17.02 – Li amò fino alla fine (Giovanni 13.1)
1 Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine.
Come possiamo considerare dal contesto di tutto il suo Vangelo, Giovanni non ha solo scritto un’opera basata sui dialoghi e la teologia nel senso più puro del termine, ma anche di prologhi, come quello monumentale sul “principio” che troviamo nel suo primo capitolo. Qui, in un solo verso, l’evangelista sceglie sotto lo Spirito Santo di introdurre in questo modo gli avvenimenti della Cena coi discepoli e da questa breve introduzione principiano tutti gli eventi che caratterizzarono le ultime condivisioni di Gesù con i Suoi, fondatori e guide della Sua Chiesa.
Credo che questo verso, se preso parola per parola, non sia così semplice, per quanto presenti indubbiamente l’amore di Gesù per i “suoi”; potremmo chiederci ad esempio cosa significhi “prima” cioè da quanto tempo “prima” di sdraiarsi a tavola: qualche minuto, un’ora, un giorno, una settimana, o cosa? Il raccordo è alla pericope “avendo amato i suoi che erano nel mondo” e quindi, umanamente e spiritualmente parlando, dal momento in cui li chiamò, ciascuno intento nelle proprie occupazioni, e attese la loro maturazione, giorno dopo giorno fino alla discesa dello Spirito Santo e a tutte le esperienze che ne seguirono. Però, se si consideriamo i “nomi scritti nel libro della vita”, questo sentire di Gesù risale a “prima della fondazione del mondo”, quando fu istituito quel libro che solo Lui può aprire. Si tratta di un verso quindi che ha tre possibilità di lettura, umana, spirituale e di progettualità divina.
L’avverbio “prima”, infatti, ci parla dell’eternità e della preesistenza di YHWH secondo Salmo 90.2: “Prima che nascessero i monti e la terra e il mondo fossero generati, da sempre e per sempre tu sei, o Dio”; al tempo stesso il libro dei Proverbi parla della Sapienza, figura del Figlio, con queste parole: “Il Signore mi ha creato come inizio prima di ogni sua opera, all’origine” (8.22). Ricordiamo anche il verso 25, “Prima che fossero fissate le basi dei monti, prima delle colline, io fui generata”. Naturale quini arrivare a Geremia 1.5, “Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto; prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato; ti ho stabilito profeta delle nazioni”. Punto di arrivo, infine, sono le stesse parole di Gesù quando disse ai Giudei “Prima che Abrahamo fosse, io sono” (Giovanni 8.58)
È anche possibile che Giovanni abbia voluto imprimere, con il “Prima della festa di Pasqua”, una collocazione temporale e al tempo stesso una divisione fra Lui, proteso sempre più verso il Suo Sacrificio, e la gente comune per la quale quella Pasqua era una delle tante, per quanto celebrata con tradizionale devozione, come leggiamo in 11.55-57, “Era vicina la Pasqua dei Giudei e molti dalla regione salirono a Gerusalemme prima della Pasqua per purificarsi. Essi cercavano Gesù e, stando nel tempio, dicevano fra loro: «Che ve ne pare? Non verrà alla festa?». Intanto i capi dei sacerdoti e i farisei avevano dato ordine che chiunque sapesse dove si trovava lo denunciasse, perché potessero arrestarlo”.
“Sapendo che era venuta la sua ora” certo si riferisce alla croce, ma possiamo estendere questo traguardo soprattutto all’essere dato in mano agli uomini perché facessero ciò che a loro era consentito, cioè maltrattarlo, torturarlo e umiliarlo fino alla morte. È questa l’ “ora” di cui parlò a sua madre alle nozze di Cana quando, avendogli chiesto un intervento, ebbe in risposta la frase “Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora” a significare che non poteva essere soggetto al volere degli esseri umani, che qualcuno gli dicesse cosa fare o lo costringesse a subire qualsiasi cosa. E infatti sappiamo che operò il miracolo dell’acqua trasformata in vino non per intercessione di lei, ma perché rimise ogni decisione a suo figlio: “Sua madre disse ai servitori: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela»” (Giovanni 2.4,5).
L’ “ora” di cui Gesù parla è quella sì della croce e della morte, ma ancor più di ciò che è al di là, vale a dire la risurrezione e il posto di eccellenza rappresentato dalla gloria come da 12.23, “È venuta l’ora che il figlio dell’uomo sia glorificato”.
Ancora, l’intenzione di Giovanni nello scrivere questo verso è quella di farci conoscere i pensieri di Gesù in quel momento, a differenza dei Sinottici che riportano avvenimenti e discorsi che il nostro evangelista omette scegliendo di riferirne altri.
L’ “ora” di Nostro Signore fu quella del Suo Sacrificio che comprende tutti quei momenti a partire dall’arresto nell’orto a quando, dopo le parole “È compiuto” (Giovanni 19.30), disse “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Luca 23.46). Fu l’ “ora” della sofferenza estrema preceduta dall’emopoiesi, il sudare sangue, tutti elementi che non vanno visti unicamente nel loro aspetto storico, ma devono anche essere ragionati sotto un’ottica umana, alla nostra portata: il Suo identificarsi con la creatura caduta, infatti, non si è limitata a vivere provando le nostre stesse sofferenze, ma è andata oltre all’inimmaginabile perché, come già detto altre volte, il fatto che un Dio eterno prenda una forma in tutto identica alla nostra e venga a morire (e in che modo e con quali sofferenze), va oltre qualsiasi comprensione se non quella di Giovanni 3.16 che ricordiamo, “Dio ha tanto – cioè a tal punto – amato il mondo, da dare il suo unigenito figlio affinché chi crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna”.
L’ “ora” di Gesù, secondariamente, ci parla del fatto che, come noi, anche Lui ne ha avuta una, quella della morte, ed è qui ancora una volta che abbiamo una condivisione, questa volta rivoluzionaria, con la Sua creatura perché il Dio che muore è lo stesso che risorge e, così facendo, è in grado di far sì che tutti ne seguano la sorte, “…quanti fecero il bene – secondo Dio – per una risurrezione di vita e quanti fecero il male per una risurrezione di condanna” (Giovanni 5.29) perché “…renderà a ciascuno secondo le sue opere: la vita eterna a coloro che perseverando nelle opere di bene cercano gloria, onore e incorruttibilità, sdegno ed ira contro coloro che per ribellione resistono alla verità e obbediscono all’ingiustizia” (Romani 2.6-8).
Possiamo dire che l’ “ora” di Gesù abbia anche comportato il “capolavoro” dell’Avversario che finalmente ha potuto ricorrere a tutto quanto era in suo potere per “ferire al calcagno” la progenie della donna, ma la risurrezione ha costituito la naturale vittoria della potenza di Dio su di lui.
Altra considerazione: “sapendo che era giunta la sua ora” ci parla dell’enorme differenza fra Lui e l’essere umano, che ignora non solo il momento in cui dovrà lasciare questo mondo – alcuni lo possono intuire quando, ricoverati magari in un ospedale, viene loro comunicato –, ma anche il modo in cui questo avverrà. Ricordiamo le parole “L’uomo non conosce neppure la sua ora: simile ai pesci che sono presi dalla rete fatale e agli uccelli presi al laccio, l’uomo è sorpreso dalla sventura che improvvisa si abbatte su di lui” (Qoèlet 9.12).
Infine, l’ “ora” di Gesù si riferisce, come già detto in altri capitoli, ad un momento preciso, unico nel senso che prima di quella l’uomo a lui avverso non avrebbe mai potuto agire: ricordiamo Giovanni 7.30, “Cercavano di arrestarlo, ma nessuno riuscì a mettere le mani su di lui, perché non era ancora giunta la sua ora”, 8.20, “Gesù pronunciò queste parole nel luogo del tesoro, mentre insegnava nel tempio. E nessuno lo arrestò, perché non era ancora giunta la sua ora”.
“Avendo amato i suoi che erano nel mondo” ci presenta invece una realtà che testimonia l’elezione vista nel possessivo “suoi”: l’amore di Dio è verso tutti gli uomini, visti nella parola “mondo” di Giovanni 3.16, ma è nel momento in cui diventano “suoi” attraverso la nuova nascita che assumono valore direi unico perché Gli appartengono. Nel momento in cui ciò si verifica, si crea una profonda divisione perché essere “suoi” e vivere “nel mondo” crea una estrema dissonanza trattandosi di due realtà inconciliabili.
Vivere “nel mondo” non significa solo trovarsi in un territorio straniero e quindi provare disagio perché costantemente immersi in una realtà che non ci appartiene, ma subirne in un modo o in un altro le influenze perché a quel contesto anche noi appartenevamo un tempo. Vivere “nel mondo” equivale quindi ad essere sensibili, se non si indossa l’armatura di Efesi 6, ai richiami, alla mentalità che seduce vestendosi di “sani principi”, all’omologazione, ai tentativi di rendere positivo e normale ciò che non lo è.
Vivere “nel mondo” significa muoversi in un contesto globale di cui Satana è il principe che non si limita a gestire le persone, ma che prepara la sua opera più impegnativa, vale a dire quel regime totalitario che un giorno sottometterà a sé la quasi totalità delle persone e di cui vediamo l’embrione crescere ogni giorno di più. Ora essere amati da Gesù significa essere strappati da questo contesto con la consapevolezza di esserne salvati al momento opportuno.
Per quanto pronunciate in una situazione differente, valgono le parole di Giovanni 16.21-22, “La donna, quando partorisce, è nel dolore perché è venuta la sua ora; ma, quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più della sofferenza, per la gioia che è venuto al mondo un uomo. Così anche voi, ora, siete nel dolore; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno potrà togliervi la vostra gioia”.
“Avendo amato” e “lì amò fino alla fine”, poi, ci parla certo di amore e fedeltà ininterrotta, ma va oltre perché il greco “èis télos” può tradursi anche con “in un grado estremo”, “a un punto altissimo”, quindi né lui né tantomeno nessun altro avrebbe mai potuto fare di più, andare oltre. E la frase “Tutto è compito” detta alla croce, detta dal Figlio di Dio, significa proprio questo. L’amore di Gesù toccò una vetta inarrivabile per chiunque altro ed ecco perché non esiste altro nome per il quale gli uomini possano essere salvati.
Ricordiamo anche le parole “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”, che ci consentono di estendere questo amare “fino alla fine” anche a ciascuno di noi, perché siamo stati chiamati e presi da quello stesso amore. Amen.
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