periodo dato all’uomo per prendere conoscenza del peccato e delle esigenze di Dio, ma “se fosse stata data una legge capace di dare la vita, allora veramente la giustizia sarebbe venuta dalla legge. Ma la Scrittura ha rinchiuso ogni cosa sotto il peccato, affinché fosse data ai credenti la promessa mediante la fede in Gesù Cristo. Ora, prima che venisse la fede, noi eravamo custoditi sotto la legge, come rinchiusi, in attesa della fede che doveva essere rivelata. Così le legge è stata nostro precettore per portarci a Cristo, affinché fossimo giustificati per mezzo della fede. Ma, venuta la fede, non siamo più sotto un precettore, perché voi tutti siete figli di Dio per mezzo della fede in Cristo Gesù” (Galati 3.21-26). Qui Paolo spiega la rivoluzione degli ultimi tempi che viviamo: la Legge non dava la vita, non era in grado perché si rapportava all’uomo per condannarlo e umiliarlo. Tutto il “peccato” di cui viene data conoscenza, non esiste più per il cristiano veramente rinnovato nella propria mente e nel proprio spirito perché non è più creatura, ma figlio, o figlia. Certo che la Legge rimane come misura del bene e del male come ad esempio nel Decalogo cui è nostra responsabilità attenerci.

La circoncisione di Gesù fu quindi il primo passo che fece da uomo inserito nel popolo di Israele, lui che di subire quell’intervento non ne aveva alcun bisogno: era la Parola per mezzo della quale tutto era stato creato. Gli fu posto il nome Gesù in ubbidienza all’ordine dell’angelo e Gesù è la sesta persona in tutta la Scrittura, antica e nuova, che viene chiamata con un nome a seguito di un ordine superiore: abbiamo infatti Isacco, Ismaele, Giosia, Ciro, Giovanni (Battista) e infine Lui, per non parlare di quelli che verranno dopo e tutte quelle persone che ebbero il loro nome modificato, ad esempio Abramo (padre grande) in Abrahamo (padre di una moltitudine).

Venendo alla purificazione di Maria, dopo il parto la donna era considerata impura e stava separata dalla congregazione di Israele per un periodo di 40 giorni se aveva partorito un maschio, 80 una femmina dopo di che, per essere riammessa, doveva presentarsi al sacerdote portando, come abbiamo letto, quattro animali da sacrificare. Apriamo una parentesi per leggere il testo della Legge in Levitico 12.6-8 relativo a questo caso: “Quando i giorni della sua purificazione sono compiuti, sia che si tratti di un figlio o di una figlia, porterà al sacerdote (…) un agnello di un anno come olocausto e un giovane piccione o una tortora, come sacrificio per il peccato – per la sua condizione, non perché avere il figlio costituisse una colpa-; poi il sacerdote li offrirà davanti all’Eterno e farà l’espiazione per lei, ed ella sarà purificata dal flusso del suo sangue. Questa è la legge relativa alla donna che partorisce un maschio o una femmina. E se non ha mezzi per offrire un agnello, prenderà due tortore o due giovani piccioni, uno come olocausto e l’altro come sacrificio per il peccato. Il sacerdote farà l’espiazione per lei ed ella sarà pura”. Questo significa che Giuseppe e Maria, a quel tempo, erano poveri, non avendo mezzi per offrire un agnello.

Altro punto adempiuto dopo la circoncisione e il sacrificio che abbiamo letto è la presentazione: Iddio esigeva nella Legge che ogni primogenito, di uomini o di animali, gli fosse consacrato in tutto il Paese di Israele. Questo era per commemorare l’episodio in cui i primogeniti degli ebrei furono risparmiati, al tempo della piaga sui primogeniti in Egitto, dall’angelo così come narrato nel capitolo 12 del libro dell’Esodo.

Possiamo fare però anche una riflessione: Gesù sarebbe stato il primogenito di Maria, era l’unigenito Figlio di Dio, ma sarebbe diventato anche, in virtù del Suo sacrificio e resurrezione, il “Primogenito fra molti fratelli”, definizione che troviamo nella lettera ai Romani in 8.29 e che allude alla dimensione spirituale nuova e stabile in cui dimorano tutti coloro che hanno creduto. Infatti: “Non sapete voi che gli ingiusti non erediteranno il regno di Dio? Non v’ingannate: né i fornicatori, né gli idolatri, né gli adulteri, né gli effeminati, né gli omosessuali, né i ladri, né gli avari, né gli ubriaconi, né gli oltraggiatori, né i rapinatori erediteranno il regno di Dio. Or tali eravate già alcuni di voi; ma siete stati lavati, ma siete stati giustificati nel nome del Signore Gesù e mediante lo Spirito di Dio” (1 Corinti 6.9-11).

Questo è l’esaudimento della preghiera che lui stesso rivolgerà al Padre: “Io voglio che dove sono io siano con me anche coloro che tu mi hai dato, affinché vedano la mia gloria che tu mi hai dato, perché tu mi hai amato prima della fondazione del mondo” (Giovanni 17.24).

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01.12 – L’ANNUNCIO AI PASTORI (Luca 2.8-20)

01.12 – L’annuncio ai pastori (Luca 2.1-7)

 

8C’erano in quella regione alcuni pastori che, pernottando all’aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge. 9Un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande timore, 10ma l’angelo disse loro: «Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: 11oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore. 12Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia». 13E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste, che lodava Dio e diceva: 14«Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama». 15Appena gli angeli si furono allontanati da loro, verso il cielo, i pastori dicevano l’un l’altro: «Andiamo dunque fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere». 16Andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia. 17E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro. 18Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori. 19Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore. 20I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro”.

 

Abbiamo qui il quarto annuncio angelico del Nuovo testamento. Il primo fu dato a Zaccaria, il secondo a Maria e il terzo a Giuseppe quando aveva in animo di ripudiarla. Il quarto annuncio non anticipa la nascita di Gesù, ma la rende pubblica a dei pastori che “vegliavano di notte facendo la guardia al loro gregge” segno che Nostro Signore nacque in un mese non freddo, che da calcoli fatti da alcuni pare sia stato settembre. Il Salvatore era nato, ma la notizia non viene data a degli studiosi, a dei tecnici eruditi come ve ne erano molti in Israele, ma a gente posta a un livello sociale molto basso, a persone umili e malviste dalla maggioranza: le greggi creavano problemi agli agricoltori brucando ovunque, i pastori non avevano fissa dimora per diversi mesi all’anno, non praticavano la religione e avevano ben poca conoscenza della Legge o dei Profeti e, nei racconti rabbinici, venivano messi sullo stesso piano dei briganti e dei malfattori. Non solo, ma nei tribunali il Talmud afferma che la loro testimonianza non era accettata, al pari dei ladri e deli estorsori.

Ecco allora che Dio Padre manda un Suo angelo ad annunciare la nascita del figlio a degli ultimi del tutto estranei a qualsiasi forma di religiosità, che certo non si aspettavano una manifestazione divina né tantomeno di venire coinvolti in un piano di salvezza. Erano lì, a fare il loro lavoro in una delle tante notti alle quali erano abituati chissà da quanto tempo.

Eppure, all’improvviso, qualcosa fa prepotentemente irruzione nelle loro vite: si presenta un angelo e contemporaneamente ad esso una traduzione dice “La gloria del Signore risplendé d’intorno a loro ed essi temettero di gran timore”. “La gloria del Signore”, termine col quale viene indicato uno degli aspetti della presenza di Dio che troviamo in altri passi della Scrittura.

Ricordiamo, nel Nuovo Testamento, l’episodio in cui Saulo da Tarso, accanito persecutore degli ebrei che si convertivano al cristianesimo, raccontando di sé al re Aggrippa, disse “…vidi sulla strada, o re, una luce dal cielo più splendente del sole, che avvolse me e i miei compagni di viaggio” (Atti 26.13): non è quindi la luce naturale che denota la presenza di Dio – al limite essa è una Sua opera –, ma quella che si manifesta come chiaramente riconducibile a Lui. Paolo abbiamo letto che la definisce “più splendente del sole” – e infatti ebbe gli occhi lesionati – e Luca, che non la descrive come lui, dice che i pastori sentendosene avvolti, ebbero molta paura, emozione irrazionale dominata dall’istinto che ha come obiettivo la sopravvivenza del soggetto che ne viene colto.

Quei pastori temettero per la loro vita. Un’altra traduzione parla di “spavento”, termine che si riferisce a un turbamento psichico forte e improvviso che si verifica nel momento in cui si avverte un pericolo, una minaccia o un danno incombente che può provocare reazioni incontrollate.

L’espressione usata dall’angelo, “Non temete” in tutta la Bibbia si trova per 365 volte, tante quanti sono i giorni dell’anno, indirizzata ad ogni credente. È qui, come altrove, un “Non temere” autorevole, pronunciata da un essere che potremmo definire “soprannaturale”, un “non temere” che interviene puntualmente ogni giorno che, come sappiamo, porta sempre una pena diversa, per quanto di peso differente. Un “non temere” che segna lo spartiacque tra ciò che controlliamo e ciò che invece non possiamo prevedere né è in nostro potere cambiare. L’annuncio dell’angelo era di “una grande gioia che sarà di tutto il popolo” e quel “vi è nato” rivelava tutta l’universalità di quella nascita: Gesù era nato per loro e per tutti gli altri che avrebbero creduto. L’angelo propone loro questo messaggio e possiamo affermare che, se si fosse rivolto a persone importanti, queste avrebbero potuto credere ad un’esclusiva; partendo dallo strato più basso della società, però, allora sì che quella nascita avrebbe veramente coinvolto tutti, nessuno escluso.

La definizione “città di Davide” era molto specifica e tendeva a far emergere quei ricordi che, forse, i pastori potevano avere di quel Re che sarebbe nato secondo le antiche profezie che magari avevano ascoltato, anche solo distrattamente. Eppure questi, una volta trovato quanto l’angelo aveva detto loro, è scritto al verso 30 che glorificarono e lodarono Dio, come Maria raccontò a Luca.

Abbiamo letto nei versi da 12 a 14 Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia. E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste, che lodava Dio e diceva “Gloria a Dio nel più alto dei cieli, e pace in terra a tutti gli uomini che Egli ama”: l’angelo non fa un annuncio generico, ma dà ai pastori un elemento concreto, un “segno”, che per il linguaggio tanto dell’Antico che del Nuovo Testamento equivaleva a una sorta di firma; pensiamo solo all’arcobaleno, al sangue sulla porta delle case che avrebbe risparmiato i primogeniti degli israeliti nella decima piaga d’Egitto, al sabato o alla circoncisione, solo per citarne alcuni.

Il segno qualificava il mittente del messaggio ed attestava un fatto: quei pastori avrebbero trovato un bambino – il Salvatore che “oggi” era nato per loro – avvolto in fasce, che giaceva in una mangiatoia. Lo stesso “Re dei Giudei che è nato” che avrebbero trovato tempo dopo i Magi, non più in un luogo precario come avrebbe potuto essere un portico o una delle grotte nei dintorni di Beltlehem che fungevano da ricovero per animali o viaggiatori, ma in una casa.

Il verso 12 contiene un dettaglio che molto spesso una lettura veloce tende a trascurare: i pastori avrebbero trovato non “il”, come alcuni traducono, ma “un” bambino, cioè un individuo comune a tanti che si sarebbe rivelato al suo popolo, e poi al mondo, a tempo debito. L’indeterminativo “un”, inoltre, racchiude gli intenti del Figlio di Dio che, come scrive l’apostolo Paolo in Filippesi 2.6-11 “…pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso assumendo la forma di servo e divenendo simile agli uomini. Apparso in forma umana, umiliò se stesso, facendosi ubbidiente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio lo ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre”.

In realtà, come leggiamo al verso 13, ci fu un secondo segno, che non generò più timore nei pastori, ma piuttosto contemplazione, quello della “moltitudine dell’esercito celeste”, di questi esseri che, da una dimensione differente che comunque uomini e profeti dell’Antico e del Nuovo Testamento videro (pensiamo a Stefano primo martire, Paolo e Giovanni), entrano in quella terrena

pronunciando una dossologia che separa l’ambito di Dio, cui compete e spetta la “gloria”, da quello umano – attenzione – specifico: la “pace in terra a tutti gli uomini che Egli ama”, non a tutte le creature indistintamente. E qui entriamo nel progetto che Dio ha per ogni uomo che ama e che, fino a quando non ha un incontro con lui, non sa di esserlo, intento e preso com’è nelle sue attività quotidiane, preoccupazioni, doveri da svolgere e interessi personali. La loro notte di veglia non aveva nulla di diverso dalle altre fino a quando l’angelo non furono avvolti di luce.

Nel più alto dei cieli” e “in terra” sono due luoghi la cui distanza è, per ora, immensa. Sappiamo però il destino che accomuna tutti quelli che hanno creduto: “…perché il Signore stesso, a un ordine, alla voce dell’arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo; quindi noi, i vivi, i superstiti, saremo rapiti insieme con loro tra le nuvole, per andare incontro al Signore nell’aria. E così saremo per sempre col Signore” (1 Tessalonicesi 4.15-17). Questo è quello che ci attende. Se tra i due luoghi, “nel più alto dei cieli” e “in terra” esiste una distanza enorme, la proclamazione della “pace in terra agli uomini che Egli ama” la accorcia: infatti “Giustificati dunque per fede, abbiamo pace presso Dio per Cristo, Nostro Signore” (Romani 5.1). La distanza incolmabile fra il peccatore e la santità di Dio si annulla con la “pace” e con essa diventeremo parte integrante con Lui. I pastori non videro una luce più o meno distante che li abbagliò, ma ne furono avvolti a conferma del fatto che Dio non è lontano, ma coinvolge e rende l’uomo parte di sé.

Gli angeli, dopo la lode, si allontanano. Questa presenza, secondo segno di quella notte in cui comparve l’angelo dell’annuncio, gli altri e quindi il bambino nella mangiatoia, per un lettore che proviene dall’Antico Testamento è molto importante perché dispone di riferimenti per poterla comprendere: gli angeli erano presenti alla creazione. Ricordiamo ad esempio Giobbe 38.4-7: “Dov’eri tu quando io gettavo le fondamenta della terra? Dillo, se hai tanta intelligenza. Chi ha stabilito le sue dimensioni, se lo sai, o chi tracciò su di essa la corda per misurarla? Dove sono fissate le sue fondamenta, o chi pose la sua pietra angolare, quando le stelle del mattino cantavano tutte insieme e tutti i figli di Dio mandavano grida di gioia?”, Atti 7.53 che fa riferimento alla promulgazione della legge sul Sinai. “Voi avete ricevuto la legge per mano degli angeli e non l’avete osservata” e il giudizio finale in cui, in Matteo 13.53, è scritto “Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti”.

La presenza corale angelica, quindi, sottolinea la solennità unica di quel momento, certamente non inferiore ai precedenti: la creazione fu l’inizio della storia in cui iniziò ad esistere il tempo, staccandosi dall’eternità, la legge fu il patto precedente a quello della grazia. Ciò che i pastori avevano visto e udito non poteva non generare una reazione che non a caso fu immediata: è scritto che andarono a Betlemme “senza indugio”, cioè non pensarono al loro bestiame che, di colpo, aveva perso il suo valore. Era l’unica cosa che possedevano. “Vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere”, parole che denotano quanto siano inutili e dannosi i preconcetti umani, quella suddivisione in categorie che fa il mondo, che tende a ossequiare e riverire gli appartenenti alle classi sociali elevate e a rifiutare e disprezzare quelle meno abbienti, dimenticandosi che ciò che conta è la disposizione del cuore, l’anima e lo spirito della persona.

I versi da 17 a 19 ci danno un quadro particolare: i pastori parlano dopo avere constatato la presenza del “segno” di cui l’angelo aveva loro parlato. Si diventa sempre credenti perché si è constatato; io non credo in un’entità superiore perché questo dà un senso alla mia vita e la mia psiche è gratificata con pratiche religiose e mi sento “buono”, ma credo in quel Dio che mi ha amato per primo, in Gesù Cristo che, come dice l’apostolo Paolo, “mi ha amato e ha dato sé stesso per me” (Galati 2.20). Dio, lo abbiamo appena scritto, ama per primo, prende l’iniziativa nonostante noi siamo distanti, come i pastori intenti nelle loro occupazioni senza pensare che ci fosse in atto un piano per loro.

I pastori furono i primi testimoni al di fuori della ristretta cerchia composta da Zaccaria – Elisabetta e Giuseppe – Maria: loro soli videro l’angelo e la moltitudine e furono consci dell’unicità della rivelazione a loro fatta. Anche qui, per il loro glorificare e benedire Dio c’è una ragione, non certo dettata da un misticismo immaginario: lo fecero per tutto quello che avevano udito e visto (udito e vista, due sensi importanti nella vita di ogni creatura superiore), com’era stato detto loro.

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01.11 – LA NASCITA DI GESÙ (Luca 2.1-7)

01.11 – La nascita di Gesù (Luca 2.1-7)

 

1In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. 2Questo primo censimento fu fatto quando Quirinio era governatore della Siria. 3Tutti andavano a farsi censire, ciascuno nella propria città. 4Anche Giuseppe, dalla Galilea, dalla città di Nàzaret, salì in Giudea alla città di Davide chiamata Betlemme: egli apparteneva infatti alla casa e alla famiglia di Davide. 5Doveva farsi censire insieme a Maria, sua sposa, che era incinta. 6Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. 7Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio”.

 

Solo Matteo e Luca parlano della nascita di Gesù, per quanto mettendo l’accento su avvenimenti diversi, ed alcuni commentatori sostengono che i due racconti siano stati scritti anche per confutare l’eresia dei doceti che sostenevano l’umanità di Cristo essere solo una parvenza (dal verbo greco dokéo “sembrare, apparire”), negando così la Sua natura umana e quindi le sofferenze che ebbe nel corpo.

Matteo e Luca ci parlano quindi del “Natale”, argomento indispensabile per conoscere le origini di Nostro Signore, omettendo volutamente la sua data di nascita nonostante fosse da loro conosciuta perché per gli ebrei, e così dovrebbe essere per coloro che aderiscono o hanno aderito al cristianesimo, festeggiare il compleanno era ritenuta cosa da evitare, essendo i pagani a celebrarla. Leggiamo che in Genesi 40.20 che “…il terzo giorno, il giorno del compleanno del faraone, avvenne che egli fece un banchetto per tutti i suoi servi”. In Marco 6.21, poi, “Erode per il suo compleanno offrì un banchetto ai suoi grandi, ai comandanti e ai notabili della Galilea”. Entrambi erano pagani, uno egiziano e l’altro idumeo.

Nel quarto secolo d.C., però, la Chiesa di Roma istituì, per ragioni politiche e con l’intento di cristianizzare a lunga scadenza le popolazioni pagane, il 25 dicembre per festeggiare la nascita di Gesù, inserendola nel suo calendario liturgico. Tale data corrispondeva alla festa in onore del dio Sole e, per giustificare il raccordo a tale ricorrenza, furono utilizzati i versi in cui Gesù, nelle profezie che conosciamo, è definito “Sole di Giustizia” e “Luce da illuminare le genti”.

Luca è il solo a parlare delle circostanze che si verificarono prima e subito dopo il parto collocandolo sotto l’impero di Caio Ottaviano, pronipote di Giulio Cesare, primo dei cinque imperatori di Roma cui seguiranno Tiberio, Caligola, Claudio e Nerone, sotto cui si svolgeranno gli avvenimenti riportati dal Nuovo Testamento, Atti ed epistole comprese. L’opera di Dio con la nascita di Gesù fa quindi il suo ingresso ancora una volta nella storia umana, dopo le Sue promesse e gli innumerevoli interventi per il Suo popolo, ma con significati completamente diversi che sono sintetizzati dall’apostolo Paolo con l’espressione “Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo figlio nato di donna” (4.4). La “pienezza del tempo” si riferisce sì ad un momento storico preciso in cui la situazione politica poteva essere favorevole alla diffusione del messaggio cristiano (pensiamo solo ai trasporti, all’impero romano e alle vie di comunicazione) e in cui in tutto il mondo orientale si attendeva l’arrivo di un salvatore. Soprattutto ci sarebbe stato un momento ben definito in cui si sarebbe aperta la parentesi della dispensazione della grazia: questo sarebbe avvenuto tra la 69ma e la 70ma settimana profetizzata da Daniele (9.20-27) che, in modo criptico per molti, prevede un tempo per la sopportazione del peccato da parte di Dio prima che venga il suo giudizio definitivo su quella parte di umanità che non avrà voluto accogliere il suo messaggio.

La “pienezza del tempo” è una definizione che si collega strettamente a tutti quei casi in cui gli uomini vengono esortati al ravvedimento perché “il regno di Dio è vicino” o addirittura “è giunto fino a voi”, avvenimenti scritti nella grande agenda di Dio; così l’era della grazia in cui viviamo ha una scadenza che sfocia nella 70ma settimana, l’ultima, che sarà divisa in due periodi di tre anni e mezzo ciascuno, il primo caratterizzato da una falsa pace mondiale proclamata dal “Figlio della perdizione” e il secondo contrassegnato dai grandi giudizi che Dio manifesterà su tutta la terra e che sono descritti nei capitoli da 6 a 18 del libro dell’Apocalisse.

Abbiamo letto di un censimento: questo era teso a registrare non solo le persone, ma anche i nuclei famigliari con relativa composizione e i loro averi in vista di una tassazione, terzo significato del verbo greco apograféo che veniva impiegato per indicare il fare una copia, il registrare uomini e cose, oppure fare un inventario per fissare un’imposta. Questo censimento doveva essere fatto per tutto l’impero e quindi anche la Giudea, che era una provincia imperiale. La citazione di Quirinio è importante per collocare con più precisione il periodo perché fu governatore per due volte: una prima dal 4 all’1 a.C. e una seconda dal 6 all’11 d.C. e la riscossione delle imposte pare avvenne in questo secondo periodo. Il censimento ebbe le procedure secondo l’uso ebraico che registrava persone e cose nella loro città di nascita a differenza di quello romano che lo faceva nel luogo ufficiale di residenza: stando così le cose, Giuseppe e Maria dovettero recarsi al loro paese di origine, lasciando Nazareth affrontando un viaggio di diversi giorni; se i due paesi distavano fra loro tre giorni di percorso a cavallo, con Maria prossima al parto è molto probabile che ce ne volessero almeno il doppio.

Maria e il marito arrivano così a Betlemme, che significa “casa del pane”, l’antica Efrata (è chiamata anche “Bethlehem di Efrata”) dove Giacobbe aveva sepolto Rachele (Genesi 35.19) e lì arrivò il momento del parto, delicato non solo come avvenimento per ogni donna, ma anche per noi che ci troviamo a dover risolvere un problema importante visto nella pericope “lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c’era posto per loro nell’albergo” (v.7).

Immaginiamoci la situazione nei giorni poco prima dell’evento: Giuseppe e Maria, giunti a Betlemme, villaggio di non molte case, la trovarono ovviamente piena di persone giunte là, come loro, per ottemperare agli obblighi imposti dall’editto: il problema del dove alloggiare non era di poco conto sia perché Betlemme era piccola, sia perché la moltitudine di gente giunta prima di loro si era accaparrata i posti migliori disponibili. In realtà però, leggendo bene il testo, Luca non ci dice che Giuseppe e Maria non riuscirono a trovare un posto perché Betlehem era piena di gente, ma che “non c’era posto per loro” perché Maria, prossima a partorire, avrebbe secondo la Legge contaminato il luogo dove avrebbe partorito così come le persone. Non avrebbero quindi potuto alloggiare presso le abitazioni come ospiti, ma poteva essere disponibile la stalla dove i viaggiatori ricoveravano i propri animali accanto magari a quelli dei proprietari.

Allora Giuseppe trovò un riparo per Maria cercando sicuramente di sistemarlo e pulendolo come meglio poteva, tenendo lontani gli animali che potevano costituire un pericolo per il bambino. Maria poi è probabile che partorì da sola, senza essere assistita da nessuno perché fu lei stessa ad avvolgere il figlio nelle fasce e a deporlo nella mangiatoia, quindi alzandosi subito dopo averlo partorito. Provvide così a lavarlo, a recidere il cordone ombelicale oltre che sbarazzarsi della placenta e a pulire se stessa. Le fasce furono così il primo vestito che Gesù indossò come essere umano, preludio di quelle altre che Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo utilizzarono per avvolgere il suo corpo con gli aromi alla sepoltura.

C’è poi la mangiatoia, che assieme alle fasce e alla paglia proteggevano il piccolo dal freddo, ma non mi sento di avallare la teoria del presepe che vede un bimbo quasi nudo riscaldato dall’alito di un asino e di un bue che, animali e in quanto tali comunque imprevedibili, saranno stati accuratamente tenuti lontano. Come osservò un fratello, “Sull’iconografia tramandataci da Francesco d’Assisi, giocò fortemente l’emotività e non la realtà dell’avvenimento”.

Ultimo dettaglio, ma certo non trascurabile stante le interpretazioni opposte in merito, lo troviamo nelle parole “diede alla luce il suo figlio primogenito”, sul quale sono corsi letteralmente fiumi di inchiostro. Il termine “primogenito” veniva usato ordinariamente per indicare colui che nasceva per primo indipendentemente dal fatto che restasse o meno figlio unico anche se Matteo 13.55,56 lascia intendere che la famiglia di Maria e Giuseppe fosse numerosa: grazie ai doni ricevuti dai Magi, che arrivarono tempo dopo, i genitori di Gesù erano diventati benestanti e potevano permettersi un decoroso mantenimento di figli. Così si espressero gli abitanti di Nazareth: “Da dove mai viene a costui questa sapienza e questi miracoli? Non è forse egli il figlio del carpentiere? Sua madre non si chiama Maria e i suoi fratelli Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle non sono tutte fra noi? Da dove gli vengono dunque tutte queste cose?”. Si creano delle condizioni di scandalo attorno a questioni trascurabili: Maria era una donna, in quanto tale rimase impura secondo la legge per 40 giorni dopo aver partorito. Vergine all’atto del parto perché suo figlio era stato concepito in modo non umano, fu madre e moglie di Giuseppe vivendo la propria unione esattamente come tutte le altre donne sposate del mondo. Non ho mai capito quale senso potesse avere non solo la sua supposta verginità post parto e il fatto che si sia astenuta dall’avere rapporti col proprio marito anche alla luce del fatto che il matrimonio in Israele aveva nel far figli il suo scopo portante.

Dai versi visti finora, al di là delle considerazioni “tecniche” che abbiamo fatto, se ne possono fare altre, la prima della quale è: Dio governa il mondo e, come in tanti episodi storici dell’Antico Testamento, prepara e organizza i presupposti affinché certi eventi si possano verificare senza che molti li possano capire. Gesù doveva nascere in Betlemme e in nessun’altra città. Il profeta Michea scrisse “E tu, Betlemme di Efrata, così piccola per essere tra i capoluoghi di Giuda, da te mi uscirà colui che dev’essere il dominatore in Israele. Le sue origini sono dall’antichità, dai giorni più remoti” (Michea 5.1), espressione per indicare l’eternità di cui Gesù stesso farà cenno quando dirà “Prima che il mondo fosse, io sono”.

Caio Ottaviano, alias Cesare Augusto, convinto di essere quasi onnipotente, temuto e riverito dai suoi simili, non pensava certo, ordinando quel censimento, di essere un mero strumento nelle mani di Dio o comunque di contribuire a un Suo progetto; neppure Quirino, sottoposto ad Ottaviano, poteva pensare cosa si celasse dietro quello che per lui era un’operazione che garantiva la riscossione dei tributi e quindi ricchezza (anche) per la sua persona. Negli avvenimenti del mondo estraneo alla Chiesa, ai “chiamati fuori” da un mondo che ha solo disprezzo per la Parola di Dio, esiste quindi un perché, una lettura che come credenti possiamo dare. Dobbiamo sapere che nulla è lasciato al caso, ma ogni cosa scorre secondo i tempi voluti e preparati da chi ha progettato ogni cosa per loro: siamo nati come tutti, ma diversamente dai “tutti” chi è diventato “concittadino dei santi e membro della famiglia di Dio” ha uno scopo e un futuro di eternità preparato per lui, come disse Gesù in Matteo 25.34 “Allora il Re dirà a coloro che saranno alla sua destra, Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno che vi è stato preparato sin dalla fondazione del mondo”.

Possiamo concludere con Genesi 49.10 quando Giacobbe morente, benedicendo i figli, disse di Giuda, che originerà una tribù alla quale apparterrà la casa di Davide, “Lo scettro non sarà rimosso da Giuda, né il bastone del comando tra i suoi piedi, finché venga Colui che darà il riposo, e al quale ubbidiranno i popoli”. Era finalmente nato Colui che gli uomini di Dio aspettavano fin dai tempi antichi, di cui l’angelo Gabriele aveva annunciato, un Re che verrà adorato dai magi venuti da Oriente, dalla Persia, uno che dichiarerà e dimostrerà di essere l’inascoltato Figlio di Dio. Gesù avrebbe potuto nascere nelle migliori corti del tempo e con tutte le comodità umane, ma venne al mondo identificandosi subito con la precarietà della condizione umana mettendo in opposizione fino da allora il ragionare umano e quello di Dio. Allo stesso modo i suoi genitori, lungi dall’essere trattati con riguardo, furono costretti ad un viaggio faticoso, aggravato dalla condizioni di Maria, perché fossero adempiute le profezie sulla nascita del bambino a Betlemme: bastava loro di essere degli strumenti nelle mani di Dio e non pretesero mai nulla in cambio, lontani da quella mentalità distorta di chi pretende che le proprie aspettative coincidano con quelle di Dio, mentalità che molti hanno.

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01.10 – BENEDICTUS II/II (Luca 1.67-80)

01.10 – Benedictus II/II (Luca 1.67-80)

 

67Zaccaria, suo padre, fu colmato di Spirito Santo e profetò dicendo:68«Benedetto il Signore, Dio d’Israele, perché ha visitato e redento il suo popolo,69e ha suscitato per noi un Salvatore potente
nella casa di Davide, suo servo, 70come aveva detto per bocca dei suoi santi profeti d’un tempo:
71salvezza dai nostri nemici, e dalle mani di quanti ci odiano. 72Così egli ha concesso misericordia ai nostri padri e si è ricordato della sua santa alleanza, 73del giuramento fatto ad Abramo, nostro padre, di concederci, 74liberati dalle mani dei nemici, di servirlo senza timore, 75in santità e giustizia al suo cospetto, per tutti i nostri giorni. 76E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell’Altissimo perché andrai innanzi al Signore a preparargli le strade, 77per dare al suo popolo la conoscenza della salvezza nella remissione dei suoi peccati. 78Grazie alla tenerezza e misericordia del nostro Dio, ci visiterà un sole che sorge dall’alto, 79per risplendere su quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra di morte, e dirigere i nostri passi sulla via della pace». 80Il bambino cresceva e si fortificava nello spirito. Visse in regioni deserte fino al giorno della sua manifestazione a Israele”.

Se la prima parte del cantico di Zaccaria è incentrata sulla realizzazione delle promesse di Dio rivolte al popolo tramite i profeti, la seconda si basa interamente sul ruolo di Giovanni Battista, precursore del Messia. Le parole profetiche di Zaccaria esaminate brevemente la volta scorsa avevano riguardato l’inizio del nuovo cammino che il popolo di Dio avrebbe dovuto compiere, ma quelle su Giovanni riguardano l’immediato futuro e il suo ruolo così importante per il popolo di Israele. Il padre usa nei confronti del proprio figlio parole quasi di rispettoso distacco: mancano espressioni del tipo “figlio mio” o quant’altro indichi una rivendicazione di appartenenza, ma semplicemente “o piccolo bambino”, a sottolineare la distanza fra ciò che Giovanni era e ciò che diventerà al di là della relazione filiale, molto meno importante rispetto al ruolo che avrebbe avuto, cioè riprendere il servizio profetico, interrotto da 400 anni, e di preparazione alle vie del Cristo. Non che gli altri profeti non l’avessero fatto, ma la loro opera era tesa sia a testimoniare che l’assistenza di Dio non veniva meno nei secoli, sia a descrivere sempre più nei dettagli ciò che sarebbe avvenuto man mano che il piano di salvezza per l’uomo andava avanti. Giovanni avrebbe preparato le strade davanti al Signore con uno stile di vita particolare tipico del Nazireo e una predicazione che Matteo sintetizza con le parole “Ravvedetevi, perché il regno dei cieli è vicino” (3.2). Sono le stesse con le quali anche Gesù inizierà a predicare (4.17) con miracoli nelle sinagoghe.

Ravvedetevi”, imperativo greco (metanoèite), che indica un cambiamento di pensiero e di sentimento relativamente al peccato e a un modo di vita non consono agli ideali di Dio. Il ravvedimento porta non solo a deplorarle, ma anche ad abbandonarle interamente perché non ci appartengono più. Giovanni, per “preparare le vie” del Signore, avrebbe svolto un’opera di invito ad una valutazione della propria vita e del proprio modo di pensare visto, per coloro che conoscevano la legge e la scrittura, nella capacità di avvertire i propri errori non come una semplice colpa, un peso che Dio avrebbe potuto perdonare dietro l’osservanza di un cerimoniale, ma come qualcosa di ostacolante la relazione con Lui e che solo Lui avrebbe potuto rimuovere.

La necessità del ravvedimento urgeva in vista del “Regno dei cieli” che era vicino. Non è una frase fatta, ma l’annuncio di qualcosa atteso da tempo da tutte le anime sensibili di allora e di oggi. Se viene detto che quel regno ora è vicino, significa che prima era lontano. “Regno dei cieli” è un’espressione che usa solo Matteo e corrisponde, negli altri Vangeli, al “Regno di Dio” ed entrambe alludono a diverse cose: prima di tutto la nuova era della Grazia che stava per cominciare, ma anche la liberazione del peccato, la santificazione, la vita sotto una nuova prospettiva.

L’ “andrai innanzi” indica il precedere il Cristo non in ordine di importanza, ma come una sorta di araldo che avrebbe informato che stava per arrivare Colui del quale avevano parlato la legge e i profeti. Il “preparargli le strade” è un’espressione che infatti richiama le parole di Isaia, che scrisse nel 750 a.C. : “Una voce grida: Nel deserto preparate la via al Signore, spianate nella steppa la strada per il nostro Dio. Ogni valle sia innalzata. Ogni monte e ogni colle siano abbassati; il terreno accidentato si trasformi in piano e quello scosceso in vallata” (40.3-4); questo testo allude al rientro in patria da Babilonia a Gerusalemme che fecero gli esuli ebrei quando Ciro, re di Persia, nel 538 a.C., li autorizzò a tornare in patria. Guardando così a quella storia per loro non troppo lontana, gli ebrei del tempo di Giovanni avevano bene in mente che nel 586 a.C. Gerusalemme era stata distrutta col suo Tempio, che il popolo fu deportato e poté tornare dopo circa 50anni. Ecco allora che Giovanni Battista sarebbe stato l’ultimo profeta dell’Antico Testamento e avrebbe fatto da ponte tra quello e il Nuovo: le strade di Dio si sarebbero incrociate con quelle degli uomini che, riconosciutele, le avrebbero intraprese.

E lo scopo delle vie di Dio le dichiara lo stesso Zaccaria: “Per dare al suo popolo la conoscenza della salvezza nella remissione dei suoi peccati”. Non è detto che Giovanni sarebbe diventato il precursore di un condottiero potente, ma di uno che avrebbe fatto conoscere “al suo popolo”, Israele nell’immediato, ma poi a tutti gli altri, la “conoscenza della salvezza”: riflettendo sul termine, se nella nostra mentalità “conoscenza” è sinonimo di sapere, ottenere dei dati attraverso uno studio, per gli ebrei era sinonimo di provare qualcosa su di sé, sperimentare, vivere. Ciò equivaleva allora all’invito, alla certezza di trovare un rifugio e un riparo sicuro presso Dio, alla certezza di appartenergli in virtù della “remissione dei peccati”. Ricordiamo le parole di Gesù in Luca 13.34,35 che rivela le intenzioni di Dio contrapposte al rifiuto della maggioranza: “Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi coloro che ti sono mandati, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli come una gallina la sua covata sotto le ali e voi non avete voluto! Ecco, la vostra casa è lasciata deserta! Vi dico infatti che non mi vedrete più fino al tempo in cui direte «Benedetto colui che viene nel nome del Signore!»”.

Se nel Salmo 32.1 leggiamo “Beato l’uomo a cui è tolta la colpa e coperto il peccato”, in Efesi 1.19 abbiamo la grande apertura che ogni uomo o donna può vivere oggi qualora accetti Gesù come suo personale salvatore, riconoscendosi peccatore e lontano da Dio: “Voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e famigliari di Dio”.

Zaccaria prosegue così: “Grazie alle tenerezza e alla misericordia del nostro Dio, ci visiterà un sole che sorge dall’alto, per risplendere su quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra di morte, e dirigere i nostri passi sulla via della pace”: compare in questo cantico il verbo “visitare” per la seconda volta: nel primo caso, che abbiamo cercato di sviluppare nella scorsa riflessione, Dio ha “visitato il suo popolo”, realtà che ci parla di un’azione valutativa sotto la spinta della Sua “tenerezza e misericordia”, ma nel secondo abbiamo la conseguenza di tutto questo, cioè l’arrivo di un “sole che sorge”. Di “Un” e non “del”: un’altra luce, un altro progetto, un altro scopo, un altro genere di illuminazione e riscaldamento. L’apostolo Giovanni scrive “Egli – Giovanni Battista – non era la luce, ma doveva rendere testimonianza della luce. Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo” (1.8-9). Possiamo fare ancora una citazione da Malachia 4.2 “Per voi, che avete timore del mio nome, sorgerà con raggi benefici il sole di Giustizia” e da Isaia che dice al popolo “Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla su di te” (60.1).

Simeone, dopo che prese in braccio Gesù quando aveva 8 giorni e fu presentato al tempio come primogenito, disse : “Ora lascia, Signore, che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli, luce per illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele” (Luca 2.29,32). “Illuminare le genti” nel senso di proiettarle in una vita nuova che si sarebbe svolta non più nelle tenebre. Paolo scrisse ai credenti della Chiesa di Efeso “Ricordatevi che voi in quel tempo – cioè prima di conoscere il piano di Dio ed averlo accolto – eravate senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza di Israele, estranei ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio in questo mondo” (2.12). Lo stare “nelle tenebre e nell’ombra della morte” è la condizione di ogni essere umano che vive senza la luce che solo il “Sole di giustizia”, quello che “sorge” può dare: lo stare nelle tenebre implica spiritualmente il non vedere, quindi incapacità di valutare, percepire, dirigersi, orientarsi. La permanenza nell’ombra della morte invece si riferisce non solo alla prospettiva certa che tutti hanno, ma ad uno stato di non illuminazione che trova nella morte l’unica prospettiva possibile. Ora se la morte, per chi vive nelle tenebre, rappresenta la fine di tutto (quindi progetti, desideri, l’essere se stessi con i propri averi), per chi è illuminato dal “Sole di giustizia” non esiste più alcuna ombra di morte, ma il passaggio dalla questa alla vita: “In verità, in verità vi dico: chi ascolta la mia parola e crede in colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita” (Giovanni 5.24).

Da notare inoltre che il sole che sorge dall’alto di cui parla Zaccaria è detto che risplende, non si limita a mandare una luce generica, non ci sono nubi a coprirlo. È una luce forte e vivida quella che investe chi ne è illuminato, per cui questi si viene a trovare in una condizione diametralmente opposta alla prima.

Non solo, ma questo sole dirige i passi su una vita particolare, quella della pace. Non c’è altra pace al di fuori di quella che solo Gesù Cristo può dare, che disse “Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Io non la do come la dà il mondo” (Giovanni 14.21). La “via della pace” non è quella della tranquillità, di uno stato mentale raggiungibile attraverso una generica meditazione o ad imitazione del Budda, che pure aveva capito molte dinamiche della psicologia umana, non implica un percorso libero né da turbamenti né da errori, ma è quella conseguente alla rappacificazione con Dio, che fa scendere sulla creatura una pace particolare, diversa: il pieno confidare in Lui e la conoscenza, la certezza di essere nelle sue mani.

A questo punto Zaccaria conclude il suo intervento e Luca inserisce questa nota: “Il bambino cresceva a si fortificava nello spirito. Visse in regioni deserte fino al giorno della sua manifestazione a Israele”. C’è qui descritto un periodo di trent’anni circa salvo altri, pochi dettagli sul come si vestiva e come si nutriva. Giovanni non frequentava le scuole rabbiniche del tempo, ma visse i silenzi del deserto e crebbe illuminato dallo Spirito Santo che lo preparò alla predicazione, fortificandosi nello spirito, quindi nella parte più profonda della sua persona, e pare molto improbabile che, come alcuni hanno supposto, fosse stato affidato alla comunità di Qumran.

Nel deserto non esistono rumori al di fuori di quello del vento, se presente. Giovanni visse così “fino al giorno della sua manifestazione a Israele”, quindi attese che Dio stesso gli rivelasse il momento di agire predicando con modalità e parole riferite in parte dai Vangeli, ma che troveremo nei profeti dell’Antico Testamento.

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01.09 – BENEDICTUS I/II (Luca 1.67-80)

01.09 – Benedictus I/II (Luca 1.67-80)

 

67Zaccaria, suo padre, fu colmato di Spirito Santo e profetò dicendo:68«Benedetto il Signore, Dio d’Israele, perché ha visitato e redento il suo popolo,69e ha suscitato per noi un Salvatore potente
nella casa di Davide, suo servo, 70come aveva detto per bocca dei suoi santi profeti d’un tempo:
71salvezza dai nostri nemici, e dalle mani di quanti ci odiano. 72Così egli ha concesso misericordia ai nostri padri e si è ricordato della sua santa alleanza, 73del giuramento fatto ad Abramo, nostro padre, di concederci, 74liberati dalle mani dei nemici, di servirlo senza timore, 75in santità e giustizia al suo cospetto, per tutti i nostri giorni. 76E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell’Altissimo perché andrai innanzi al Signore a preparargli le strade, 77per dare al suo popolo la conoscenza della salvezza nella remissione dei suoi peccati. 78Grazie alla tenerezza e misericordia del nostro Dio, ci visiterà un sole che sorge dall’alto, 79per risplendere su quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra di morte, e dirigere i nostri passi sulla via della pace». 80Il bambino cresceva e si fortificava nello spirito. Visse in regioni deserte fino al giorno della sua manifestazione a Israele”.

Sicuramente colpisce la precisazione di Luca su quest’uomo che, dopo aver ritrovato parola e udito, si espresse solo in termini atti a glorificare Dio: “fu colmato di Spirito Santo e profetizzò”. Zaccaria era un sacerdote, quindi una persona qualificata a quel tempo (anche) come mediatore tra JHWH e l’uomo che commetteva un peccato. Sappiamo che sia lui che sua moglie erano, come detto da Luca, “ambedue giusti davanti a Dio, camminando in tutti i comandamenti e leggi del Signore, senza biasimo”, ma senza l’intervento dello Spirito le sue sarebbero solo rimaste delle parole ammirevoli e sagge, buone tutt’al più come quelle utilizzate dagli “amici” venuti per consolare Giobbe dalle sue disgrazie. Invece la condizione di Zaccaria fu duplice: “ripieno di Spirito Santo” – la condizione – e “profetizzò”, che non significa predire il futuro come molti credono, ma parlare correttamente di Dio sospinti dallo Spirito, il solo che può orientare la persona e farle comprendere le verità e i piani del Signore per sé e per altri.

Per il credente sincero, nonostante gli sbagli che commette nella propria vita per la sua stessa debolezza, lo Spirito Santo è colui che può orientarlo e illuminarlo, come disse Nostro Signore ai suoi discepoli in Giovanni 14.15-17: “Se mi amate, osservate i miei comandamenti. Ed io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore, che rimarrà con voi per sempre, lo Spirito della verità che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce, ma voi lo conoscerete, perché dimora con voi e sarà in voi”.

Il cantico che segue dopo questa brevissima premessa inizia con un’espressione molto antica,

ma tutto il resto delle sue parole sono, per l’epoca e non solo, assolutamente nuove perché capiamo che, di lì a poco, Dio avrebbe adempiuto le promesse fatte agli antichi e di cui avevano parlato i profeti. La critica neotestamentaria ha visto nelle parole di Zaccaria numerosi riferimenti agli scritti dell’Antico Patto e non vede in esse nulla di eccezionale e questo può essere vero se non si considera il tempo in cui queste furono pronunciate. Il padre di Giovanni Battista è conscio che quello e non altri erano i momenti in cui il Dio di Israele stava visitando e compiendo la redenzione del suo popolo, nelle sue parole non c’è nulla pronunciato per una ritualità o convenzione, ma il visitare è per redimere o, meglio ancora secondo un’altra traduzione, “ha visitato e riscattato il suo popolo”. Il “riscattare”, per la legge di Mosè, era un’azione prevista per riavere una cosa altrimenti perduta, ma soprattutto per liberare una persona tenuta in schiavitù; ad esempio in Deuteronomio 7.8 leggiamo “…perché l’Eterno vi ama e ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri, l’Eterno vi ha fatto uscire con mano potente e vi ha riscattati dalla casa di schiavitù, dalla mano del Faraone, re d’Egitto”.

Ancora, sempre in proposito, si parla in Deuteronomio 13.5 “…vi ha redenti dalla casa di schiavitù per trascinarvi fuori dalla via nella quale l’Eterno, il tuo Dio, ti ha ordinato di camminare”. Ogni uomo di Dio ha sperimentato un Esodo nella propria vita: dai propri parenti, dal proprio mondo, dalla schiavitù di se stesso. Le azioni storiche che Zaccaria ha ben presente, fatte nella prospettiva del piano di Dio che contemplava la progenie della donna schiacciare il capo al serpente, le vede compiute sotto una prospettiva spirituale nonostante Giovanni fosse nato da otto giorni e Gesù non ancora. Zaccaria, che conosceva la storia del suo popolo, vede il visitare di Dio come un atto di pietà e non di giudizio come, ad esempio, avvenne la prima volta che “scese” per vedere la costruzione della torre in Babele: Egli, che non può mai essere neutrale, è ora venuto per redimere, cioè liberare dal peccato e dalle sue conseguenze che potevano essere constatate, allora come oggi, dalla presenza di malattie, indemoniati, dal giogo di un dominatore straniero che solo apparentemente erano i romani, ma che nella realtà spirituale simboleggiava il peccato che impediva una serena relazione con Dio. Ogni uomo, prima di conoscere Cristo, ha e avrà sempre un suo dominatore straniero, spirituale o fisico che sia.

Proseguendo nel cantico, Zaccaria riconosce che la salvezza proveniva dalla “casa di Davide suo servo, come Egli aveva dichiarato per bocca dei suoi santi profeti fin dai tempi antichi, perché fossimo salvati dai nostri nemici e da tutti coloro che ci odiano”. La traduzione letterale delle prime parole del verso non è di facile comprensione perché dice “destò un corno di salvezza per noi nella casa di Davide suo servo” per cui il suscitare una potente salvezza, per quanto rispondente a verità, oscura leggermente la comprensione di un simbolo che si trova molte volte nell’Antico Testamento, soprattutto nel linguaggio profetico. Il corno, per l’animale che lo possiede, è al tempo stesso arma offensiva e difensiva ed è espressione di potenza (da ricordare per la lettura dell’Apocalisse), per cui: “Dio ha destato – dichiarazione di avvenimento anche se i suoi effetti non si manifesteranno ancora – un corno di salvezza”,- quindi una salvezza potente e soprattutto duratura, stabile: non è un “corno” animale, naturale, ma qualcosa che proviene direttamente da Dio e che nessuno potrà mai sconfiggere.

Tornando quindi alla traduzione più comprensibile: questa salvezza, impossibile a togliersi, viene dalla casa di Davide (Maria e Giuseppe), la sola a poter garantire che quel “germoglio”, quella “progenie della donna” che avrebbe schiacciato il capo al serpente, fosse veramente Gesù Cristo. Non a caso, se la genealogia di Matteo si riferisce a Giuseppe e parte da Abrahamo, quella di Luca, riferita a Maria, risale fino ad Adamo: è il ricordo di quella promessa e del giudizio sull’Avversario. È bello vedere che Dio non si limitò a pronunciare quelle parole una volta, ma le aggiornò nel corso del tempo, ripetendole agli uomini da lui preposti a guidare il popolo con l’autorità del condottiero o del re, o a consolarlo o riprenderlo per bocca dei profeti.

Zaccaria poi considera lo scopo di tutto questo: “perché fossimo salvati dai nostri nemici e da tutti coloro che ci odiano”: qui c’è un riferimento alle promesse dell’Antico Patto che sono contemporaneamente presenti e future a prescindere dal tempo in cui vengono pronunciate. Prendiamo l’ultimo profeta, Malachia, che abbiamo citato spesso a motivo dell’ultima parola con cui si chiude l’Antico Testamento: scrisse “Poiché ecco, il giorno viene, ardente come una fornace, e tutti quelli che operano empiamente saranno come stoppia; il giorno che viene li brucerà in modo da non lasciar loro né radice né ramo. Ma per voi che temete il mio nome – solo per questi, quindi – sorgerà il sole della giustizia con la guarigione nelle sue ali e voi uscirete e salterete come vitelli di stalla. Calpesterete gli empi perché saranno cenere sotto la pianta dei vostri piedi nel giorno che io preparo, dice il Signore degli eserciti” (4.1-3).

Zaccaria, riportando le promesse degli antichi, allude alla liberazione totale dal giogo penalizzante del peccato per tutti gli uomini che l’avrebbero accolta, ma non solo: esprimendo un concetto che esporrà l’apostolo Paolo, sostiene la sconfitta del nemico per eccellenza, Satana, e da qualsiasi altra forza oscura: “Infatti io sono persuaso che né morte, né vita, né angeli, né principati, né potenze, né cose presenti, né cose future, né altezze, né profondità, né alcun’altra creatura potrà separarci dall’amore di Dio che è in Cristo Gesù, nostro Signore” (Romani 8.38).

Riflettendo sul paragone tra le due frasi possiamo dire che Zaccaria, uomo del suo tempo, proclama giunto il tempo in cui Dio ha provveduto alla “potente salvezza dalla casa di Davide suo servo” mentre il secondo, che proveniva dallo studio della Legge, fariseo zelante e profondo conoscitore della tradizione rabbinica, ci dà un aggiornamento reale e adatto alla nostra realtà di uomini che vivono in un nuovo tempo, quello della Grazia. Non solo: “A me, il minimo di tutti i santi, è stata data questa grazia di annunciare fra i gentili – quindi a noi – le imperscrutabili ricchezze di Cristo e di manifestare a tutti la partecipazione del mistero che dalle età più antiche è stato nascosto in Dio, il quale ha creato tutte le cose per mezzo di Gesù Cristo” (Efesi 3.8-10).

Un’ultima riflessione su cosa abbia voluto dire Zaccaria, che parla a un uditorio di ebrei e fonda le sue parole sulle rivelazioni profetiche giunte fino a lui, è ancora Paolo a fornirla: “Siccome per mezzo di un uomo – Adamo – è venuta la morte, così anche per mezzo di un uomo – Gesù – è venuta la resurrezione dai morti. Perché, come tutti muoiono in Adamo – perché così come concluse la sua vita noi concluderemo la nostra – così tutti saranno vivificati in Cristo. (…). Poi verrà la fine, quando rimetterà il regno nelle mani di Dio Padre, dopo avere annientato ogni dominio, ogni potestà e potenza. Bisogna infatti che egli regni finché non abbia messo tutti i nemici sotto i suoi piedi e l’ultimo nemico che sarà distrutto sarà la morte” (1 Corinti 21.26).

Arriviamo così alle parole che concludono la prima parte del cantico, “Per usare misericordia verso i nostri padri e ricordarsi del suo santo patto, il giuramento fatto ad Abrahamo nostro padre, per concederci che, liberati dalle mani dei nostri nemici, lo potessimo servire senza paura, in santità e giustizia, tutti i giorni della nostra vita”: la liberazione dalle mani dei nemici, come visto poco prima, non può essere intesa come storica poiché le vicende antiche da noi conosciute nella Bibbia, vale a dire quelle che hanno visto il popolo di Dio liberato dalla dominazione straniera, hanno sempre avuto un significato, uno stato, una conseguenza, un effetto spirituale: Israele oppresso in Egitto e liberato da Dio al mar Rosso era ed è figura dell’uomo che vive oggi in una condizione di peccato, incapace di provare sentimenti e comprensioni spirituali nel vero senso del termine. Perché noi sappiamo bene che “L’uomo naturale non riceve le cose dello Spirito di Dio perché sono follia per lui e non le può conoscere, poiché si giudicano spiritualmente” (1 Corinti 2.14). Ecco, chi vive la propria vita di tutti i giorni, perso nei propri interessi, legato al contingente perché ha inserito nel proprio animo dei valori che ritiene prioritari, “non riceve le cose dello Spirito di Dio”; può riceverne altre, tutte quelle che con Lui non hanno nulla a che fare. Non le riceve perché, alla luce dei propri valori e convinzioni scontate ed errate, “sono follia per lui”. La conseguenza è che “non le può conoscere, perché si giudicano spiritualmente”.

Ecco, quando a un uomo, o donna, è stata data l’autorità di diventare figlio di Dio, gli viene conferita un’abilitazione alla possibilità, capacità di rivedere le cose spirituali in base alla grazia che gli viene data. Da lì in poi è chiamato a servire senza paura, in santità e giustizia, tutti i giorni della propria vita oppure, secondo una traduzione dalle versioni più antiche, “tutti i nostri giorni”. Si tratta di un servizio in “santità e giustizia”, non più secondo i desideri dell’uomo vecchio, ma di quello nuovo che vede le cose secondo una prospettiva di realizzazione eterna e non umana.

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01.08 LA NASCITA DI GIOVANNI BATTISTA (Luca 1-57-66)

01.08 – Nascita di Giovanni Battista (Luca 1.57-66)

 

57Per Elisabetta intanto si compì il tempo del parto e diede alla luce un figlio. 58I vicini e i parenti udirono che il Signore aveva manifestato in lei la sua grande misericordia, e si rallegravano con lei.
59Otto giorni dopo vennero per circoncidere il bambino e volevano chiamarlo con il nome di suo padre, Zaccaria. 60Ma sua madre intervenne: «No, si chiamerà Giovanni». 61Le dissero: «Non c’è nessuno della tua parentela che si chiami con questo nome». 62Allora domandavano con cenni a suo padre come voleva che si chiamasse. 63Egli chiese una tavoletta e scrisse: «Giovanni è il suo nome». Tutti furono meravigliati. 64All’istante gli si aprì la bocca e gli si sciolse la lingua, e parlava benedicendo Dio. 65Tutti i loro vicini furono presi da timore, e per tutta la regione montuosa della Giudea si discorreva di tutte queste cose. 66Tutti coloro che le udivano, le custodivano in cuor loro, dicendo: «Che sarà mai questo bambino?». E davvero la mano del Signore era con lui.”.

La nascita di un bambino è un evento naturale, non certo qualcosa di speciale o eccezionale salvo che per i genitori che lo attendono e i loro parenti. L’episodio appena letto riporta però un’altra tappa importante verso quella che possiamo definire una “nuova creazione spirituale” di Dio in cui Lui stesso pose le fondamenta per l’apertura della nuova dispensazione della Grazia. Personalmente, a partire dall’annuncio a Zaccaria, vedo sempre tante tappe, dei passi in avanti verso questa nuova era e mi piace accostare idealmente l’immagine di Dio Padre intento a costruire con cura estrema ogni passaggio del Suo progetto esattamente come quando, creando Adamo, ideò e formò ogni suo organo, ogni osso, muscolo, tendine. Anche per la creazione stessa abbiamo delle immagini poetiche che integrano il racconto della Genesi, dalle quali traspare una cura assoluta per la realizzazione del mondo in cui l’uomo avrebbe dovuto vivere: “Quando ponevo le fondamenta della terra, tu dov’eri? Dimmelo, se sei tanto intelligente! Chi ha fissato le sue dimensioni, se lo sai, o chi ha teso su di essa la corda per misurare? Dove sono fissate le sue basi o chi ha posto la sua pietra angolare, mentre gioivano in coro le stelle del mattino e acclamavano tutti i figli di Dio?” (Giobbe 38.4-7).

Ecco, nel rispetto dei tempi naturali, Elisabetta arriva al nono mese e partorisce il bambino; per la sua nascita non vi furono né segni in cielo o in terra, ma un messaggio chiaro di speranza, dei segni intimi che pochi notarono ma, come abbiamo letto, li conservarono nel cuore. C’è una grandezza tutta particolare nel fatto che “i vicini e i parenti (…) si rallegrarono” con Elisabetta perché da come si svolgeranno i fatti vediamo che, nonostante le manifestazioni di congratulazioni e i modi che quella gente aveva per manifestarle la loro vicinanza, la presenza dei vicini di casa e dei parenti era importante perché avrebbe costituito una testimonianza degli eventi che si sarebbero verificati in quella casa.

Molto spesso nella vita di una persona capita che, per giungere a una convinzione o per avere un’illuminazione, sia necessario mettere insieme e collegare più dati; questo era ciò che il Creatore desiderava avvenisse, perché chi avesse voluto indagare criticamente su Giovanni Battista per avere un quadro chiaro su di lui e su tutti gli altri avvenimenti collegati alla sua persona, avrebbe dovuto considerare la sua storia fin dall’inizio a partire dai molti che avevano assistito, nove mesi prima della sua nascita, all’uscita di suo padre dal luogo santo: a quel tempo “Zaccaria non poteva parlare loro, allora compresero che aveva avuto una visione nel tempio” (Luca 1.22). Teniamo presente che un simile evento è impossibile che non sia stato divulgato per tutta Gerusalemme, stante la sua eccezionalità. Poi abbiamo la stirpe sacerdotale di entrambi, la gravidanza andata a buon fine nonostante la sterilità e l’età avanzata di Elisabetta; tutti eventi che, assieme ad altri che vedremo, porranno le persone in grado di collegarli e riconoscere in Giovanni un profeta diverso dai suoi predecessori non solo per il suo modo di vestire e per le parole di verità che pronunciava, ma per il suo curriculum costituito da tutte queste manifestazioni. Dio non manda mai un profeta senza credenziali.

Usanza dettata dalla tradizione voleva che un bambino venisse chiamato preferibilmente col nome del nonno, o del padre, o comunque di un parente stretto e i “vicini e parenti” che erano andati a trovare Elisabetta dopo il parto, si ripresentarono per la circoncisione del bambino, “segno” esterno dell’appartenenza al popolo eletto di Dio. In Genesi 17.12 leggiamo: “All’età di otto giorni ogni maschio tra voi sarà circonciso, di generazione in generazione tanto quello nato in casa, come quello comprato con denaro da qualunque straniero che non sia della tua discendenza”. La circoncisione quindi era il segno esteriore di appartenenza al popolo ebraico oltre che di igiene, e venne ribadito anche nella dispensazione successiva, quella della Legge: “L’ottavo giorno si circonciderà la carne del prepuzio del bambino” (Levitico 12.3).

Elisabetta però, confermando di aver compreso il piano di Dio per suo figlio e di averlo pienamente accettato, prese a dire tra lo stupore dei presenti “No, anzi, sarà chiamato Giovanni”: quando sta per iniziare un periodo nuovo, anche nella banale storia umana, lo vediamo da tanti particolari, anche dai piccoli. E ogni volta che Dio o la Sua volontà fanno irruzione nella vita dei singoli come dei tanti, succedono sempre degli avvenimenti che stravolgono la norma, l’omeostasi, la tradizione, l’abitudine. Fin dall’età di otto giorni, per bocca di sua madre prima e di suo padre poi, l’esistenza di Giovanni irrompe nel ragionare umano e spezza una consuetudine: nonostante la singolarità delle circostanze che avevano caratterizzato quella nascita, per i presenti era inconcepibile che il bambino non avesse il nome del padre o di un congiunto e infatti, convinti che Zaccaria avrebbe dato loro ragione e disprezzando evidentemente sua moglie, “con cenni domandarono al padre come voleva che egli fosse chiamato. E lui, chiesta una tavoletta, scrisse in questa maniera: «il suo nome è Giovanni»”. La “tavoletta” chiesta da Zaccaria era fatta di legno di pino sottile, ma poteva essere anche di piombo, rame o avorio a seconda di chi la usava, sopra il quale era versato uno strato di cera che poi si incideva con uno stilo di ferro.

È quindi possibile affermare che la prima parola scritta del Nuovo Testamento sia stata Giovanni, cioè “Dio è grazia”, o “Dio è benevolenza”, quando l’ultima scritta dell’Antico è “sterminio”, parola con la quale si conclude il libro di Malachia. Anche con quelle parole Zaccaria e sua moglie, come faranno Maria e Giuseppe, apporranno il loro definitivo, ufficiale benestare alla volontà del Signore che li aveva scelti come genitori del precursore di Gesù. Dio si presenta quindi, nel Nuovo Patto, con queste parole. Possiamo anche ricordare quelle con cui inizia il Vangelo di Giovanni, “Nel principio era il verbo”, presenza rilevabile in quel “facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza” (Genesi 1.26) in cui la Parola era destinata a rivelarsi nella dispensazione della grazia.

Nel momento in cui Zaccaria rivelò il nome del figlio, “la sua bocca fu aperta e la sua lingua sciolta”, e usò parole di benedizione nei confronti di Dio, ben sapendo non solo di essere stato perdonato, ma constatando anche la veridicità delle promesse alle quali non aveva creduto. Ritengo che la gioia di Zaccaria sia stata difficilmente contenibile e avrebbe potuto trovare uno sfogo umano e spirituale solo attraverso il cantico che esamineremo nel capitolo successivo. È importante sottolineare che la gioia di Zaccaria si espresse attraverso parole di profonda verità, dettate dallo Spirito Santo che lo aveva illuminato. Quell’uomo, abituato al servizio sacerdotale, a parlare e a gestire la propria vita senza particolari problemi fino al giudizio dell’angelo, era rimasto sordo e muto per circa nove mesi, pensando a quanto gli era stato detto e a chiedersene il significato; aveva senz’altro meditato sia sulla sua incredulità, sia su chi sarebbe diventato un giorno suo figlio. Quello che dirà, sarà il risultato delle sue considerazioni alla luce di quanto Dio gli aveva fatto comprendere.

Riflettendo su quanto accaduto, possiamo concludere che è solo quando un uomo sperimenta su di sé l’amore di Dio che può essere in grado di parlare di Lui, di esserne testimone: Zaccaria, e con lui chiunque ha provato su di sé gli effetti di una grazia procedente dall’Alto, poteva parlare, dire, raccontare.

Luca conclude l’episodio accennando al timore dei vicini una volta che Zaccaria concluderà il cantico; la traduzione letterale di questi due versi è: “E ci fu timore su tutti i loro vicini di casa e in tutta la regione montuosa della Giudea: tutte queste parole erano oggetto di commenti. E tutti coloro che ascoltarono se le posero nei loro cuori dicendo «Che cosa sarà dunque questo bambino?» E infatti la mano del Signore era con lui”. Qui il testo pone deliberatamente l’accento sull’attesa. Mi piace pensare questi uomini e donne che, senza una rivelazione di Dio, non capiscono quello che sta succedendo, ma s’interrogano “ponendosi nel cuore” le parole udite che “furono oggetto di commenti”: ciascuno diceva la sua, ma nessuno riusciva a trovare una spiegazione soddisfacente.

Il cuore era il posto migliore in cui custodire tanto le parole quanto la notizia dell’accaduto: quando si custodisce qualcosa lì, significa che si vuole ricordare, mettere da parte qualcosa temporaneamente in attesa che giunga il momento della rivelazione, l’occasione per capire. E il racconto di ciò che avvenne in casa di Zaccaria ed Elisabetta fu tramandato perché un giorno, se qualcuno avesse voluto indagare su Giovanni Battista, non avrebbe potuto trovare un solo punto che non lo collegasse a una missione divina.

Quel bambino, una volta divenuto adulto, non sarebbe stato un profeta come gli altri, ma colui che avrebbe dovuto indicare in Gesù “L’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo”, una definizione che avrebbe avuto bisogno di un personaggio autorevole per essere quanto meno presa in considerazione. Quando un profeta parla, per prima cosa chi lo ascolta si chiede chi sia e da dove venga, e poi con quale autorità si ponga innanzi a lui. Ebbene, di nessun profeta dell’Antico Patto è detto “Venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui” (Giovanni 1.8) e Nostro Signore parlò del Battista definendolo “Più che un profeta” qualificando il suo ruolo con: “Io vi dico in verità che fra i nati di donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni Battista, ma il più piccolo del regno dei cieli è più grande di lui” (Matteo 11.11).

Gesù disse questo per far capire la differenza tra Legge e Grazia in cui chi opera non è più un servo, ma un figlio e alla domanda “Che sarà mai questo bambino?” risponde il profeta Malachia con parole sulle quali torneremo: “Ecco, io mando il mio messaggero a preparare la via davanti a me. E subito il Signore che voi cercate entrerà nel suo tempio. L’angelo del patto in cui prendete piacere, ecco, verrà” (3.1). Ogni cosa sarebbe accaduta nel momento opportuno e, per l’episodio che abbiamo visto brevemente, quel “messaggero” era nato e avrebbe preparato “la via”, cioè preannunciato l’arrivo del Salvatore, allora in gestazione di tre mesi, in Maria.

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01.06 – MAGNIFICAT (Luca 1.46-56)

01.06 – Magnificat (Luca 1. 46-56)

 

46Allora Maria disse: «L’anima mia magnifica il Signore 47e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore, 48perché ha guardato l’umiltà della sua serva. D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata. 49Grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente e Santo è il suo nome; 50di generazione in generazione la sua misericordia per quelli che lo temono. 51Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; 52ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; 53ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote. 54Ha soccorso Israele, suo servo, ricordandosi della sua misericordia, 55come aveva detto ai nostri padri,
per Abramo e la sua discendenza, per sempre». 56Maria rimase con lei circa tre mesi, poi tornò a casa sua.
”.

 

            Gli scritti del Nuovo Patto si aprono con un inno, quello che Giovanni utilizza per l’apertura del suo Vangelo, e con il cantico di una donna, Maria. Si tratta di un avvenimento, più che di rottura con la tradizione, di completamento e di conferma del fatto che uomo e donna hanno pari dignità davanti a Dio pur se con ruoli e responsabilità diverse. Luca, che fece “ricerche accurate su ogni circostanza” (1.3) scrive questi episodi dopo averli appresi direttamente dalla madre di Gesù che, all’epoca in cui avvennero, doveva avere tra i 14 e i 17 anni. Il “Magnificat” è un canto di gioia e liberazione scaturito a seguito delle parole di Elisabetta “…e beata colei che credette che vi sarà compimento per le cose dettele dal Signore” che costituirono anche un rimprovero, neppure tanto velato, al marito che si era comportato diversamente. Per dovere di cronaca va detto che alcuni manoscritti attribuiscono il cantico ad Elisabetta, ma i contenuti veterotestamentari di cui esso è pieno indicano, a mio parere, un sentimento di liberazione e una comprensione degli eventi che poteva avere più Maria che la cugina.

Notiamo al verso 46 che si parla di “anima” che magnifica il Signore e di “spirito” che esulta, andando direttamente alla persona come essenza, al di là del corpo. Anima come ciò che è forza vitale, ma terrena, e spirito come ciò che è superiore, la vera identità dell’essere umano, ciò che va oltre ed è difficilmente comprensibile. L’anima che “magnifica il Signore” (verbo “megalùno”) implica un’idea di rafforzamento in Lui e che pertanto Lo glorifica una volta compresa una parte del mistero della sua elezione; lo spirito poi esulta “in Dio”, letteralmente “a motivo di”, escludendo un sentimento momentaneo di gioia stante la qualifica di “Salvatore” che Gli viene attribuito. Isaia in 12.2 scrive “Ecco, Dio è la mia salvezza, io avrò fiducia e non avrò paura perché l’Eterno, sì, l’Eterno è la mia forza e il mio cantico ed è stato la mia salvezza”: personalmente credo che lì i timori di Maria relativi al suo destino come donna, che abbiamo visto rischiava la lapidazione come adultera nel caso in cui Giuseppe l’avesse denunciata, cessarono. “Salvatore” perché la futura madre di Gesù si sentì, come tutti quelli prima e dopo di lei, posta al riparo, appartata per un progetto di eternità, ma anche salvata dalla condizione di essere umano peccatore: se fosse stata santa di per sé, “concepita senza peccato” come si vuole sostenere o avesse avuto dei meriti particolari salvo l’elezione di Dio, non avrebbe usato quest’espressione e Lo avrebbe qualificato in un altro modo; ricordiamo che mai una creatura spirituale pura (pensiamo agli angeli con le loro gerarchie) si è mai rivolta a YHWH chiamandolo “Salvatore”.

Maria poi si qualifica come essere umano senza far caso alla propria stirpe reale, discendendo anch’essa da Davide: sotto l’aspetto genealogico la sua condizione “umile” non lo era, ma in base alla sua umanità certamente sì. La “umile condizione” era quella in cui versano tutti gli uomini, lontani dalla Grazia e quindi dalla salvezza a meno che Lui stesso non guardi a loro avendone pietà. Altri traducono “ha riguardato alla bassezza della sua serva”, espressione che ricorda l’essenza dell’essere umano, appunto peccatore per natura e per questo incompatibile con Dio che, a Suo giudizio insondabile e insindacabile, guarda alla condizione di ciascuno e a ciascuno si propone per salvarlo.

Ecco, qui bisognerebbe sostare un attimo: la Bibbia è piena di episodi in cui Dio si rivela e spiega il Suo piano per ogni essere umano, sia questo singolo o popolo; lo ha sempre fatto a partire da quando ha creato Adamo. A volte parlò personalmente, in altre mandò degli angeli, dei messaggeri, in altre ancora utilizzò altri uomini, dei profeti. Ebbene la stessa cosa sono profondamente convinto la faccia anche oggi, anche se con modi diversi, perché viene un punto nella vita in cui l’essere si pone delle domande circa la propria origine e fine ed è lì che si pone il bivio, la libera scelta tra l’iniziare un percorso di ricerca spirituale oppure no. L’uomo di oggi non può affidarsi ad apparizioni o a rivelazioni particolari di “entità superiori” perché queste sono escluse come provenienti da Dio, come possiamo capire dalla risposta che diede Abrahamo al ricco che lo pregava di inviare Lazzaro ai suoi fratelli ad ammonirli perché non finissero anch’essi fra i tormenti: “Hanno Mosè e i profeti, ascoltino loro” (Luca 16.29).

Riguardo alla necessità di risolvere la difficile domanda del perché della nostra esistenza e soprattutto dell’oltre la morte ci sono due reazioni possibili: alcuni l’avvertono in modo talmente forte da arrivare a risolverlo, certo non da soli, altri lo soffocano e lo rimandano ancorandosi alle piccole cose che li fanno sentire importanti come il lavoro, i propri interessi, lo studio, un ruolo eventualmente “importante” nella società umana, il denaro che accumulano e che mai utilizzano a favore degli altri. Tuttavia aderire a una religione, per quanto forse appagante, non risolve la loro condizione, ma sapere che Dio può salvare e l’entrare nel Suo progetto, rivelato attraverso i secoli e le dispensazioni, certamente sì. Maria, per esempio, avrebbe potuto rispondere a Gabriele che preferiva continuare la sua vita semplice di sempre seguendo il progetto che certamente come tutti aveva per sé, ma scelse il ruolo di madre (del corpo) di Gesù: amore materno, comune a quello di tante altre donne per il periodo dell’infanzia, riflessione profonda e pressoché continua durante il Suo ministero pubblico, di profonda sofferenza alla croce e infine premio con la vita eterna.

C’è poi la sintesi “Santo è il suo nome e la sua misericordia si estende per generazioni e generazioni per coloro che lo temono”, che parte dall’essenza di Dio (la santità) e circoscrive la Sua misericordia a quanti lo temono, cioè chi ha ben presente l’impegno visto nell’imperativo “Siate santi, perché io sono santo” (Levitico 11.45). Per il cristiano questo significa meditare e mettere in pratica le parole dell’apostolo Pietro: “Come figli ubbidienti, non conformatevi alle concupiscenze del tempo passato, quando eravate nell’ignoranza, ma come colui che vi ha chiamati è santo, voi tutti siate santi in tutta la vostra condotta. Poiché sta scritto «Siate santi, perché io sono santo»” (1 Pietro 1.14-16).

Parlando della misericordia di Dio che “si estende per generazioni e generazioni per coloro che lo temono”, Maria fa riferimento alla protezione e al riguardo che Lui ha avuto nel corso del tempo che ha caratterizzato le 42 generazioni da Abrahamo fino a Cristo (Matteo 1.17).

Egli ha operato potentemente con il suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore, ha rovesciato i potenti dai loro troni ed ha innalzato gli umili. Ha ricolmato di beni gli affamati e ha rimandato i ricchi a mani vuote”: questo è un riconoscimento del lavoro di Dio nella storia da lei conosciuta: la “potenza del braccio” è un termine che si riferisce agli avvenimenti di cui fu testimone Mosè e tutto il popolo di Israele in Egitto, alla distruzione dell’esercito di quel Paese sulle rive del mar Rosso, così come la frase relativa al “rovesciamento dei potenti e all’innalzamento degli umili” può lasciar pensare alle vicende non solo dello stesso Mosè, ma anche degli altri uomini come Davide, Giuseppe figlio di Giacobbe, Daniele e lei stessa.

La dispersione dei superbi “nei pensieri del loro cuore” è interessante sia per il verbo usato che per le estensioni possibili della parola “cuore”. Il verbo greco impiegato per “disperdere” ha riferimento allo sparpagliare il grano come atto di seminare, ma anche al vagliarlo, mentre il cuore non ci parla solo dell’organo considerato la sede dei sentimenti e degli affetti, ma soprattutto di ciò che abbiamo di più caro: “Dove sarà il tuo tesoro, qui sarò anche il tuo cuore” (Matteo 6.21) e “la bocca parla di ciò che sovrabbonda nel cuore” (Luca 6.45). C’è quindi una frantumazione che attende il superbo, cioè colui che è assolutamente convinto della propria superiorità sugli altri che tratta con arroganza e disprezzo. Chi è affetto da questa patologia vede solo se stesso e i suoi interessi, quindi pensa che il mondo e il suo prossimo debbano essere al suo servizio. C’è connessione tra l’essere superbi e l’essere ricchi perché chi è ricco, salvo eccezioni, fa affidamento sulle sue sostanze che usa a proprio piacimento per soddisfarsi e le considera – come effettivamente sono per la nostra società umana – le basi su cui costruire la propria persona: la ricchezza è fondamentalmente un metodo di azioni, di sussistere; senza di essa il ricco non è nulla, tutte le sue aspettative fanno riferimento a lei. In lei e con lei si sente al sicuro e molto difficilmente attribuisce valore ad altro. “Ha rimandato i ricchi a mani vuote” implica la nullità del valore delle loro sostanze sotto la prospettiva dell’eternità: “Guai a voi, ricchi, perché già avete ricevuto la vostra consolazione” (Luca 6.24).

Maria conclude poi il proprio cantico in modo perfetto dichiarando apertamente, sotto la rivelazione dello Spirito Santo, che quello e non altri era il tempo in cui si stava per adempiere la promessa fatta “ad Abrahamo e a tutta la sua progenie per sempre”, ricordandosi delle parole che Gabriele le aveva detto in casa sua: “…e regnerà sulla casa di Giacobbe nei secoli e non ci sarà fine nel suo regno” (v.33).

A questo punto Luca annota “E Maria rimase con Elisabetta circa tre mesi, poi se ne tornò a casa sua”. Ecco, questo particolare è interessante: Maria rimane con Elisabetta, suppongo, fino a poco tempo prima che sua cugina partorisse se non addirittura fino alla nascita di Giovanni Battista (ma Luca non lo dice), cioè fino a quando la gravidanza di Maria, circa al terzo mese, stava per essere fisicamente visibile. Nulla sappiamo su come abbia trascorso questo tempo. Si può supporre che molti siano stati i dialoghi su quanto avvenuto tra lei e la cugina che era andata a trovare proprio per avere delle risposte o conferme, non senza che Zaccaria intervenisse a gesti o scrivendo su una tavoletta. E purtroppo non abbiamo, come per Beethoven, i “Konversationshefte” con gli amici che usava quando era ormai quasi completamente sordo. Mi riesce difficile pensare che la madre di Gesù si sia allontanata proprio pochi giorni prima che la cugina partorisse, senza attendere con lei quell’evento così importante. Lascio la questione aperta; certo è che tornandosene a casa sua a Nazareth Maria sapeva che avrebbe dovuto annunciare la propria gravidanza a Giuseppe, suo futuro marito. Poteva fare questo solo affidandosi alle promesse di Dio: “Non temere”. Non era un’esortazione umana come molti fanno al loro prossimo, solitamente affidandosi genericamente a un futuro che non conosono nella speranza di sollevare un animo turbato o timoroso di qualcosa: nel nostro caso e in tutti gli altri che troviamo nella Bibbia, il “Non temere” – o il “Non temiate” – proviene direttamente da Dio, presente e Signore della vita dell’uomo. Di raccontare quanto avverrà tra Maria e Giuseppe due sarà l’apostolo ed evangelista Matteo.

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