14.12 – TRE PARABOLE: IL FIGLIO PRODIGO 1/4 (Luca 15.20)

14.12 – Tre parabole – 3, il figlio prodigo 1/4 (Luca 15.11-20)

 

 

11Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. 12Il più giovane dei due disse al padre: «Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta». Ed egli divise tra loro le sue sostanze. 13Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. 14Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. 15Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. 16Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. 17Allora ritornò in sé e disse: «Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! 18Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; 19non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati». 20Si alzò e tornò da suo padre.

 

L’ultima delle tre parabole esposte da Gesù quel giorno è forse quella che colpisce, più profondamente perché offre dinamiche particolari e un esempio di ciò che succede da sempre, vale a dire un carico di speranze, progetti, illusioni che svaniscono per far trovare la persona coinvolta di fronte alla dura realtà delle cose. È una parabola di completamento delle precedenti – e non solo – perché mostra l’opera dello Spirito Santo e la misericordia del Padre verso l’uomo che cade vittima della propria autonomia.

Ora la prima sottolineatura la possiamo fare sul numero due, relativo ai figli: si tratta di una cifra che abbiamo già sviluppato con esempi e che è ambigua nel senso che può indicare tanto collaborazione e sostegno reciproco, quanto rivalità, contrasto e opposizione come in questo caso: abbiamo un figlio maggiore, sempre presente nella casa e lavoratore irreprensibile (il verso 25 ci dice che “era nei campi” e il 29 “ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando”), e uno minore che, irretito dai suoi progetti e convinto di potersi gestire, chiede anticipatamente la divisione dei beni.

Va detto che la Legge obbligava la spartizione dell’eredità in percentuali precise, vale a dire che tutto veniva diviso in parti uguali di cui due andavano al primogenito e una a ciascuno degli altri figli come si legge in Deuteronomio 21.16,17.

Ciò che vi è di particolare in questa parabola è che la richiesta del figlio minore è anomala nel senso che non vi era nulla, nel codice civile ebraico, che desse la facoltà di chiedere la porzione di eredità quando il genitore era ancora in vita mentre qui non solo ciò avviene, ma abbiamo un padre che in un certo senso sacrifica una parte di ciò che ha per soddisfare i desideri del figlio minore.

La lettura del verso 13, col più giovane che “raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano” ci consente di osservare alcuni aspetti del suo carattere: quel ragazzo prende tutto ciò che è suo nel senso che il suo desiderio di indipendenza, e ancor di più la ferma convinzione di farcela da solo, giunge al punto tale da non voler lasciare nulla di proprio nella casa che lo aveva visto crescere. Ciò è indice della volontà di dare un taglio netto, non lasciando nulla di sé, fosse anche solo un ricordo; potremmo dire che nel suo gesto si può leggere una volontà di rinnegare le proprie origini, a dire “finora ho vissuto in base a ciò che gli altri si aspettavano da me, d’ora in avanti farò ciò che voglio io”, alludendo al fatto che nella casa paterna si sentiva un subordinato, una persona non libera, costretto in un lavoro che lo infastidiva.

E infatti, guardando alla seconda parte del racconto, il figlio maggiore lavorava nei campi, il padre era un uomo ricco che aveva diversi lavoranti alle sue dipendenze e, oltre all’agricoltura, si dava anche all’allevamento.

Altro elemento sulla psicologia del figlio minore lo vediamo nelle parole “partì per un paese lontano”, che vanno ad accrescere quanto detto prima sulla sua volontà di dare un taglio netto col passato. In un “paese lontano” nessuno ti conosce, quindi non solo puoi ripartire da zero a costruire la tua vita, ma puoi fare nuove amicizie, intessere nuovi rapporti anche se – attenzione – ciò che animava quella persona non era tanto costruire quanto vivere sperperando averi che erano suoi solo in apparenza. Avere un’eredità (terrena) infatti consiste nel venire in possesso di beni che altri ci hanno lasciato e per cui non abbiamo faticato.

Spiritualmente, il “partire per un paese lontano” e vivere seguendo i propri impulsi significa fare lo stesso ragionamento espresso in Giobbe 21.14: “…dicevano a Dio: «Allontànati da noi, non vogliamo conoscere le tue vie»”. Si può ricordare ancora Salmo 10.4.6 che anticipa quanto accadrà al personaggio della nostra parabola: “Nel suo orgoglio il malvagio disprezza il Signore: «Dio non ne chiede conto, non esiste!»; questo è tutto il suo pensiero. (…) Egli pensa: «Non sarò mai scosso, vivrò sempre senza sventure»”.

Sono versi scritti più di 2.500 anni da noi, eppure assolutamente attuali. Abbiamo letto “questo è tutto il suo pensiero” e si commenta da solo, è il riassunto non solo di tutte le idee e i ragionamenti della persona, ma anche della sua vita; qualunque cosa faccia, il distillato finale è quello, si riassume nella negazione dell’esistenza di Dio. E siccome chi pensa così è terribilmente superficiale, ecco che guarda il presente come se fosse eterno: nulla potrà turbare l’ “equilibrio” costruito e le preoccupazioni, gli imprevisti, le malattie riguarderanno sempre gli altri.

Asaf, il cui nome significa “Colui che raccoglie”, levita e cantore al tabernacolo, guardando l’apparente prosperare di chi vive lontano da Dio, ha scritto: “Io per poco non inciampavo, quasi vacillavano i miei passi, perché ho invidiato i prepotenti, vedendo il successo dei malvagi. Fino alla morte infatti non hanno sofferenze e ben pasciuto è il loro ventre. Non si trovano mai nell’affanno dei mortali e non sono colpiti come gli altri uomini. Dell’orgoglio si fanno una collana e indossano come abito la violenza – fisica o morale non importa –. (…) dicono: «Dio, come può saperlo? L’Altissimo, come può conoscerlo?»” (Salmo 78.2-7).

Se Asaf guarda alla vita nel presente di colui che vive lontano da YHWH (esattamente come il figlio prodigo) anche se la sua esistenza si conduce senza problemi apparenti fino alla morte, Geremia va alla radice riportando le parole di Dio e cioè che chi corre dietro al nulla diventa lui stesso un nulla (2.5), quindi pula di grano che verrà gettata nella fornace.

Così poi l’apostolo Paolo, in Tito 3.3, riassume l’esistenza del cristiano prima dell’incontro con il Cristo: “Anche noi un tempo eravamo insensati, disobbedienti, corrotti, schiavi di ogni sorta di passioni e di piaceri, vivendo nella malvagità e nell’invidia, odiosi e odiandoci a vicenda” perché, per prosperare, l’uomo inevitabilmente danneggia il proprio simile. Il raggiungimento del benessere non potrà mai soddisfare chi non è in grado di saziarsi, di “dire basta” come i tre elementi, “anzi quattro” di Proverbi 30.

 

Proseguendo nella lettura, vediamo quale fu lo stile di vita adottato dal protagonista della parabola: visse in modo dissoluto, cioè permettendosi tutto ciò che potesse soddisfare la sua carne, quindi penso al gioco, a pranzi e cene dove ingozzarsi, al sesso disordinato, tutte cose che portano in breve tempo all’esaurirsi di un patrimonio soprattutto se si tratta di una riserva che non viene mai alimentata da entrate, come in questo caso. È ancora il libro dei Proverbi ad ammonire contro uno stile di vita disordinato, in particolare dalla frequentare la “donna straniera” simbolo di corruzione perché i suoi costumi, lontani da quelli di un israelita che ha ricevuto un tipo di educazione diversa, traviano quasi senza accorgersene (e Salomone lo imparò a sue spese): “Tieni lontano da lei il tuo cammino e non avvicinarti alla porta della sua casa, per non mettere in balìa degli stranieri il tuo onore e i tuoi anni alla mercé del crudele, perché non si sazino dei tuoi beni i forestieri, e le tue fatiche non finiscano in casa di uno sconosciuto e tu non debba gemere alla fine, quando deperiranno il tuo corpo e la tua carne”. (5.11)

La caduta del figlio prodigo. Come descritta, completa il triste quadro fatto poc’anzi: l’onore di quell’uomo era stato ormai ampiamente compromesso perché si era ritrovato con un nulla in mano, i suoi beni li aveva ceduti ad altri e cominciava a deperire per cui andò da una persona che conosceva, suo compagno di bagordi e ricco, che non trovò nulla di meglio che mandarlo nei suoi campi a pascolare dei maiali. Ciò, per un ebreo, è quanto di meglio si può usare per esprimere la degradazione umana, senza contare che un appartenente ad un facoltoso e onorato casato israelita si ritrovava ad allevare maiali, in più alle dipendenze di un incirconciso, di un pagano.

Può essere spesa anche qualche parola sull’ignoto conoscente del figlio prodigo: per nulla memore dell’ “amicizia” trascorsa, lo umilia dandogli un impiego che non gli consentiva neppure di mangiare decentemente, del tipo “Va’ e cura i miei maiali” senza dargli uno stipendio se pur misero.

E tutti quelli coi quali aveva fatto feste, che avevano preso il suo denaro? Svaniti. Tutto si riassume in Proverbi 28.19 “Chi va dietro agli uomini da nulla sarà saziato di povertà”, certo sia materiale che spirituale. Si rivela allora in tutta la sua concretezza l’impossibilità di rispondere con argomenti convincenti davanti a Dio per riparare ai nostri sbagli, come in Giobbe 9.4: “come può un uomo aver ragione dinnanzi a Dio? Se uno volesse disputare con lui, non sarebbe in grado di rispondere una volta su mille. Egli è saggio di mente, potente di forza: chi si è opposto a lui ed è rimasto salvo?”.

La frase “Avrebbe voluto saziarsi delle carrube di cui si nutrivano i porci, ma nessuno gli dava nulla” rivela tutto il disinteresse dell’uomo che, costretto dalla sua limitata visione a pensare solo a se stesso, non si cura dei suoi simili.

Il passo “Chi coltiva la sua terra si sazia di pane, chi insegue chimere si sazia di miseria” (Proverbi 28.19 credo sia utile per introdurre i pensieri che a un certo punto iniziano a sorgere nel cuore del protagonista della parabola: prima leggiamo che “ritornò in sé”, fatto non così comune quanto possa sembrare, perché alcuni persistono nel proprio stato di errore indipendentemente dalle sofferenze che provano. Questa persona, però, guarda alla sua condizione con obiettività e ripensa al proprio passato ricordando non tanto se stesso, ma i dipendenti del padre che avevano “pane in abbondanza, mentre qui io muoio di fame!” (v.17). Poteva ricordarsi dei privilegi che il padre gli concedeva, ma non lo fa; piuttosto collega la differenza che intercorreva fra la sua posizione di lavorante coi maiali e quella degli altri, i dipendenti di suo padre, che vivevano nella dimora che aveva lasciato. A proposito del “ritornò in sé” c’è chi ha ipotizzato che il “pianto e stridore di denti” delle anime perdute sarà causato proprio dal fatto che “torneranno in loro” quando il tempo dato per pentirsi sarà scaduto una volta per sempre. E certo non è un pensiero sbagliato.

Si tratta di un percorso che ci anticipa il profeta Geremia in due passi che illustrano molto bene come avviene il pentimento in un certo senso “costrittivo”: “La tua stessa malvagità ti castiga e le tue ribellioni ti puniscono. Renditi conto e prova quanto è triste e amaro abbandonare il Signore, tuo Dio, e non avere più timore di me” (2.19), questo perché Dio aspetta sempre il pentimento di chi lo ha abbandonato, o del peccatore. Infatti: “Mi hai castigato e ho subìto il castigo come un torello non domato. Fammi tornare e io ritornerò, perché tu sei il Signore, mio Dio. Dopo il mio smarrimento, mi sono pentito; quando me lo hai fatto capire, mi sono battuto il petto, mi sono vergognato e ne provo confusione, perché porto l’infamia della mia giovinezza” (31.18,19).

Dalla lettura dei pensieri di quest’uomo possiamo rilevare qualcosa di singolare che denota il suo pentimento, cioè che non desidera tornare a casa per rioccupare il posto di prima, convinto di averlo perduto, ma di avere un posto da dipendente: “Padre, ho peccato davanti al Cielo – quindi davanti a Dio – e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio, trattami come uno dei tuoi salariati”. Da queste parole vediamo che non tanto andandosene da casa sua, ma vivendo come ha vissuto aveva “peccato davanti al cielo”, cioè dimenticato deliberatamente gli insegnamenti che gli erano stati impartiti, compresi i versi che abbiamo citato, visto che sono sempre stati fatti rimandi agli scritti dell’Antico Patto.

L’ultimo verso, “Si alzò e tornò da suo padre”, rende già operativo il pentimento: si alza, come aveva fatto prima dell’abbandonare la casa paterna, ma con tutt’altro intento. Si alza e parte: non aveva nulla da prendere con sé, solo i vestiti che aveva, sporchi, logori, ben diversi da quelli che aveva fino a qualche tempo prima, quanto non sappiamo perché ciò che importa non è il tempo che passa, ma le decisioni che si prendono. Sono questi vestiti che saranno l’emblema, il marchio temporaneo del suo fallimento, oltre a costituire testimonianza di un’esistenza condotta in modo sbagliato.

Infine, possiamo anche osservare che, nella sua decisione di tornare, quest’uomo manca completamente il timore di venire respinto: credo che l’importante per lui fosse tornare, dire al padre ciò che aveva da dire e poi rimettersi alle sue decisioni. Questo è importante perché ci mette in grado di capire che, quando si vuole avere riscatto da un errore commesso, c’è un solo percorso da seguire e cioè confessare il peccato senza giustificazioni o enfatizzazioni di sorta: “Ho peccato contro il cielo e contro di te” sono parole che riassumono un’esistenza sbagliata spesa in non sappiamo quanto tempo, ma certamente non poco.

Per questa persona il pentimento fu generato dal constatare la degradazione obiettivamente raggiunta e i suoi effetti, e la stessa cosa può avvenire anche per noi perché sono convinto che la parabola del figlio prodigo riguardi tutti, credenti compresi, soggetti a sbagliare e a rivendicazioni di autonomia soprattutto nel tempo della loro giovinezza in fede quando, per ignoranza, presunzione o mancata assimilazione per esperienza dei principi che vengono a conoscere, a un certo punto decidono di partire, convinti di poter sussistere. Sappiamo però che Gesù già disse ai suoi “Senza di me non potete far nulla”. Amen.

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13.29 – TU, CHE SEI UOMO, TI FAI DIO (Giovanni 10.31-42)

13.29 – Tu, che sei uomo, ti fai Dio (Giovanni 10.31-42) 

 

31Di nuovo i Giudei raccolsero delle pietre per lapidarlo. 32Gesù disse loro: «Vi ho fatto vedere molte opere buone da parte del Padre: per quale di esse volete lapidarmi?». 33Gli risposero i Giudei: «Non ti lapidiamo per un’opera buona, ma per una bestemmia: perché tu, che sei uomo, ti fai Dio». 34Disse loro Gesù: «Non è forse scritto nella vostra Legge: Io ho detto: voi siete dèi? 35Ora, se essa ha chiamato dèi coloro ai quali fu rivolta la parola di Dio – e la Scrittura non può essere annullata -, 36a colui che il Padre ha consacrato e mandato nel mondo voi dite: «Tu bestemmi», perché ho detto: «Sono Figlio di Dio»? 37Se non compio le opere del Padre mio, non credetemi; 38ma se le compio, anche se non credete a me, credete alle opere, perché sappiate e conosciate che il Padre è in me, e io nel Padre». 39Allora cercarono nuovamente di catturarlo, ma egli sfuggì dalle loro mani.

 

            Il “Di nuovo” iniziale si raccorda concettualmente a 8.59 quando Gesù, una volta che disse “Prima che Abrahamo fosse, io sono”, subì un tentativo di lapidazione da parte degli stessi oppositori che compaiono in questo episodio, che “Allora raccolsero delle pietre per gettarle contro di lui, ma Gesù si nascose e uscì dal tempio”.

Soffermiamoci allora su questa reazione, ancora una volta dovuta alla comprensione parziale del Suo messaggio: se allora i Giudei furono pronti a recepire il senso dell’ ”Io sono”, fanno altrettanto con le parole “Io e il Padre siamo una cosa sola”, ignorando totalmente tutti gli altri elementi che erano stati presentati alla loro attenzione. Infatti leggiamo al verso 32 “Vi ho fatte vedere molte opere buone da parte del Padre: per quale di esse volete lapidarmi?”; le “opere buone”, greco kalà èrga cioè opere moralmente belle, nobili, eccellenti, non erano solo i Suoi miracoli, ma tutte quelle opere che dimostravano la benignità di Dio e che l’apostolo Pietro, parlando in casa del centurione Cornelio, riassunse con queste parole: “Voi sapete ciò che è accaduto in tutta la Giudea, cominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni; cioè come Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nazaret, il quale passò beneficiando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui” (Atti 10.37,38). Abbiamo allora nelle parole di Pietro un doppio riferimento: da un lato la guarigione dalle malattie del corpo, dall’altro il risanare “tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo”, quindi dell’Avversario che non poté far nulla nel momento in cui le anime di costoro furono strappate dal suo dominio.

Tra l’altro, se Dio non avesse consacrato “in Spirito Santo e potenza Gesù di Nazararet”, egli non avrebbe certo potuto fare alcunché, sarebbe cioè stato un singolare filosofo, un predicatore morale come tanti, ma senza lo Spirito Santo non avremmo avuto un solo miracolo; al contrario, dal primo – per quanto ne sappiamo – delle nozze di Cana alla Sua resurrezione e ascensione al cielo, abbiamo tutta una serie di attestazioni a riprova delle Sue frasi relative all’identificazione col Padre, compresa quella che abbiamo letto oggi, “Io e il Padre siamo una cosa sola”.

Prestiamo ora attenzione alla risposta dei Giudei alla domanda di Gesù “per quale di esse – opere buone come visto poco sopra – volete lapidarmi?”: “Non ti lapidiamo per un’opera buona, ma per una bestemmia: perché tu, che sei uomo, ti fai Dio” (v.33). Ora è singolare che quei Giudei fossero tutti unanimi nel ritenere Gesù un uomo, ma al tempo stesso il loro stesso sguardo era atrocemente chiuso di fronte alle opere che faceva, impossibili ad una persona comune per cui, definendolo esclusivamente “uomo”, cioè separandolo dal Suo essere Dio, a bestemmiare erano proprio loro.

Altra riflessione può essere fatta sulla bestemmia, reato previsto da Levitico 24.13-16 che i Giudei volevano accollare a Nostro Signore: “Il Signore parlò a Mosè dicendo: «Conduci quel bestemmiatore fuori dell’accampamento; quanti lo hanno udito posino le mani sul suo capo e tutta la comunità lo lapiderà». Parla agli israeliti dicendo: «Chiunque maledirà il suo Dio, porterà il peso del suo peccato. Chi bestemmia il nome del Signore dovrà essere messo a morte: tutta la comunità lo dovrà lapidare. Straniero o nativo della terra, se ha bestemmiato il Nome, sarà messo a morte”. Queste parole uscirono dal Signore perché, a seguito di una lite sorta fra un egiziano e un israelita, quest’ultimo “bestemmiò il Nome, imprecando”.

Ora confrontiamo la bestemmia intesa come imprecazione a Dio e un’altra, ben più grave, che è contro lo Spirito Santo, perché proprio Gesù disse in proposito “Qualunque peccato e bestemmia verrà perdonata agli uomini, ma la bestemmia contro lo Spirito Santo non verrà perdonata” (Matteo 12.31): la bestemmia contro lo Spirito Santo consiste nel rifiuto della Verità per essere salvati impedendo al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo di agire. Riconoscendo Gesù solo come “uomo” escludendo che potesse essere qualcosa di più nonostante le manifestazioni da Lui prodotte, ecco che quei Giudei mettevano in pratica la “bestemmia” che “non verrà perdonata”.

Riconoscere Gesù come “il Cristo, il Figlio dell’Iddio vivente” implica la realizzazione della Sua promessa in Matteo 10.32: “Chi mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli”; invece si può sostenere che limitarsi ad accettare Gesù come personaggio storico, uomo saggio o semplice profeta conservando quest’opinione fino alla fine, equivale a mettere in atto la bestemmia contro lo Spirito Santo, che poi è il resistere alla Sua opera ignorandola deliberatamente. Marco 3.28 aggiunge in proposito che “chi avrà bestemmiato contro lo Spirito Santo non sarà perdonato in eterno: è reo di colpa eterna”.

Confrontando le parole dei Giudei con quelle di Pietro, che riconobbe in Gesù “Il Cristo, il figlio del Dio vivente”, vediamo una definizione perfetta; una lode e benedizione migliore non era possibile ed infatti “Tu sei beato Simone, figlio di Giona, perché né la carne né il sangue ti hanno rivelato questo, ma il Padre mio che è nei cieli” (Matteo 16.17). In quell’occasione Pietro, dal carattere irruento, energico, pronto agli interventi drastici e risolutori, rinunciò ad ascoltare se stesso e permise al Padre di parlargli, al contrario di quanto avverrà più avanti, quando negherà di conoscere il suo Maestro, rinnegandolo.

 

A questo punto, tornando al nostro episodio, abbiamo la riposta di Nostro Signore al verso  34 che chiama in causa la “vostra Legge”, riferendosi alle Scritture dell’Antico Patto, in particolare Salmo 82.6 quando, parlando ai giudici e magistrati d’Israele, Dio aveva detto “Voi siete dèi, siete tutti figli dell’altissimo, ma certo morirete come ogni uomo, cadrete come tutti i potenti”. È interessante notare poi che in Esodo 21.6 e 22.8 viene usato, per indicare queste persone, l’Ebraico Elohim e Adonai. Quindi “dèi” in quanto rappresentanti di Dio sulla terra che verranno comunque da Lui vagliati e soggetti a morire “come ogni uomo”.

E qui la realtà che ci si pone innanzi si fa “pesante”: anche coloro che stavano giudicando Gesù reo di bestemmia perché, “essendo uomo”, si faceva “uguale a Dio” erano “dèi” nei senso che ricoprivano una funzione elevata presso il popolo; erano responsabili della sua istruzione, conduzione e del giudicare al posto loro. Capiamo? Avrebbero conosciuto il Giudizio in quanto, come “dèi” andavano contro a Colui che li aveva ordinati in tal senso.

Possiamo ampliare questo concetto anche a tutte le epoche e non solo per quanto riguarda l’àmbito di chi è chiamato a gestire la Parola di Dio in base al dono ricevuto: ricordando Romani 13.1, “Ciascuno sia sottomesso alle autorità costituite. Infatti non c’è autorità se non da Dio: quelle che esistono sono stabilite da Dio”, vediamo che è Lui che le ha volute, ma sta poi a chi esercita il potere restare fedele alla Costituzione e alle leggi di uno Stato oppure no. Certo ci troviamo di fronte a un tema che andrebbe sviluppato e che qui mi limito ad accennare unicamente come riferimento.

Al verso 35 abbiamo quindi la domanda al riguardo: la stessa Scrittura chiama “dèi” degli uomini perché hanno ricevuto da Dio l’incarico di amministrare la giustizia (e non solo): se quindi chiama “dèi” uomini comunque peccatori come gli altri, che si dovrebbe dire di Lui, quando al Suo battesimo fu udita la voce “Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento”? (Matteo 3.17).

Altra ragione di riflessione la individuiamo nella pericope “la Scrittura non può essere annullata”, che va oltre al semplice fatto che essa non può che dire il vero e non contraddirsi: è anche un riferimento a tutto ciò che il Padre ha stabilito e comunicato agli uomini attraverso i profeti, per cui tutte le tappe del percorso di redenzione per quanti Lo avrebbero accolto e perdizione per tutti gli altri; nel nostro caso ricordiamo Giovanni 12.37-41: “Sebbene avesse compiuto segni così grandi davanti a loro, non credevano in lui, perché si compisse la parola della dal profeta Isaia: »Signore, chi ha creduto alla nostra parola? E la forza del Signore, a chi è stata rivelata?». Per questo non potevano credere, poiché ancora Isaia disse: «Ha reso ciechi i loro occhi e duro il loro cuore, perché non vedano con gli occhi e non comprendano con il cuore e non si convertano e io li guarisca!». Questo disse Isaia perché vide la sua gloria e parlò di lui. Tuttavia, anche fra i capi, molti credettero in lui, ma a causa del farisei, non lo dichiaravano, per non essere espulsi dalla sinagoga; Amavano infatti la gloria degli uomini più che la gloria di Dio”.

Ricordiamo anche il “Tutto è compiuto” di Gesù quale dichiarazione che tutto ciò che la Scrittura aveva detto di Lui era stato adempiuto: “Dopo questo, sapendo che ormai tutto era compiuto, affinché si compisse la Scrittura, disse: «Ho sete». Vi era lì un vaso pieno di aceto; posero perciò una spugna, imbevuta di aceto, in cima a una canna e gliela accostarono alla bocca. Dopo aver preso l’aceto,  Gesù disse: «È compiuto!». E, chinato il capo, consegnò lo spirito”.

Ora, proprio perché tutto il suo esistere umano fosse riconoscibile fin nello “iota”, citiamo Salmo 69.22, “Mi hanno messo veleno nel cibo e quando avevo sete mi hanno dato aceto” (Salmo 69.22. Ecco perché “la Scrittura non può essere annullata”.

L’ultimo messaggio di Gesù ai suoi oppositori è chiaro perché li mette nella condizione di capire che non avevano motivo per non credere se non per puro rifiuto alla Parola: “Se non compio le opere del Padre mio – quindi se sono un impostore privo di qualsiasi autorità – non credetemi; ma se le compio, anche se non credete a me, credete alle mie opere – non solo ai miracoli – perché sappiate e conosciate che il Padre è in me, e io nel Padre”.

Niente di più logico. E infatti saranno altri, obiettivamente, a constatare quanto Gesù disse: il racconto del capitolo 10, dopo la Sua mancata lapidazione, prosegue con queste parole.

 

“Ritornò quindi nuovamente al di là del Giordano, nel luogo dove prima Giovanni battezzava, e qui rimase. Molti andarono da lui e dicevano: «Giovanni non ha compiuto nessun segno, ma tutto quello che Giovanni ha detto di lui era vero». E in quel luogo molti credettero in lui.”

 

Amen.

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13.28 – NON FATE PARTE DELLE MIE PECORE (Giovanni 10.23-30)

13.28 – Non fate parte delle mie pecore (Giovanni 10.23-30)       

 

23Gesù camminava nel tempio, nel portico di Salomone. 24Allora i Giudei gli si fecero attorno e gli dicevano: «Fino a quando ci terrai nell’incertezza? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente». 25Gesù rispose loro: «Ve l’ho detto, e non credete; le opere che io compio nel nome del Padre mio, queste danno testimonianza di me. 26Ma voi non credete perché non fate parte delle mie pecore. 27Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. 28Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. 29Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. 30Io e il Padre siamo una cosa sola».

 

            Dato uno sguardo, inevitabilmente a grandi linee, ciò che stava dietro alla “festa della Dedicazione”, arriviamo ora all’incontro di Lui con “i Giudei”, termine che sappiamo alludere all’autorità religiosa del popolo. Dalla prima parte del verso 24 vediamo prima di tutto che costoro diedero prova di ciò che li animava con “gli si fecero attorno”, cioè lo circondarono, quindi mettendosi a cerchio, con l’intenzione di intimidirlo precludergli qualsiasi possibilità di sottrarsi al confronto. Questo consente anche a un lettore attento, ma privo di conoscenza sulle dinamiche instauratesi fra loro e Gesù negli episodi precedenti, di escludere che la domanda rivolta fosse dettata da un sincero desiderio di conoscenza, celante quasi una supplica affinché fosse rimosso una volta per tutte il germe del dubbio.

Ecco allora che quel “diccelo apertamente”, unito al fatto che Lo avevano circondato, può essere parafrasata in “Di qui non ti muovi fino a quando non ci hai detto chi sei veramente”, cioè “una volta per tutte, senza giri di parole”. E la risposta di Gesù fu indiretta, un’accusa alla loro intelligenza, quindi all’anima e al conseguente spirito che li abitava, che non aveva memoria di quanto già avvenuto, “Ve l’ho detto, e non credete”, riferentesi a dichiarazioni private e pubbliche.

Riguardo a queste ultime, ricordiamo quella dopo la guarigione del paralitico di Betesda, dopo la nota di Giovanni “per questo i Giudei cercavano ancor più di ucciderlo, perché non soltanto violava il sabato – secondo loro –, ma perché si faceva uguale  Dio”: “In verità, in verità io vi dico: il Figlio da se stesso non può fare nulla, se non ciò che vede fare dal Padre; quello che egli fa, lo fa anche il Figlio, gli manifesta tutto quello che fa e gli manifesterà opere ancora più grandi di queste, perché voi ne siate meravigliati. Come il Padre risuscitai morti e dà la vota, così anche il Figlio dà la vita a chi vuole, (…) chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va in contro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita. (…) Viene l’ora in cui tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la sua voce ed usciranno, quanti fecero il bene – credendo – per una risurrezione di vita e quanti fecero il male – vivendo escludendo Dio dalla loro vita – per una risurrezione di condanna” (5.19-30).

Abbiamo poi 7.33,34: “Ancora per poco tempo sono con voi; poi vado da colui che mi ha mandato. Voi mi cercherete e non mi troverete; e dove sono io, voi non potete venire”, che provocò la domanda “Dove sta per andare costui, che noi non potremo trovarlo? Andrà forse da quelli che sono dispersi fra i Greci e insegnerà ai Greci?”. Qui va tenuto presente che Gesù non parla a dei pastori o contadini ignoranti, ma alle guide del popolo che avrebbero dovuto, per la conoscenza che possedevano, capire il senso di quelle parole mentre restarono prigionieri del proprio letteralismo. Potere, ma non volere.

Ancora, ricordiamo quando disse “Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita” (8.12, “Vi ho detto che morirete nei vostri peccati: se infatti non credete che Io Sono, morirete nei vostri peccati. Voi siete di quaggiù, io sono di lassù; voi siete di questo mondo, io non sono di questo mondo” (vv.23,24), “Se Dio fosse vostro padre, mi amereste, perché da Dio sono uscito e vengo; non sono venuto da me stesso, ma lui mi ha mandato” (v. 42).

Allora, se queste parole fossero state analizzate da menti aperte alla Verità, sarebbero state comprese, ma così non fu. E infatti Gesù “apertamente” aveva parlato e, a riprova del fatto che ciò che diceva era diretto al cuore delle persone che lo ascoltavano, ricordiamo quanto dissero quelli mandati ad arrestarlo, “nessuno parlò mai come quest’uomo” (7.46), mettendo in pratica l’invito “chi ha orecchie per ascoltare, ascolti”.

Vediamo però che nella risposta di Gesù non viene chiamata in causa solo la cattiva memoria dei Giudei, che avevano dimenticato le Sue parole né erano stati in grado di fare i debiti collegamenti, ma il loro ostinato negare i fatti, cioè: “le opere che io compio nel nome del Padre mio, queste danno testimonianza di me” e in proposito furono innumerevoli.

Qui allora chiedersi come mai i Giudei non credettero, non si arresero di fronte all’evidenza, è fuori luogo perché Gesù stesso interviene a risolvere il problema: “Voi non credete perché non siete delle mie pecore”, rimandando al suo insegnamento sul “buon pastore” che aveva dato precedentemente, ai versi da 1 a 14 ci abbiamo già esaminato. Non essere delle sue pecore implica, come nella realtà pratica, indifferenza, estraneità al gregge. Una pecora segue solo il pastore cui appartiene, non seguirà mai un altro. Abbiamo, in altri termini, un principio di incompatibilità: ai Giudei, appartenendo ad un altro, era preclusa qualsiasi possibilità di comprensione.

Nell’occasione citata erano stati chiaramente esposti i principi delle pecore che riconoscono la voce del pastore, di cui consapevolmente o inconsapevolmente erano alla ricerca e sapevano di avere bisogno. È interessate la presenza di una piccola aggiunta, presente in altre versioni, che aggiunge a “Voi non credete perché non siete delle mie pecore”, “come vi ho detto”, quindi anche qui si rileva che Gesù non poteva fare alcunché per distoglierli dalla loro incredulità e dai loro cattivi propositi.

E l’apostolo Giovanni, che riporta le Sue parole, le estende anche alla predicazione di ogni discepolo di Gesù: “Voi siete da Dio, figlioli, e avete vinto il mondo. Essi sono del mondo, perciò insegnano cose del mondo e il mondo li ascolta. Noi siamo da Dio: chi conosce Dio ascolta noi; chi non è da Dio non ci ascolta. Da questo noi distinguiamo lo spirito della verità e lo spirito dell’errore” (Ia 4.4-6). Questo spirito, tanto della verità quanto dell’errore, è quello che abita le persone, resta, le rende schiave in un modo o in un altro accompagnandoli e assistendoli fino alla destinazione finale perché tutti gli uomini hanno un cammino, tutti condividono lo stesso spazio sulla terra, ma seguono itinerari profondamente diversi, il loro credere è profondamente opposto, separato da un abisso, lo stesso della parabola del ricco e del povero Lazzaro.

Venendo ora alle caratteristiche delle pecore appartenenti al gregge di Gesù, vediamo che “Ascoltano la mia voce”: dove l’ascolto equivale alla messa in pratica. Si nutrono di essa. L’ascolto è dettato dal desiderio di crescere, dalla volontà di essere condotti, certezza e conferma di vita e appartenenza perché “Io le conosco ed esse mi seguono”. Se guardiamo un gregge, stupisce la naturalezza con la quale questo segue il pastore, coadiuvato dal cani, e ubbidisce. C’è un rapporto reciproco che riguarda la vita tanto degli animali che del pastore. In proposito, nonostante per diverse volte ci siamo soffermati ad esaminare il carattere ed il modo di vivere della pecora, non ho mai accennato alla tosatura, che avviene una volta all’anno e mette al riparo l’animale da malattie e dalla morte perché la crescita del pelo, che non si ferma mai, la porterebbe alla paralisi e quindi al decesso. C’è quindi bisogno dell’intervento del pastore, è una realtà che se viene a mancare porta a conseguenze terribili.

Quindi, con le parole di Gesù, abbiamo una prima parte in cui tre verbi, ascoltare, conoscere e seguire descrivono una prima caratteristica del rapporto intercorrente tra i credenti ed il loro Salvatore.

Vi è poi un secondo livello, spirituale, che li accompagnerà per tutta la vita e con l’apertura di una prospettiva certa per l’eternità, quando i confini-prigioni del corpo e del tempo verranno abbattuti: “Do loro la vita eterna”, dono gratuito che nessun altro potrebbe dare. “Non andranno perdute in eterno”, cioè mai, perché sappiamo che per tutti coloro che non apparterranno al gregge di Dio la “perdizione” sarà qualcosa di concreto quindi quel “in eterno” possiamo intenderlo certamente come rilevato, ma anche come una contrapposizione ai molti che, non avendo il proprio nome scritto nel libro della vita, si perderanno per sempre.

Sempre su questo secondo livello abbiamo il perché nessuno di quelli che appartengono a Gesù si potrà mai perdere: “Nessuno le strapperà dalla mia mano”, principio spiegato mirabilmente dall’apostolo Pietro con queste parole: “Sia benedetto Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che nella sua grande misericordia ci ha rigenerati, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza viva, per un’eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce. Essa è conservata nei cieli per voi, che dalla potenza di Dio siete custoditi mediante la fede, in vista della salvezza che sta per essere rivelata nell’ultimo tempo”.

Le ultime parole del nostro passo sono un collegamento al Padre, proprio come Pietro nel passo precedente ha messo a fuoco: le pecore non possono essere strappate dalla mano del Figlio perché è Lui che porta il sigillo del Padre e, essendo “la stessa cosa”, è impossibile combatterlo e vincere.

Infine, non è possibile appartenere a Gesù senza appartenere anche al Padre ed è per questo che il credente è un tutt’uno con entrambi; se così non fosse non saremmo “più stranieri e avventizi, ma concittadini dei santi e membri della famiglia di Dio”, non potremmo entrare al gran convito né essere partecipi dei “Nuovi cieli e nuova terra ove dimora stabile la giustizia” che ci rigetterebbe altrimenti “fuori, dove vi sarà pianto e stridore di denti”.

Infine, “Io e il Padre siamo una cosa sola”, frase mediante la quale Nostro Signore dichiara che nessun altro al di fuori di Lui può parlare in proposito: è la “Parola che si è fatta carne e venne ad abitare in mezzo a noi”, che “a quanti lo hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio”.  E possiamo concludere queste riflessioni citando una parte della preghiera di Gesù al Padre per i discepoli e i futuri credenti: ”…Ho manifestato il tuo nome agli uomini che mi hai dato dal mondo – gli ekkletoi, i chiamati fuori  –. Erano tuoi e li hai dati a me, ed essi hanno osservato la tua parola. Ora essi sanno che tutte le cose che mi hai dato vengono da te, perché le parole che hai dato a me io le ho date a loro. Essi le hanno accolte e sanno veramente che sono uscito da te e hanno creduto che tu mi hai mandato. Io prego per loro, non prego per il mondo, ma per coloro che tu mi hai dato, perché sono tuoi.” (Giovanni 17.6-9).

Come sua proprietà dobbiamo quindi comportarci, nell’attesa del Suo ritorno. Amen.

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13.27 – ANTIOCO EPIFANE (FINE) (Giovanni 3.27)

13.27 –Antioco Epifane (fine) (Giovanni 10.22)   

 

22Ricorreva allora a Gerusalemme la festa della Dedicazione. Era inverno.

 

            Siamo così giunti all’ultima parte del percorso su Antioco IV, di cui Daniele descrive la fine con un verso già citato nello scorso capitolo: “Continuai a guardare a causa delle parole arroganti che quel corno proferiva, e vidi che la bestia fu uccisa e il suo corpo distrutto e gettato a bruciare nel fuoco. Alle altre bestie fu tolto il potere e la durata della loro vita fu fissata fino a un termine prestabilito” (7.11-12). Daniele continua a guardare. È impossibile per lui distogliere lo sguardo dagli avvenimenti che gli vengono mostrati non perché vuole “vedere come va a finire” come se fosse un film o un appassionante episodio di una serie televisiva, ma perché desideroso di partecipare in Spirito alla vittoria finale di Dio, contemplare il Suo giudizio e il riscatto dei Suoi santi. In altri termini, vuole constatare fino a quando alla bestia e al corno verrà concesso di operare, oltre a quando e come si verificherà la sua capitolazione.

            Quindi, nelle “parole arroganti che quel corno proferiva” abbiamo tanto i suoi decreti quanto le azioni, i fatti rovinosi per il popolo d’Israele che abbiamo descritto, ma non ci può sfuggire il fatto che a venire uccisa è la “bestia” e non il “corno”. In realtà l’una non può esistere senza l’altro perché la “bestia” è il sistema e il “corno” il suo artefice, il suo rappresentante.

La “bestia”, a prescindere dall’epoca in cui si manifesta, non può esistere senza sostenitori, progettisti o delegati e con lo scorrere dei secoli cambierà pelle, sembianze, ma sarà sempre e solo di provenienza satanica nell’attesa che compaia il sistema che sarà il suo capolavoro, quello finale, degli ultimi tempi, che sarà peggiore di tutti gli altri e di cui ogni credente attento ne vede già le sembianze e lo stato avanzato dei lavori. Le basi, infatti, sono gettate da tempo.

            Nei versi riportati vediamo che c’è una “bestia” che viene distrutta e che alle “altre bestie fu tolto il potere e la durata della loro vita fu fissata fino a un termine prestabilito”. Morto Antioco IV, muore anche il sistema che aveva costruito. La cronaca di 1 Maccabei 6 riporta così: 1Mentre il re Antioco percorreva le regioni settentrionali, sentì che c’era in Persia la città di Elimàide, famosa per ricchezza, argento e oro; 2che c’era un tempio ricchissimo, dove si trovavano armature d’oro, corazze e armi, lasciate là da Alessandro, figlio di Filippo, il re macèdone che aveva regnato per primo sui Greci. 3Allora vi si recò e cercava di impadronirsi della città e di depredarla, ma non vi riuscì, perché il suo piano fu risaputo dagli abitanti della città, 4che si opposero a lui con le armi; egli fu messo in fuga e dovette ritirarsi con grande tristezza e tornare a Babilonia. 5Venne poi un messaggero in Persia ad annunciargli che erano state sconfitte le truppe inviate contro Giuda. 6Lisia si era mosso con un esercito tra i più agguerriti, ma era stato messo in fuga dai nemici, i quali si erano rinforzati con armi e truppe e ingenti spoglie, tolte alle truppe che avevano sconfitto, 7e inoltre avevano demolito l’abominio da lui innalzato sull’altare a Gerusalemme, avevano cinto di alte mura, come prima, il santuario e Bet-Sur, che era una sua città. 8Il re, sentendo queste notizie, rimase sbigottito e scosso terribilmente; si mise a letto e cadde ammalato per la tristezza, perché non era avvenuto secondo quanto aveva desiderato. 9Rimase così molti giorni, perché si rinnovava in lui una forte depressione e credeva di morire. 10Chiamò tutti i suoi amici e disse loro: «Se ne va il sonno dai miei occhi e l’animo è oppresso dai dispiaceri. 11Ho detto in cuor mio: in quale tribolazione sono giunto, in quale terribile agitazione sono caduto, io che ero così fortunato e benvoluto sul mio trono! 12Ora mi ricordo dei mali che ho commesso a Gerusalemme, portando via tutti gli arredi d’oro e d’argento che vi si trovavano e mandando a sopprimere gli abitanti di Giuda senza ragione. 13Riconosco che a causa di tali cose mi colpiscono questi mali; ed ecco, muoio nella più profonda tristezza in paese straniero». 14Poi chiamò Filippo, uno dei suoi amici, lo costituì reggente su tutto il suo regno 15e gli diede il diadema, la sua veste e l’anello, con l’incarico di guidare Antioco, suo figlio, e di educarlo a regnare. 16Il re Antioco morì in quel luogo l’anno centoquarantanove. 17Lisia fu informato che il re era morto e dispose che regnasse Antioco, suo figlio, che egli aveva educato fin da piccolo, e lo chiamò Eupàtore”.

            Eupàtore fu l’undicesimo re della dinastia dei Seleucidi: la bestia aveva dieci corna, non undici. Antioco IV è “il corno più piccolo”, che cresce tra di esse, ma fa parte comunque delle dieci; può essere visto in un certo senso come la loro sublimazione. I re seleucidi che seguirono ad Antioco, dal 164 al 64 a.C., non ripeterono certo le gesta dei precedenti e, infatti, abbiamo letto che “alle altre bestie fu tolto il potere e la durata della loro vita fu fissata fino a un termine prestabilito”: regnarono, fecero guerre e quindi morirono. Possiamo però, estendendo il significato letterale del verso, che ogni bestia che sarebbe venuta avrebbe avuto un “limite stabilito”; pur essendo ovvio perché, trattandosi di sistemi composti da uomini, è inevitabile che ciò avvenga e sia, abbiamo qui un grosso “memento” nel senso che tutto finisce, ma soprattutto che questo termine è imposto, stabilito da Dio che giudica e il corpo della “bestia”, sempre lo stesso per idee, dottrine e azioni distruttrici, viene “uccisa e il suo corpo distrutto e gettato a bruciare nel fuoco”.

            Queste parole quindi sono di consolazione e di avvertimento che accompagneranno i credenti, che hanno Gesù con loro secondo la sua promessa, fino alla fine perché, quanto all’ultimo sistema, “Ma la Bestia fu catturata e con lei il falso profeta, che alla sua presenza aveva operato i prodigi con i quali aveva sedotto quanti avevano ricevuto il marchio della bestia e ne avevano adorato la statua. Ambedue furono gettati vivi nello stagno di fuoco, ardente di zolfo” (Apocalisse 19.20, ma anche 20.10).

            Molto spesso si legge questo verso, o gli altri a lui collegati, senza pensare al fatto che gli elementi lì presenti sono due, fuoco e zolfo, ritenendo il primo sufficiente: il fuoco brucia, ustiona, distrugge. Lo zolfo, però, è un combustibile, quindi produce altra energia termica, quindi è un accrescitivo. Compare la prima volta con Sodoma, quando tutta la sua regione fu interessata da “una pioggia di fuoco e zolfo” (un modo per indicare un bombardamento di meteoriti?), è usato per alludere a una vita impossibile (“tutta la sua terra sarà zolfo, sale, arsura, non sarà seminata e non germoglierà, né erba di sorta vi crescerà, come dopo lo sconvolgimento di Sodoma, di Gomorra, di Adma e di Seboim, distrutte dalla sua ira e dal suo furore”, Deuteronomio 29.22).

Lo zolfo è utilizzato anche per descrivere, come l’apostolo Giovanni poteva stante il fatto che non disponeva di sostantivi adeguati, le armi del futuro: “E così vidi nella visione i cavalli e i loro cavalieri: questi avevano corazze di fuoco, di giacinto – minerale raro e molto lucente – e di zolfo; e le teste dei cavalli erano come teste di leoni e dalle loro bocche usciva fuoco, fumo e zolfo” (Apocalisse 9.27).

            Tornando ora a Daniele 7.12 “Alle altre bestie fu tolto il potere e la durata della loro vita fu fissata fino a un termine stabilito”, vediamo che immediatamente salta a una nuova visione che stupisce perché di colpo abbraccia anche il vero tempo della fine a sottolineare proprio il “tempo stabilito” per tutte le altre che verranno, compresa quella terribile della “gran tribolazione” in cui si dirà “Chi è simile alla bestia? E chi può combattere contro di lei? E le fu data una bocca che proferiva parole arroganti e bestemmie. E le fu dato di agire per quarantadue mesi” (Apocalisse 13.4).

            La visione di Daniele fu questa, famigliare a tutti coloro che cercano di capire le dinamiche future anche oggi:“Ecco venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio d’uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui. Gli furono dati potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue – quelle sconvolte a Babilonia, poi evolute in quelle moderne – lo servivano: il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai, e il suo regno non sarà mai distrutto”(7.13,14).

            Lo spazio che qui ci si apre è enorme e possiamo dire che l’importanza negativa che ebbe Antioco IV Epifane ed il suo sistema, con le sue mire di cancellazione del popolo di Dio, gli ebrei allora e il cristianesimo vero in futuro, si identificano proprio in quell’ultima “Bestia” che si sta formando. Non credo sia possibile leggere altrimenti la spiegazione che il profeta ricevette dal suo vicino: “I santi gli saranno dati in mano per un tempo, tempi e la metà di un tempo – tre anni e mezzo –. Si terrà poi il giudizio e gli sarà tolto il potere, quindi verrà distrutto completamente. Allora il regno, il potere e la grandezza dei regni che sono sotto il cielo saranno dati al popolo dei santi dell’Altissimo, il cui regno sarà eterno e tutti gli imperi lo serviranno e gli obbediranno” (7.25-27).

            Ricordiamo le parole di Apocalisse 13.5-8: “Alla bestia fu data una bocca per proferire parole d’orgoglio e bestemmie, con il potere di agire per quarantadue mesi – 12+24+6 –. Essa aprì la bocca per proferire parole d’orgoglio e bestemmie contro Dio, per bestemmiare il suo nome e la sua dimora, contro tutti quelli che abitano in cielo. Le fu concesso di fare guerra contro i santi e di vincerli, e le fu dato potere sopra ogni tribù, popolo, lingua e nazione. La adoreranno tutti gli abitanti della terra, il cui nome non è scritto nel libro della vita dell’Agnello, immolato fin dalla fondazione del mondo”.

            Tornando ora alla festa della Dedicazione, fu istituita quando il servizio nel Tempio fu ripristinato. Così scrive Giuseppe Flavio nelle sue Antichità Giudaiche XII.324, 325: “Provavano tanto piacere nel rinnovarsi delle loro consuetudini e nell’avere inaspettatamente riacquistato dopo tanto tempo il diritto di tenere la loro celebrazione, che imposero per legge ai loro discendenti di celebrare il ripristino del servizio del tempio per otto giorni. E da quel tempo fino al presente celebriamo questa festa, che chiamiamo festa delle Luci, dandole questo nome, suppongo, per il fatto che avevamo riavuto il diritto di adorare quando meno ce lo aspettavamo”.

Termina qui il nostro breve excursus su Antioco IV, “breve” perché ci sarebbero molti altri passi da analizzare, ma credo che basti per comprendere a grandi linee gli eventi e i significati spirituali che si celano dietro questa festa. Giovanni 10.23 riporta che proprio in occasione di quella, di inverno, “Gesù camminava nel tempio, nel portico di Salomone”, probabilmente coi discepoli. Qui lo raggiungeranno, come vedremo col prossimo capitolo, ancora una volta i Giudei con le loro domande insidiose.

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13.26 – ANTIOCO EPIFANE (Giovanni 10.22)

 13.26 –Antioco Epifane (Giovanni 10.22)   

22Ricorreva allora a Gerusalemme la festa della Dedicazione. Era inverno.

            La Parola di Dio è al centro dell’Universo, materiale e spirituale. E il primo, per quanto limitato rispetto al secondo, riflette la Potenza del Creatore e il perfetto equilibrio che ne deriva. Sull’Universo spirituale è possibile discorrerne, ma i riferimenti tra passato, presente, futuro ed eternità sono tali da far sorgere un sentimento di piccolezza estrema addirittura maggiore rispetto a quando consideriamo la vastità del cosmo e le distanze fra le stelle, le galassie e tutto ciò che la scienza finora ha scoperto. Questo per dire che la complessità di una pericope non è certo minore rispetto a quella di un corpo fisico, appartenga esso al mondo del micro o del macro, essendo gli equilibri del mondo gli stessi, fatte le dovute proporzioni, di quello spirituale. Così, nessuna spiegazione dei passi può definirsi esaustiva; se mai, può presentare in minima parte quegli aspetti che al lettore, attraverso la “lectio divina” vengono rivelati.

            Fatta questa premessa, perché non mi stancherò mai di ripetere che nessun argomento biblico può ritenersi concluso, cerchiamo a questo punto di esaminare i versi di Daniele 7 riguardo alla quarta bestia, che fanno da preludio e poi trattano della comparsa di Antioco IV Epifane:

19Volli poi sapere la verità intorno alla quarta bestia, che era diversa da tutte le altre e molto spaventosa, che aveva i denti di ferro e artigli di bronzo, che divorava, stritolava e il rimanente se lo metteva sotto i piedi e lo calpestava, 20e anche intorno alle dieci corna che aveva sulla testa e intorno a quest’ultimo corno che era spuntato e davanti al quale erano cadute tre corna e del perché quel corno aveva occhi e una bocca che proferiva parole arroganti e appariva maggiore delle altre corna. 21Io intanto stavo guardando e quel corno muoveva guerra ai santi e li vinceva, 22finché venne il vegliardo e fu resa giustizia ai santi dell’Altissimo e giunse il tempo in cui i santi dovevano possedere il regno.

23Egli dunque mi disse: «La quarta bestia significa che ci sarà sulla terra un quarto regno diverso da tutti gli altri e divorerà tutta la terra – quella conosciuta – la schiaccerà e la stritolerà. 24Le dieci corna significano che dieci re sorgeranno da quel regno e dopo di loro ne seguirà un altro, diverso dai precedenti: abbatterà tre re 25e proferirà parole contro l’Altissimo e insulterà i santi dell’Altissimo; penserà di mutare i tempi e la Legge. I santi gli saranno dati in mano per un tempo, tempi e metà di un tempo. 26Si terrà poi il giudizio e gli sarà tolto il potere, quindi verrà sterminato e distrutto completamente. 27Allora il regno, il potere e la grandezza dei regni che sono sotto il cielo saranno dati al popolo dei santi dell’Altissimo, il cui regno sarà eterno e tutti gli imperi lo serviranno e gli obbediranno”.

            Vediamo, tenendo presente anche la visione originaria dei versi che abbiamo riportato nello scorso capitolo, che la quarta bestia non viene paragonata a nessun animale e infatti viene precisato che è “diversa da tutte le altre” cioè non si trovano paragoni con creature per quanto potenti e feroci, ma ne vengono descritte le sembianze, che ci parlano delle azioni che questa compie: ha “denti di ferro”, metallo che ci parla di violenza, umiliazione, disagio e dominio. Il ferro, assieme al bronzo, fu un metallo che lavorarono per primi i discendenti di Caino (Genesi 4.22), è il primo dei metalli meno nobili secondo la classificazione di Numeri 31.22 (Oro – Argento – Bronzo – Ferro – Stagno – Piombo). È figura di ostacolo e di impraticabilità (“Il cielo sarà di bronzo sopra il tuo capo e la terra sotto te sarà di ferro”, Deuteronomio 28.23). Il ferro è sinonimo di invincibilità apparente, come in Giosuè 17.18: “…spodesterai il Cananeo, benché abbia carri di ferro e sia forte”.

            I denti, che hanno una funzione fondamentale nel nutrimento di qualsiasi essere vivente che ne sia dotato, sono quindi “di ferro” a sottolinearne la forza bruta e la presunta indistruttibilità di questi elementi che vengono messi in moto non per soddisfare un’esigenza nutrizionale fisiologica, ma per divorare, verbo che allude al mangiare con avidità, ingordigia, voracità, ma anche al consumare con incredibile rapidità, distruggere. Chi divora soddisfa se stesso, si ingozza senza gustare, dà luogo esclusivamente alla propria brama ossessiva di avere. E queste azioni sono accresciute dall’immagine degli “artigli di bronzo”.

            L’artiglio è la falange terminale di molti animali da preda ricoperta da una robusta unghia adunca. Serve all’essere che ne è dotato come organo di prensione, per aggrapparsi a un sostegno, ma anche per afferrare la preda e dilaniarla, è un’arma tanto difensiva quanto offensiva. Questi artigli sono “di bronzo”, per quanto vi siano traduzioni che riportano il rame come elemento costitutivo. Il bronzo è una lega composta da rame e stagno, utile al pari del ferro come da Deuteronomio 8.9 che parla della terra promessa, “…Terra da dove non mangerai con scarsità il pane, dove non ti mancherà nulla; terra dove le pietre sono di ferro e dai cui monti scaverai il rame”.

            Il rame, inizialmente lavorato martellandolo puro da pepite o filoni, veniva poi fuso in forni che raggiungevano la temperatura di 1.083°, quindi implica il passare attraverso il fuoco e ha connessione tanto con l’esperienza attraverso la sofferenza (si pensi ai piedi della creatura vista dall’apostolo Giovanni in Apocalisse 1.14, “simile a un figlio d’uomo(…) i suoi piedi avevano l’aspetto del bronzo splendente”), quanto con l’intervento di Dio per la conversione in Isaia 1.25: “Stenderò la mia mano su di te, purificherò come in un forno le sue scorie, eliminerò da te tutto il piombo”. Ha però connessione anche con la prepotenza, come rileviamo dalla bardatura di Golia in 1 Samuele 17.5-8: “Aveva in testa un elmo di bronzo ed era rivestito di una corazza a piastre, il cui peso era di cinquemila sicli di bronzo. Portava alle gambe schinieri di bronzo e un giavellotto di bronzo fra le spalle”, oltre alla punta dell’asta della lancia, che “pesava seicento sicli di ferro”.

            L’artiglio di bronzo, quindi, va ad aumentare la forza distruttiva di questa quarta bestia, “diversa da tutte le altre”, ripetuto due volte, perché nessuna delle precedenti aveva voluto annientare il culto a YHWH come in effetti farà questa. Il ferro e il bronzo, alla luce dei dati ricavati, furono quindi i componenti aggressivi più immediatamente rilevabili di questo sistema; le azioni conseguenti saranno lo schiacciare e stritolare.

            La visione di Daniele contempla, accanto alle “dieci corna”, quella di un altro corno, “più piccolo”, davanti al quale tre delle prime corna “furono divelte”: è facile individuare in questo corno Antioco Epifane col quale avevamo chiuso lo scorso capitolo, definito in 1 Maccabei “radice perversa”; inoltre Antioco era il minore dei suoi fratelli per cui il regno non gli sarebbe spettato, ma eliminò “tre delle prime corna”, cioè Prolemeo, Antioco il Grande padre di Epifane, e Seleuco. Ricordiamo infatti le parole a chiarimento della visione, “abbatterà tre re e proferirà parole contro l’Altissimo e insulterà i santi dell’Altissimo; penserà di mutare i tempi e la legge”.

Abbiamo però letto di “dieci corna” e “dieci re”: non che la bestia fu composta da tutti insieme, ma questi sono i dieci re seleucidi che si susseguirono nel regno nel tempo, con gli ultimi tre eliminati appunto da Epifane.

            Costui ha “occhi e bocca che proferivano parole arroganti”: a Daniele rimangono impressi gli occhi, non “come fiamma di fuoco” secondo la visione del Figlio di Dio di Giovanni e nemmeno “normali”, ma per venire rilevati dal profeta significa che erano particolari, impressionanti quindi acuti, indice di una mente perversa e calcolatrice per i propri bisogni; l’arroganza con cui la bocca parlava non implica tanto il fatto che si sentiva superiore agli altri e li trattava con sufficienza e presunzione, ma che si sentiva superiore a Dio e in grado di combatterlo.

            Cosa succederà infatti sotto di lui? Secondo Tacito (Historiae 5.8), volle “cancellare la superstizione e dare ai Giudei i costumi dei Greci”. Lasciamo che parli l’autore di 1 Maccabei 1: 20Antioco ritornò dopo aver sconfitto l’Egitto nell’anno centoquarantatré, mosse contro Israele e salì a Gerusalemme con un grande esercito. 21Entrò con arroganza nel santuario e ne asportò l’altare d’oro e il candelabro dei lumi con tutti i suoi arredi, 22la tavola dell’offerta e i vasi per le libagioni, le coppe e gli incensieri d’oro, il velo, le corone e i fregi d’oro della facciata del tempio e lo spogliò tutto; 23s’impadronì dell’argento e dell’oro e d’ogni oggetto pregiato e asportò i tesori nascosti che riuscì a trovare. 24Poi, raccolta ogni cosa, fece ritorno nella sua terra, dopo aver fatto una strage e aver parlato con grande arroganza – ecco le parole di Daniele sulla bocca del “corno più piccolo”.

            Ancora 2 Maccabei 5.11-16: “…concluse che la Giudea stava ribellandosi. Perciò, tornando dall’Egitto, furioso come una belva, prese la città con le armi 12e diede ordine ai soldati di colpire senza pietà quanti incontravano e di trucidare quelli che si rifugiavano nelle case. 13Vi fu massacro di giovani e di vecchi, sterminio di uomini, di donne e di fanciulli, stragi di fanciulle e di bambini. 14In tutti quei tre giorni vi furono ottantamila vittime: quarantamila nel corso della lotta, e non meno degli uccisi furono quelli venduti schiavi. 15Non sazio di questo, Antioco osò entrare nel tempio più santo di tutta la terra, avendo a guida quel Menelao che si era fatto traditore delle leggi e della patria; 16afferrò con mani impure gli arredi sacri, e saccheggiò con le sue mani sacrileghe quanto dagli altri re era stato deposto per l’abbellimento e lo splendore del luogo e per segno d’onore”.

            Ho riportato una minima parte di quanto successe e che è narrato in questi due libri; ma si può dire che la sua empietà giunse al culmine non coi numerosi massacri perpetrati, ma con “l’abominazione della desolazione”, cioè l’imposizione del culto idolatrico. Scrive un fratello: “Sotto pena di morte fu imposto il culto idolatrico: i Giudei dovevano immolare vittime a Giove sulle are erette dappertutto in Giudea. Fu scelto il maiale, oltremodo impuro per gli Ebrei che, dopo il sacrificio, dovevano anche cibarsene. Proibiti la circoncisione, il sabato, ogni altra festa, la lettura dei libri sacri che dovevano essere consegnati e bruciati (I Mach. l, 30-2, 70; II Mach. 5, 21-7, 42). Nel tempio fu eretto un simulacro di Giove Olimpio e sull’altare degli olocausti gli si immolarono sacrifici. I Giudei dovranno ellenizzarsi o morire. Molti apostatarono; ma rifulse l’eroismo dei martiri e l’epico valore dei Maccabei”.

            A questo punto vi sarebbero altri passi profetici che si potrebbero citare su questo personaggio, ma ci dilungheremmo ed usciremmo dal percorso tracciato che è quello di rimanere aderenti al Vangelo. Con il prossimo capitolo concluderemo la visione di Daniele 7 con particolare riguardo alla – non potrebbe essere che così – sua fine: “Continuai a guardare a causa delle parole arroganti che quel corno proferiva, e vidi che la bestia fu uccisa e il suo corpo distrutto e gettato a bruciare nel fuoco. Alle altre bestie fu tolto il potere e la durata della loro vita fu fissata fino ad un termine stabilito” (vv.11-12).

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13.25 – LA FESTA DELLA DEDICAZIONE: ANTICO EPIFANE, INTRODUZIONE (Giovanni 10.22)

13.25 – La festa della Dedicazione. Antioco Epifane – Introduzione (Giovanni 10.22)    

 

22Ricorreva allora a Gerusalemme la festa della Dedicazione. Era inverno.

 

La presenza di Nostro Signore a Gerusalemme ci impone delle domande sui suoi spostamenti, difficili da raccordare basandoci su Luca; dobbiamo considerare che tra la festa delle Capanne (o Tabernacoli) in cui era stato là per l’ultima volta e quella della Dedicazione passarono due mesi e mezzo, periodo che Giovanni omette, ma che viene riportato per quadri da Luca. Il verso 22 che abbiamo riportato, però, ci consente un’apertura su fatti e porzioni di Scrittura che altrimenti non potremmo esaminare perché, di tutte le feste che si celebravano, quella della Dedicazione non era, assieme al Purìm, comandata dalla Legge e venne istituita da Giuda Maccabeo, eroe della ribellione ebraica sotto l’oppressione di Antioco Epifane, re di Siria nel 194 a.C., quando vi fu ricostruzione dell’altare e del Tempio che quello aveva contaminato.

Come avvenuto all’inizio del nostro percorso di lettura dei Vangeli quando ci siamo soffermati su Erode, mi pare giusto affrontare questo personaggio la cui figura fu importante a tal punto da venire profetizzata da Daniele in diversi passi che presentano forti analogie, nel suo linguaggio simbolico, con il libro dell’Apocalisse di Giovanni.

Per questo è necessaria una premessa nel senso che quanto analizzeremo va inteso come fonte per appunti di idee da tener presente quando verranno letti passi profetici soprattutto nell’Apocalisse. Anche la lettura di questo studio, nelle sue parti, andrebbe sviluppata creando schemi perché l’esposizione così come impaginata non si presenta immediatamente comprensibile. Personalmente credo che vada affrontato usando il testo biblico, anche se qui è riportato, annotando a margine ciò che sarà ritenuto opportuno.

Va anche ricordato che tutto il commento ai Vangeli che stiamo sviluppando da tempo non intende, né può, essere esaustivo, ma affronta solo una minima parte della superficie del testo evangelico e che, in particolare ciò che verrà qui presentato, dev’essere oggetto di una lettura personale approfondendo i riferimenti che darà il testo biblico, in particolare quello di Daniele. Come sempre, per sviluppare adeguatamente questo tema, non sarebbero sufficienti molti libri e centinaia di pagine.

La prima visione che ebbe Daniele è reperibile al capitolo settimo:

 

2Io, Daniele, guardavo nella mia visione notturna, ed ecco, i quattro venti dei cielo si abbattevano impetuosamente sul Mare Grande– il Mediterraneo –3E quattro grandi bestie, differenti l’una dall’altra, salivano dal mare.

4La prima era simile ad un leone e aveva ali d’aquila. Mentre io stavo guardando, le furono strappate le ali e fu sollevata da terra e fatta stare su due piedi come un uomo e le fu dato un cuore d’uomo. 5Poi ecco una seconda bestia, simile a un orso, la quale stava alzata da un lato e aveva tre costole in bocca, fra i denti, e le fu detto: «Su, divora molta carne».

6Dopo di questa, mentre stavo guardando, eccone un’altra simile a un leopardo, la quale aveva quattro ali d’uccello sul dorso; e quella bestia aveva quattro ali d’uccello sul dorso; quella bestia aveva quattro teste e le fu dato il potere.

7Dopo di questa, stavo ancora guardando nelle visioni notturne, ed ecco una quarta bestia, spaventosa, terribile, d’una forza straordinaria, con grandi denti di ferro; divorava, stritolava e il rimanente se lo metteva sotto i piedi e lo calpestava: era diversa da tutte le altre bestie e aveva dieci corna.

8Stavo osservando queste corna, quand’ecco spuntare in mezzo a quelle un altro corno più piccolo, davanti al quale tre delle prime corna furono divelte: vidi che quel corno aveva occhi simili a quelli di un uomo e una bocca che proferiva parole arroganti. (…) 11Continuai a guardare a causa delle parole arroganti che quel corno proferiva, e vidi che la bestia fu uccisa e il suo corpo distrutto e gettato a bruciare nel fuoco. 12Alle altre bestie fu tolto il potere e la durata della loro vita fu fissata al termine stabilito”.

 

Daniele, come l’apostolo Giovanni, nonostante lo Spirito che lo pervadeva e la sua capacità direi unica di comprendere sogni e visioni, nella sua condizione di uomo impuro e limitato per natura non sarebbe mai riuscito ad estrarre il senso di ciò che vedeva, per cui chiede “ad uno dei vicini”nella visione la spiegazione dell’evento di cui era stato chiamato ad essere testimone:

 

15Io, Daniele, mi sentii agitato nell’animo, tanto le visioni della mia mente mi avevano turbato; 16mi accostai a uno dei vicini e gli domandai il vero significato di tutte queste cose ed egli mi diede questa spiegazione: «Le quattro grandi bestie rappresentano quattro re, che sorgeranno dalla terra, 18ma i santi dell’Altissimo riceveranno il regno e lo possederanno per sempre, in eterno»”.

 

Altro, su queste quattro bestie, non viene rivelato perché l’attenzione di chi parla a Daniele si sposta subito dopo sulla quarta, ma il linguaggio simbolico utilizzato nella Scrittura dai Profeti ci consente comunque delle applicazioni importanti: sappiamo che la “bestia”è un sistema, politico e militare, che in quanto “bestia”, cioè animale, vive per natura senza relazionarsi con Dio o, se preferiamo, come se Lui non esistesse; la bestia segue i suoi istinti e in particolare quelle citate, il leone, l’orso e il leopardo, vivono e sopravvivono cacciando e distruggendo. L’orso, in particolare, onnivoro, non teme lo scontro con animali predatori carnivori e importanti, potendo competere da solo anche con branchi di lupi e grandi felini.

Al verso 2 abbiamo i “quattro venti del cielo”, “del”e non “dal”, quindi quelle forze naturali che soffiano dai quattro punti cardinali sul “mare”, figura dei popoli dell’area del “Mar Grande”, ingrossandone chiaramente le onde, quindi si allude alla forza e al disordine al tempo stesso.

La prima bestia è un “leone”quanto a potenza, ma ha “ali d’aquila”a simboleggiare il territorio che è in grado di coprire col suo volo così come la velocità degli spostamenti e con la quale agisce. È collegabile all’impero dei Caldei, quindi a Babilonia, che abitarono la parte meridionale della Mesopotamia ed operarono tra il 721 e il 539 a.C. Questo accostamento è rilevabile confrontando la descrizione del leone che dà la Scrittura, fiero, che una volta accovacciato nessuno è in grado di rialzarlo, che così resta fino a quando “non abbia divorato la preda e bevuto il sangue degli uccisi”(Numeri 23.24) e anche le parole dello stesso Daniele a Nabucodonosor in 2.37,38 confermano questa interpretazione: “Tu, o re, sei il re dei re; a te il Dio del cielo ha concesso il regno, la potenza, la forza e la gloria. Dovunque si trovino i figli dell’uomo, animali selvatici e uccelli del cielo, egli li ha dati nelle tue mani; tu li domini tutti: tu sei la testa d’oro”.

È interessante notare come Isaia descrive il popolo caldeo: “Egli– il Signore nel suo sdegno – alzerà un segnale a una nazione lontana e farà un fischio all’estremità della terra; ed ecco, essa verrà veloce e leggera. Nessuno fra loro è stanco o inciampa, nessuno sonnecchia o dorme, non si scioglie la cintura dei suoi fianchi e non si slaccia il legaccio dei suoi sandali. Le sue frecce sono acuminate, e ben tesi tutti i suoi archi; gli zoccoli dei suoi cavalli sono come pietre e le ruote dei suoi carri come un turbine, il suo ruggito è come quello di una leonessa, ruggisce come un leoncello; freme e afferra la preda, la pone al sicuro, nessuno gliela stralla. Fremerà su di lui in quel giorno come freme il mare; si guarderà la terra: ecco, saranno tenebre, angoscia, e la luce sarà oscurata dalla caligine”(5.26-30).

Così infine Geremia 4.7: “Il leone è balzato dalla sua boscaglia, il distruttore di nazioni si è messo in marcia, è uscito dalla sua dimora, per ridurre la tua terra a una desolazione: le tue città saranno distrutte, non vi rimarranno abitanti”.

Un richiamo alle “ali d’aquila”a proposito della velocità lo rileviamo al verso 13 quando i Caldei sono paragonati a uno che “sale come le nubi e come un turbine sono i suoi carri, i suoi cavalli sono più veloci delle aquile”.

Ora a questa bestia vengono “tolte le ali, e fu sollevata da terra e fatta stare su due piedi come un uomo e le fu dato un cuore d’uomo”, cioè, per dirla in parole povere, viene ridotta all’impotenza: tutta la sua invincibilità e forza vengono meno e ciò avvenne quando i Caldei furono conquistati dai persiani nel 539 a.C.

 

La seconda bestia è l’orso. Anche l’imminenza di questo impero fu anticipato da Daniele a Nabucodonosor quando ne interpretò il sogno – “Dopo di te sorgerà un altro regno, inferiore al tuo”(2.39) –; l’orso, per la Scrittura, è un animale rozzo, potente e tetro. E infatti i persiani tali erano e furono rispetto ai Caldei. Questa bestia sta “alzata da un lato”perché si alza in un certo senso da un lato del mondo allora conosciuto, cioè dal Levante. Il regno di Persia è raffigurato anche da un “montone che cozzava verso l’occidente, il settentrione e il mezzogiorno e nessuna bestia gli poteva resistere, né alcuno era in grado di liberare dal suo potere: faceva quello che gli pareva e divenne grande”(Daniele 8.4). E sarà qui che questo orso, la bestia che sta “alzata da un lato”, potrà operare.

Essa ha “tre costole in bocca, fra i suoi denti”ad accentuare il carattere famelico, predatore. L’immagine che danno queste ossa sono molto più incisive rispetto ad altre che potrebbero venire citate perché fanno riferimento al torso, sede di tutti gli organi vitali di un corpo. Questo è l’unico animale al quale viene detto “Su, divora molta carne”a significare che agì per ordine di Dio nel senso che gli fu concesso di operare senza porre ostacoli ai suoi piani.

Isaia dà un riferimento a questo popolo con le parole “Come i turbini che si scatenano nel Negheb, così egli viene dal deserto, da una terra orribile. Una visione tremenda mi fu mostrata: il saccheggiatore che saccheggia, il distruttore che distrugge”(21.2).

Dell’orso Daniele non rivela la fine e la sua durata fu di duecento anni circa, fino a quando non terminò per opera di Alessandro Magno, identificato quanto a impero nella terza bestia, il leopardo, altro predatore che si caratterizza rispetto agli altri per la rapidità, velocità degli attacchi. E così si sviluppò il suo impero. Vediamo che questo leopardo ha sul suo dorso “quattro ali d’uccello”, quindi non di aquila come la prima: se l’aquila è potente, raggiunge grandi altezze e cade sulla preda, l’uccello suggerisce una velocità e una strategia diversa: non ci viene detto il tipo, per cui non sappiamo se si tratta di un migratore che percorre enormi distanze o un altro che, molto rapido, si sposta da un luogo a un altro. Credo che le quattro ali, numero che suggerisce la perfezione della natura, siano un accrescitivo della capacità del leopardo.

Infine abbiamo “quattro teste e le fu dato potere”e infatti, dopo la morte di Alessandro nel 323, il suo regno fu diviso in quattro satrapie. A parte i testi di storia che possono essere consultati per tutti gli imperi fin qui citati, riporto 1 Maccabei 1.1-10 che costituisce al tempo stesso la fine di questa prima parte e l’inizio della seconda, quando affronteremo la quarta bestia.

“Queste cose avvennero dopo che Alessandro il Macedone, figlio di Filippo, uscito dalla regione dei Chittìm, sconfisse Dario, re dei Persiani e dei Medi, e regnò al suo posto cominciando dalla Grecia. Egli intraprese molte guerre, si impadronì di fortezze e uccise i re della terra; arrivò ai confini della terra e raccolse le spoglie di molti popoli. La terra ammutolì davanti a lui; ma egli si esaltò e il suo cuore montò in superbia. Radunò forze ingenti e conquistò regioni, popoli e prìncipi, che divennero suoi tributari. Dopo questo cadde ammalato e comprese che stava per morire. Allora chiamò i suoi ufficiali più illustri, che erano stati educati con lui fin dalla giovinezza, e divise tra loro il suo regno mentre era ancora vivo. Alessandro dunque aveva regnato dodici anni quando morì. I suoi ufficiali assunsero il potere, ognuno nella sua regione; dopo la sua morte cinsero tutti il diadema e, dopo di loro, i loro figli per molti anni, moltiplicando i mali sulla terra. Uscì da loro una radice perversa, Antioco Epifane, figlio de re Antioco, che era stato ostaggio a Roma, e cominciò a regnare nell’anno centotrentasette del regno dei Greci”.

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13.03 – IL BUON SAMARITANO III: LA PRATICA DELL’AMORE (Luca 10.30-37)

13.03 – Il buon samaritano: III. La pratica dell’amore (Luca 10.30-37)    

 

30Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. 31Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. 32Anche un levita, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. 33Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. 34Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. 35Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: «Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno». 36Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». 37Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ così».

 

Il prosieguo della parabola ci presenta due personaggi particolari, il sacerdote e il levita: essendo il fatto avvenuto nella strada che “scendeva da Gerusalemme a Gerico” si può ipotizzare che compissero quel tragitto perché avevano terminato il loro servizio al Tempio e rientrassero a casa loro. Gerico, infatti, di sacerdoti e leviti, ne ospitava molti, “diverse migliaia” secondo alcuni commentatori. Ammettendo quindi tale probabile situazione, tanto l’uno che l’altro attesero il passare del sabato, giorno in cui il turno di servizio delle mute cambiava, e quindi si misero in viaggio, in momenti diversi.

Sacerdoti e leviti possiamo dire che costituivano il cardine del giudaismo, senza i quali non poteva essere celebrata alcuna funzione nel Tempio. I primi erano chiamati cohanim, cohen singolare, termine che indica “colui che si leva a favore di un altro, che intercede per la sua causa” (e tale infatti era il loro ruolo, essendo i soli a poter compiere i sacrifici e non solo). I secondi, i leviti, erano addetti all’ausilio dei sacerdoti occupandosi delle opere cosiddette “servili”: preparavano il sacrificio, lavavano gli utensili sacri e cantavano alle funzioni, ma potevano anche svolgere il compito di magistrato e giudice secondo 1 Cronache 23. 3-5.

È proprio il ruolo di queste due categorie che, nella parabola, li condanna perché, conoscendo la Scrittura e avendo un ruolo specifico comandato da Dio, non la misero in pratica quando videro un loro correligionario “mezzo morto” lungo la strada.

Occorre prestare attenzione perché il comportamento da loro adottato non era ammissibile neppure per le bestie. Così infatti prescriveva la Legge: “Quando incontrerai il bue del tuo nemico o il suo asino dispersi, glieli dovrai ricondurre. Quando vedrai l’asino del tuo nemico accasciarsi sotto il carico, non abbandonarlo a se stesso: mettiti con lui a scioglierlo dal carico” (Esodo 23.4,5). Addirittura, in Deuteronomio 22.4, “Se vedi l’asino di tuo fratello o il suo bue caduto lungo la strada, non fingerai di non averli scorti, ma insieme con lui li farai rialzare”. C’è poi la definizione di Dio del digiuno, pratica cui molti si dedicavano religiosamente: “Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo? Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza trascurare i tuoi parenti? Allora la tua luce sorgerà come l’aurora, la tua ferita si rimarginerà presto. Davanti a te camminerà la tua giustizia, la gloria del Signore ti seguirà” (Isaia 58.6-8).

Abbiamo visto, nei versi citati, la compassione dovuta a fronte di un disagio che potremmo definire “fisico”, ma la stessa è compresa anche per quello morale: “A chi è sfinito dal dolore è dovuto l’affetto degli amici, anche se ha abbandonato il timore di Dio” (Giobbe 6.4), per non parlare degli esempi negativi contenuti in Salmo 38.12 e 69.21, “I miei amici e i miei compagni si scostano dalle mie piaghe, i miei vicini stanno a distanza” e “L’insulto ha spezzato il mio cuore e mi sento venir meno. Mi aspettavo consolazione, ma invano. Consolatori, ma non ne ho trovati”. Infine, Proverbi 21.13: “Chi chiude l’orecchio al grido del povero invocherà a sua volta e non otterrà risposta”.

Eppure, del sacerdote e del levita, è scritto che “giunto in quel luogo, vide e passò oltre”, traduzione sbrigativa dall’originale “passò dall’altra parte” quindi entrambi, prima di riprendere il loro cammino, si scostarono, attraversarono la strada volendo stabilire una distanza ancora più acuta di quanto non fosse già, loro in piedi (o a cavalcioni su un asino) e l’altro a terra: perché? Mi sono chiesto se questa indifferenza fosse causata solo da un animo insensibile o ci fosse stato qualche altro motivo e credo che, trattandosi di religiosi, ritenessero di avere già fatto abbastanza per il loro Dio e che soccorrere un uomo ridotto in quelle condizioni dovesse competere ad altri. Questa è l’interpretazione che do.

Aprendo una parentesi, è vero che il testo non dice perché il sacerdote e il levita passassero di là e che avessero terminato il loro ufficio nel Tempio, ma non trovo altro motivo, dubitando che entrambi fossero in gita di piacere. Il “Per caso” con cui inizia il verso 31 non allude infatti a una presenza immotivata, ma alla contemporaneità dell’azione, cioè da una parte l’uomo “mezzo morto” e dall’altra il fatto che sacerdote e levita passarono di là poco dopo l’aggressione.

Quei due, quindi, dopo una settimana a servire il Dio d’Israele, si ritenevano esenti da qualsiasi altro compito nonostante vi fosse la Sua parola scritta che solo apparentemente poteva essere considerata una lista di doveri, ma che in realtà era tesa ad educare i cuori e il cui riassunto, come abbiamo letto, era scritto nelle piccole pergamene che quegli uomini si portavano addosso, “Amerai il Signore Iddio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente”. Però – attenzione – era un amore che, per essere perfetto, si collegava a Levitico 19.18, “Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso”. Si tratta di due capisaldi che non a caso il dottore della Legge che diede origine a questa parabola aveva unito e di cui Gesù stesso ribadirà la necessità in Marco 12.28-31, quando uno scriba gli chiederà “Qual è il primo comandamento di tutti?”.

Ecco allora che il sacerdote e il levita dimostrarono, con la loro indifferenza, di non aver capito proprio nulla: per loro Dio era Colui che esigeva da loro un servizio formale per il popolo e si crogiolavano in questo ritenendo di essere dei buoni israeliti esattamente come oggi ci sono molti che si definiscono “buoni cristiani” perché partecipano alle funzioni religiose e praticano i cosiddetti “sacramenti” senza alcun moto del cuore che li spinga a praticare effettivamente l’amore. Sono coloro che sanno bene che dovrebbero osservare il decalogo, ma sanno di potere infrangerlo perché tanto poi si vanno a confessare, recitano l’ “atto di dolore”, fanno penitenza e poi tutto torna come prima. Sono i cosiddetti “praticanti”, quasi che la “pratica” possa limitarsi all’osservanza di precetti che non possono dare un significato a nulla. Sono quelli che si sentono bene quando prendono posto alle funzioni, ma appena usciti dall’edificio di culto tornano prontamente ai loro egoismi, ai loro calcoli, alle loro miserie. Sono quelli che vedono e passano dalla parte opposta a quella del bisognoso e poi proseguono per la loro strada. Non vogliono fastidi ma soprattutto, come i due personaggi che stiamo esaminando, si ritengono a posto con la loro coscienza e si autoassolvono qualunque cosa accada.

Si tratta chiaramente di soluzioni di comodo che consentono di confezionare un vestito su misura che non è certo quello che il Re della parabola degli invitati alle nozze ha inviato: ricordiamo che “Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse uno che non indossava l’abito nuziale – era cioè vestito, ma a modo suo e non come era richiesto per restare lì –. Gli disse: «Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?». Quello ammutolì. Allora il re ordinò ai servi: «Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti»” (Matteo 22.11-13).

A questo punto entra in scena il samaritano che, a differenza del sacerdote e del levita che “passavano di là”, “era in viaggio”: si trattava forse di un mercante? È un’ipotesi, ma quello che sappiamo di certo è che non era giudeo, ma uno straniero e, soprattutto, appartenente a gente che nei confronti degli ebrei nutriva un profondo risentimento per ragioni che abbiamo già accennato. Ebbene, quello riconobbe la nazionalità dell’uomo ferito e “mezzo morto” dall’abito, ma nulla gli importò perché lo vide, azione comune agli altri due, ma questa volta “ne ebbe compassione”. Tanto fu istintiva la repulsione provata dal sacerdote e dal levita, poi sfociata in indifferenza, tanto il samaritano si immedesimò nelle condizioni di quell’uomo ferito. Poteva non farlo e andarsene, nessuno lo avrebbe visto né giudicato. Agì su una base del tutto volontaria e soprattutto vediamo che tra il vedere ed il reagire non intercorse nessun intervallo temporale.

Per quanto Nostro Signore, con questa parabola, volesse far capire a quell’anonimo dottore della Legge cosa s’intendesse amare il proprio prossimo come se stessi per cui quello è il suo primo significato; non è però difficile scorgere nella descrizione delle azioni del buon samaritano le stesse che ha compiuto Lui nei confronti dell’uomo: prima “ne ebbe compassione”, poi “gli si avvicinò, gli fasciò le ferite versandovi olio e vino”, rimedi efficaci di allora per le ferite quando non interessavano parti vitali: il vino le disinfettava e l’olio ne attutiva il dolore. E quel samaritano, persona previdente, li aveva con sé, oltre le bende, come oggi potrebbe fare chi affronta un’escursione mettendo in conto la possibilità che qualcuno si possa far male. Quell’uomo, poi, sapeva come agire in base alle circostanze.

Anche oggi Gesù è in grado di fasciare, disinfettare e attutire il dolore dell’uomo ferito e privato dal peccato della propria dignità, ridotto all’incapacità di muoversi e chiedere aiuto. Il samaritano non risponde a un grido, ma offre il suo intervento a chi non ha neppure la forza di chiederlo.

Consapevole del fatto che olio, vino e bende non avrebbero risolto il problema, fa poi qualcosa di totalmente contrario al principio della comodità personale: scende dalla sua cavalcatura, vi carica il ferito portandolo “in albergo, e si prese cura di lui”. Questo significava camminare per un certo tempo a suo fianco, sorreggendolo perché non cadesse e tutto questo in una strada assolata e in zona desertica. Ora non è difficile scorgere in queste azioni la rinuncia del Figlio di Dio alla condizione che aveva nei Cieli per scendere e vivere per un certo tempo (trentatré anni circa) in mezzo agli uomini senza lasciare nulla di intentato per salvarli dalla morte. Fece insomma tutto quanto in suo potere, adempiendo ogni cosa vista nella frase “Tutto è compiuto”.

Non pago di tutto il lavoro fatto per quell’uomo, poi, “si prese cura di lui”, presumo per tutta la notte, attento ad ogni segnale di sofferenza. Al contrario di quanti passarono prima di lui, il sacerdote e il levita che ritennero di avere già adempiuto ai loro incarichi di servizio divino, interrompe la sua opera solo quando nella persona da lui soccorsa iniziano ad emergere i primi segnali di guarigione. Quindi, come in tante parabole, “partì” promettendo all’albergatore, in cui possiamo vedere spiritualmente la Chiesa, di ritornare e gli dà il denaro necessario per curare quella persona, promettendo di rimborsare quanto eventualmente avrebbe speso in aggiunta.

Queste sono applicazioni possibili oggi, non certo allora. Dobbiamo sempre tenere presente il fatto che quanto avviene o troviamo scritto ha valenza per chi leggeva e ascoltava allora e per noi possono esserci delle varianti.

La domanda di Gesù a quel punto fu “Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che  caduto nelle mani dei briganti?”. La risposta del dottore della Legge è molto indicativa perché non indica semplicemente “Il samaritano” ma, non volendo neppure nominarlo, dice “Chi ha avuto compassione di lui”: dimostra di aver capito solo parzialmente il senso della parabola perché per lui le persone erano divise in due categorie, gli israeliti e gli altri cosa che, se il samaritano avesse voluto applicare quel metodo di ragionamento, avrebbe causato la morte dell’uomo rapinato e percosso dai malfattori.

Le parole conclusive del dialogo fra Gesù e il dottore della Legge furono “Va’, e anche tu fa’ così”, ancora una volta le uniche che allora potesse dire per risvegliare la coscienza del suo interlocutore. Per noi, invece, valgono le parole dette ai discepoli in Giovanni 1512: “Questo è il mio comandamento – quindi nuovo, che perfeziona i precedenti, il primo senza il quale ogni nostra posizione diventa nulla –: che voi vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi”. E di fronte a quel “come”, tutto si tace. Amen.

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16.38 – PER QUESTO IL PADRE MI AMA (Giovanni 10.14-20)

12.38 – Per questo il Padre mi ama (Giovanni 10.14-20)   

 

17Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. 18Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».19Sorse di nuovo dissenso tra i Giudei per queste parole. 20Molti di loro dicevano: «È indemoniato ed è fuori di sé; perché state ad ascoltarlo?». 21Altri dicevano: «Queste parole non sono di un indemoniato; può forse un demonio aprire gli occhi ai ciechi?».

 

Con i versi 17 e 18 Gesù conclude ed amplia il suo discorso sul “buon pastore”che “dà la propria vita per le pecore”. I verbi su cui riflettere in questi versi sono “dare” (3 volte), “riprendere” (2) e “togliere” (1) che cercheremo di analizzare. All’inizio abbiamo “Per questo il Padre mi ama”che ha riferimento con le condizioni di Gesù uomo che, a differenza di tutti gli altri suoi “simili”, riuscì ad adempiere perfettamente la volontà del Padre fino ad accettare, in ubbidienza libera, di dare la Sua vita per la creatura cui sarebbe altrimenti rimasta incapace di avere un rapporto con Lui. Abbiamo letto e citato più volte il capitolo 53 di Isaia, ma ricordiamo i versi 10 e 12: “Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza – perché“primogenito di molti fratelli” –, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore. (…) perciò gli darò in premio le moltitudini”.

Abbiamo quindi, nella pericope “Per questo il Padre mi ama”, non la descrizione del motivo per cui Gesù è amato come Figlio (ha infatti vita propria, è “nel seno del Padre”, parte di Lui e Lui stesso), ma per come fu assistito nel Suo corpo di carne arrivando a dare la propria vita, gesto che l’apostolo Paolo commenterà razionalmente con queste parole: “Quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi. Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi”(Romani 5.6-8).

Si noti quanto contrasta il morire “per gli empi”di fronte al “per un giusto”ed ecco perché “la predicazione della croce è pazzia per quelli che periscono, ma per noi, che siamo salvati, è la potenza di Dio”(1 Corinti 10.18). Razionalmente parlando, l’amore per il peccatore, cioè per chi è “professionalmente” contrario a Dio e ai suoi voleri, è qualcosa di assurdo, contrario ad ogni logica.

Per gente quale noi eravamo prima di incontrarLo, non certo “giusti” né “buoni”, nessuno sarebbe stato disposto a morire; eppure Gesù lo fece, donandosi come spiegò ai dodici: “Il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire, e per dare la sua vita come prezzo di riscatto per molti”(Marco 10.45). Da questi elementi sgorga allora l’amore per il Padre nei confronti del Figlio che ha preso forma umana ed è importante non confondere Gesù uomo da quello glorificato, che al pari di Dio non ha nome, ma viene descritto come, salvi l’ “IO SONO”, “simile a un figlio d’uomo”nelle visioni profetiche dell’Antico e del Nuovo Patto.

 

“Dare” è un’azione che nel passo in esame si esplica attraverso tre punti, “do la mia vita”,“la do da me stesso”e “ho il potere di darla”che ci forniscono le credenziali del donatore. Il primo è un annuncio di quello che avverrà da lì a qualche mese, ma i restanti vanno più in profondità perché sottolineano la totale, libera volontà di chi la vita la offre e soprattutto rivelano che nessun altro avrebbe potuto fare così al suo posto.

Con “la do da me stesso”abbiamo l’indicazione del gesto assolutamente volontario che culminerà con la morte e quindi con l’immolazione di Gesù come Agnello, ma non possiamo ignorare il fatto che tutta la vita di Nostro Signore fu un donarsi, un “dare da me stesso”nel privato come nel pubblico, nel constatare i limiti che aveva come uomo in contrapposizione a quelli che non aveva come Dio, nel camminare, nel provare la fame, la sete, la stanchezza, nel sopportare i propri simili facendosi, appunto come abbiamo letto, servo. Credo che quando la perfezione di Dio si scontra con l’imperfezione dell’uomo, solo la carità proveniente direttamente la Lui e una ferrea volontà di salvare abbia potuto provocare il miracolo della sopportazione e dell’amore “fino alla fine”.

L’autore alla lettera agli Ebrei descriverà molto bene l’essenza umana di Gesù quando disse “Tuttavia quel Gesù, che fu fatto di poco inferiore agli angeli, lo vediamo coronato di gloria e di onore a causa della morte che ha sofferto, perché per la grazia di Dio egli provasse la morte a vantaggio di tutti”(2.9), ma quel “di poco inferiore agli angeli”non significa che Nostro Signore fu, nella carne, a un livello intermedio fra l’uomo e Dio Padre, ma essere umano come gli altri. Ecco perché Gesù, quanto al suo essere uomo, era ed è di per sé un miracolo enorme.

Precisazione necessaria: il Salmo 8 citato in Ebrei 2.9 è un ringraziamento al Creatore per aver formato così l’uomo; “Davvero l’hai fatto poco meno di un dio, di gloria e di onore lo hai coronato. Gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi: tutte le greggi e gli armenti e anche le bestie della campagna, gli uccelli del cielo e i pesci del mare, ogni essere che percorre le vie dei mari. O Signore, Signore nostro, quanto è mirabile il tuo nome su tutta la terra!” (vv. 6-10).

Ecco allora che il “la do da me stesso”racchiude tutta la volontarietà da un lato e la meraviglia dall’altro perché, se Gesù fosse stato costretto a fare ciò che ha fatto, nulla avrebbe avuto senso: sono i regni o i governi depravati della terra che si realizzano nell’oppressione, nell’obbligatorietà e nei vincoli, non certo Dio che pone semplicemente davanti all’uomo due vie, quella della benedizione o il suo esatto contrario lasciando a lui la scelta (Deuteronomio 30.15-20).

È importante questa sottolineatura poiché ogni azione che l’uomo compie, tanto sotto costrizione quanto di malavoglia, provoca l’effetto contrario. A volte dimentichiamo che la vita cristiana non può che manifestarsi attraverso un libero e gioioso donarsi senza pensare a un tornaconto personale perché “Tenete a mente che chi semina scarsamente, scarsamente raccoglierà. Ciascuno dia secondo a quanto ha deciso nel suo cuore, non con tristezza né per forza, perché Dio ama chi dona con gioia”(2 Corinti 9. 6,7). Ecco perché Nostro Signore dovette precisare che avrebbe donato spontaneamente la sua vita sotto l’aspetto non solo della morte, pur sapendo le sofferenze che avrebbe comportato.

La terza precisazione sul dono è “Ho il potere di darla”, strettamente connessa alla precedente: come già rilevato, dare la propria vita per qualcuno è un gesto che, pur ammirevole, altro non fa che rimandare la morte del beneficiato a meno che chi sacrifica la propria vita per un altro non abbia “il potere di”farlo, cioè andare oltre, rimediare, farsi garante per sempre. E questo nessun altro uomo avrebbe potuto farlo: sarebbe stato certo considerato positivamente perché “Nessuno ha amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici”(Giovanni 15.13), ma Gesù, che di dare la vita ne aveva “il potere”, lo fa perché solo così avrebbe potuto riscattare la sua creatura, quella con cui in Eden parlava e che nutriva anche lì, per quanto sotto diversa forma, donava di suo, cioè i frutti.

Credo che nessun uomo potesse definirsi più padrone della propria vita di Gesù, Signore di tutto. Eppure la donò liberamente per noi. Eppure non era obbligato a morire, ne aveva solo “il potere”che per definizione implica una scelta. E pensiamo anche a questo: a differenza di noi che abbiamo un appuntamento inevitabile – salvo che Lui non ritorni prima – con la morte, Nostro Signore poteva benissimo non fare quest’incontro, ma morendo dimostrò di condividere in tutto e per tutto, tranne che nel peccato, l’esistenza umana. Fino alla fine.

 

Ed è sul concetto di “potere” che possiamo passare al “riprendere”, “riprenderla di nuovo”, identico in tutti i due casi in cui compare. Chiaramente nessuno può riprendersi la propria vita a meno che non abbia “il potere di darla”nel senso che abbiamo visto poc’anzi. “Dare” e “riprendere”, allora, ci parlano della libertà che Dio ha di disporre della vita e della morte, quest’ultima non soggetta a lui perché conseguenza del peccato, o, come dice la Scrittura, suo “salario”. Tenendo in considerazione il potere di Gesù di deporre la sua vita e di riprenderla si può allora comprendere l’adempimento della promessa, criptica per loro, rivolta ai Giudei, “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere”(Giovanni 2.19) ed è bello considerare che il potere di riprendere la vita che ha donato è in realtà il frutto dell’impossibilità da parte della morte al trattenerlo perché “Ora Dio lo ha risuscitato, liberandolo dai dolori della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere”(Atti 2.24).

Ecco allora perché solo il Cristo può dire “Io sono il primo e l’ultimo, e il vivente. Ero morto, ma ecco sono vivo per i secoli dei secoli, e tengo le chiavi della morte e dell’Ades”(Apocalisse 1. 17,18).

 

Ora resta da esaminare l’ultimo verbo, “togliere”, visto nella pericope “Nessuno me la toglie”che ha connessione, come rilevato più volte, con l’impossibilità che avrebbero avuto gli uomini avversi a Gesù di fargli alcunché se non fosse stato loro permesso. In altri termini, quelli sottostarono alla Sua volontà anche nell’arrestarlo, processarlo, condannarlo e crocifiggerlo. Ricordiamo infatti tutti i tentativi andati a vuoto perché fosse “tolto di mezzo”prima del tempo stabilito tanto a Nazareth quanto a Gerusalemme. “Nessuno me la toglie”nel senso anche di “può togliermela” e molto avrebbero da meditare in proposito coloro che sostengono che Gesù non poteva essere Dio perché Dio non può morire, sofisma farisaico che non tiene conto, perché la rifiuta, della risurrezione dopo tre giorni.

 

Le ultime parole di Gesù nel nostro passo sono “Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio”, ma va sottolineato che la parola “entolé” significa anche “mandato”che pare più appropriata perché nulla lascia supporre, negli scritti dell’Antico e del Nuovo Patto, che il Figlio sia stato costretto a donarsi in sacrificio, senza contare il fatto che, come detto poco prima, l’adesione a Dio sia tutto tranne che frutto di costrizione.

Il “mandato” di Gesù credo piuttosto consistesse nella libertà del dare la vita e di riprenderla con tutto ciò che questo avrebbe comportato: ciò viene ufficializzato nel momento storico della morte e resurrezione, ma in realtà si trattava di qualcosa che Padre, Figlio e Spirito Santo avevano concordato assieme prima ancora di stabilire tutte quelle leggi che governeranno gli equilibri dell’Universo e la vita sulla terra.

Assieme a tutto questo, c’erano anche i nostri nomi secondo Efesi 1.4: “In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci ad essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, secondo il beneplacito della sua volontà”.

Gli ultimi due versi del nostro passo descrivono la reazione dei Giudei che iniziano a dividersi in due fazioni una delle quali, la minoranza, fu in grado di collegare il principio del “buon pastore”e alla vita che sarebbe stata data e ripresa al miracolo del cieco nato: “Queste parole non sono di un indemoniato– constatazione oggettiva, diagnosi alla luce della conoscenza biblica che avevano e di quanto constatavano personalmente –; può forse un demonio aprire gli occhi ai ciechi?”. C’era dunque chi aveva conservato memoria di quel miracolo, avvenuto certo da poco tempo, eppure prontamente, volutamente dimenticato dagli altri che accusarono Gesù di essere “indemoniato e fuori di sé”, la stessa accusa a lui rivolta dai “suoi” parenti, presumiamo madre e fratelli, in Marco 3.21.

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12.37 – IL BUON PASTORE II/II (Giovanni 10.14-16)

12.37 – Il buon pastore II/II (Giovanni 10.14-16)  

 

14Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, 15così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. 16E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. 

 

Abbiamo qui la definizione di “buon pastore” che Gesù dà di sé per la seconda volta: dopo essersi qualificato come l’unico, contrapponendosi al “mercenario” che non “dà la vita per le sue pecore”, qui parla dell’identità reciproca che intercorre tra Lui e i suoi animali in un rapporto di uno a uno. Ricordando infatti alcuni versi che abbiamo letto in proposito, le “conosce per nome” (10.3), nome che riassume l’identità della persona, che le ha dato un giorno e le verrà rivelato nella Nuova Creazione: “Darò loro un nome eterno che non sarà mai cancellato” (Isaia 56.5) e Apocalisse 2.17 in cui alla Chiesa di Pergamo è detto “Al vincitore darò della manna nascosta e una pietruzza bianca, sulla quale sta scritto un nome nuovo, che nessuno conosce all’infuori di chi lo riceve”. Il “chiamare per nome” da parte di Gesù, quindi, è la rivelazione del piano che Dio ha per ciascun credente e della conoscenza perfetta che ha di lui, mentre la “pietruzza bianca”, nel mondo antico, era un’attestazione di innocenza, di vittoria nella gare di atletica e di benvenuto per gli ospiti.

Le pecore sono chiamate dal pastore “una per una”, cioè non si tratta di un gregge condotto al pascolo per dovere, ma per amore in cui ciascun animale ha un posto al suo interno che solo lui può occupare e in cui può esprimersi, trovare la ragione della sua esistenza, sostare nel territorio a lui assegnato.

Il riferimento a questi animali lo troviamo anche in Matteo e in Luca in cui Gesù parla del Suo intervento qualora una delle pecore si smarrisca: “Che cosa vi pare? Se un uomo ha cento pecore e una di loro si smarrisce, non lascerà le novantanove sui monti e andrà a cercare quella che si è smarrita? In verità io vi dico: se riesce a trovarla, si rallegrerà per quella più che per le novantanove che non si erano smarrite. Così è la volontà del Padre vostro che è nei cieli, che neanche uno di questi piccoli si perda” (Matteo 18.12-14). Luca, invece, pone l’accento su un aspetto diverso: “Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro: «Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta». Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione” (15.4-7).

Di questi due passi sono da sottolineare i numeri, uno dell’incompletezza (99) e l’altro del compimento (100) per cui è impossibile che il gregge possa essere definito completo, che possa soddisfare le esigenze del pastore se risulta privo anche di un solo capo ed è lo stesso principio che abbiamo trovato nella parabola delle zizzanie, quando proibisce ai suoi servi di estirparle prima della mietitura perché, sradicandole, le radici intrecciate avrebbero coinvolto nello strappo ne piantine di grano.

Gesù poi è il pastore che “dà la vita per le proprie pecore”, punto su cui si incardina tutto il messaggio del Vangelo che altrimenti non sarebbe un “lieto annuncio” perché tutti noi saremmo inchiodati al nostro (o nostri) peccato/i. Se non si fosse concretato il Suo sacrificio, descritto da Isaia 53.6 con le parole “Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti”, non sarebbe mai cambiato nulla nella nostra vita. E un gregge sperduto non ha nessuna prospettiva né tantomeno possibilità di sopravvivenza, cadendo inevitabilmente vittima degli animali predatori (ricordiamo Davide, che per salvare il suo gregge combatté con un leone e un orso in 1 Samuele 17.34,35: “Ma Davide disse a Saul: «Il tuo servo pascolava il gregge di suo padre e veniva talvolta un leone o un orso a portar via una pecora dal gregge. Allora lo inseguivo, lo abbattevo e strappavo la pecora dalla sua bocca. Se si rivoltava contro di me, l’afferravo per le mascelle, l’abbattevo e lo uccidevo. Il tuo servo ha abbattuto il leone e l’orso”).

Versi significativi a proposito di Gesù che ha dato la propria vita ne abbiamo in Efesi 5.2, “Fatevi dunque imitatori di Dio, quali figli carissimi, e camminate nella carità, nel modo in cui anche Cristo ci ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore”, Tito 2.14, “Egli ha dato se stesso per noi, per riscattarsi da ogni iniquità e formare per sé un popolo puro che gli appartenga, pieno di zelo per le buone opere”. Solo quindi dando “se stesso per noi” avrebbe potuto “formare per sé un popolo puro” che gli appartenga, appunto il gregge.

E 1 Pietro 2.24 ribadisce il concetto: “Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce, perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia”.

 

Nel verso 14 del nostro passo, però, vediamo che il punto centrale è un altro, cioè “…così come il Padre conosce me ed io conosco il Padre”: in pratica, prima Gesù si dichiara come “il buon pastore”, poi parla del Suo rapporto col Padre e poi torna a parlare di sé, “do la vita per me mie pecore”. Abbiamo allora la descrizione della Sua posizione quale Unico Elemento, sulla terra e nei cieli, protagonista della rivelazione del Dio inaccessibile per cui c’è un “IO SONO” che ha creato il mondo, ciò che è in esso cioè dentro, sopra e sotto, e un “Io sono” fatto uomo che lo ha rivelato, Lui e nessun altro. Tutti coloro che sono venuti prima di Lui, hanno dato di Dio una versione limitata al loro tempo, funzionale per un piano che, nonostante la sua grandezza, era comunque limitato e dipendente da eventi successivi per la sua realizzazione; pensiamo ad esempio a Mosè che condusse il popolo fuori dall’Egitto, che diede la Legge, ma che non aprì le porte alla vastità enorme della Grazia come fece invece Gesù Cristo. E – va aggiunto – come solo Lui avrebbe potuto fare.

Ora qui Gesù mette sullo stesso piano la conoscenza che ha del Padre con quella che ha delle sue pecore e quindi si rinnova nella Sua funzione di Mediatore: “Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo” (Matteo 11.27). È quindi Lui tanto chi ha aperto la via al Padre quanto chi lo rivela. La sua funzione mediatrice quindi non si limita al perdóno dei peccati e al rendere compatibile l’uomo con Lui, ma al rivelarlo affinché il credente, prima ancorato alla terra e al peccato, possa conoscere i Suoi misteri. In pratica, per dare una rivelazione piena di Dio, era necessario che Lui stesso si facesse uomo e parlasse come la sua creatura, fatto ben diverso rispetto a quei momenti in cui veniva suscitato un profeta, uomo e quindi imperfetto, che null’altro poteva comunicare se non ciò che Dio gli ordinava di dire agli altri.

Ricordiamo Giovanni 1.18, “Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato”: quindi il Padre è portato al livello della nostra conoscenza nella persona del Figlio che è manifestazione della divinità. Infatti leggiamo “È in lui – Gesù Cristo – che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità, e voi partecipate alla pienezza di lui, che è il capo di ogni principato e di ogni Potenza” (Colossesi 2.9). L’importanza del Figlio di Dio, anche “dell’uomo” perché a lui si è abbassato, è tale per cui “Tutto egli ha messo sotto i suoi piedi e lo ha dato alla Chiesa come capo su tutte le cose: essa è il corpo di lui, la pienezza di colui che è il perfetto compimento di tutte le cose” (Efesi 1.22,23).

 

A questo punto, tornando ai nostri versi, il 15 apre uno sguardo su quei popoli che, non appartenenti a quello di Israele, vivevano esclusi dalla possibilità di conoscere il vero Dio: “E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore”. Qui Gesù tocca un “tasto spiacevole” per gli Ebrei, che rivendicavano la loro esclusiva appartenenza a Dio e di cui abbiamo testimonianza in molti passi: in Lui si realizzano le profezie più velate, come abbiamo letto nel secondo cantico del Servo, “È troppo poco che tu sia mio servo per restaurare le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti d’Israele. Io ti renderò luce delle nazioni, perché porti la salvezza fino all’estremità della terra” (Isaia 49.6). Anche 60.2,3, “Poiché ecco, la tenebra ricopre la terra, nebbia fitta avvolge i popoli; ma su di te risplende il Signore, la sua gloria appare su di te. Cammineranno le genti alla tua luce, i re allo splendore del tuo sorgere”.

 

Gesù però, dando questa panoramica sul proprio ufficio di Pastore, dà anche un’anticipazione di quanto avverrà, perché precisa che le “altre pecore”, che non appartengono al “recinto” di Israele, “Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore”. In tal modo, un altro tassello al grande mosaico che è l’Opera perfetta di Dio per il ricupero dell’uomo caduto, verrà aggiunto.

Non credo vi sia modo migliore e più chiaro per concludere queste riflessioni con la citazione di Efesi 2.11-18: “Perciò – la salvezza per fede – ricordatevi che un tempo voi, pagani nella carne, chiamati – con disprezzo – non circoncisi da quelli che si dicono circoncisi perché resi tali nella carne per mano d’uomo, ricordatevi che in quel tempo eravate senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza di Israele, estranei ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio nel mondo. Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate lontani, siete diventati vicini, grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace, colui che di due – popoli, ebrei e gentili – ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva, cioè l’inimicizia, per mezzo della sua carne. Così egli ha abolito la Legge – perché l’ha adempiuta perfettamente –, fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, eliminando in se stesso l’inimicizia. Egli è venuto ad annunciare pace a voi che eravate lontani – in quanto gentili – , e pace a coloro che erano vicini – in quanto popolo di Israele –. Per mezzo di lui infatti possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo spirito”. Amen.

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12.36 – IL BUON PASTORE I/II (Giovanni 10.11-13)

12.36 – Il buon pastore I/II (Giovanni 10.11-13)       

 

11Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. 12Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; 13perché è un mercenario e non gli importa delle pecore. 

 

L’ “io sono” di Gesù è stato affrontato fin qui diverse volte, mai però quando vi aggiunge un complemento oggetto, particolare che nei Sinottici non troviamo. Complessivamente abbiamo nove definizioni, quindi tre per tre, viste nel

 

  1. “pane della vita”;
  2. “pane vivo disceso dal cielo”;
  3. “la luce del mondo”;
  4. “la porta delle pecore”;
  5. “la porta”;
  6. “il buon pastore”;
  7. “la resurrezione e la vita”;
  8. “la via, la verità e la vita”;
  9. “la vera vite”.

 

Ora, guardandole assieme, è facile individuare la perfezione degli interventi a favore di chi ha riposto il Lui la propria fede: abbiamo il nutrire (“pane della vita” e “pane vivo disceso dal cielo”), il guidare senza possibilità di errore (“la luce del mondo”, “il buon pastore”), ricoverare in un luogo sicuro (“la porta” e “la porta delle pecore”) e infine donare liberamente ciò che mai l’uomo avrebbe potuto acquistare coi suoi mezzi, cioè “la resurrezione e la vita” e “la via, la verità e la vita” che tutti cercano, purtroppo molti solo a parole. A tutte queste definizioni si aggiunge “la vera vite” che mantiene vivi i propri tralci destinati a far frutto (o a venire tagliati se non lo producono).

Gesù non è “un” pastore, ma “il” pastore al quale aggiunge l’aggettivo “buono” a sottintendere che non è come gli altri, ma quello ideale e appropriato, nel vero senso del termine, per la pecora. In greco “buono”, tradotto da “kalòs” riassume i significati di “bello, buono, nobile” mentre il suo contrario, “brutto” annovera in realtà anche i termini di “vile, malvagio”. Possiamo affermare che di “buon pastore” non ve ne possono essere altri perché portino come risultato la salvezza dell’uomo. Ricordiamo le sue parole “Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza”.

Gesù è “il” pastore che si occupa dei suoi animali interamente, amandoli a tal punto da dare la propria vita per loro perché non muoiano, cosa che senza il Suo sacrificio sarebbe certamente avvenuta perché con tutta la Sua predicazione, i miracoli e le potenti operazioni avrebbe soltanto dimostrato di essere il profeta più grande mai apparso sulla terra, ma saremmo rimasti assolutamente soli, senza possibilità di aggrapparci a Lui per avere riscatto.

Infatti Isaia scrive “Noi tutti eravamo sperduti come un gregge – senza pastore –, il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti” (53.6), talché “… camminate nella carità, nel modo in cui anche Cristo ci ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di odor soave”.

Il percorso finale di Gesù fu questo: “Egli ha dato se stesso per noi, per riscattarci da ogni iniquità e formare per sé un popolo puro che gli appartenga, pieno di zelo e di opere buone” (Tito 2.14) e, infine, “Egli portò i nostri peccati sul suo corpo sul legno della croce perché, non vivendo per il peccato, vivessimo per la giustizia. Dalle sue piaghe siamo stati guariti”.

Senza il Suo sacrificio Gesù non avrebbe potuto liberare nessuno da un’esistenza che, comunque la si guardi, è fatta di ben poche cose e soprattutto è destinata a finire perché “L’uomo, nato da donna, ha vita breve e piena d’inquietudine; come un fiore spunta e avvizzisce, fugge come l’ombra e mai si ferma” (Giobbe 14.1).

Proviamo a riflettere brevemente su questo verso: l’uomo ha “vita breve e piena d’inquietudine” e di questo purtroppo se ne rende conto quando, giunto avanti negli anni, fa un bilancio della propria esistenza ed è costretto a concludere che tutto il suo vissuto è trascorso quasi senza che se ne accorgesse. L’inquietudine che lo anima continuamente non è costituita solo dallo stress che accumula sul lavoro, per insoddisfazioni e tensioni varie a causa di incomprensioni col proprio simile, ma dalla ricerca di quiete che non riesce a trovare e, quando la raggiunge, è solo per poco tempo. Non riesce ad afferrarla che è già svanita. L’“inquietudine” è così tanto la preoccupazione quanto il tendere a qualcosa senza raggiungerlo, il soddisfare una sete che si ha dentro e si continua ad avvertire, come già detto alla Samaritana.

“Come un fiore spunta e avvizzisce” ci dà la descrizione della nascita, solitamente motivo di gioia perché una nuova vita rallegra chi la vede venire al mondo, ma all’immagine positiva e di bellezza del fiore si contrappone come una condanna l’ “avvizzisce”, processo che se uno vive abbastanza da vederlo è lento, ma inesorabile a tal punto che una persona anziana è costretta a rassegnarsi a vivere il meno peggio possibile, ma non bene come, forse, quando era giovane.

“Fugge come l’ombra e mai si ferma” è la descrizione delle nostre occupazioni, per lavoro o per svago non importa: siamo un’ombra costretta a muoversi seguendo un corpo che non conosce e che resta sempre un mistero. E l’ombra, incorporea, che assume forma solo quando c’è il sole o una fonte luminosa alternativa, non ha volontà né pensiero, sparisce non appena la luce si spegne o addirittura una semplice nuvola oscura il sole.

Quando poi dopo l’avvizzimento viene la morte, si conclude il percorso sulla terra, ma non è tutto così semplice perché il decesso non è solo il cessare del battito cardiaco, ma un punto fermo: non è più possibile tornare indietro, dire ciò che non si è detto o correggerlo, riparare a qualcosa o costruirlo e ciò avviene tanto per chi muore quanto per tutti coloro che resteranno in vita dopo di lui. La morte porta con sé l’irrimediabilità del tutto. Una fine che, come sappiamo, porterà un rendiconto quando ci troveremo dall’altra parte ed ecco perché nella nostra vita sulla terra Gesù è “Il buon pastore” che, al contrario di quello cattivo che citeremo brevemente, conosce le sue pecore “una per una” nel profondo, sa di cos’hanno bisogno, qual è il loro carattere, come prenderle, come usarle, cosa donare loro.

Il gregge è un organismo composto da elementi che non sanno orientarsi e possono cadere vittime di pastori iniqui oppure di altri soggetti, come preannunciò l’apostolo Paolo in Atti 20.29: “Io so che dopo la mia partenza – si trovava a Mileto – verranno tra voi lupi rapaci, che non risparmieranno il gregge; perfino in mezzo a voi sorgeranno alcuni a parlare di cose perverse, per attirare discepoli dietro di sé”, “discepoli”, quindi “pecore” che dipenderanno da loro e non più da Dio.

Ancora Pietro nella sua seconda lettera 2.1-3: “Ci sono stati anche falsi profeti fra il popolo, come pure ci saranno in mezzo a voi falsi maestri – cioè falsi pastori umani che “il buon pastore” ha lasciato a pascere il suo gregge in Sua assenza – i quali introdurranno fazioni che portano alla rovina – perché un regno diviso in due non può sussistere –, molti seguiranno la loro condotta immorale e per colpa loro la via della verità sarà coperta di disprezzo – pensiamo a quanti abbandoni ci sono nella Chiesa per gli scandali e le immoralità che avvengono in essa –. Nella loro cupidigia vi sfrutteranno con parole false, ma per loro la condanna è in atto ormai da tempo e la loro rovina non si fa attendere”.

Non così il vero credente, che ha avuto l’imprinting proprio dal “buon pastore” e che ne riconosce la voce e a Lui si affida e, nonostante tutte le negatività che si esprimono proprio là dove potrebbe trovare riposo; “Tuttavia le solide fondamenta gettate da Dio resistono e portano questo sigillo: Il Signore conosce quelli che sono suoi, e ancora: Si allontani dall’iniquità chiunque invoca il nome del Signore. In una casa grande però non vi sono soltanto vasi d’oro e d’argento, ma anche di legno e di argilla; alcuni per usi nobili, altri per usi spregevoli. Chi si manterrà puro da queste cose, sarà come un vaso nobile, santificato, utile al padrone di casa, pronto per ogni opera buona” (2 Timoteo 2.1-3).

C’è però una realtà e cioè che “il buon pastore”, che “dà la vita per le sue pecore”, svolge una funzione che non conosce fine: “Eravate erranti come pecore, ma ora siete stati ricondotti al pastore e custode delle vostre anime” (1 Pietro 2.25), quindi alla descrizione di questi animali disorientati e senza un dove, “eravate erranti”, ora c’è una situazione di stabilità e pace vista nelle parole “ricondotti”, “pastore e custode” e “vostre anime”. La “pecora di Gesù”, se lo seguirà sempre, non si smarrirà. Quando, perché comunque è dotata di volontà propria, vorrà fare di testa sua potrà perdersi per un tempo più o meno lungo, ma verrà sempre ritrovata. Il “custode” non usa metodi violenti per sottomettere i suoi animali, non li chiude in una prigione, “cammina davanti a loro”, ma non li percuote perché stiano compatte e unite: vuole che decidano, nel loro interesse, di stare con lui condividendone il cammino e il pascolo.

Veniamo ora al “mercenario”, altro personaggio indicativo: si tratta di una persona insensibile, pagata per fare un lavoro quindi non un altro pastore che può amare più o meno quegli animali. Il “mercenario” si muove per interesse, per lui conta solo venire pagato, possibilmente al meglio col minor sforzo; sa che non deve perdere delle pecore perché altrimenti il padrone si rivarrebbe su di lui per cui le cura, ma solo per non rimetterci ed è una figura differente dall’ “estraneo” che abbiamo trovato nei versi precedenti.

Il “mercenario” è figura di persone, ma anche di dottrine e filosofie che non possono che offrire una soluzione temporanea per poi dissolversi e pensiamo a quanti sono convinti di aver trovato la soluzione ai loro problemi praticando Yoga o altre forme di rilassamento e/o meditazione, frequentano circoli mistici o esoterici e, siccome ottengono risultati (temporanei), vi si dedicano con assiduità, ma quando “viene il lupo”? Il “mercenario” fugge perché non è più in grado di aiutare, offrire soluzioni, alternative a quella che è la meccanica della vita che inevitabilmente sfocia nella tribolazione, nel lutto e nella disperazione causata dalla rovina imminente o avvenuta. È la casa costruita sulla sabbia che altro non può fare se non distruggersi.

Il “mercenario, che non è un pastore e al quale le pecore non gli appartengono” si rivela così per quello che è: un palliativo, un individuo non idoneo, incompetente, alternativo di un nulla. Costui “abbandona le pecore e fugge” non perché trova la sua soddisfazione nella rovina del gregge, ma perché pensa a se stesso, si preoccupa di salvarsi a fronte del pericolo e nulla gli importa se degli innocenti muoiono: “è un mercenario e non gli importa delle pecore”, è così e basta, non gli importava prima, né tantomeno quando giunge un predatore che, paradossalmente, gli dà solo una giustificazione per non agire: “le pecore non sono mie, chi me lo fa fare?”.

Credo che ogni cristiano sincero sia scampato e scamperà sempre dal “mercenario” perché con lui incompatibile: “le pecore ascoltano” la voce del pastore e un estraneo non lo seguiranno. E infatti, il verso 14 col quale apriremo il prossimo capitolo, così riporta: “Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me”. Amen.

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12.35 – LA PORTA DELLE PECORE (Giovanni 10.7-10)

12.35 – La porta delle pecore (Giovanni 10.7-10)  

 

7Allora Gesù disse loro di nuovo: «In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore. 8Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. 9Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo. 10Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza.

 

“La porta delle pecore” è la nuova definizione che Gesù da di sé, oltre a quella di “pastore”: c’è un “recinto” che è quello per il popolo di Dio destinato ad accogliere le pecore condotte da Uno che, oltre a portarle al pascolo, è anche la “porta”, cioè l’unico passaggio possibile per entrare ed essere incluso nel gregge.  Gesù quindi, come “porta”, fa entrare nell’ovile e riconosce solo ciò che è Suo e, se è possibile che alcuni passino con l’inganno in quello terreno, la Chiesa, così non avviene nell’ovile spirituale perché occorre possedere la sola qualità necessaria, quella di essere veri figli di Dio. Ricordiamo Luca 13.25: “Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, voi, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: «Signore, aprici!». Ma egli vi risponderà: «Non so di dove siete»”.

Se la “porta” al verso 2, “chi invece entra dalla porta, è il pastore delle pecore”, sembra solo uno strumento, nel settimo (la porta) abbiamo l’identificazione in Gesù che assolve la duplice funzione protettiva e di filtro. La porta infatti è figura di ciò che divide un ambiente, un territorio e, nel nostro caso, un mondo da un altro, sta a segnalare una proprietà privata.

Ricordiamo alcuni passi significativi in proposito, ad esempio in Genesi 4.6,7 in cui la “porta” viene citata per la prima volta nella Scrittura: “Il Signore disse allora a Caino: «Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto? Se agisci bene, non dovresti forse tenerlo alto? Ma, se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, e tu lo dominerai”. Quindi anche l’uomo ha una porta che può essere aperta o chiusa ed è quella del cuore, più o meno permeabile alla Parola di Dio. Sta alla persona scegliere a chi aprire, perché il nostro cuore e la nostra mente sono paragonate a una casa che è inevitabile sia abitata da qualcuno, in particolare da uno spirito immondo o dallo Spirito Santo, come leggiamo in Matteo 12.43-45: “Quando lo spirito impuro esce dall’uomo – perché scacciato da Gesù – si aggira per luoghi deserti cercando sollievo, ma non ne trova – perché ha bisogno di abitare un corpo –. Allora dice: «Ritornerò nella mia casa, da cui sono uscito». E, venuto, la trova vuota, spazzata e adorna – quindi non abitata da altri –. Allora va, prende con sé altri sette spiriti peggiori di lui, vi entrano e vi prendono dimora; e l’ultima condizione di quell’uomo diventa peggiore della prima”.

Se ci pensiamo, sembra di leggere purtroppo una delle cronache della società di oggi, quando un gruppo di persone approfitta dell’assenza del proprietario di una casa per entrarvi e prendervi dimora. Quando Gesù libera una persona, questa deve accoglierlo, “aprirgli la porta” davvero e non dietro un impulso sentimentale, carnale, “mistico”, perché altrimenti sarà inutile e conoscerà una condizione peggiore di quella di prima. Non credo sia un caso se Caino meditò l’omicidio del fratello proprio dopo aver sentito Iddio parlargli nel modo che abbiamo riportato.

Collegato a cosa implichi per l’uomo aprire la porta è Apocalisse 3.20 “Ecco, io sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce – chiara, riconoscibile, unica – e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me”. Notiamo che si parla di cenare, non di pranzare, per cui chi apre la porta a Nostro Signore lascia fuori il buio della sera, si rinfranca da una giornata di lavoro e a lei segue il riposo. Il pranzo invece è una pausa, un intervallo che, per quanto possa essere piacevole, comporta altre implicazioni. Raramente è intimo come la cena e, se ci pensiamo, possiamo pranzare con chiunque, ma non così è per il pasto serale.

Altro riferimento alla “porta”  lo troviamo in 4.1 con significato totalmente diverso: “Poi vidi: ecco, una porta era aperta nel cielo. La voce, che avevo udito parlarmi prima come una tromba, diceva: «Sali qua, e ti mostrerò le cose che devono accadere in seguito»”. Restando strettamente aderenti al testo, la “porta aperta nel cielo” è l’ingresso riservato a Giovanni perché possa fedelmente riportare ed annunziare “le cose che devono accadere in breve tempo”. Qui “la porta” è uno strumento e un segno della libera volontà del Figlio, “Colui che ha la chiave di Davide: quando egli apre, nessuno chiude e quando chiude nessuno apre”, o “può aprire” secondo un’altra traduzione. Vediamo poi che alla visione della “porta aperta nel cielo” segue un invito che di quell’apertura è la spiegazione: le rivelazioni di Dio non sono mai fine a loro stesse, non avvengono per soddisfare una curiosità personale, ma perché vengano comunicate ad altri, come scrisse l’apostolo Paolo in 2 Timoteo 2.1,2, “Tu dunque, figlio mio, attingi sempre forza nella grazia che è in Cristo Gesù e le cose che hai udito da me in presenza di molti testimoni, trasmettile a persone fidate, le quali siano in grado di ammaestrare a loro volt anche altri”. La “porta”, allora, qui è anche passaggio, testimonianza, verità che si trasmette a chi è in grado di accoglierla.

Abbiamo poi da considerare “le porte”, quelle della Gerusalemme celeste: “La città non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna perché la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello. Le nazioni cammineranno alla sua luce e i re della terra a lei porteranno la loro magnificenza. Le sue porte non si chiuderanno mai durante il giorno, poiché non vi sarà più notte. E porteranno a lei la gloria e l’onore delle nazioni. Non entrerà in essa nulla d’impuro, né chi commette abominio o falsità, ma solo quelli che sono scritti nel libro della vita dell’Agnello” (21.22-27). Finirà quindi il tempo in cui convivere con gli ignoranti e i peccatori, con i contaminati, la difesa estenuante dai loro tentativi di infiltrazione morale e spirituale negativa. Nella Nuova Gerusalemme, a differenza delle città antiche, non ci saranno mendicanti alle sue porte.

Altra citazione delle “porte” è in 22.12-15 e credo non abbia bisogno di commenti: “Ecco, io verrò presto e porterò con me il mio salario, per rendere a ciascuno secondo le sue opere. Io sono l’Alfa e l’Omega, il Primo e l’Ultimo, il principio e la fine. Beati coloro che lavano le loro vesti: avranno parte all’albero della vita e potranno entrare per le porte nella città. Fuori i cani, i fattucchieri, gli immorali, gli omicidi, gli idolatri e chiunque ama e pratica la menzogna!”.

Infine, e forse a qualcuno era già venuto in mente citando le “porte”, abbiamo la promessa di Gesù sulla Chiesa, quando disse a Pietro “su questa pietra – secondo la quale Lui è il Cristo, il Figlio dell’Iddio vivente – edificherò la mia Chiesa e le porte dell’Ade non la potranno vincere” (Matteo 16.28), quelle porte sempre aperte dopo la via larga e spaziosa che porta alla perdizione, alla fine di una strada in discesa.

A questo punto restano da esaminare le altre parole di Gesù, che confermano come Israele sia stato fino ad allora l’ovile di Dio, per quanto fosse necessario intervenire  data la confusione operata dall’Avversario: “Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti”. Certo qui il riferimento non è ai profeti, ma a tutti coloro che hanno avuto la pretesa di trasmettere elementi dottrinali non secondo Dio, come gli scribi e farisei disonesti, cioè la maggior parte, ma anche gli pseudo Messia che ogni tanto sorgevano.

Mosè e i profeti possedevano il mandato per operare secondo i voleri di Dio, ma i Giudei certamente no: la religione, con la sua assenza di verità, porta con sé tutto tranne che veri conduttori spirituali; piuttosto, ha maestri rapaci, superstiziosi, ipocriti e pieni d’orgoglio. La religione, infatti, soddisfa quella parte carnale che vorrebbe godere di spiritualità senza rinunciare alle proprie abitudini. Certo, succede anche nella Chiesa perché altrimenti essa sarebbe un campo senza zizzania. Il “prima di me” sta allora a sottintendere che solo Lui poteva essere il portatore del messaggio perfetto; il resto non era altro che scoria perché, a fronte del fallimento dei pastori che avevano disperso il gregge, “Radunerò io stesso il resto delle mie pecore da tutte le regioni dove le ho lasciate scacciare e le farò tornare ai loro pascoli, saranno feconde e moltiplicheranno” (Geremia 23.3).

Però, anche se era ancora attiva la dispensazione della Legge, “le pecore non li hanno ascoltati”, cioè non hanno aderito ai loro sistemi oppure se ne sono/sarebbero estraniati. Ancora, l’ “ascoltàti” significa non diventare discepoli immedesimandosi in tali persone e qui vediamo anche l’opera di Dio che li preservava, qui descritto con l’istinto della pecora che le impedisce di seguire chi non è il suo pastore. Abbiamo poi “ladri e briganti”, stesse parole dette poco sopra al verso 1, “chi non entra nel recinto delle pecore per la porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante” e, secondo l’aggiornamento qui dato, non c’è altra porta se non Gesù Cristo.

Ora “Se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo” (v.9): il “se”, come abbiamo visto tante volte, è la sola condizione per entrare nell’ovile ed implica l’accettazione del Suo sacrificio visto nella preposizione “attraverso” che implica un passaggio, è un rafforzativo dell’entrare, è per noi un percorso che implica una resa, un abbandono di tutto quello che è di ostacolo, gonfio di inutilità. E qui il rimando alla “porta stretta” e al “cammello” che passa per “la cruna di un ago” è evidente e confluisce nello stesso concetto.

C’è da sottolineare ora “entrerà e uscirà” che potrebbe suggerire il fatto che la pecora, una volta nell’ovile, abbia la libertà di gestire il suo tempo come meglio crede, cosa impossibile perché sappiamo che si tratta di un animale che ha sempre bisogno di essere guidato. Piuttosto “entrare e uscire” è un’espressione usata nella Scrittura per descrivere un corso abituale di vita o il libero uso di una dimora, un entrare e uscire a piacimento come uno fa in casa propria, quindi ha riferimento con la libertà di cui gode il vero cristiano non soggetto a precetti se non quello dell’amore per il suo Signore che porta automaticamente ad uno stile di vita consono alla Scrittura.

La libertà qui descritta non è un vivere anarchico, ma senza la soggezione di quegli elementi del mondo materiale che si manifestavano prima: ora, senza più quel peso, il risultato è “troverà pascolo”, quello vero.

Infine, Gesù si preoccupa di stabilire la differenza fra Lui e gli altri venuti prima, già definiti “ladri e briganti”: “Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita, e l’abbiano in abbondanza” (v.10). Notiamo i tre verbi che contemplano il furto, l’omicidio e la distruzione, tutte caratteristiche piene dell’Avversario che da queste trae il suo nutrimento temporaneo. Il furto equivale al rapimento di cui abbiamo parlato nello scorso studio: il bene una volta appartenuto a una persona non si trova più, ma qui si tratta di un furto a Dio. Lo stesso omicidio poi, privazione della vita tramite la violenza, implica l’assoluta impossibilità di rapporto tra le persone. Nel caso specifico, fu ucciso Abele – primo, inevitabile rimando – e tutti coloro citati da Gesù in Matteo 23.37, “Gerusalemme, Gerusalemme, tu che uccidi i profeti e quelli che sono stati mandati a te, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le sue ali, ma non avete voluto!”. Certo, ne seguiranno da quel momento tanti altri.

“Distruggere” è infine l’ultimo verbo e significa “abbattere, disfare qualcosa in modo da renderlo definitivamente inutilizzabile o da cancellarne perfino al traccia, sterminare, annientare”, quello che Satana voleva fare in Eden e vi riuscì in parte, non tenendo conto che Dio è sì Giudice, ma anche Amore per cui avrebbe recuperato la Sua creatura.

A questi verbi ne contrastano altrettanti: “sono venuto”, cioè mi sono fatto uomo, ho rinunciato a ciò che era mio nell’alto dei cieli per scendere e operare fino al sacrificio estremo. “Perché abbiano la vita”, quella che procede da me, la potenza che rese possibile all’uomo diventare “anima vivente” e che ora lo recupera strappandolo al “presente, malvagio secolo” di buio, freddo e morte. “E l’abbiano in abbondanza”, quindi una vita assolutamente piena in cui nulla manchi, come aveva già capito e sperimentato Davide quando scrisse il Salmo 23 di cui cito il primo verso: “Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla”.

Nelle parole di Gesù, però, si parla della vita spirituale prima impossibile e del fatto che non è venuto sulla terra per salvare nel senso di dare una sorta di tesserino di appartenenza, ma perché questa “vita” sia perfetta, abbondante perché solo così il peccato avrebbe potuto definirsi sconfitto secondo Romani 5.20: “…dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia. Di modo che, come regnò il peccato nella morte, così regni anche la grazia mediante la giustizia per la vita eterna, per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore”. Amen.

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12.34 – IL PASTORE DELLE PECORE (Giovanni 10.1-6)

12.34 – Il pastore delle pecore (Giovanni 10.1-6)   

 

1 «In verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. 2Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore. 3Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. 4E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce. 5Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei». 6Gesù disse loro questa similitudine, ma essi non capirono di che cosa parlava loro.

 

Il capitolo decimo si apre con questo discorso di Gesù, l’ultimo a Gerusalemme prima di lasciarla intraprendendo il viaggio missionario che verrà riportato da Luca, portandosi nei dintorni della città e nella regione di Betania. Le parole che abbiamo letto vengono subito dopo la netta distinzione fra “coloro che non vedono” destinati a ricuperare la vista a seguito di un Suo intervento, e “quelli che vedono” affinché “diventino ciechi”.

Tutta la prima parte del capitolo 10, da 1 a 21 che suggerisco di leggere per avere una panoramica dell’intero discorso, è dedicata al tema del pastore contrapposto ad altre figure come il “ladro o un brigante”, “il guardiano”, “un estraneo”, “tutti quelli venuti prima di me”, “il mercenario”, “la porta delle pecore”, “le altre pecore che non provengono da questo recinto”, che andranno analizzate.

Gesù fa questo discorso ai farisei presenti, ma anche difronte ad altri testimoni, quelli che lo seguivano perché attratti dalle Sue parole e soprattutto dalla guarigione poco prima avvenuta del cieco nato. Dobbiamo pensare che quel giorno si verificarono quattro eventi straordinari e cioè prima il miracolo, poi l’inchiesta del Sinedrio che si concluse con la scomunica del guarito dalla Congregazione di Israele e la sua annessione al gruppo dei discepoli, che non lasciarono certo indifferenti coloro che seguivano la “cronaca cittadina”. Difficile pensare che, fra i testimoni di questi fatti, vi fossero dei pettegoli; piuttosto quanto avvenuto non solo quel giorno, ma anche prima – pensiamo al paralitico di Betesda – aveva costretto le persone a interrogarsi con domande importanti, pensiamo a “Come può un peccatore compiere segni di questo genere?”, ai “molti credettero in lui”, a quelli che dicevano “È buono” contrapposti a quelli che sostenevano “No, inganna la gente” o alla frase “Il Cristo, quando verrà, compirà forse segni più grandi di quelli che ha fatto costui?”.

Ecco chi furono le persone, oltre ai farisei, che ascoltarono le parole di questo capitolo che sono precedute da due “In verità”, cioè “Amen”.

Proviamo ad esaminare a questo punto il verso 1, “Chi non entra dal recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro o un brigante”. Il “recinto delle pecore” costituiva il perimetro dell’ovile, costruzione quadrangolare cintata da un muro costituito da pietre in cima al quale si piazzavano dei rami spinosi tanto per impedire alle pecore di uscire, quanto per evitare l’ingresso di animali predatori. In ciascuno dei lati del quadrato vi era una porta che, nel caso di grandi greggi, era veniva aperta o chiusa dall’assistente del pastore, presente anche di notte.

L’ovile è quindi il recinto delimitato con cura e i farisei presenti, con la loro cultura, avrebbero immediatamente dovuto porre mente alle parole di due profeti al riguardo, Geremia 50.6 “Gregge di pecore sperdute era il mio popolo, i loro pastori le avevano sviate, le avevano fatte smarrire per i monti; esse andavano di monte in colle, avevano dimenticato il loro ovile” ed Ezechiele 34.16 che profetizzava l’opera di Nostro Signore come Dio: “Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita, fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte; le pascerò con giustizia”. Qui è facile il raccordo alla parabola del “buon samaritano” che compie le medesime azioni nei confronti di un uomo caduto “nelle mani dei briganti”, figura presente anche qui assieme al “ladro”.

“Ladro e brigante” è una persona dedita professionalmente all’infrazione del comandamento “non ruberai”, ma anche “non ucciderai”. Ricordiamo alcuni passi per questa prima figura: “se un ladro viene sorpreso mentre sta facendo una breccia in un muro e viene colpito e muore, non vi è per lui vendetta di sangue. Ma se il sole si era già alzato su di lui, vi è per lui vendetta di sangue. Il ladro dovrà dare l’indennizzo: se non avrà di che pagare, sarà venduto in compenso dell’oggetto rubato” (Esodo 22.1,2); “Quando un uomo dà in custodia al suo prossimo denaro od oggetti e poi nella casa di costui viene commesso un furto, se si trova il ladro, quest’ultimo restituirà il doppio”; infine Deuteronomio 24.7 dove abbiamo il ladro nella sua massima forza negativa: “Quando si troverà un uomo che abbia rapito qualcuno dei suoi fratelli tra gli Israeliti, l’abbia sfruttato come schiavo o l’abbia venduto, quel ladro sarà messo a morte. Così estirperai il male in mezzo a te”.

Il “brigante”, invece, è per definizione una persona armata che assale la gente in aperta campagna, approfittando del fatto che, in una zona isolata, non è possibile alcuna difesa. Tanto il ladro che il brigante, come nella parabola citata, non hanno nessuna pietà ed esistono solo per la rovina altrui. Eppure, secondo l’opinione di Ben Sira, “Meglio un ladro che un mentitore abituale” (Siracide 20.25), tutte comunque figure riferite all’Avversario e ai suoi angeli, cioè tutti coloro che si rendono suoi strumenti.

“Chi vi sale da un’altra parte”, tornando al testo, lo fa perché spera di passare inosservato agli occhi del portinaio e certo non “entra per la porta”, la più sorvegliata. Certo il “ladro e brigante” non agisce di giorno, confidando nel fatto che proprio di notte sia più facile che il custode dell’ovile possa addormentarsi.

Il “portinaio”, quattro nei grandi recinti cioè uno per varco, è figura della rimozione di qualsiasi ostacolo alla dottrina della salvezza per grazia, totalmente chiusa a coloro che non riconoscono Gesù Cristo ed il fatto che i portinai fossero dislocati ai punti cardinali, questo è indice di custodia e inattaccabilità, inaccessibilità da parte di estranei. Si tratta quindi di un incarico di responsabilità, come per i pastori umani individuabili in Marco 13.32,37: “Quanto però a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo, né il Figlio, eccetto il Padre – perché è lui l’artefice della creazione e del recupero della Sua creatura dopo la caduta –. Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento. È come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portinaio di vegliare. Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino, fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati. Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!”.

È fondamentale quindi che il compito di “portinaio” venga svolto con fedeltà e rigore perché si tratta di un ufficio conferito direttamente da Dio che ci rimanda ai Cherubini posti a salvaguardia della via di Eden quando leggiamo che “Il Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden perché lavorasse il suolo da cui era stato tratto. Scacciò l’uomo e pose a oriente del giardino di Eden i cherubini e la fiamma della spada guizzante, per custodire la via dell’albero della vita” (Genesi 3.23,24). Eden come territorio fisico perfetto, assoluto e spirituale contrassegnato dalla presenza di Dio esiste quindi ancora, ma in quanto tale è irraggiungibile dall’essere umano avendo la creatura perduto tutte le caratteristiche che aveva nel momento in cui fu formato. La “polvere della terra” col quale era stato plasmato era solo una sorta di “ingrediente base”, ma il suo essere divenuto “anima vivente”, perfetto a tal punto da vedere Dio senza subire la morte, è ormai da tempo un fatto remoto.

I Cherubini sono quindi la figura perfetta del portinaio: svolgono la loro opera incessante così come incessante dev’essere la veglia ricordata da Gesù e conosciamo bene la parabola delle dieci vergini e delle cinque di loro che si addormentarono dando prova di non avere onorato il compito loro affidato: dovevano organizzarsi in modo tale da non rimanere senza olio, oltre a non  addormentarsi.

Tornando al nostro testo, dopo queste prime tre figure, il ladro, il brigante e il portinaio, Nostro Signore dedica a lui il rimanente spazio: “il pastore delle pecore entra dalla porta”, è il padrone del gregge, tutte le sue azioni sono improntate alla chiarezza e alla logica della circostanza; “chiama le pecore per nome”, altro riferimento proprio a Mosè che doveva essere colto da coloro che si avevano detto “Noi siamo discepoli di Mosè”: “Mosè disse al Signore: «Vedi, tu mi ordini: «Fa’ salire questo popolo», ma non mi hai indicato chi manderai con me; eppure hai detto «Ti ho conosciuto per nome, anzi hai trovato grazia ai miei occhi»” (Esodo 33.12).

Chiamare “le pecore per nome”, a parte i riferimenti al gregge naturale perché così avviene in quel contesto, si riferisce alla conoscenza che ha il pastore dei suoi animali, della loro natura e fragilità più volte sottolineata in questi scritti, ma soprattutto ha a che fare con il nostro nome, “scritto nel libro della vita”: il credente è stato infatti chiamato da Gesù “per nome”, quello scritto “fin dalla fondazione del mondo” senza conoscerlo, ed ha risposto.

Il pastore conduce fuori al pascolo le sue pecore che, sentendo la sua voce, sanno di essere al sicuro. Viene chiamato così in causa l’udito spirituale, quello che è al tempo stesso naturale e richiede attenzione, quella necessaria per non fraintenderne il timbro: “Un estraneo non lo seguiranno”. Quindi “le chiama per nome, le conduce fuori” e “va davanti a loro”, azioni che attestano la reciprocità perché le pecore appartengono al pastore come lui al gregge e in quell’ andare “davanti a loro” è un chiaro riferimento a 1 Pietro 2.21 che recita “Cristo patì per noi, lasciandoci un esempio, perché ne seguiamo le orme”.

Poi abbiamo il non seguire “l’estraneo”, cioè chi non parla come lui, ha una voce diversa. Anche se costui le chiamasse, non gli darebbero retta. L’apostolo Paolo, scrivendo ai Galati, li esorta allo stesso udito spirituale e alla cautela di fronte a qualsiasi messaggio, soprattutto quello che simula una verità che è ben lungi da possedere: “Ma se anche noi stessi, oppure un angelo dai cielo vi annunciasse un vangelo diverso da quello che vi abbiamo annunciato, sia anàtema! L’abbiamo già detto e ora lo ripeto: se qualcuno vi annuncia un vangelo diverso da quello che avete ricevuto, sia anàtema!” (1.8,9). Paolo scrive queste parole perché i membri di quella comunità erano rimasti turbati, e alcuni di loro si erano convinti, a fronte della predicazione di alcuni giudei cristiani, che la salvezza richiedeva l’osservanza della Legge di Mosè. Possiamo capire quanto fosse preoccupato perché la Galazia comprendeva quelle città in cui aveva predicato e fondato delle Chiese, come Licaonia, Iconio, Listra, Derba e Antiochia di Pisidia.

Infine abbiamo il verso 6, “Gesù disse loro questa similitudine, ma essi non capirono di che cosa parlava loro”: questi “essi” sono chiaramente i Suoi avversari, che nonostante gli esempi contenuti nei profeti in Ezechiele 34 e Zaccaria 11, per non parlare dei passi in cui il Messia viene presentato come il pastore supremo, non capirono, ancora prigionieri del loro ragionamento che respingeva qualsiasi collegamento spirituale. Non avevano capacità di astrazione e di armonizzare i testi a loro disposizione che era impossibile non avessero studiato. Piuttosto si avveravano le parole di Zaccaria 11.9: “Non sarò più il vostro pastore. Chi vuole morire muoia, chi vuole perire persica, quelle che rimangono si divorino pure fra loro”.

La stessa cosa avviene anche oggi sia per gli eredi dei farisei che per tutti coloro che vorrebbero capire il Vangelo e il messaggio cristiano a patto che venga filtrato, più che dai loro gusti, dalle loro esigenze personali. Ma, se una persona “non è delle mie pecore”, non potranno mai venirne a capo. Amen.

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12.33 – IL CIECO NATO VI/VI (Giovanni 9.35-38)

12.33 – Il cieco nato VI (Giovanni 9.35-38)         

35Gesù seppe che l’avevano cacciato fuori; quando lo trovò, gli disse: «Tu, credi nel Figlio dell’uomo?». 36Egli rispose: «E chi è, Signore, perché io creda in lui?». 37Gli disse Gesù: «Lo hai visto: è colui che parla con te». 38Ed egli disse: «Credo, Signore!». E si prostrò dinanzi a lui. 39Gesù allora disse: «È per un giudizio che io sono venuto in questo mondo, perché coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi». 40Alcuni dei farisei che erano con lui udirono queste parole e gli dissero: «Siamo ciechi anche noi?». 41Gesù rispose loro: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: «Noi vediamo», il vostro peccato rimane».

Secondo un metodo ormai collaudato individuiamo i due verbi che caratterizzano la prima parte del verso 35, “seppe” e “trovò”, che indicano l’onniscienza di Gesù che non si limita all’acquisizione di  un dato, ma a reagire positivamente nei confronti della creatura che lo cerca. Possiamo dire che l’uomo da Lui guarito fu provato attraverso tre passaggi: primo, il non opporre resistenza al suo operare quando gli applicò l’impasto di fango sugli occhi; secondo, recarsi alla piscina di Siloe e lavarsi, azione che solo la fede o un forte senso di disponibilità poteva produrre, e infine il terzo, quello più difficile, sostenere l’inchiesta–processo imbastito dal Sinedrio. La condotta dei cieco guarito fu sempre nitida, potremmo dire esemplare, senza lasciarsi influenzare dall’autorevolezza umana dei componenti di quell’organo inquirente e giudicante. Un vile o un codardo avrebbe sicuramente inventato qualcosa pur di non subire le conseguenze del venire “cacciato fuori” da quell’aula: la vita l’aveva infatti recuperata a prescindere, cos’altro avrebbe potuto succedergli? Ricordiamo ad esempio l’episodio in cui furono guariti dieci lebbrosi (Luca 17.11-19), quando solo uno tornò a ringraziare Nostro Signore che disse “Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove, dove sono?”.

A modo suo, il cieco nato aveva difeso tanto Gesù, attribuendo solo a Lui la guarigione, quanto la verità del miracolo: aveva solo detto il vero, abbiamo detto “senza aggiungere né togliere” incurante delle azioni ritorsive del Sinedrio. Possiamo dire che fece tutto ciò che poteva per rendere una testimonianza piena e fedele. Il “seppe” di Nostro Signore implica questo e non il venire a sapere dagli altri che era stato estromesso dalla Congregazione di Israele. Il “sapere” di Gesù va individuato nella frase detta a Mosè in Esodo 3.7, “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze”.

Il “sapere” di Gesù implica il riconoscere chi gli appartiene fra i tanti come nella parabola delle dieci vergini quando cinque di loro, gridando alla porta chiusa “Signore, Signore, aprici!” si sentirono rispondere “In verità vi dico: non vi conosco” ed è impossibile non citare le lettere alle sette Chiese di Apocalisse, ciascuna delle quali inizia con “conosco”: “le tue opere, la tua fatica e la tua perseveranza” (Efeso), “la tua tribolazione, la tua povertà” (Smirne), “che abiti dove Satana ha il suo trono” (Pergamo), “le tue opere, la carità e la fede, il servizio e la costanza e so che le tue opere sono migliori delle prime” (Tiàtira), “le tue opere, ti si crede vivo, e sei morto” (Sardi), “le tue opere” (Filadelfia), “le tue opere, tu non se né freddo, né caldo” (Laodicea). Notiamo la conoscenza di Gesù non si limita ai fatti, ma soprattutto a ciò che è all’origine delle scelte delle Chiese, quindi le motivazioni più recondite.

Il “sapere di Gesù” quindi è lo stesso, come Lui, “di ieri, di oggi e di sempre” (Ebrei 13.8) attraverso i secoli e i millenni, “sa” e “trova” chiunque provvedendo a lui in salvezza o in giudizio: “Anche se penetrano negli inferi, di là li strapperà la mia mano; se salgono al cielo, di là li tirerò giù; se si nascondono in vetta al Carmelo, di là li scoverò e li prenderò; se si occultano al mio sguardo in fondo al mare, là comanderò al serpente di morderli; se vanno in schiavitù davanti ai loro nemici, là comanderò alla spada di ucciderli” (Amos 9.2-4) per non parlare del monito in Geremia 49.16: “Anche se come l’aquila ponessi in alto il tuo nido, di lassù ti farò precipitare”. Ecco l’ambivalenza del “trovare” di Dio, che nel nostro episodio è di luce, consolazione e libertà.

C’è un altro verbo che caratterizza il nostro passo ed è: “disse”. Gesù, quando parla a un uomo, lo onora sempre indipendentemente dal fatto che accolga o meno ciò che dice e la Sua parola, come in Isaia 55.10,11 non torna indietro a vuoto: “Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia seme al seminatore e pane da mangiare, così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata”. E qui, per l’episodio in esame, la Parola non tornò indietro né per il cieco, né per i farisei perché comunque diede un risultato positivo per uno e negativo per gli altri. E anche nel gruppo di ostili, aveva dato comunque un frutto perché sappiamo che “alcuni dei farisei credevano in lui”.

Inoltre, il “dire” di Gesù porta sempre una nuova realtà, una nuova visione e conoscenza: non ha mai parlato a un uomo senza stravolgerne l’esistenza in bene, quando Lo ha accolto. E qui lo scopo di Nostro Signore è quello di farsi conoscere come rileviamo dalla domanda posta: “Credi nel Figlio dell’uomo?” che il cieco guarito non sapeva chi fosse. Nostro Signore qui intervenne chiedendo una risposta che quell’uomo non sapeva dare ed è un espediente da Lui spesso utilizzato per portare la persona a verità sconosciute e altrimenti irraggiungibili senza il Suo aiuto, per noi oggi dello Spirito Santo. Va rilevato che “Figlio dell’uomo” compare in alcuni codici, mentre più usato è “Figlio di Dio”, quindi Gesù vuole qui rivelarsi nella Sua identità superiore e nel proprio ruolo di Signore e liberatore. Il cieco lo aveva pubblicamente riconosciuto come “Profeta”, ma non bastava, alla luce della conoscenza, perché altrimenti quel termine avrebbe implicato che dopo di lui dovesse arrivarne un altro. Chi gli stava davanti era prima il “Figlio di Dio”, poi il “Figlio dell’uomo”.

La risposta che Gesù ebbe conferma la semplicità, e al tempo stesso la serietà, dell’innominato che non si limita a chiedere chi fosse questo “Figlio di Dio”, ma precisa “…perché io creda in lui?”: era consapevole di non parlare con una persona qualunque, ma con chi lo aveva guarito, avendolo riconosciuto senza alcun dubbio dalla voce. Nel suo buio, prima Lo aveva sentito parlare e, nella luce della vista recuperata, poteva ora osservarne il volto, quello che purtroppo noi non abbiamo visto, ma che vedremo “come il sole quando splende con tutta la sua forza” (Apocalisse 1.13) non più soggetti al nostro corpo di carne sempre pronto a umiliarci.

“E chi è il Figlio di Dio, perché io creda in lui?” rivela che quell’uomo non aspettasse altro che capire chi fosse nei dettagli Colui che lo aveva guarito. “Il Figlio di Dio” era qualcosa di ben superiore al “Profeta” che sapeva lo aveva guarito e per questo vengono chieste delucidazioni per poter “credere in lui”. E sono convinto che qui il “credere” è usato con un significato che va ben oltre al ritenere reale una persona, ma per identificarsi in lei nelle modalità consentite ad una creatura inferiore al creatore. “Lo hai visto, è quello che parla con te”: basta poco per riconoscerlo. Gesù, come Via, Verità e Vita è sempre davanti all’essere umano, solo che non sa riconoscerlo. Siamo da lui circondati, eppure a volte non lo vediamo così come a volte reagiamo con la nostra umanità e non con lo Spirito che ci è stato dato.

Il cieco aveva recuperato la vista e in Gesù vedeva un uomo come lui, ma saputo chi fosse, “il Figlio di Dio”, prontamente rispose “Io credo, Signore” e subito Giovanni aggiunge “e l’adorò”, quindi una testimonianza a parole supportata dall’unico atto in quel momento possibile visto nell’adorazione, cioè nel prostrarsi a terra che il nostro evangelista utilizza sempre e solo per indicare l’adorare. E il nostro episodio si chiude così perché è questo il fine di ogni creatura. L’adorazione del cieco nato fu quindi al tempo stesso punto di arrivo per quanto riguardava la sua esistenza trascorsa, ma punto di partenza per la nuova: cacciato dal Sinedrio, quindi scomunicato, sono convinto che divenne un discepolo attivo di Gesù perché, avendo testimoniato di Lui, non avrebbe potuto avere la stessa forza che avrebbe avuto all’interno del gruppo dei discepoli cui desiderava unirsi (ricordiamo la frase “volete diventare anche voi suoi discepoli?”). L’ignoto cieco fu così guarito e riscattato completamente perché recuperò la vista e la dignità, vale a dire non avrebbe più mendicato, termine quest’ultimo riferito al dipendere da altri non solo per il proprio sostentamento materiale, ma anche moralmente, cercando quella solidarietà e comprensione che gli altri danno solo a parole o, nel migliore dei casi, a modo loro. Il nostro personaggio, quindi, ebbe una vita nuova nel corpo, nella mente e nello spirito.

Veniamo così al termine: Gesù, soprattutto a Gerusalemme, possiamo dire che era ormai diventato un vero e proprio sorvegliato speciale per cui era sempre controllato dai farisei, di persona o tramite loro spie. Ebbene qui pronuncia una frase particolare, “È per un giudizio che sono venuto in questo mondo”: è una frase che potrebbe essere ritenuta in contraddizione con un’altra secondo cui “Dio non ha mandato suo Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui” (Giovanni 3.17), oppure “Voi giudicate secondo la carne, io non giudico nessuno” (8.15): il “giudizio” di cui parla Gesù nel nostro passo, però, si riferisce a quell’automatismo che si genera nel momento in cui una persona si pone di fronte alla Sua parola, diventando un figlio di Dio oppure il suo esatto contrario. Ecco perché “coloro che non vedono”, cioè chi sa di non avere risposte e le cerca, “vedano”, “e coloro che vedono, diventino ciechi”, categoria alla quale appartengono tutti quei personaggi convinti di avere sempre la risposta pronta per ogni cosa, portatori della loro verità, in questo caso religiosa come i farisei e tutti gli oppositori della parola di Dio. Così, come non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire, non c’è peggior cieco di chi non vuol vedere.

Ed ecco, puntuale, l’intervento farisaico, “Siamo ciechi anche noi?”, cioè “Vorresti dire che noi, guide del popolo onorati da tutti, siamo ciechi?”. Sarà l’apostolo Paolo a descrivere, adattata ai tempi della Grazia ormai aperti, la posizione dei Giudei nella sua lettera ai Romani 2.17-24: “Ma se tu ti chiami Giudeo e ti riposi sicuro sulla Legge e metti il tuo vanto in Dio, ne conosci la volontà e, istruito dalla Legge, sai discernere ciò che è meglio, e sei convinto di essere guida dei ciechi, luce di coloro che sono nelle tenebre, educatore degli ignoranti, maestro dei semplici, perché nella Legge possiedi l’espressione della conoscenza e della verità… ebbene, come mai tu, che insegni agli altri, non insegni a te stesso? Tu che predichi di non rubare, rubi? Tu che dici di non commettere adulterio, commetti adulterio? Tu che detesti gli idoli, ne derubi i templi? Tu che ti vanti della Legge, offendi Dio trasgredendo la Legge! Infatti sta scritto: Il nome di Dio è bestemmiato per causa vostra tra le genti”.

Ancora una volta la risposta di Gesù non fu un “sì” o un “no”, ma si fece strumento di considerazione e meditazione: “Se foste ciechi, non aveste alcun peccato” perché non fareste alcun danno. Come il cieco nato ora guarito, sareste prudenti e, spiritualmente parlando, disposti a rivedere le vostre posizioni per venire alla luce. “Ma siccome dite: «Noi vediamo», il vostro peccato rimane”: impossibile infatti cercare la verità se si è già convinti di possederla. Ci si rende assolutamente impermeabili ad essa anche solo essendo convinti che mai la si potrà raggiungere, perché in questo caso non resta che fare dell’ignoranza il proprio credo ed essere ciechi non significa necessariamente vivere nel buio, ma anche usare una luce alternativa a quella della Parola di Dio, per vedere e muoversi nell’oscurità ritenendo che la luce soggettiva sia quella vera. Come fanno in molti anche oggi.

Infine le parole di Gesù sul peccato che “rimane”, cioè non può venire tolto, verranno da Lui ripetute, con diversa estensione, in Giovanni 15.22-25: “Se io non fossi venuto e non avessi parlato loro, non avrebbero alcun peccato, ma ora non hanno scusa per il loro peccato. Chi odia me, odia anche il Padre mio. Se non avessi compiuto in mezzo a loro opere che nessun altro ha compiuto, non avrebbero alcun peccato; ora invece hanno visto e hanno odiato me e il Padre mio. Ma questo perché si compisse la parola che sta scritta nella loro Legge: Mi hanno odiato senza ragione”. Amen.

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13.32 – IL CIECO NATO V/VI (Giovanni 9.24-34)

12.32 – Il cieco nato V (Giovanni 9.24-34)          

 

24Allora chiamarono di nuovo l’uomo che era stato cieco e gli dissero: «Da’ gloria a Dio! Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore». 25Quello rispose: «Se sia un peccatore, non lo so. Una cosa io so: ero cieco e ora ci vedo». 26Allora gli dissero: «Che cosa ti ha fatto? Come ti ha aperto gli occhi?». 27Rispose loro: «Ve l’ho già detto e non avete ascoltato; perché volete udirlo di nuovo? Volete forse diventare anche voi suoi discepoli?». 28Lo insultarono e dissero: «Suo discepolo sei tu! Noi siamo discepoli di Mosè! 29Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia». 30Rispose loro quell’uomo: «Proprio questo stupisce: che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi. 31Sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma che, se uno onora Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta. 32Da che mondo è mondo, non si è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato. 33Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto far nulla». 34Gli replicarono: «Sei nato tutto nei peccati e insegni a noi?». E lo cacciarono fuori.

 

Il fatto che i Giudei avessero organizzato un processo, per quanto a senso unico, lo rileviamo dal “chiamarono di nuovo l’uomo che era stato cieco”, indice del fatto che fosse stato fatto allontanare per non sentire la testimonianza dei suoi genitori. Molto indicativa è la frase “Da’ gloria a Dio!” che, in due passi dell’Antico Patto, è impiegata per esortare a una confessione. Così avvenne quando Giosuè esortò Acan a confessare di aver violato la legge sull’interdetto, “Figlio mio, da’ gloria al Signore, Dio d’Israele, e rendigli lode. Raccontami dunque che cosa hai fatto, non me lo nascondere” (Giosuè 7.14), e quando i Filistei, colpiti da bubboni, restituirono l’Arca del Patto: “…e date gloria ad Dio d’Israele. Forse renderà più leggera la sua mano su di voi, sul vostro dio e sul vostro territorio” (1 Samuele 6.5). Collegando questi passi, quindi, il Sinedrio esorta il cieco a confessare l’ipotetico espediente a cui era ricorso per ricuperare la vista, perché “Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore”.

Un’altra interpretazione riguardo al “Da’ gloria a Dio!” è l’invito a glorificare solo Lui per quella guarigione, essendo impossibile che fosse stato sanato da un violatore del sabato ma, pur logica, pare debole: i farisei, estremamente tortuosi, volevano andare alla radice del problema e così, se il cieco confessava di essersi inventato tutto, quel miracolo non sarebbe mai esistito. Era contemplato che un lebbroso potesse guarire e per questo c’erano i sacerdoti, deputati a decretare la scomparsa della malattia, ma che un cieco tornasse a vedere o un paralitico a camminare, no; rientrava nel caso dei miracoli che però avvenivano sempre per diretto intervento di un profeta, quando non di un angelo.

Come è stato osservato, “I farisei volevano far credere a quell’uomo di avere scoperto l’inganno, sicché non gli serviva a nulla perseverare nella menzogna. In pratica ricorsero a quell’artificio utilizzato spesso di indurre un accusato a confessare facendogli credere che i suoi complici hanno confessato ogni cosa per cui, continuando a negare, danneggia se stesso”. Quindi: era impossibile che Dio avesse concesso a Gesù, trasgressore del sabato e quindi peccatore, un simile potere di guarire, per cui non restava che dare “gloria a Dio” e confessare cosa effettivamente era accaduto.

Il metodo inquisitorio del Sinedrio fu però prontamente demolito dall’interessato, che diede una risposta fondata sui fatti: non conosceva Gesù, per quanto ne aveva sentito parlare, e prudentemente dice “Se sia un peccatore non lo so” (per quanto lo aveva definito “Profeta” poco prima), ma restava il fatto che “Una cosa so – la sola importante –: ero cieco e ora ci vedo”. “Ero” e “ora”, cioè tutta la vita che aveva condotto prima dell’incontro con Gesù e l’ “ora” in cui ne iniziava per lui una nuova; era quella su cui i Giudei dovevano basarsi, il fatto da cui partire e spettava a loro spiegarlo, perché la fede non si basa su una o più ipotesi o probabilità, ma soprattutto certezze. Anche per noi il riscatto “da questo misero corpo votato alla morte” è avvenuto col sacrificio di Cristo per cui “Io sono persuaso che né morte, né vita, né angeli, né principati, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore” (Romani 8.38): “ero” e “ora”, “eravamo” e “ora”, passato e presente come preludio al futuro, tempi in cui si riassume tutta la storia individuale dell’uomo che sceglie Gesù come proprio Signore e Salvatore, “Mio Signore e mio Dio”, come gli disse Tommaso.

Infatti “Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” (Romani 5.8), “Se, quando eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita” (5.10). Noi, che “eravamo per natura meritevoli d’ira, come gli altri” (Efesi 2.3), “come eravamo simili all’uomo terreno, così saremo simili all’uomo celeste” (1 Corinti 15.49). Gesù, come ha fatto con quel cieco, ha prodotto una trasformazione profonda che avvertiamo esattamente come chi “era” cieco e “ora” vedeva. Ogni altra considerazione in merito per sminuire o demolire quanto avvenuto si faceva insignificante, non valeva nulla perché il fatto parlava da solo.

Ora sappiamo dal testo che i Giudei tornano a quanto avvenuto chiedendogli di raccontarlo di nuovo, un’assurdità perché la testimonianza fornita fino ad allora era assolutamente chiara. Era evidente che, riascoltando il racconto dalla viva voce dell’inquisito, speravano di trovarvi qualche contraddizione o un punto debole: tutto interessava al Sinedrio tranne la ricerca della verità per cui il cieco guarito rifiuta di farsi loro strumento e arriva addirittura ad ironizzare su di loro: “Perché volete ascoltarlo di nuovo? Volete forse diventare anche voi suoi discepoli?”.

L’ultima domanda contiene elementi importanti visti nel “forse”, “anche voi” e “suoi discepoli”: penso che il primo sia stato pronunciato in senso ironico perché i discepoli seguirono Gesù dopo essere venuti ed aver visto, cioè constatato chi Lui fosse, mentre in quel caso tante domande ripetute e tutti i tentativi per demolire la testimonianza di quell’uomo non avrebbero portato da nessuna parte; “anche voi”, poi, ci conferma che il cieco innominato desiderava conoscere e seguire Gesù oltre al fatto che sapeva dell’esistenza di “discepoli”. Ricordiamoci che abitava nei pressi del Tempio, che tutti lo conoscevano anche come mendicante e che i rapporti fra le persone allora erano molto diversi da quelli di oggi: a prescindere dal fatto che chiedesse l’elemosina, era comunque uno del popolo di Gerusalemme e con lui la gente si fermava – per quanto non tutti – parlando del più e del meno, ma soprattutto di Gesù che era in città già da qualche giorno e cosa aveva fatto. Se con l’ “anche voi” il cieco abbia voluto sottintendere “oltre a me”, abbiamo un chiaro distinguere fra i due elementi, lui e il Sinedrio; da una parte abbiamo chi aspettava di conoscere chi lo aveva guarito e dall’altra chi non credeva e chiedeva dettagli inutili: “una cosa so”, bastava quella.

La reazione a quello che il Sinedrio interpretò come un oltraggio fu quella di stabilire immediatamente una divisione: “Suo discepolo sei tu! Noi siamo discepoli di Mosè”, cioè siamo la sua discendenza spirituale, i suoi eredi perché se fu lui a dare la Legge di Dio al popolo, adesso noi ne siamo i custodi.

C’è qui, prima della risposta data dall’innominato, un particolare significativo, cioè che i farisei “lo insultarono”; è un dettaglio che passa quasi inosservato e compare solo una volta nei Vangeli, qui. Si sottolinea così l’ira e l’offesa del Sinedrio che, definendolo “discepolo”, rappresenta l’insulto più grave che potessero dargli, preannunciante la sua scomunica.

A questo punto emerge un’altra caratteristica dell’inquisito, quella di una persona in grado di cogliere il messaggio basilare delle Scritture: “Sappiamo – notare che utilizza il plurale – che Dio non ascolta i peccatori, ma che, se uno onora Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta. (…). Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto far nulla”.

Queste frasi rivelano molto su chi le ha pronunciate perché non sono una citazione di versi precisi, ma la loro elaborazione. Dalle sue parole rileviamo che quell’uomo non si era mai identificato nei “peccatori” di professione e sperava di essere da Lui ascoltato, come in effetti avvenne ed ecco perché Gesù disse di lui “è perché in lui siano manifestate le opere di Dio”. Quindi, il cieco nato non aveva utilizzato la sua invalidità e sofferenza come giustificazione per ribellarsi a Dio, ma al contrario cercava di fare “la sua volontà”. Sono molti che bestemmiano anche per il più piccolo contrattempo e mi chiedo, sotto quest’ottica, cosa avrebbe potuto fare quest’uomo se non coltivare un perenne risentimento nei confronti di Colui che aveva permesso che nascesse così. Sarebbe stato naturale, se quel cieco avesse avuto un ego smisurato come purtroppo oggi possiedono in tanti.

Altra sottolineatura possibile sta nelle parole “Proprio questo mi stupisce: che voi non sapete di dove sia”: i “discepoli di Mosè” facevano riferimento a  lui per il ruolo di ammaestramento e condotta del popolo che aveva avuto, ma ignoravano volutamente il fatto che prima di tutto ebbe un’elezione diretta e fu da Dio assistito e guidato prima del popolo stesso, senza contare che non si crogiolò mai nel suo ruolo, ma fu sempre attento a valutare e ad ascoltare tanto Colui che lo aveva chiamato quanto i propri simili. Quasi sempre si tende a guardare la Legge come a qualcosa di punitivo, costrittivo e non si pensa che, accanto a passi “penalizzanti” ve ne sono di liberatòri e di assistenza – ad esempio – per il povero, per l’orfano, la vedova e lo straniero che comunque doveva integrarsi perfettamente col popolo di Dio diventandone parte attiva. E posiamo ricordare anche gli avvertimenti a non fare preferenze in giudizio tra il ricco e il povero-

Che i farisei fossero sì “discepoli di Mosè”, ma perversi, lo dimostra il passo riferito alle modalità di riconoscimento per chiunque pretendesse di essere un profeta: “Quando un profeta parlerà in nome del Signore e la cosa non accadrà e non si realizzerà, quella parola non l’ha detta il Signore. Il profeta l’ha detta per presunzione, non devi avere paura di lui” (Deuteronomio 18.22). Sono parole che hanno la stessa logica e semplicità del “ero cieco e ora ci vedo”, non è necessario un grande studio o esegesi per capirle. Cosa dovesse accadere al falso profeta è descritto al verso 20: “Ma il profeta che avrà la presunzione di dire in mio nome  una cosa che io non gli ho comandato di dire, o che parlerà in nome di altri dèi, quel profeta dovrà morire”. Quindi dei veri “discepoli di Mosè” non avrebbero avuto nessuna difficoltà a mettere insieme i dati necessari su Gesù per riconoscerlo come il “Figlio di Davide, colui che doveva venire”.

Il passo in esame termina nell’unico modo possibile, cioè con la reazione farisaica che ancora  una volta spranga il cuore di fronte alla logica proposta dalle parole del cieco guarito, “Sei nato tutto nei peccati e insegni a noi?”: ancora una volta emerge lo spirito contrario di queste persone. Lo giudicano “nato tutto nei peccati” basandosi su ciò che quell’uomo era, incuranti di quello che “ora” era diventato. Un fratello ha detto un giorno che “la carità è paziente, ma l’errore non può” e qui abbiamo la dimostrazione più palese perché uno spirito contrario a Dio non può che attaccare violentemente, con parole o con fatti è irrilevante, chi è dalla Sua parte. “Tu” e “noi” sono i pronomi che stabiliscono la distinzione, la “gran voragine” che divide chi è figlio di Dio da chi non lo è ed il “bello” è che sono gli stessi Giudei a rimarcarla, per quanto presuntuosamente si ritenessero dalla parte giusta.

L’espulsione dalla sala del Sinedrio, violenta perché è scritto “lo cacciarono fuori”, preludeva alla scomunica di cui abbiamo già accennato, ma ecco che qui abbiamo un secondo intervento di Nostro Signore, non meno importante del primo quando lo aveva guarito: “Gesù seppe che lo avevano cacciato fuori” e si mise a cercarlo, trovandolo.

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12.31 – IL CIECO NATO IV/VI (Giovanni 9.18-23)

12.31 – Il cieco nato IV (Giovanni 9.18-23)

 

18Ma i Giudei non credettero di lui che fosse stato cieco e che avesse acquistato la vista, finché non chiamarono i genitori di colui che aveva ricuperato la vista. 19E li interrogarono: «È questo il vostro figlio, che voi dite essere nato cieco? Come mai ora ci vede?». 20I genitori di lui risposero: «Sappiamo che questo è nostro figlio e che è nato cieco; 21ma come ora ci veda non lo sappiamo, e chi gli abbia aperto gli occhi, noi non lo sappiamo. Chiedetelo a lui: ha l’età, parlerà lui di sé». 22Questo dissero i suoi genitori, perché avevano paura dei Giudei; infatti i Giudei avevano già stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga. 23Per questo i suoi genitori dissero: «Ha l’età: chiedetelo a lui!».

 

Il verso 18, anticipato alla fine del nostro scorso capitolo per dare una conferma dell’ostinazione dei Giudei a non credere al miracolo – ma in realtà a rigettare completamente tutta l’opera di Gesù –, presenta un’interessante particolarità vista nel “finché”, che potrebbe farci pensare ad un suo riconoscimento tardivo. In realtà, quel “finché non credettero” significa “finché non ammisero” nel senso che, avuta la prova dai genitori del cieco che era effettivamente nato così, subito trovarono il modo per appigliarsi ad altri motivi per sminuire il miracolo. In realtà, chiamando quei parenti diretti, abbiamo un primo tentativo per rifiutare quanto avvenuto: li convocano per interrogarli sperando che o non riconoscessero il figlio, oppure non confermassero la sua invalidità dalla nascita. “Finché” indica quindi il momento in cui i Giudei rinunciarono al loro piano d’attacco, teso a mettere in dubbio la cecità di quell’uomo, ideandone uno nuovo.

In realtà, quanto fu ordito dai membri del Sinedrio fu un vero e proprio processo, come rilevabile dalle tre domande rivolte ai genitori del cieco, per quanto una di esse sia latente:

  1. “È questo vostro figlio?”;
  2. “Ci confermate che è cieco dalla nascita?”;
  3. “Come mai ora ci vede?”.

Rispondere alle prime due domande non costituiva certo un problema, ma la terza era molto insidiosa perché chiamava in causa non il riferire un fatto (come ogni testimone è chiamato a fare), ma introdurre nel dibattimento una deduzione o il riferire quanto eventualmente detto da altri. Per questo leggiamo che ai primi due punti risposero senza esitare, mentre sul terzo si trovarono in difficoltà prima di tutto psicologica, “avevano paura dei Giudei”, e chi frequenta le aule di giustizia sa bene che un buon giudice, o presidente di un Collegio, presta sempre la massima attenzione affinché le Parti (Difesa o Accusa) non intimidiscano o mettano in difficoltà psicologia chi è chiamato a deporre.

Ci chiediamo cosa potessero sapere i genitori del cieco al riguardo: pur essendo probabile che mendicasse nei pressi di casa sua,  era difficile che fosse controllato dal padre o dalla madre sia perché maggiorenne, sia perché non correva pericoli in quanto autonomo nonostante il grave handicap. Credo sia difficile che avessero assistito al primo incontro del loro figlio con Gesù mentre non si può escludere che, una volta tornato con la speranza di incontrare chi lo aveva guarito, sia andato dai genitori ed abbia raccontato loro come aveva ricuperato la vista. In alternativa, avrebbero potuto anche essere presenti quando, nel luogo in cui era solito mendicare, era stato riconosciuto come la persona che, fino a poco prima, era sempre stata cieca. Fatto sta che alla terza domanda il padre e la madre di quell’uomo risposero in modo logico e tale da non dire il falso: “Come ora ci veda, non lo sappiamo, e chi gli abbia aperto gli occhi, non lo sappiamo. Chiedetelo a lui: ha l’età, parlerà lui di sé” (v.20).

Analizzando la loro risposta vediamo che quel “non lo sappiamo”, anche se probabilmente il nome di chi aveva guarito il loro figlio lo conoscevano, non può essere considerato mendacio in virtù della presenza del diretto interessato. La terza domanda era quindi inopportuna e ininfluente ai fini dell’inchiesta: “ha l’età” significava che non era più sotto la loro tutela legale e che quindi si trovava nella piena condizione di riferire su fatti e persone, oltre ad essere responsabile di fronte alla Legge.

La loro fu una risposta prudente per non venire coinvolti in quel provvedimento dei Giudei che avrebbe decretato la morte civile di una persona che “lo avesse riconosciuto come il Cristo”. E qui abbiamo la ragione della paura non solo di quelle due persone, ma anche di tutti coloro che esitavano a farsi discepoli di Gesù, in un modo o nell’altro perché Lo si poteva seguire tanto facendo parte del suo gruppo, quanto personalmente, testimoniando che appunto Lui era “Il Cristo, il Figlio dell’Iddio vivente”.

Il fatto della scomunica dalla congregazione di Israele per chiunque avesse riconosciuto Gesù come “il Cristo” è interessante perché non sappiamo quando fosse stata istituita, ma comportava conseguenze estremamente umilianti a tal punto che Gesù stesso avviserà i suoi discepoli che ciò sarebbe accaduto. La sinagoga infatti, luogo in cui predicò spesso, è anche rappresentata come luogo che attrae i religiosi e gli ipocriti – si veda l’amore per avere là “i primi posti” ( Matteo 6.2 e 5; 23.6 e rif.) –, ma soprattutto provoca sofferenze in chi crede in Lui:  “Guardatevi dagli uomini, perché vi consegneranno ai tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe” (10.17); “…metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni” (Luca 21.12), oppure lo stesso Giovanni 16.2 “Vi scacceranno dalla sinagoghe; anzi, viene l’ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio”. Ricordiamo infine la confessione dell’apostolo Paolo quando era uno zelante fariseo: “In tutte le sinagoghe cercavo spesso di costringerli con le torture a bestemmiare e, nel colmo del mio furore contro di loro, davo loro la caccia perfino nelle città straniere” (Atti 26.11).

La scomunica dalla sinagoga era una punizione che poteva variare di intensità: alla base avevamo l’esclusione da essa per trenta giorni in cui lo scomunicato veniva trattato come un pagano – nessuno lo salutava né tantomeno gli rivolgeva la parola, ad esempio – e non poteva avere alcun contatto con la propria famiglia o conoscenti. Si passava poi alla esecrazione, cioè una maledizione di cui Dio era testimone per cui la persona era maledetta temporalmente o definitivamente. L’individuo diventava poi anàtema, termine che negli scritti dell’Antico Patto allude alla distruzione completa dei nemici di guerra.

Ecco allora che a questo punto credo che siamo chiamati a prendere la frase “avevano già stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga” come punto di partenza per una panoramica di raggio più ampio. Il termine “Sinagoga”, etimologicamente parlando, è di origine greca ed è composto da “syn”, insieme, e “ago”, condurre, poi tradotto come “luogo in cui ci si riunisce”. Potremmo dire che il termine allude a un cammino comunitario, per cui teoricamente non potremmo trovare nulla di meglio. Ma si tratta di una comunità che, alla luce del Vangelo, è purtroppo deviata nel senso che si presenta come qualcosa di non più attuale, passata, composta da persone religiose che però hanno sostituito alla fede e alla reale appartenenza a Dio tramite il proprio Figlio la ritualità, l’abitudine, la parvenza, l’attaccamento alle proprie tradizioni e  – sotto certi aspetti meravigliosa – scienza.

In più abbiamo una terribile definizione in Apocalisse 2 e 3.9, “sinagoga di satana” sulla quale possiamo riflettere a prescindere dal contesto originale della lettera a Smirne e Filadelfia. La sinagoga, dopo la resurrezione di Cristo e la nascita della Chiesa, è diventata un “cammino insieme” ingannatore ed infatti ad essa si è sempre contrapposta, uccidendo e cercando di uccidere chiunque la pensasse diversamente, non onorando YHWH, secondo loro, nella sua forma più pura. E questo è avvenuto dal martirio di Stefano in poi.

Ora “sinagoga” possiamo anche riferirla a qualcosa non necessariamente ebraico, ma a tutto quello che propone un “cammino insieme” non fondato direttamente su Cristo, ma su Satana che di Lui e della Chiesa è l’Avversario. Chiunque, singolo, gruppo, organizzazione o Stato, si dichiari fondato sulla solidarietà, fra i popoli o gli uomini in genere, e la pace lasciando Cristo fuori dalla porta non potrà fare altro che identificarsi nella “sinagoga di Satana” che si traveste e si maschera per ingannare e sedurre l’uomo. “Sinagoga di Satana” è la politica, sono stati ed è l’impero in formazione, le organizzazioni umanitarie e per estensione tutto ciò che si presenta al cittadino con obiettivi che vogliano migliorare la sua vita sulla terra. Non a caso, in particolare oggi, “comunità” è in termine più abusato anche negli spot pubblicitari che notoriamente fanno leva su ciò che manca al loro target. E l’essere umano tende sempre a prestare la sua attenzione a ciò di cui è privo.

Sotto questo aspetto, quindi, la “sinagoga di Satana” è ovunque ed è parente stretta di quella “dottrina dei Nicolaiti”, che compare sempre in Apocalisse 2 6 e 15, setta gnostica sorta nella Chiesa che non ammetteva la divinità di Cristo. Per andare però alla radice della loro dottrina, basta fare l’etimologia del nome, da “nìke”, cioè “vittoria”, e “làos”, popolo, quindi “popolo che vince”, anche qui tramite un cammino unitario, lo stesso inganno della torre di Babele i cui intenti erano gli stessi, così banali, di ogni impero: “Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo, e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra” (Genesi 11.4). Ecco perché, come Salomone osservò, “Non vi è nulla di nuovo sotto il sole”.

Avviandoci alla fine di queste riflessioni e dati sugli spunti identificativi a proposito della “sinagoga di Satana”, vanno sottolineate le conseguenze che portavano gli scomunicati di quella ai tempi di Gesù, cioè la morte civile, che poi non differisce più di tanto rispetto a quella reale: oggi, infatti, se un tempo la pena per i reati era la prigione, stanno moltiplicandosi le pene pecuniarie di entità anche molto forte, in grado di ridurre il condannato a una vita davvero di isolamento e di stenti che non è raro sfocino in casi di suicidio. La propaganda e gli incentivi a far sì che i pagamenti in denaro contante vengano progressivamente aboliti altro scopo non hanno di quello del pieno controllo da parte degli Stati nell’attesa che arrivi quello unico, sui conti correnti dei cittadini che si vedranno prelevate in automatico le somme che Tribunali, Governi o Enti da loro delegati decideranno.

Credo fermamente che siamo testimoni di una trasformazione sempre più veloce verso quell’ultimo regime che triterà ogni cosa sotto i suoi piedi, preferibilmente quanti, come ai tempi di Gesù e delle sinagoghe ormai a lui e ai suoi discepoli apertamente ostili, dichiareranno di credere in Lui. Conosciamo molto bene il passo di Apocalisse 13.17 relativo alla “Bestia che sale dalla terra”, cioè dagli istinti umani, che opererà insieme a quella “che nasce dal mare”, cioè dalla confusione, adorata da “tutti gli abitanti della terra, il cui nome non è scritto nel libro della vita dell’Agnello, immolato fin dalla fondazione del mondo”. La seconda bestia “fa sì che a tutti, piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e schiavi, ricevano un marchio sulla mano destra o sulla fronte, e che nessuno possa comprare o vendere senza avere tale marchio, cioè il nome della bestia o il numero del suo nome”: morte civile esattamente come avveniva nel nostro episodio.

“Non vi è niente di nuovo sotto il sole” perché Satana, nell’attesa della sentenza finale, è condannato a replicare sempre se stesso, a ripetersi perfezionando sempre di più la sua opera in attesa del suo capolavoro finale e finito che verrà distrutto. Per questo siamo chiamati a vegliare riconoscendo il tempo ormai breve. E citando una frase di Ingmar Bergman, “è come guardare in controluce l’uovo di un serpente: attraverso la sottile membrana, riesci a vedere il rettile perfettamente formato”.

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12.29 – IL CIECO NATO II/VI (Giovanni 9.4-7)

12.29– Il cieco nato II (Giovanni 9.4-7)      

 

4Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può agire. 5Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo». 6Detto questo, sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco 7e gli disse: «Va’ a lavarti nella piscina di Sìloe» che significa Inviato. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva.

 

Per motivi di esposizione ho spezzato in due la frase detta da Gesù ai discepoli per cui è giusto ricordare che, prima del verso 4, disse “Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio”. Sorge comunque un problema sul “noi”, che viene tradotto da manoscritti che così scrivono, ma altri hanno “io compia” che pare più corretta. Se così non fosse, i discepoli avrebbero avuto parte attiva nel miracolo e soprattutto, al posto di “finchè io sono nel mondo, sono la luce del mondo”, dovremmo avere “siamo”, cosa ovviamente non sostenibile. Ricordiamo infatti che aveva detto “Voi siete la luce del mondo”, ma in prospettiva, per quello che sarebbero diventati una volta nata la Chiesa. Il verso va quindi letto “Bisogna che io compia le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno” anche perché i discepoli, in un certo senso, riflettevano la luce del loro Maestro come Lui, nella Sua umanità, quella del Padre, anche se in modo perfetto, per quello che gli uomini avrebbero potuto constatare nella loro limitatezza. Le “opere di colui che mi ha mandato”, poi, non erano certo limitate ai miracoli, ma soprattutto all’insegnamento e a tutte le opere di misericordia del Suo ministero, cosa che i discepoli non potevano fare.

Le parole che suscitano la nostra attenzione sono indubbiamente il “giorno”, sinonimo di operosità (“L’uomo esce alla sua opera e al suo lavoro fino alla sera”, Salmo 104.23), e la “notte”, che ha riferimento con ciò che ostacola, come lo stesso Gesù disse con le parole “Il giorno non ha forse dodici ore? Se uno cammina di giorno, non inciampa, perché vede la luce di questo mondo; ma, se cammina di notte, inciampa, perché non ha luce” (Giovanni 11.9).

Allora, “finché è giorno” è riferito alla Sua presenza di persona fisica sulla terra e “la notte” la abbiamo dal momento dell’arresto fino ai tre giorni in cui il Suo corpo rimase nel sepolcro in cui davvero “nessuno può – poté – agire”. Fu un tempo in cui i discepoli furono soli e poterono misurarsi – senza ancora lo Spirito Santo – con la pochezza della loro fede. La “notte” allora, sotto questo aspetto, vide il tradimento di Pietro, l’incredulità di Tommaso, dei due discepoli sulla via di Emmaus che dissero a Gesù, da loro non riconosciuto, “Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele; con tutto ciò sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti: recatesi al mattino al sepolcro e non avendo trovato il suo corpo, son venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati al sepolcro e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l’hanno visto” (Luca 24.22-24).

Anche qui abbiamo un esempio di cecità spirituale che va individuata in quel “ma lui non l’hanno visto” in cui dimostrano non solo di non credere alla testimonianza delle donne, ma anche di non considerare che veramente Gesù potesse adempiere alle promesse sulla Sua resurrezione. Trovarono il sepolcro vuoto, ma Lui non c’era: che cosa poteva essere accaduto, se non quanto preannunciato quando era con loro?  Ricordiamo Matteo 17.22: “Mentre si trovavano insieme in galilea, Gesù disse loro: «Il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno, ma il terzo giorno risorgerà». Ed essi furono molto rattristati”. Ancora in 20.17-19: “Mentre saliva a Gerusalemme, Gesù prese in disparte i dodici discepoli e lungo il cammino disse loro: «Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai capi dei sacerdoti e agli scribi; lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani perché venga deriso e flagellato e crocifisso, e il terzo giorno risorgerà”; impossibile che quelle parole fossero state dimenticate, per cui l’incredulità dei discepoli altro non era che un effetto del loro essere uomini nella carne ancora non trasformati dallo Spirito Santo.

Tornando ora agli effetti del “giorno” e della “notte”, il primo, grazie alla presenza di Gesù, comportava l’evaporarsi di ogni dubbio, la gioia del servizio vista nella missione dei settantadue (e prima in quella dei dodici), il poter rivolgere al Maestro ogni domanda e avere ogni chiarimento, ma la “notte”, senza di lui, aveva portato unicamente solitudine e disorientamento. Mi chiedo ipoteticamente, se i giorni nel sepolcro fossero stati di più, in che condizioni avrebbe trovato i discepoli, non essendo sceso il Consolatore che avrebbe rammentato loro tutto ciò gli aveva detto. Una volta risorto, però, abbiamo il mandato universale: “A me – e a nessun altro – è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli in tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Matteo 28.18-20).

Con noi non “ogni tanto”. Non solo quando Lo invochiamo, ma secondo la “legge della continuità” che già aveva capito Davide nel suo Salmo 139.1-5: “Signore, tu mi scruti e mi conosci, tu conosci quando mi siedo e quando mi alzo, intendi da lontano – cioè prima che nascano in me – i miei pensieri, osservi il mio cammino e il mio riposo, ti sono note tutte le mie vie. La mia parola non è ancora sulla lingua ed ecco, Signore, già la conosci tutta. Alle spalle e di fronte mi circondi e poni su di me la tua mano”. Gesù, il risorto, Colui che ha vinto la morte, la “Parola fatta carne” è con noi tutti i giorni “fino alla fine del mondo”, tradotto anche “fino alla fine dell’età presente” cioè quando avrà termine quel periodo in cui il tempo continuerà ad essere misurato.

“Finché io sono nel mondo, io sono la luce del mondo” è una frase che ha proprio riferimento all’imminente arrivo della “notte” che Gesù sapeva essere prossima, ma anche alla guarigione del cieco nato esattamente come quando, prima di far risorgere Lazzaro, disse “Io sono la risurrezione e la vita”, entrambe qualifiche dimostrate con due miracoli “impossibili”, ricordando le parole “Da che mondo è mondo, non si è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato. Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto far nulla” (vv.32,33).

La “luce del mondo”, Gesù, non era quindi un sole alternativo che illuminava la terra e le dava vita, ma una luce molto più attiva e potente, in grado di dare a una persona non vedente dalla nascita la totale e piena guarigione. Possiamo immaginarci la meraviglia di quell’uomo una volta tornato a vedere: ogni cosa per lui era nuova, tutto ciò che fino a poco prima aveva solo avvertito con gli altri sensi, veniva posto nella sua reale proporzione. Se ci pensiamo, non è cosa poi tanto diversa da quanto avviene in chi crede: “Cosicché non guardiamo più nessuno alla maniera umana; se anche abbiamo conosciuto Cristo alla maniera umana, ora non lo conosciamo più così. Tanto che, se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie son passate; ecco, ne sono nate di nuove” (2 Corinti 5.16,17). Ciechi anche noi dalla nascita, ora guariti, per quanto occorrerebbe sviluppare molto il concetto del cammino cristiano e del mantenere l’occhio spirituale sano perché, se non curiamo il nostro essere interno, possiamo soffrire delle stesse patologie dell’occhio naturale con relativi problemi di orientamento e valutazione. Un fratello definiva l’occhio “un organo direzionale della vita dell’uomo”: se malato, tutto il corpo ne risente.

Stupisce in questo episodio che Luca non riferisca alcun dialogo tra il cieco e Gesù, ma solo dei gesti visti nel fare un impasto di fango con la saliva e applicarglielo sugli occhi usando quindi un linguaggio non verbale mettendo nelle condizioni quell’uomo, che senz’altro aveva affinato con gli anni il proprio udito e il tatto, di comprendere quando stava accadendo, come già fatto in poche, altre occasioni. Il cieco nato allora sentì Gesù che gli si avvicinava, i rumori e la Sua voce così diversa dalle altre che aveva udito, presumo per tranquillizzarlo visto che si sarà sicuramente allarmato nel momento in cui sentì le Sue mani e il fango sugli occhi, senza sapere che in quel momento si stava formando un uomo nuovo che sarebbe da lì a poco stato in grado di vedere. In questo dialogo, come vedremo, Nostro Signore gli disse di chiamarsi Gesù.

Sono convinto che nella Sua voce quella persona abbia avvertito qualcosa di diverso sia perché lo lasciò fare (se si fosse sentito minacciato avrebbe certamente chiesto aiuto) e ancor più perché quanto a lui chiesto, cioè di andarsi a lavare nella piscina di Siloe, rappresentava un problema, per quanto non superabile: non possiamo sapere con certezza dove i due si incontrarono, ma nel caso in cui ciò si fosse verificato nei pressi del Tempio, la distanza fra la piscina e lo stesso era di circa 500 metri in linea d’aria che chiaramente aumentavano percorrendo la strada per arrivarvi. Resta il fatto che fu detto al cieco che, per guarire, non bastava l’intervento di Gesù che ancora non conosceva, ma doveva andarsi a lavare là. In altri termini, per guarire avrebbe dovuto fare un cammino, faticare, gli veniva chiesto di usare la volontà, di collaborare.

Anche oggi Gesù guarisce dalla cecità che ci portiamo dietro dalla nascita e possiamo paragonare il Suo sacrificio all’impasto di fango applicato sugli occhi del cieco che non porterebbe alcuna utilità all’uomo se non si recasse alla piscina a lavarsi, prima camminando fino a là e poi detergendosi gli occhi perché così gli è stato detto. Ecco perché la Croce è salvezza, ma anche giudizio: se aderire ad essa è adeguarsi alla perfezione, va da sé che rifiutarla significa permanere in uno stato di totale estraneità, identificarsi nell’imperfetto assoluto e quindi nell’immondo.

A sua volta il percorso del cieco rappresenta il pensiero, il ragionare sul da farsi una volta ascoltato il messaggio del Vangelo e il lavacro la rinuncia ad appartenere al mondo per fidarsi del Cristo. Obiettivamente, lavarsi da quel fango per guarire era qualcosa di umanamente assurdo, eppure il risultato sarà una condizione nuova, l’acquisizione della vista che mancava.

Possiamo immaginare cosa abbia provato quel cieco una volta toltosi il fango con quell’acqua: le strade che aveva percorso, i muri delle case che aveva toccato, le voci delle persone ora gli apparivano nella loro realtà e non grazie a una ricostruzione mentale imperfetta attraverso il tatto e l’udito Per la prima volta quell’uomo assaporava la spazialità, la tridimensionalità, la visione. E, come dalle ultime parole del nostro passo, “tornò che ci vedeva”. Abbiamo un altro ritorno, collegandoci a quanto detto su quello dei settantadue discepoli, certamente quello della riconoscenza perché il cieco voleva conoscere Colui che lo aveva guarito e certo il suo fu un percorso molto più agevole di quello dell’andata solamente che, una volta raggiunto il posto ove era solito mendicare, non Lo trovò.

Quell’uomo avrebbe potuto benissimo andare a casa sua guarito, ma desiderava manifestare la sua riconoscenza a chi lo aveva liberato dalla condizione umiliante in cui versava, ma di Lui conosceva solo il nome: come vedremo, infatti, a quanti lo interrogheranno dirà “L’uomo che si chiama Gesù – ecco quindi che tra i due vi fu un dialogo che Luca non ha riportato – ha fatto del fango, mi ha spalmato gli occhi e mi ha detto: «Va’ a Siloe e lavati!». Io sono andato, mi sono lavato e ho acquistato la vista»” (v.11).

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12.28 IL CIECO NATO I/VI (Giovanni 9.1-3)

12.28– Il cieco nato I (Giovanni 9.1-3)       

 

1 Passando, vide un uomo cieco dalla nascita 2e i suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?». 3Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio». 

 

Ci troviamo di fronte ad un episodio particolare della vita di Gesù e delle Sue guarigioni nei confronti dei ciechi, complessivamente sei, perché a differenza delle altre opera su un uomo che era così dalla nascita. Fu un avvenimento che destò una reazione ancor più ferma nei testimoni all’avvenimento che dissero (v.32) “Da che mondo è mondo, non si è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a uno cieco dalla nascita”. La cecità, in Israele e non solo, era dovuta principalmente alla cataratta e al glaucoma, quindi agli effetti dell’esposizione prolungata ai riflessi del raggi solari e alla polvere. Il fatto che quest’uomo fosse così “dalla nascita” potrebbe far pensare a una malattia genetica, come l’amaurosi congenita di Leber che colpisce la rétina dall’infanzia, oppure a un incidente durante il parto; fatto sta che il cieco in questione era conosciuto in città e, come molti altri infermi, non aveva alternativa per il proprio sostentamento se non quella di chiedere l’elemosina nei pressi del Tempio.

“Passando” e “vide” sono i verbi che Giovanni usa per descrivere le azioni di Gesù; il primo potrebbe lasciarci supporre che l’episodio avvenne poco dopo essere uscito dal Tempio dopo che “si nascose” alla vista di quanti lo volevano lapidare per bestemmia ed ecco la ragione dei dubbi espressi a proposito del collocare il ritorno dei settantadue in questo contesto. D’altro canto però abbiamo la presenza dei discepoli, citati qui e non prima. Il secondo verbo è più interessante perché quel “vide” sottintende un Suo sguardo prolungato che fu notato dai discepoli provocando una domanda che trovava la sua ragione nella credenza profondamente radicata negli ebrei in base alla quale tutte le sofferenze fisiche erano la conseguenza diretta di un peccato. Dal tono della domanda del verso 2 è chiaro che i discepoli erano fermamente convinti che quell’uomo patisse o per peccati commessi anteriormente alla nascita, o per altri da parte dei suoi genitori prima che venisse al mondo.

Certo questa credenza non era sorta da sé né aveva radici superstiziose, ma trovava la sua base in alcuni passi proprio dei libri della Legge di Mosè: ad esempio l’infrazione al secondo comandamento relativa agli idoli aveva come spiegazione “Perché io, il Signore tuo Dio, sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padre nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra la sua bontà fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti” Esodo 20.5,6; 34.7). Anche Geremia 32.18, “Tu usi bontà con mille generazioni e fai scontare l’iniquità dei padri in seno ai figli dopo di loro” conferma le parole della Legge, che comunque sono riferite a un comportamento impenitente e ad un’ostinata volontà di rimanere in un peccato. Ricordiamo anche l’affermazione davvero suicida del popolo a Pilato “Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli”.

Riguardo però al concetto comune sulla malattia e le sofferenze come causa di un peccato anteriore, Gesù interverrà più avanti in Luca 13 quando, commentando il fatto dei Galilei uccisi da Erode nel Tempio (il cui sangue fu mescolato a quello dei sacrifici) e degli uomini sui quali era caduta la torre di Siloe, dirà “Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quelle diciotto persone sulle quali crollò la torre di Siloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo” (vv.2-5). Alla supposizione di un peccato altrui, Gesù oppone la certezza del “perire” salvo intervenga una conversione, vale a dire un ribaltamento del proprio operare e ragionare umano.

Tornando ora al secondo verbo, il “vide” di Gesù, ha il sapore di un’osservazione prolungata, della lettura di tutta la storia di quel cieco, entrato come tutti nella vita naturale senza volerlo e costretto a sopravvivere senza possibilità di realizzarsi umanamente, riconoscendo le persone dalla voce e non dai volti, dalle possibilità di spostamento molto limitate, salvo che qualcuno lo accompagnasse, in un costante buio comunque. Sulla sua reale situazione dà però ai discepoli una rivelazione opposta: “Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio”. Questo non vuol dire che la ragione della cecità di quell’uomo fosse quella di fare da cavia ad un esperimento, ma ha connessione col piano di Dio nei confronti dell’uomo e al significato della sofferenza. Inoltre, ci parla del fatto che il Signore, per quelli che sono suoi, ha dato un appuntamento per incontrarlo in salvezza. Nostro Signore, guardando quel cieco, era come se lo riconoscesse perché era lui e solo lui che doveva essere guarito per diventare un Suo strumento di testimonianza, come infatti poi avverrà.

Giovanni non ci dice l’età di quell’uomo, ma a prescindere i giorni passavano tutti uguali, senza alcuna possibilità di migliorare il proprio stato e qualunque evento avrebbe comportato il dipendere da altri, bene o male intenzionati nei suoi confronti. Ora  il “perché siano manifestate in lui le opere di Dio” ci parla del fatto che esiste una terza possibilità sul fatto che quell’uomo fosse così: non perché lui avesse peccato – come avrebbe potuto, prima di nascere e avere passato ‘età dell’innocenza? – né suo padre né sua madre, ma perché Dio potesse manifestarsi in lui. E questo ci parla dell’ignoranza dell’essere umano o per lo meno delle sue scarse capacità di comprensione. Ricordiamo che, quando Marta e Maria mandarono a dire a Gesù che Lazzaro era malato, rispose loro “Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato“ (Luca 11.4). Sappiamo molto bene che Lazzaro morì, ma fu risuscitato.

Ecco allora che la terza possibilità, quella del “siano manifestate in lui le opere di Dio”, è quella finale, definitiva: Gesù guarisce o, per noi oggi, dà la forza per sopportare malattie o condizioni di tensione anche molto forti per poi liberare chi ne è afflitto. E posso testimoniare di avere sperimentato questo Suo intervento nei miei confronti e come me molti altri credenti che hanno portato e portano pesi anche maggiori, trasformando in testimonianza la reazione al dolore in qualunque forma si presenti. L’unica risposta al perché della sofferenza è nel peccato dei nostri progenitori e l’unica reazione ad essa non può che risiedere nell’abbandonarsi al Cristo vivente. Allora, e solo allora, potrà esservi una guarigione e che si tratti di una soluzione radicale a un problema spirituale è evidente: quell’uomo “cieco dalla nascita” ci accomuna spiritualmente tutti perché tutti, prima di incontrare Gesù nella nostra vita, tali eravamo. Ma, soprattutto, come lui vivevamo di espedienti: per sconfiggere la noia, l’ansia, il voler condurre una vita “dignitosa” – ma cosa significhi “dignitosa” è sempre stato per me un mistero –, non soffrire. E viviamo in una società che vorrebbe tanto abolire la sofferenza, ma più la rifugge più cade in essa e si allontana da Dio.”.

La ricerca ossessiva dell’autonomia e della liberazione dal dolore è visibile dal cosiddetto “credo delle sostanze”: basta passare qualche ora davanti alla televisione per accorgerci che l’esistenza umana ha bisogno di soluzioni che si riducono a una pillola per dormire, per non provare acidità di stomaco, reflusso gastrico, contro il mal di testa, i dolori mestruali prima, durante e dopo, per la stitichezza, gambe gonfie, dolori articolari e osteoarticolari di ogni tipo: tutto è pronto, lì per eliminare il sintomo ma non il problema e nessuno si sogna di suggerire alle persone di andare al perché, indagare le cause, nemmeno i cosiddetti Ministeri della Sanità o l’OMS. Altro problema enorme della nostra società è costituito dagli psicofarmaci, dal blando tranquillante a sostanze molto più serie, che molti prendono non perché malati, ma perché incapaci di affrontare determinate situazioni.

È la costante fuga dal dolore e dal disagio che caratterizza il nostro consorzio umano ma, per quanto spiacevoli, sono le uniche a poter formare l’individuo e sono fortemente convinto che il dolore non vada tanto evitato, quanto custodito quale unico strumento di crescita, altrimenti Gesù avrebbe potuto perdonare tutti senza scendere sulla terra e patire la nostra esistenza fino alla morte.

La società di oggi, se grazie alla Medicina può alleviare le sofferenze di chi è gravemente malato, subisce operazioni chirurgiche severe ed accompagnarlo alla morte senza farlo soffrire, non è più in grado di tollerare neppure un semplice fastidio e possiamo dire che fino a quando il dolore, di un’esistenza o localizzato nel corpo, andrà visto solo come qualcosa da eliminare per “vivere bene”, l’uomo sarà ovunque tranne che nei piani di Dio. Perché la sofferenza è necessaria affinché “sino manifestate in lui – noi – le opere di Dio”.

Cosa accomuna quel cieco nato all’uomo di oggi? Il fatto che la vista era assente dalla nascita: per lui si trattava di non vedere cose, animali e persone, per noi di essere limitati alla ricezione delle frequenze di ciò che obiettivamente è, ma vi è altro che non riusciamo a vedere. Se la vista è un senso fondamentale perché grazie ad essa ci muoviamo e decidiamo dove andare e come muoverci, se manca quella spirituale non potremo compiere altro se non scelte nocive per noi, per lo sviluppo del nostro essere spirituale che solo se guarito da Cristo potrà avere un domani. Gesù ha visto noi così come quell’ignoto che mendicava in qualche strada che portava al Tempio.

Le “opere di Dio” si manifestano proprio quando e là dove nessun intervento umano può risolvere e non necessariamente possono rivelarsi conformi alla nostra speranza o volontà, come sappiamo imparò l’apostolo Paolo che, pregando perché potesse guarire da “una spina nella carne” – un’invalidità che si portava dietro a seguito di percosse ricevute – si sentì rispondere “la mia grazia ti basta; la mia forza infatti si manifesta pienamente nella tua debolezza” (2 Corinti 12.9).

La presenza di quel cieco nelle vicinanze del Tempio era perché “in lui siano manifestate le opere di Dio”, ma quali? Certo la Sua potenza che portò alla guarigione, ma anche e soprattutto ciò che avvenne in conseguenza di essa, perché sarà un miracolo che farà scalpore, incontestabile, di fronte al quale i presenti reagiranno positivamente o (molto) negativamente, qualificandosi come futuri figli di Dio o reali figli dell’Avversario. Addirittura, considerando la frase di Gesù al verso 39 di questo capitolo, abbiamo una piena ed esaustiva descrizione della vera cecità: “È per un giudizio che io sono venuto in questo mondo, perché coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi”. Ecco il significato della guarigione di quest’uomo: da cieco divenne prima vedente – ma solo osservando le istruzioni che Gesù gli darà – e poi passerà dalla Sua parte, adorandolo.

Ci chiediamo comunque chi, tra il nato cieco e i Giudei, fosse più nelle condizioni di non vedere: si appelleranno al fatto che il miracolo era avvenuto di sabato, che era per loro impossibile che un cieco dalla nascita potesse ora vedere e apriranno un’inchiesta di fronte al risultato della quale non credettero comunque. Indicativa poi la conclusione dell’episodio da parte dei Giudei alla logica elementare prodotta  dal cieco: “«Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto far nulla». Gli replicarono: «Sei nato tutto nei peccati e insegni a noi?». E lo cacciarono fuori” (vv.33 e 34).

Siamo allora alla fine delle riflessioni sui primi tre versi dell’episodio: se “le opere di Dio” saranno “manifeste in lui”, altrettanto quelle dei servi dell’Avversario che ne ostacoleranno in ogni modo l’accoglimento. Luce e tenebre contrapposte, dunque, e sappiamo che “Dio è luce e non vi sono in lui tenebre alcune”. Amen.

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12.25 – PRIMA CHE ABRAHANO FOSSE, IO SONO (Giovanni 8.58)

12.25– Prima che Abrahamo fosse, io sono (Giovanni 8.58 )

           

58Rispose Gesù: «In verità, in verità io vi dico: prima che Abrahamo fosse, Io Sono». 59Allora raccolsero delle pietre per gettarle contro di lui, ma Gesù uscì dal Tempio.

 

Con questo verso, le cui parole scaturiscono dall’impossibilità dei Giudei di comprendere l’essenza e il ruolo di Gesù, ci troviamo di fronte a una realtà di enorme portata. Già abbiamo avuto modo di ragionare sul significato dell’ “Io Sono”, ma qui gli insegnamenti che possiamo trarre sono infiniti perché la realtà di Nostro Signore si raccorda al tempo in cui Abrahamo era vissuto e al tempo stesso parlava ai suoi oppositori nel Tempio. In queste parole, precedute da due amen, vediamo l’eternità dell’ “Io Sono”, ma soprattutto sottolineiamo il “prima”e il “fósse”, anche questa forma del verbo essere che implica l’esistere, cioè pensare ed agire, scegliere, muoversi. Umanamente l’ “essere”, visto dalla parte dell’uomo, comprende un inizio e una fine, chiama in causa la persona dalla nascita alla morte, quindi ci parla di come l’uomo ha agito.

Vediamo anche come Abrahamo, il cui nome compare in questo capitolo dieci volte, venga citato per primo e sia usato come collegamento in quanto nominato dai Giudei ai versi 39 (“Il nostro padre è Abrahamo”), 52 (“Abrahamo è morto e anche i profeti”) e 53 (“Sei tu più grande del nostro padre Abrahamo, che è morto? Anche i profeti sono morti; chi pretendi di essere”?). In questo caso, allora, Abrahamo è usato perché citato dai Giudei ed è da vedere non più come il cosiddetto “padre della fede”, ma come essere umano cui è abbinato il “fósse”, al passato remoto cioè un tempo che si usa per indicare un fatto ormai avvenuto, concluso e – attenzione – senza legami con il presente. Il passato remoto, nell’uso comune, può corrispondere a un distacco emotivo rispetto all’evento raccontato, mentre nello scritto letterario risponde più a una scelta stilistica.

Il “fósse”, quindi, indica che la persona è indubbiamente esistita ma che, nonostante la sua importanza, in quel momento non aveva più senso e non certo perché la sua valenza storica era diminuita: davanti ai Giudei non stava un uomo, ma l’ ”Io Sono”, il “Colui che è”, che Abrahamo lo aveva chiamato e assistito, aveva a lui parlato ed era a lui infinitamente superiore.“Fósse”è quindi da applicare a tutti gli uomini, ciascuno con la sua storia che lo distingue dagli altri indipendentemente dalla fede, dal fatto che accolga o rifiuti l’invito di Dio a ravvedersi, racchiude ciò che ha fatto dalla culla alla bara e, soprattutto, annuncia un tempo ormai chiuso, scaduto, ed è sotto questo aspetto che va letto il libro del Qoèlet, o Ecclesiaste, che dà una lettura orizzontale della vita umana avvertendo il lettore che tutto passa e scavando in profondità nel tema arrivando a dire che “Né del saggio né dello stolto resterà un ricordo duraturo e nei giorni futuri tutto sarà dimenticato. Allo stesso modo muoiono il saggio e lo stolto”(2.16). Nel “fósse”possiamo allora considerare il passo “vi è una sorte unica per tutto: per il giusto e per il malvagio, per il puro e l’impuro, per chi offre sacrifici e per chi non li offre, per chi è buono e per chi è cattivo, per chi giura e per chi teme di giurare”(9.2).

Il “fósse”che ci accomuna, però, si scontra con l’ “Io Sono”quando, sempre in questo libro, leggiamo “Riconosco che qualsiasi cosa Dio fa, dura per sempre; non c’è nulla da aggiungere, nulla da togliere. Dio agisce così perché lo si tema. Quello che accade, già è stato; quello che sarà, è già avvenuto. Solo Dio può cercare ciò che ormai è scomparso”(3.14,15).

E infatti “Io Sono”  è una definizione che solo Dio può dare perché non soggetto al tempo degli uomini, Lui che ha comandato la fine dell’immobilità in quell’allora “non universo” nato dal “Sia la luce!”del primo giorno. Il Figlio è quindi l’ “Io Sono”che si manifestò proprio allora e poi in tutti gli interventi nei confronti degli uomini dell’Antico Patto, quindi dal tempo dei Vangeli ad oggi e nell’attesa che tutti gli eventi stabiliti si compiano in quanto è “l’Alfa e l’Omega, il principio e la fine”. La Sua presenza costante nell’eternità verrà dichiarata in questo Vangelo quando, in un passo che vedremo fra breve, disse ai settantadue discepoli tornati da Lui “Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore”(Luca 10.18).

Quando mi sono trovato a progettare questo scritto mi sono chiesto quanto valesse la pena sviluppare il verso in esame, ma l’ho trovato infinito per cui, se solitamente di fronte a passi importanti tendo a svilupparlo in più parti, qui preferisco dare solo degli spunti che ciascuno sarà libero di seguire o ampliare se e come meglio crede. Non si può sottolineare un dato importante e cioè che “prima che Abrahamo fosse”è una traduzione che omette “nato”in quanto il verbo greco usato non è “eimi”, appunto “essere”, ma “ghignomai”, che sì ha “essere” come primo significato, ma rapportato al nascere come “divenire”, “accadere”, per cui il Figlio era lì tanto quando Abrahamo nacque, quanto quando “diventò”, cioè crebbe con tutto ciò che comporta (gioia, dolore, riflessione, amara constatazione dei propri errori e fede operante nelle promesse e nei comandamenti di Dio).

La domanda ora è se possiamo sapere qualcosa di ciò che era nell’eternità di YHWH prima che il mondo fosse, ma non ci è stato rivelato dalla Scrittura. Di ciò che c’era prima, per lo meno fisicamente, c’è la sola spiegazione che abbiamo imparato a conoscere non appena presa in mano una Bibbia, “In principio Iddio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque”(Genesi 1.1). Poi, però, se la figura di YHWH rimane distante, quanto a santità ed esigenze, dall’essere umano, non così il Figlio, raffigurato come sappiamo nella Sapienza che fu “generata”nel senso di rivelazione agli uomini, chiamata, vita in un contesto diverso. E in Proverbi 8.22-31 e segg. abbiamo qualcosa di assolutamente nuovo: “Il Signore mi ha creato come inizio della sua attività, prima di ogni sua opera, all’origine. Dall’eternità sono stata formata, fin dal principio, dagli inizi della terra. Quando non esistevano gli abissi, io fui generata, quando ancora non vi erano le sorgenti cariche d’acqua; prima che fossero fissate le basi dei monti, prima delle colline, io fui generata, quando ancora non aveva fatto la terra e i campi né le prime zolle del mondo. Quando egli fissava i cieli, io ero là; quando tracciava un cerchio sull’abisso, quando condensava le nubi in alto, quando fissava le sorgenti dell’abisso, quando stabiliva al mare i suoi limiti, così che le acque non ne oltrepassassero i confini, quando disponeva le fondamenta della terra, io ero con lui come un artefice ed ero la sua delizia ogni giorno: giocavo davanti a lui in ogni istante, giocavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo”. Ora, qui è racchiuso quel periodo antecedente a “Sia la luce”fino alle tante parole rivolte ad Adamo quando era innocente e che Mosè non ci ha riportato.

Nel Nuovo Testamento poi abbiamo “In principio era il Verbo”, cioè l’inizio assoluto, o “l’inizio senza inizio” come è stato definito perché non si può negare che, se il “Principio”di Genesi 1 è riferito al tempo della terra, quello di Giovanni 1 è un “Principio”che appartiene all’eternità. Poi, nel nostro verso, Gesù contrappone il divenire di Abrahamo alla Sua realtà di “Io Sono”e, senza il Suo intervento, l’uno sarebbe stato incommensurabilmente distante dall’Altro, non ci sarebbe stato nessun piano di Dio e Nostro Signore non sarebbe neppure venuto sulla terra. Padre, Figlio e Spirito Santo sarebbero rimasti com’erano nel loro splendido isolamento, ma sarebbero rimasti senza amore da dare. Ogni uomo sarebbe assolutamente lontano ed estraneo da Loro, condannato a una vita priva di futuro, di progetto, di programma, di destinazione. Suicidi dalla nascita. Ma, appunto, abbiamo usato il condizionale, cioè Gesù “sarebbe”, non “È”, non “Io Sono”.

Tornando al nostro episodio, i Giudei presenti non ebbero alcun problema a raccordare l’ ”Io Sono”di Gesù all’ “Io Sono colui che sono”di Esodo 3.14,15 quando Dio rispose così quando gli fu chiesto come si chiamasse: Mosè disse a Dio: «Ecco, io vado dagli israeliti e dico loro: «Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi». Mi diranno: «Qual è il suo nome?». E io cosa risponderò loro?». Dio disse a Mosè: «Io sono colui che sono!”». E aggiunse: «Così dirai agli israeliti: «Io-Sono mi ha mandato a voi!»»”.

I Giudei, fatto questo collegamento per una volta corretto, lungi dal credere, vollero ricorrere alla lapidazione per bestemmia e, per farlo, raccolsero le pietre che si trovavano in gran quantità nel cortile esterno non essendo il Tempio ancora ultimato.

Sorge a questo punto il problema insito nel “ma Gesù uscì dal tempio”che conclude il nostro episodio: certo un bestemmiatore degno di lapidazione non poteva non venire sorvegliato per cui è inammissibile che Nostro Signore abbia approfittato della distrazione dei Giudei che, intenti a raccogliere pietre, non si curarono di Lui; piuttosto abbiamo una ripetizione di quanto già avvenuto altre volte, ad esempio a Nazareth quando lo volevano gettare dalla rupe della città. Semplicemente, non era ancora giunta l’ora della Sua morte, per cui l’importante non è il metodo usato da Lui, ma il tema dell’assoluta impotenza dell’uomo di fronte a Dio. E mi viene in mente Salmo 2.1-4: “Perché le genti sono in tumulto e i popoli cospirano invano? Insorgono i re della terra e i prìncipi congiurano insieme contro il Signore e il suo consacrato: «Spezziamo le loro catene, gettiamo via da noi il loro giogo!». Ride colui che sta nei cieli, il Signore si fa beffe di loro”. Ricordiamo anche Abdia 1.10, “Si fa beffe dei re e dei capi se ne ride; si fa gioco di ogni fortezza: l’assedia e la conquista”.

Credo che sia questa la spiegazione più pertinente anche perché “Ma Gesù uscì dal tempio”è una traduzione che concilia il problema dei testi più antichi che non hanno una versione univoca. Ad esempio Giovanni Diodati e non solo, affidandosi a un altro corpo di scritti altrettanto autorevoli, riporta “Ma Gesù si nascose ed uscì dal tempio, essendo passato per mezzo loro, e così se ne andò”, creando così un parallelo con Luca 4.30 (a Nazareth) “Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino”.

Se Gesù era il “Servo”per eccellenza, allora vale quanto scritto da Davide in Salmo 18.18, “Mi liberò da nemici potenti, da coloro che mi odiavano ed erano più forti di me”, o in Salmo 53.4, “Siano svergognati e confusi quanti attentano alla mia vita; retrocedano e siano umiliati quanti tramano la mia sventura”.

Ragionando poi sul verso esteso, cioè quello che amplia “Ma Gesù uscì dal tempio”, vediamo che il “si nascose”non specifica dove, per cui dobbiamo ammettere che poté benissimo rendersi non visibile dai suoi oppositori nel senso di aver “impedito ai loro occhi di riconoscerlo”come avverrà ai due discepoli sulla via di Emmaus (Luca 24.16). Ricordiamo che “Siano svergognati e confusi quanti attentano alla mia vita”rende più probabile l’irriconoscibilità fisica, oltre che di ruolo, di Gesù per i Giudei. Credo che il testo ci autorizzi a pensarla in questo modo.

La giornata al Tempio si conclude in questo modo, col “nascondersi” di Nostro Signore passando “in mezzo a loro”e uscendo, azione che anticipa quel “mi cercherete, ma non mi troverete”che abbiamo recentemente incontrato in queste meditazioni figura del fatto che, se il Signore va cercato “mentre lo si può trovare”, va da sé che verrà il tempo in cui questo non sarà possibile. Sarà allora, nell’ineluttabilità di un destino scelto, responsabilmente o irresponsabilmente non importa, che il Signore raccoglierà il grano nel Suo granaio e lascerà le scorie a bruciare. Amen.

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12.24 – ABRAHAMO VOSTRO PADRE (Giovanni 8.52-56)

12.24– Abrahamo vostro padre (Giovanni 8.52-56 )

           

52Gli dissero allora i Giudei: «Ora sappiamo che sei indemoniato. Abramo è morto, come anche i profeti, e tu dici: «Se uno osserva la mia parola, non sperimenterà la morte in eterno». 53Sei tu più grande del nostro padre Abramo, che è morto? Anche i profeti sono morti. Chi credi di essere?». 54Rispose Gesù: «Se io glorificassi me stesso, la mia gloria sarebbe nulla. Chi mi glorifica è il Padre mio, del quale voi dite: «È nostro Dio!», 55e non lo conoscete. Io invece lo conosco. Se dicessi che non lo conosco, sarei come voi: un mentitore. Ma io lo conosco e osservo la sua parola. 56Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e fu pieno di gioia». 57I giudei allora gli dissero: «Tu non hai ancora cinquant’anni e hai visto Abrahamo?»

 

“Ora sappiamo”, cioè “adesso”, “in questo momento”, da quando hai detto che che “se uno osserva la mia parola, non vedrà la morte in eterno”.Eppure, citando Abrahamo, i Giudei dimenticano che fu proprio la fede totalmente riposta nella futura risurrezione di Isacco a dargli la forza per sacrificarlo, lui che tempo addietro aveva ritenuto impossibile la nascita di quel figlio. Abrahamo, invece, capì che non poteva far altro che riporre tutta la propria fede nelle promesse ricevute, compresa la sopravvivenza dopo la morte. Oltre a ciò vi era la consapevolezza di quanto fosse importante essere uno strumento nelle mani di Dio alla luce della conoscenza che Abrahamo aveva sulla caduta di Adamo ed Eva e di tutti gli avvenimenti verificatisi fino a lui, come la caduta, la morte di Abele contrapposta alla nascita di Set, il diluvio che fu al tempo stesso punizione (quindi morte) per il genere umano corrotto e salvezza per Noè e la sua discendenza dalla quale Abrahamo stesso aveva avuto origine, per poi arrivare alla torre di Babele il cui giudizio pose fine alla sete di autonomia ed egemonia degli uomini di allora.

Per quanto Dio, nei Suoi dialoghi con Abramo, non abbia mai parlato di vita eterna, questa compare in modo velato nelle prime parole con cui gli si rivolse, “Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò”(Genesi 12.1): da queste parole, infatti, quel servitore capì che non avrebbe avuto senso lasciare un ambiente se non gliene fosse promesso un altro migliore, che parlava di santità e separazione, oltre che di destinazione che certo non poteva essere provvisoria. Qui vediamo che la nostra tradizione, e ciò che abbiamo acquisito come “nostro”, non necessariamente è quello in cui siamo chiamati a vivere. Ciò che sono “Terra”,“parentela”e “casa di tuo padre”vengono stravolti nel momento in cui Dio irrompe nella vita di una persona che viene chiamata ad andare “verso la terra”che Lui indicherà nel senso di qualcosa a cui non ha pensato. Certo per Abrahamo la “terra”fu un luogo preciso geograficamente parlando, mentre per noi può essere benissimo anche uno spazio mentale, un modo di ragionare, un ruolo nella Chiesa, anche solo di “semplice” componente; in poche parole, tutto ciò che senza una rivelazione di Dio non avremmo mai raggiunto.

Proseguendo abbiamo “Farò di te una grande nazione e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e possa tu essere una benedizione”(v.2): qui Abramo comprese, col tempo, che il piano che Dio aveva per lui andava ben oltre l’orizzontalità della vita materiale. Ricordiamo che non viveva in condizioni precarie e non si sarebbe mai spostato solo per vedere un giorno “grande”il suo nome. Piuttosto furono ultime parole del verso terzo a convincerlo. “Benedirò coloro che ti benediranno e maledirò coloro che ti malediranno, e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra”. E la “benedizione” implica beneficiare del diretto intervento in Dio sempre, rientrare nel Suo piano che, essendo Lui stesso Eterno, non può che riguardare la vita dopo la morte. Che senso avrebbe, altrimenti?

 

Torniamo però alle parole dei Giudei: “Abrahamo è morto, e così anche i profeti”. Non ci potrebbe essere dato di fatto più obiettivo anche se notiamo quanto sia categorico quel “morto”nel senso che equivale a dire “non c’è più” quasi che tutto quanto aveva fatto fosse qualcosa di svanito e lo stesso dicasi per gli altri uomini di Dio, i profeti. È da qui che parte l’accusa a Gesù di essere indemoniato, questo perché la visione di cosa vi fosse dopo la morte secondo l’Antico Patto non era propriamente chiara anche se i Sadducei erano gli unici a rifiutare l’idea della resurrezione. Una lunga vita era vista come una benedizione e la morte non tanto come la fine del tutto, ma un qualcosa di misterioso e da vedere con pessimismo certamente sì. Dei patriarchi leggiamo che il tale “fu seppellito coi suoi padri”, o “si addormentò”che apre prospettive diverse. Salomone, il re più saggio, ha una visione distruttiva della morte e scrive che “Riguardo ai figli dell’uomo, mi sono detto che Dio vuole metterli alla prova e mostrare che essi di per sé sono bestie. La sorte degli uomini e quella delle bestie è la stessa: come muoiono queste, così muoiono quelli; c’è un soffio vitale per tutti. L’uomo non ha alcun vantaggio sulle bestie, perché tutto è vanità, tutti sono diretti verso il medesimo luogo: tutto è venuto dalla polvere e nella polvere tutto ritorna”(Ecclesiaste 3.18-20). Ricordiamo Zaccaria 1.5, cui forse i Giudei facevano riferimento in questo caso, “Dove sono i vostri padri? E i profeti forse vivranno per sempre?”.

I morti andavano nello Sheol, un luogo di non vita e non consapevolezza: “Nel soggiorno dei morti dove tu vai non c’è più lavoro, né pensiero, né scienza, né saggezza”(Ecclesiaste 9.10) e “Finché si vive c’è speranza. È meglio un cane vivo che un leone morto. I vivi sanno che devono morire. Ma i morti non sanno proprio niente”(9.4,5). Lo Sheol è l’inferno, che deriva da infer, da cui il nostro “inferiore” e che quindi ha relazione con ciò che è sotto terra e non a un luogo di tormenti come poi è diventato. Per questo, quando il termine Sheol ricorre, (65 volte) viene tradotto con “inferno”,“sepolcro”o “sotto terra”. Anima e corpo erano considerati un tutt’uno e quindi, alla morte del secondo, “moriva” anche la prima o, come abbiamo letto, “si addormentava”. Ma se vi è un sonno, va da sé che vi sia anche un risveglio. Se in Levitico 18.5 leggiamo “Osserverete dunque le mie leggi e le mie prescrizioni, mediante le quali chiunque le metterà in pratica vivrà”, non possiamo non trovare limitante quella promessa di vita ad una esclusiva gestione di un presente prolungato sulla terra. Ricordiamo poi il re Davide, che in Salmo 102.29 scrive “I figli dei tuoi servi avranno una dimora, la loro stirpe vivrà alla tua presenza”.

L’opinione in basse alla quale gli antichi avessero della morte l’idea come della fine di tutto senza appello è falsa; se mai riproduce un’errata opinione comune, ma la verità, che va sempre e comunque cercata, pur essendo  nascosta, si lascia trovare: ad esempio Isaia 26.18,19 non potrebbe essere più chiaro poiché, rappresentando il passato, il presente e il futuro, così scrive: “Abbiamo concepito, abbiamo sentito i dolori quasi dovessimo partorire: era solo vento, non abbiamo portato salvezza alla terra e non sono nati abitanti nel mondo. Ma di nuovo vivranno i tuoi morti. I miei cadaveri risorgeranno! Svegliatevi ed esultate, voi che giacete nella polvere. Sì, la tua rugiada è rugiada luminosa, la terra darà alla luce le ombre”. Possiamo citare anche Abacuc 2.4 a noi familiare perché usato da Nostro Signore, “Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede”. Ora è difficile pensare che questo “vivrà”sia qualcosa di temporaneo, soprattutto quando leggiamo Ezechiele 33.14-16: “Se dico al malvagio: «Morirai» ed egli si converte dal suo peccato e compie ciò che è retto e giusto, rende il pegno, restituisce ciò che ha rubato, osserva le leggi della vita senza commettere il male, egli vivrà e non morirà; nessuno dei peccati commessi sarà più ricordato: egli ha praticato ciò che è giusto e certamente vivrà”. Ora, credo fermamente che vivere per poi morire di nuovo non abbia alcun senso, a meno che vedere la morte come esclusivamente di un corpo che tornerà alla vita nel momento opportuno.

Sappiamo che gli scritti dell’Antico Patto contengono “l’ombra dei futuri beni”(Ebrei 10.1) e che Gesù, essendo il vero Liberatore, in quel momento stava annunciando al Suo uditorio, Giudei compresi, la sola verità a cui avrebbero potuto aggrapparsi per essere salvati, abbandonando però quelle, innumerevoli, che avevano. Più avanti dirà “Io sono la via, la verità e la via. Nessuno può venire al Padre se non per mezzo di me”, quindi Viacome unica strada per avere accesso a Dio Padre, Veritàin opposizione al padre della menzogna come visto recentemente, e Vitaquale strumento ed effetto per la fede in Lui riposta. Questo voleva dire “non morire in eterno”, o“non vedere mai la morte”.

Del tutto insensibili, i Giudei gli chiedono “Chi credi di essere?”manifestando tutto il loro disprezzo, ma ancora una volta Gesù li pone di fronte al fatto che di fronte a loro stava Uno che andava oltre Abrahamo e gli stessi profeti perché “Se glorificassi me stesso, la mia gloria sarebbe nulla”cioè sarebbe passato come uno dei tanti e si sarebbe perso in quel buio di cui parlò Salomone quando scrisse “Una generazione va e l’altra viene, ma la terra resta sempre la stessa (…)non resta più ricordo degli antichi, ma neppure di coloro che saranno si conserverà memoria presso coloro che verranno in seguito”(Qoèlet 1.4,11). Queste parole possono essere, nel caso di specie, rapportate a quelle di Gamaliele quando disse al Sinedrio “Per quanto riguarda questo caso– Pietro e Giovanni che stavano per essere da loro giudicati – ecco ciò che vi dico: «Non occupatevi di questi uomini e lasciateli andare. Se infatti questa teoria o questa attività è di origine umana, verrà distrutta; ma se essa viene da Dio, non riuscirete a sconfiggerli. Non vi accada di trovarvi a combattere contro Dio!»”(Atti 5.38,39).

Quello che Gesù vuol dire ai Suoi detrattori, allora, al di là dell’impossibilità in base alla quale Lui potesse fare qualsiasi cosa per glorificare se stesso, è che quanto da Lui fatto e detto verrà ricordato per sempre e sarebbe stato invincibile salvo il ferimento al calcagno in cui possiamo vedere tanto la Sua morte, annullata nella resurrezione, quanto l’invincibilità della Chiesa sulle quali non potranno mai prevalere le porte degli inferi (Matteo 16.18).

Come Verità, invece, Gesù non poteva che parlare del Padre che conosceva senza essere, al contrario del Giudei, un mentitore: “Conosco e osservo la Sua parola”arrivando al punto stesso di incarnarla. Attenzione alle parole di Isaia 42.1-4 che certamente quei Giudei conoscevano molto bene, senza però comprenderle: “Ecco il mio servo, che io ho scelto; il mio amato, nel quale ho posto il mio compiacimento. Porrò il mio spirito sopra di lui e annuncerà alle nazioni la giustizia. Non contesterà né griderà né si udrà nelle piazze la sua voce. Non spezzerà una canna già incrinata, non spegnerà una fiamma smorta, finché abbia fatto trionfare la giustizia; nel suo nome spereranno le nazioni”. E qui ci raccordiamo alle promesse fate ad Abrahamo, che le recepì e le contemplò da lontano, rallegrandosene.

“Il mio giorno”che quest’uomo desiderava vedere (e che vide) sappiamo che può riferirsi a vari eventi, come quello della Sua nascita, della Sua manifestazione al mondo, la Sua seconda venuta per giudicare vivi e morti oppure tutto lo svolgersi del proprio ufficio di Mediatore, anche se personalmente intendo il primo caso in quanto gli altri sono conseguenti. Chissà se Abrahamo non “vide”quel giorno proprio quando gli fu annunciata la nascita di Isacco, vero figlio perché avuto da Sara e non dalla schiava Agar. Leggiamo infatti che rise. Anche il libro della Genesi, come tutti gli altri, non va letto con la convinzione che gli avvenimenti e le parole riportate furono gli unici o le uniche.

“Abrahamo vostro padre”, esultando, fece ciò che loro, come guide cieche, non facevano perché non in grado di vedere che proprio quel “giorno”era giunto a loro ed era alla loro portata.

Gesù cita Abrahamo sia perché viene nominato dai Giudei per primi, sia perché lo aveva conosciuto e gli aveva parlato, ma a questo punto gli viene posta un’altra domanda: “Tu non hai ancora cinquant’anni e hai visto Abrahamo?”(v.57), allusione al punto culminante della vita (50 anni) in cui i sacerdoti e i leviti venivano dispensati dal servire nel Tempio e nel Tabernacolo. Per i Giudei, i trentatré anni circa di Gesù erano una cifra insignificante anche se dimenticavano che era proprio a trenta che il loro servizio iniziava.

Un fratello ha sottolineato un’altra stortura degli oppositori di Nostro Signore, poiché lo accusano di sostenere di avere “visto Abrahamo”quando in realtà aveva detto il contrario, cioè che Abrahamo aveva visto Lui: in effetti sembra cosa da poco, ma così sminuivano, certo spinti dall’Avversario, la portata delle Sue parole che, nel verso successivo, saranno di una valenza e di un peso dottrinale enorme: “Prima che Abrahamo fosse, io sono”, che esamineremo dal prossimo capitolo.

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12.23 – NON VEDER LA MORTE IN ETERNO (Giovanni 8.48-51)

12.23 – Non veder la morte in eterno (Giovanni 8.48-51)

           

 

48Gli risposero i Giudei: «Non abbiamo forse ragione di dire che tu sei un Samaritano e un indemoniato?». 49Rispose Gesù: «Io non sono indemoniato: io onoro il Padre mio, ma voi non onorate me. 50Io non cerco la mia gloria; vi è chi la cerca, e giudica. 51In verità, in verità io vi dico: se uno osserva la mia parola, non vedrà la morte in eterno».

 

“Chi è da Dio ascolta le parole di Dio; perciò voi non le ascoltate: perché non siete da Dio” sono le parole di Gesù che danno luogo all’intervento dei Giudei che abbiamo letto. Ora è chiaro che l’ascolto cui fa riferimento Nostro Signore dev’essere costruttivo e chiama in causa l’elaborazione onesta delle Sue parole, quella che implica una valutazione serena e obiettiva di quanto da Lui annunciato e non quella puntigliosa e ostile messa in atto aprioristicamente dai suoi oppositori. Questi, agendo sempre e comunque ascoltando loro stessi, disattendevano e oltraggiavano proprio Colui che, quando Gesù venne battezzato, parlò ai presenti dal cielo dicendo “Questo è il mio amato figlio, nel quale mi sono compiaciuto” (Matteo 3.17). Così facendo i Giudei si ponevano completamente fuori dal piano di Dio, estranei a tutta quella generazione di uomini spirituali che li avevano preceduti essendo quello il tempo in cui “molti profeti e re hanno voluto vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono” (Luca 10.24).

L’ascolto cui Gesù fa qui riferimento, che trova le sue radici anche negli scritti dell’Antico Patto, non è mai disgiunto da una profonda valutazione ed immedesimazione nel prossimo per non commettere errori di giudizio; ricordiamo ad esempio Deuteronomio 1.16, “Ascoltate le cause dei vostri fratelli e decidete con giustizia fra un uomo e suo fratello o lo straniero che sta presso di lui”. Ancora, ricordiamo le parole della Sapienza in Proverbi 8.6, dalle quali vediamo come non sia possibile scorporare l’ascolto dalla messa in pratica, “Ascoltatemi, perché parlerò di cose importanti e le mie labbra si apriranno per dire cose giuste”. Invece, i Giudei del nostro episodio possono essere identificati nel verso di Isaia 42.20, “Hai visto molte cose, ma senza prestarvi attenzione; le tue orecchie erano aperte, ma non hai udito nulla”.

Prova di tutto questo è proprio l’assurdo insulto del verso 48 in cui Gesù è definito “Samaritano” e, ancora una volta, “indemoniato”, così temporalmente vicino a quanto letto in 7.20, “Sei indemoniato! Chi cerca di ucciderti?”. Ora il termine “Samaritano” significa che Nostro Signore non era nemmeno considerato come un giudeo, ma come un vero e proprio impostore che con Israele e con Abrahamo non aveva nulla a che fare. Egli era dunque uno straniero, un scismatico, un impuro, per di più indemoniato, cioè una non persona posseduta da uno spirito che lo faceva parlare ed agire in modo tale da sedurre chi, come loro, non aveva che “un solo padre”, Abrahamo o Dio a seconda di come si ritenessero al momento.

Dal nostro testo, poi, non può essere ignorata la calma di Gesù, che non segue i Giudei sul terreno della contesa, ma resta sul sentiero della verità così a loro estranea, fedele a quanto scritto dall’apostolo Pietro che, nella sua prima lettera, annota “Anche Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme: egli non commise peccato e non si trovò inganno sulla sua bocca; insultato, non rispondeva con insulti. Maltrattato, non minacciava vendetta, ma si affidava a colui che giudica con giustizia” (2.21-23).

Notiamo ora come risponde Gesù ai versi 49 e 50: se avesse parlato anche solo in modo enfatico, avrebbe sminuito la portata delle sue parole perché la loro gravità si sarebbe ridotta; Dio infatti non parla per spot pubblicitari in cui l’attenzione del bersaglio va indirizzata, stimolata con escamotages che lo convoglino a scelte para obbligate, ma tramite parole di verità che non hanno bisogno di sottolineature, grassetti o marcature varie; queste se mai le usa chi studia e, guardando ad esempio le nostre Bibbie, non ve n’è una uguale all’altra quanto a segni, evidenziazioni o note.

Dio non alza la voce come molti per farsi meglio sentire, per esternare rabbia o sostenere le proprie ragioni, ma avverte con la parola o con la lettera e soprattutto agisce mantenendo ciò che promette tanto nel bene quanto nel male. Sta solo all’uomo “ascoltare” perché nulla resterà in sospeso e nessuno resterà impunito o premiato a seconda di come avrà agito. Il tragico è che  raramente la creatura si ferma per pesare la portata della Parola di Dio.

Quanto Gesù dice va letto – “ascoltato” come nel nostro episodio – con tutto il suo peso scegliendo, individuando ciò ci riguarda direttamente. Ecco allora che qui abbiamo “Io non sono indemoniato: io onoro il Padre mio, ma voi non onorate me – la traduzione corretta è “mi disonorate” –. Io non cerco la mia gloria; vi è chi la cerca, e giudica”. Si tratta di parole dalla portata immensa, che ignorano completamente l’accusa dell’essere indemoniato, ma si spostano sulla Sua attività incessante di “onorare il Padre”, cioè aderire continuamente al Suo progetto per il recupero dell’uomo in modo tale che sia reso partecipe all’essenza del Padre e del Figlio, che troverà compimento nei “nuovi cieli e nuova terra dove dimora stabile la giustizia”.

L’“onorare il Padre” da parte di Gesù equivaleva all’esercizio di una costante innocenza, non contaminazione dal peccato, continuare ad essere un tutt’uno con Lui nonostante il proprio corpo di carne perché altrimenti avrebbe fallito. Se così non fosse stato, non avrebbe mai potuto essere il Figlio di Dio, manifestarsi al mondo, essere il solo tramite fra il Padre e l’uomo peccatore, rivelarLo. Se Gesù non avesse onorato il Padre in modo perfetto, potremmo dire di Lui che sì, sarebbe stato un grande profeta ma, come tutti i profeti, un uomo che ci ha fornito una rivelazione parziale di Dio e saremmo ancora qui ad aspettare un Liberatore, un Messia, il mediatore perfetto di cui Giobbe lamentava la mancanza. Ma c’è di più, saremmo dei pagani, cioè ancora estranei alla realtà e al piano di Dio che, eventualmente, potremmo vedere da lontano senza esserne partecipi.

Di fronte ai Giudei del nostro episodio, allora, stava Uno che onorava il Padre ed era in mezzo a gente che Lo disonorava, cioè non solo era totalmente indifferente a tutto ciò che diceva e faceva, ma Lo osteggiava in tutto e progettava già da tempo la sua morte.

L’ultima parte del verso, “Io non cerco la mia gloria; vi è chi la cerca, e giudica”, va divisa in due parti: la prima è chiara ed è, sotto certi aspetti, una risposta all’essere “un Samaritano” sotto l’aspetto dell’impostore. A Gesù non interessò mai ricevere un riconoscimento umano e basta ricordare l’episodio della prima moltiplicazione dei pani e dei pesci in cui leggiamo “Ma Gesù, sapendo che stavano per venire a prenderlo far farlo re, si ritirò di nuovo sulla montagna, tutto solo” (Giovanni 6.15), ma quello spirituale certamente sì, non per se stesso, ma perché l’uomo potesse essere salvato. Possiamo dire che Nostro Signore non poteva cercare “la mia gloria” perché non avrebbe potuto portare da nessuna parte, sarebbe stata sterile perché credere in Lui disgiungendolo dal Padre avrebbe portato ad una visione incompleta, ad una religione come altre nonostante i miracoli e la resurrezione; invece, tutto è stato fatto, è stato “compiuto” in relazione al bisogno urgente, all’indispensabilità del fatto che Dio si rivelasse attraverso di Lui perché Gesù Cristo è il tramite che conduce al Padre, fonte di vita, responsabile di quel gesto di amore infinito e gratuito che fu la creazione dell’universo che avrebbe dovuto avere l’uomo al centro e non, come oggi, a margine, vittima di se stesso.

Penso che, più di altre parole, sia Giovanni 17.1-5 a renderci l’idea di quanto avvenuto: “…alzàti gli occhi al cielo, disse: «Padre, è venuta l’ora: glorifica il Figlio tuo perché il Figlio glorifichi te. Tu gli hai dato potere su ogni essere umano, perché egli dia la vita eterna a tutti coloro che gli hai dato. Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo. Io ti ho glorificato sulla terra, compiendo l’opera che mi hai dato da fare. E ora, Padre, glorificami davanti a te con quella gloria che io avevo presso di te prima che il mondo fosse”.

E qui arriviamo alla seconda parte del verso, “vi è chi la cerca, e giudica”, cioè Padre e Figlio assieme e qui possiamo vedere la differenza fra il Gesù in carne come “figlio dell’uomo” e come si manifesterà nell’ultimo giorno: “Il Padre non giudica nessuno, ma ha dato ogni giudizio al Figlio, perché tutti onorino il Figlio come onorano il Padre. Chi non onora il Figlio, non onora il Padre che lo ha mandato. In verità, in verità io vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita” (Giovanni 5.22-24). Abbiamo allora Gesù in doppia veste, poiché non essendo venuto sulla terra per condannare il mondo, ma perché questo fosse salvato per mezzo di lui (Giovanni 3.17), ben altra realtà sarà vista da tutti una volta in cui sarà presente o assente come Avvocato Difensore. Infatti “…se qualcuno ha peccato, abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo giusto. Egli è vittima d’espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo”. Per capire la differenza fra il Cristo compassionevole dei Vangeli e il Dio glorificato e glorioso dopo la Sua resurrezione, è sufficiente la lettura del libro dell’Apocalisse in cui viene presentato in una versione molto diversa, per noi attuale – quando agli avvenimenti nell’eternità in cui è tornato – e al tempo stesso futura, quando il tempo del mondo e dell’umanità avrà fine.

E qui giungiamo al nostro ultimo verso in cui abbiamo il doppio “amen” di Gesù, “In verità in verità io vi dico: se uno osserva la mia parola, non vedrà la morte in eterno”. Anche qui la traduzione non è precisa perché l’ “osservare” potrebbe lasciar pensare ad un seguire freddamente un libretto di istruzioni; al contrario qui si parla di custodire, che implica un’azione ben diversa: un bene dato in custodia è qualcosa di prezioso, da curare continuamente, da proteggere, è qualcosa di cui si è responsabili. Se si fa questo, non si vedrà mai la morte e in particolare l’episodio della risurrezione di Lazzaro ne è un esempio perché, poco prima di operare, Gesù disse “Io sono la resurrezione e la vita. Chi crede in me, anche se muore, vivrà. Chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno” (Giovanni 11.25,26).

Anche qui è importante il verbo: “vedere la morte” equivale a farne esperienza, provarla e certo non si parla di quella del corpo, attraverso la quale tutti passeranno salvo quei credenti che saranno in vita al ritorno di Gesù. “Vedere la morte” è comunque un ebraismo che allude al morire e qui, raccordandoci a quanto detto poco prima, il parallelo è con Apocalisse 21.8, “Ma per i vili e gli increduli, gli abietti e gli omicidi, gli immorali, i maghi, gli idolatri e per tutti i mentitori è riservato lo stagno ardente di fuoco e di zolfo. Questa è la seconda morte”.

Per chi crede, per chi cerca ed è destinato a trovare, valgono però altre parole: “In verità in verità vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a Colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita” (Giovanni 5.24). Amen.

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12.22 – DUE PADRI (Giovanni 8.42-47)

12.22 – Due padri (Giovanni 8.42-47)

42Disse loro Gesù: «Se Dio fosse vostro padre, mi amereste, perché da Dio sono uscito e vengo; non sono venuto da me stesso, ma lui mi ha mandato. 43Per quale motivo non comprendete il mio linguaggio? Perché non potete dare ascolto alla mia parola. 44Voi avete per padre il diavolo e volete compiere i desideri del padre vostro. Egli era omicida fin da principio e non stava saldo nella verità, perché in lui non c’è verità. Quando dice il falso, dice ciò che è suo, perché è menzognero e padre della menzogna. 45A me, invece, voi non credete, perché dico la verità. 46Chi di voi può dimostrare che ho peccato? Se dico la verità, perché non mi credete? 47Chi è da Dio ascolta le parole di Dio. Per questo voi non ascoltate: perché non siete da Dio».

Le parole di Gesù in questo intervento sono fondamentali per capire ciò che spingeva i Giudei ad ostacolare la Sua predicazione e a porsi costantemente contro di Lui; viene infatti demolita la lettura “politica” del loro comportamento che li vedrebbe come persone che, in buona fede, ritenendosi custodi della dottrina dell’Unico Dio e guide legittime di Israele, la dovevano difendere da chiunque si opponesse a loro. Forse, nella cecità che li animava, quei Giudei intendevano adattare alla circostanza Deuteronomio 13.2-5: “Qualora sorga in mezzo a te un profeta o un sognatore che ti proponga un segno o un prodigio, e il segno o prodigio annunciato succeda, ed egli ti dica «Seguiamo dèi stranieri, che tu non hai mai conosciuto, e serviamoli», tu non dovrai ascoltare le parole di quel profeta o di quel sognatore, perché il Signore, vostro Dio, vi mette alla prova per sapere se amate il Signore, vostro Dio, con tutto il cuore e con tutta l’anima. Seguirete il signore, vostro Dio, temerete lui, osserverete i suoi comandi, ascolterete la sua voce, lo servirete e gli resterete fedeli. Quanto a quel profeta o a quel sognatore, egli dovrà essere messo a morte, perché ha proposto di abbandonare il Signore, vostro Dio, che vi fatto uscire dalla terra d’Egitto e ti ha riscattato dalla condizione servile, per trascinarti fuori della via per la quale il signore, tuo Dio, ti ha ordinato di camminare. Così estirperai il male in mezzo a te”.

Questo verso, attuale anche oggi perché il cristianesimo non può accettare come provenienti da Dio fenomeni ingannatori che l’Avversario può sempre produrre per introdurre dottrine estranee alla fede (supportandole attraverso miracoli e falsi profeti), era però nel caso di specie totalmente avulso dal contesto e, soprattutto, è indice di quanto sia facile far dire alla Bibbia ciò che vuole l’uomo quando lo Spirito Santo è assente. Sappiamo che quei Giudei avevano dichiarato prima di non avere altro padre all’infuori di Abrahamo e poco dopo di avere “un solo padre: Dio!”(v.41), ma la risposta di Gesù “Se Dio fosse vostro padre, mi amereste, perché da Dio sono uscito e vengo”stabilisce una prima, enorme distanza là dove quel “mi amereste”va letto come seguire ed essere naturalmente attratti da lui, come avvenuto per molti tra il popolo. In altri termini, se quei Giudei avessero avuto davvero Dio per padre, avrebbero accolto con gioia Gesù, riconoscendolo come il loro vero liberatore dalla schiavitù non romana, ma dalla condizione di peccato che li dominava come tutti gli altri uomini. Le parole “Il regno dei cieli è vicino”, pronunciate molto tempo prima, erano supportate da tutta una storia che non avrebbe non potuto coinvolgere quelle persone nella mente e nel cuore.

Riflettendo su quanto stava accadendo, alla luce dell’assioma “Nessuno può venire a me se il Padre non lo attira”(Giovanni 6.44) era impossibile che, se quelle persone avessero amato veramente il Padre e fossero stati suoi figli, non avessero avuto difficoltà a riconoscere Gesù e soprattutto compreso il suo “linguaggio”, certo aiutati da quella scienza scritturale che il popolo non aveva eppure Lo ascoltava. Invece, non potevano “dare ascolto”alla Sua parola, di fronte alla quale inciampavano. Si noti quanto sia forte quel “non potete”che sta a indicare un’impossibilità duratura, incapacità funzionale, totale estraneità. E quanto denunciato da Gesù era possibile solo in un caso, cioè che il “padre” dei suoi oppositori fosse una forza a Lui contraria: “Voi avete per padre il diavolo e volete compiere i desideri del padre vostro”(v.44), lo stesso che si compiace nel distruggere o comunque attentare all’equilibrio della Chiesa dove “Il campo è il mondo. Il seme buono sono i figli del regno; la zizzania sono i figli del maligno e il nemico che l’ha seminata è il diavolo”(Matteo 13.38,39).

Ora occorre prestare la massima attenzione a ciò che implicano queste parole e cioè che ogni uomo o donna ha un padre a livello di appartenenza spirituale. E ciò non può essere ignorato in quanto divide chi è da Dio da chi non lo è. Si tratta di una classificazione che non è riferibile a quelli che ancora non credono, ma a chi, come l’Avversario, si pone all’opposizione più ferma ricorrendo ad ogni mezzo pur di ostacolare, negare il Vangelo e perseguitare chi lo propone. Due mondi fra i quali è già posta, come nella parabola del ricco stolto, “una gran voragine”, mondi incompatibili fra loro, quindi con destini diametralmente opposti.

Altra caratteristica di quei Giudei e di tutti quanti si identificano in loro a livello di opposizione, è “volete fare i desideri del padre vostro”, posizione ben diversa da chi, in quanto peccatore non ancora perdonato, si trova in una condizione di lontananza da Dio e in temporanea estromissione da Lui. Qui la “volontà” è per libera scelta, qualcosa di ben peggiore rispetto ad essere “per natura meritevoli d’ira”nel contesto espresso in Efesi 2.3, “Anche tutti noi, come loro, un tempo siamo vissuti nelle nostre passioni carnali seguendo le voglie della carne e dei pensieri cattivi: eravamo per natura meritevoli d’ira, come gli altri”: qui l’apostolo Paolo fa riferimento alle“cose vecchie”che “sono passate”, ma nel caso dei personaggi cui Gesù parla si tratta di un seguire l’Avversario fin dalle origini. Egli è “omicida fin dal principio”, definizione che risale a quando, vicario di Dio in Eden, volle condurre Adamo e sua moglie alla rovina (“Nel giorno in cui ne mangerai, per certo morirai”) perché il suo orgoglio non poteva sopportare che vi fosse una creatura innocente a rubargli l’egemonia che aveva in quanto Cherubino protettore. Il primo omicidio della nostra storia storia, quindi, alla luce di questo dato si può dire che non fu quello di Abele, ma di Adamo ed Eva, che senza dare ascolto a Satana avrebbero potuto vivere un’eternità di luce e perfezione.

Il padre dei Giudei che questionavano con Nostro Signore era quindi “omicida– altri traducono “micidiale”, cioè capace di provocare la morte per lo più in modo violento – fin dal principio”, e incapace di restare “saldo nella verità, perché in lui non c’è verità”(v.44), quindi solo menzogna e inganno come forza distruttiva e, perché questo avvenga, c’è bisogno di autori e di vittime. Facendo un parallelo con 2 Pietro 2.1-3: “Ci sono stati anche falsi profeti tra il popolo, come pure ci saranno in mezzo a voi falsi maestri– e queste sono parole dirette alla Chiesa nel suo percorso storico – che introdurranno eresie perniciose, rinnegando il Signore che li ha riscattati e attirandosi una propria rovina. Molti seguiranno le loro dissolutezze e per colpa loro la via della verità sarà coperta di improperi. Nella loro cupidigia vi sfrutteranno con parole false; ma la loro condanna è già da tempo all’opera e la loro rovina in agguato”.

Torniamo alla descrizione di Gesù su Satana, “Quando dice il falso, dice ciò che è suo, perché è menzognero e padre della menzogna”(v.44): mi sono chiesto il perché del “Quando”, che sembra posto ad indicare che non sempre “dice il falso”e in effetti così è, visto che di fronte a Dio sa di non poter mentire. Satana disse il vero, ad esempio, in Giobbe 1.6 quando, alla domanda “Da dove vieni?”, rispose “Da un giro sulla terra che ho percorso in lungo e in largo”. Sempre dal contesto di quell’episodio, però, emerge la sua natura distruttrice quando propose a Dio di provare quell’uomo: “Tutto quello che possiede, l’uomo è pronto a darlo per la sua vita– ed è una verità, basta guardarsi attorno –. Ma stendi un poco la mano e colpiscilo nelle ossa e nella carne e vedrai come ti maledirà apertamente!”. Sappiamo che YHWH non poteva sottrarsi a quelle parole nonostante conoscesse Giobbe profondamente e rispose “Eccolo nelle tue mani. Soltanto risparmia la sua vita”(2.6).

Gesù, parlando del padre dei Giudei, sostiene nella Sua autorità che, dicendo (e fabbricando) il falso “dice ciò che è suo”quindi viene esclusa una menzogna inventata, ma naturalmente presentata sul momento come fatto, come prodotto perché “in lui non c’è verità”quindi, come ha scritto un fratello, “questo significa che egli è internamente destituito di verità, mancante di quella santa e trasparente rettitudine che egli possedeva da principio, quale creatura di Dio. La menzogna è divenuta la vera e propria sua natura, per cui è interamente alieno dalla verità di Dio”. Abbiamo allora il falso come qualcosa di generato da lui, il risultato naturale, il frutto di un’essenza e non una costruzione risultato di un ragionamento. Attenzione, quindi, alle persone false che tutti noi conosciamo o con le quali veniamo a che fare!

“Parla del suo”: la traduzione letterale sarebbe “Parla del suo proprio”o “dalle proprie risorse”, quindi del fatto che un essere separato da Dio non può che risiedere nelle tenebre assolute e, anche se è in grado di produrre idee o fenomeni di qualunque tipo, in quanto indipendenti dalla volontà del Creatore, non possono altro che portare alla rovina. E credo che noi tutti siamo portatori di un’esperienza diretta in tal senso avendo provato personalmente gli effetti di persone che hanno scelto volontariamente la strada indicata dall’Avversario anziché l’unica percorribile per essere salvati ed appartenere ad un padre diverso.

Il “Padre della menzogna”la trasmette quale contrassegno ereditario a chi è già suo e così sarà fino all’ultimo, quando vi sarà chi entrerà nel Regno di Dio e chi no: “Fuori i cani – cioè gli immondi–  i fattucchieri, gli immorali, gli omicidi, gli idolatri e chiunque ama e pratica la menzogna!”(Apocalisse 22.15).

Il fatto che l’opposizione a Gesù fosse priva di fondamento così come lo è la menzogna, è rilevabile al verso 46,“Chi di voi può dimostrare che ho peccato?”: è un invito a trovare anche il più piccolo frammento di errore o trasgressione alla luce della Legge (non certo cerimoniale) e a scavare nella Sua vita che, come abbiamo visto all’inizio di questo lungo percorso di riflessioni, fu un continuo adempimento a quanto scritto dai Profeti.

Arriviamo così al nostro ultimo verso, “Chi è da Dio, ascolta le parole di Dio. Per questo voi non mi ascoltate, perché non siete da Dio”: anche questo è un verso impegnativo e sarà più volte ripreso e ampliato nelle varie lettere, soprattutto da Giovanni quando scrive “Noi siamo da Dio. Chi conosce Dio ascolta noi: chi non è da Dio non ci ascolta”(1a, 4.6). Si tratta di versi che a volte tendiamo a dimenticare nonostante racchiudano una verità assolutamente seria che riguarda chi, ascoltato il Vangelo, oppone un rifiuto fermo e categorico che resta immutato nel tempo senza variazione alcuna (anzi, il più delle volte tale posizione si fa sempre più dura, come inevitabile).

Menzogna e verità sono quindi i due elementi che ancora una volta si contrappongono, la prima rende sempre più schiavi, la seconda, se scelta, rende liberi. Amen.

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12.21 – ABRAMO PER PADRE IV/IV (Giovanni 8.39-41)

12.21 – Abramo per padre IV/IV (Giovanni 8.39-41)

39Gli risposero: «Il padre nostro è Abramo». Disse loro Gesù: «Se foste figli di Abramo, fareste le opere di Abramo. 40Ora invece voi cercate di uccidere me, un uomo che vi ha detto la verità udita da Dio. Questo, Abramo non l’ha fatto. 41Voi fate le opere del padre vostro». Gli risposero allora: «Noi non siamo nati da prostituzione; abbiamo un solo padre: Dio!».

Negli ultimi tre capitoli si è cercato di affrontare il personaggio di Abrahamo, sviluppato in modo sommario stante la profondità dei contenuti che avrebbero richiesto ben più spazio. Si è sorvolato su molti versi, fatti e vicende, ma l’intento era quello di fornire un orientamento sul testo e non di sviluppare la sua persona in modo esauriente. Giungiamo così a Genesi 22 col quale concluderemo la panoramica su di lui che, va sottolineato, termina in realtà con 25.8 che riassume la sua esistenza: “L’intera durata della vita di Abrahamo fu di centosettantacinque anni. Poi Abrahamo spirò e morì in felice canizie, vecchio e sazio di giorni, e si riunì ai suoi antenati”.

Venendo quindi al capitolo 22, già il primo verso ci introduce in un àmbito nuovo: “Dopo queste cose, avvenne che Iddio provò Abrahamo, e gli disse: «Abrahamo!», ed egli gli disse «Eccomi»”. Entra qui espressamente, per la prima volta nella sua vita, il tema della prova, l’unico mezzo col quale l’uomo può dimostrare a Dio (e a se stesso) la propria fede e coerenza. La prova, indipendentemente dal tipo, giunge in modo inaspettato e difficilmente si ha modo di riconoscerla, a differenza di quanto avvenne per Gesù quando fu tentato da Satana nel deserto. Della prova abbiamo l’esempio principe in Giobbe, che fra gli antichi la sperimentò più di tutti e, per gli scritti del Nuovo Testamento, abbiamo questa rivelazione a Pietro: “Simone, Simone, ecco, Satana ha chiesto di vagliarvi come si vaglia il grano, ma io ho pregato per te, affinché la tua fede non venga meno”(Luca 22.31,32).

La prova, per la carne, non è mai qualcosa di piacevole, anzi: può turbare profondamente l’anima, gli affetti e il corpo, isolatamente o tutti nell’insieme a seconda dei casi ed è lì che ci riveliamo per ciò che effettivamente siamo. Abrahamo risponde alla chiamata di Dio con “Eccomi”, cioè pronto all’ascolto di qualunque ordine o annuncio, sapendo che non aveva nulla da temere pensando a quanto gli fu detto in occasione dell’alleanza stabilita in Genesi 17, “Io sono l’Iddio Onnipotente, cammina alla mia presenza e sii integro; e io stabilirò il mio patto fra me e te e ti moltiplicherò grandemente” (vv. 1 e 2).

Quanto si sentì dire però al capitolo 22 fu qualcosa di categorico e sconvolgente: “Prendi ora il tuo figliolo, il tuo unico– nato secondo la promessa dalla quale Ismaele era escluso –, il quale tu ami– nel senso che le sue speranze alla luce delle benedizioni ricevute erano riposte in lui –, cioè Isacco, e va’ nella contrada di Moria ed offrilo qui in olocausto, sopra uno di quei monti che ti dirò”(v.2). Mi sono chiesto cosa fosse avvenuto in Abrahamo in quel momento, a parte il proprio dolore di padre: Mosè e coloro che hanno tramandato il libro della Genesi fino a noi non ci hanno lasciato alcuna sua obiezione, ma solo il fatto che pose in atto tutte le premesse perché l’olocausto avvenisse: “Abrahamo dunque, levatosi la mattina di buon’ora, mise il basto al suo asino e prese con sé due suoi servitori ed Isacco suo figliolo e, stipata la legna per l’olocausto, partì e andò nel luogo che Dio gli aveva indicato”(v.3). Il viaggio durò tre giorni, certo ricchi di pesanti interrogativi sul senso che poteva avere quell’ordine di Dio che metteva in discussione la promessa in base alla quale sarebbe diventato “padre di una moltitudine di nazioni”(17.4,5,6), chiamava in causa il perché della nascita di Isacco, la circoncisione che gli aveva fatto e il convito offerto quando fu svezzato (21.8). Ora tutto era diventato oscuro, senza spiegazione razionale e, poiché la voce di Dio non poteva averla confusa con nessun’altra, non restava che adempiere a quanto gli era stato detto nonostante tutte queste contraddizioni. Teniamo presente che però questa è solo una lettura immediata del testo.

Certo Abrahamo aveva ben presente ciò che il Signore gli aveva detto a proposito dei suoi due figli in 21.19-21: “Sara, tua moglie, ti partorirà un figlio e tu gli porrai nome Isacco, e io stabilirò il mio patto con lui per patto perpetuo per la sua progenie dopo di lui. E quanto ad Ismaele, ancora, io t’ho esaudito: ecco, l’ho benedetto e lo farò moltiplicare grandissimamente: egli genererà dodici prìncipi ed io lo farò diventare una grande nazione. Ma io fermerò il mio patto con Isacco, che Sara ti partorirà l’anno che viene, in questa stessa stagione”. Eppure, alle parole di Dio sull’olocausto da compiere, Abrahamo non disse nulla, cosa che invece avvenne col dialogo intercessore sui giusti eventualmente presenti in Sodoma: perché? Credo che una prima ragione vada ricercata nel fatto che, se nel caso della città che sarebbe stata distrutta stava parlando al Dio apparso in forma umana mentre, qui fu immediatamente chiaro che la parola rivoltagli, provenendo da YHWH, non poteva essere messa in discussione.

Va poi ricordata la corretta interpretazione del nostro episodio che già avevo messo in risalto in un precedente capitolo, e cioè che Abrahamo da un lato provava un dolore assolutamente umano, ma dall’altro era sospinto da una fede basata sulla certezza che non solo sarebbe stato protetto, ma che Isacco non sarebbe morto nel senso che sarebbe solo passato oltre la vita e qui abbiamo la fede nella resurrezione. Ricordiamo il commento all’episodio di Ebrei 11.17: “Per fede Abrahamo, messo alla prova, offrì Isacco, e proprio lui, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unigenito figlio, del quale era stato detto: Mediante Isacco avrai una discendenza. Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti, per questo lo riebbe anche come simbolo”.Ecco allora che Abrahamo fondò tutto il suo agire sulla base che le promesse di Dio si sarebbero realizzate comunque a prescindere del fatto che il proprio figlio passasse o meno attraverso la morte del corpo.

Altra nota va rilevata sul luogo indicato da Dio, la contrada di Moria e i suoi relativi due monti, il Sion e il Moria, sul quale sarà poi costruito il Tempio:“Salomone cominciò a costruire il tempio del Signore a Gerusalemme sul monte Moria, dove il Signore era apparso a Davide, suo padre, nel luogo preparato da Davide sull’aia di Ornan il Gebuseo”(2 Cronache 3.1). Il fatto che prima dell’apparizione a Davide Abrahamo fu fermato, molto dice sul significato di questo luogo.

“Ed Abrahamo stese la mano e prese il coltello per uccidere suo figlio. Ma l’Angelo del Signore gli gridò dal cielo e disse: «Abrahamo, Abrahamo!». Ed egli disse: «Eccomi» – segno che l’evento non aveva mutato la sua disponibilità nei confronti di Dio –. E l’Angelo gli disse: «Non mettere la mano addosso al ragazzo e non fargli nulla, perché ora so che tu temi Iddio, poiché non mi hai negato tuo figlio, il tuo unico– cioè quello della promessa e non Ismaele –». È assolutamente rilevante quel “mi”e non “gli”: Dio Padre non poteva essere certo definito “L’Angelo del Signore”, mentre il Figlio, la cui esistenza non era stata ancora rivelata (per quanto deducibile, ma alla luce del Nuovo Testamento) non poteva che venire raffigurato in quell’ “Angelo”così come, in Eden, nell’ “albero della vita”.

Altra frase che non può essere ignorata è “Ora so che tu temi Iddio”: e prima? Ancora una volta vale quanto osservato sul significato dell’essere “predestinati”, termine che è stato molto abusato e che non implica l’inevitabilità assoluta da parte dell’uomo di non poter agire diversamente da come opera in quel momento, ma semplicemente il fatto che ogni cosa che facciamo esiste quando avviene ed è sempre conseguenza di una nostra scelta, come fu per Abrahamo. “Ora so”sono parole pronunciate dall’Angelo per fargli capire il motivo della richiesta del sacrificio di Isacco, cioè la necessità che superasse la prova perché attraverso quella, la più ardua, avrebbe potuto dimostrare di essere in grado di portare tutte le benedizioni ricevute. La gratuità del dono di Dio andava confermata mediante la prova perché altrimenti Abrahamo non avrebbe potuto essere credibile né essere considerato padre di tutti i credenti indipendentemente dall’etnia di appartenenza.

La prova superata – attenzione – non costituì un merito umano di cui Abrahamo poteva andare fiero, ma semplicemente fu un comportamento corretto che produsse quanto scritto da Giacomo 2.21: “Abrahamo, nostro padre, non fu forse giustificato per le sue opere, quando offrì Isacco sull’altare? Vedi: la fede agiva insieme alle opere di lui, e per le opere la fede divenne perfetta”. Senza la fede, quindi quest’uomo non sarebbe mai stato in grado di giungere al punto di sacrificare il proprio figlio; però, essendo la fede senza le opere qualcosa di inerte, ecco che per esse diventa “perfetta”ed ecco perché gli fu rinnovata la promessa: “Io giuro per me stesso, dice il Signore Iddio, poiché tu hai fatto questo e non hai risparmiato tuo figlio, l’unico tuo figlio, io certo ti benedirò grandemente e moltiplicherò la tua discendenza come le stelle dei cielo e come la sabbia che è sul lido del mare e la tua discendenza possederà la porta dei tuoi nemici– modo di dire per alludere al pieno potere su di loro – . E tutte le nazioni della terra saranno benedette nella tua discendenza, perché tu hai ubbidito alla mia voce”(vv.16-19).

Il fatto che la promessa venne ripetuta due volte sta quindi a indicare che con la prima abbiamo una gratuita offerta, proveniente dalla libera iniziativa e dall’amore di Dio, mentre la seconda è il frutto dell’impegno reciproco. Abrahamo le accettò entrambe, la prima per fede (e fu già molto), la seconda per le opere che la confermarono, “rendendola perfetta”come commenta Giacomo, fratello del Signore.

Concludendo ancora una volta con l’attualità del tempo in cui Gesù parlò ai Giudei, certo alla luce di quanto ricordato non potevano dire “il padre nostro è Abrahamo”; indubbiamente discendevano da lui, ma ne erano distanti anni luce in quanto a fede ed è proprio ciò che si sentirono dire: “Se foste figli di Abrahamo, fareste le opere di Abrahamo. Ora invece voi cercate di uccidere me, un uomo che vi ha detto la verità udita da Dio. Questo, Abrahamo non lo ha fatto. Voi fate le opere del padre vostro”, chiaro riferimento all’Avversario che i Giudei compresero solo in parte, poiché la loro replica, “Noi non siamo nati da prostituzione, abbiamo un solo padre, Dio”altro non è che una menzogna rinnovata come la precedente, quella di non essere stati mai schiavi di nessuno: “nati da prostituzione”, o “fornicazione”come traducono altri, è un modo di sostenere che non provenivano da un popolo idolatra e quindi si arrogano il diritto di essere figli di Dio, cosa impossibile perché l’appartenergli non è cosa che si trasmette geneticamente.

Avere“un solo padre”è un richiamo alle origini, quando Dio disse a Mosè “Tu dirai al faraone: «Così dice il Signore: Israele è mio figlio, il mio primogenito. Perciò io ti dico: Lascia andare il mio figlio affinché mi serva; ma se tu rifiuti di lasciarlo andare, ecco io ucciderò il tuo figlio, il tuo primogenito»”(Esodo 4.22,23).

Nei versi che seguono e che affronteremo nel prossimo capitolo, Gesù stabilirà in modo univoco la differenza fra l’avere un Padre e un padre: “Se Dio fosse vostro padre, mi amereste, perché da Dio sono uscito e vengo; non sono venuto da me stesso, ma lui mi ha mandato. Per quale motivo non comprendete il mio linguaggio? Perché non potete dare ascolto alla mia parola. Voi avete per padre il diavolo e volete compiere i desideri del padre vostro. Egli era omicida fin da principio e non stava saldo nella verità, perché in lui non c’è verità. Quando dice il falso, dice ciò che è suo, perché è menzognero e padre della menzogna. A me, invece, voi non credete, perché dico la verità. Chi di voi può dimostrare che ho peccato? Se dico la verità, perché non mi credete? Chi è da Dio ascolta le parole di Dio. Per questo voi non ascoltate: perché non siete da Dio”.

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12.20 – ABRAMO PER PADRE III/IV (GIOVANNI 8.39-41)

12.20 – Abramo per padre 3 (Giovanni 8.39-41) 

39Gli risposero: «Il padre nostro è Abramo». Disse loro Gesù: «Se foste figli di Abramo, fareste le opere di Abramo. 40Ora invece voi cercate di uccidere me, un uomo che vi ha detto la verità udita da Dio. Questo, Abramo non l’ha fatto. 41Voi fate le opere del padre vostro». Gli risposero allora: «Noi non siamo nati da prostituzione; abbiamo un solo padre: Dio!».

Nei primi due capitoli ci siamo occupati di Abramo secondo il suo significato di “Padre grande”, datogli dal proprio padre Terach. Se quindi il nome dato a un figlio racchiudeva in sé ciò che questo sarebbe diventato un giorno o le caratteristiche somatiche o caratteriali, va da sé che nel momento in cui Dio interviene per modificarlo rende questo nome completo, lo rivela nella sua realtà operante. Per farlo fu sufficiente una “h” che, se fosse stata inserita da un uomo, sarebbe rimasta soltanto una consonante priva di valore non dando luogo ad alcuna modifica storica. Infatti:“Quanto a me, ecco io faccio con te un patto: tu diventerai padre di una moltitudine di nazioni. E non sarai più chiamato Abramo, ma il tuo nome sarà Abrahamo, poiché io ti faccio padre di una moltitudine di nazioni. Ti renderò grandemente fecondo, quindi ti farò divenir nazioni e da te usciranno dei re. E stabilirò il mio patto fra me e te e i tuoi discendenti dopo di te, di generazione in generazione; sarà un patto eterno, impegnandomi ad essere Iddio tuo e della tua discendenza dopo di te”(17.4-7).

Dal cambiamento del nome abbiamo un susseguirsi di eventi totalmente diversi da quelli di prima, che Abramo aveva conosciuto: viene istituita la circoncisione (17.9-14) e Sarai, che non poteva non rientrare nel piano preparato per il marito, fu chiamata Sara: “Quanto a Sarai tua moglie, non la chiamare più Sarai, ma il suo nome sarà Sara” (v.15). Anche per questa variazione vale la stessa considerazione fatta per il marito: con l’uno aggiunge una consonante, con l’altra toglie una vocale; il nome Sarai significa “Mia signora”con riferimento alla casa e alla famiglia, e Sara “Signora”in senso molto più ampio ed infatti molti traducono “Sara” con “Principessa”. Diodati annota in proposito “…essendo stato Abrahamo stabilito padre dei credenti di ogni nazione, Iddio volle che anche sua moglie rientrasse in quel titolo”. Altrimenti, aggiungo, l’essere “una sola carne”non avrebbe avuto alcun valore. Infatti è scritto “…la benedirò e diventerà nazioni, e re di popoli nasceranno da lei”(v.16), concetto identico che poco prima era stato riservato al marito.

Con la circoncisione ad Abrahamo viene consegnata la responsabilità dell’atto e della trasmissione del patto di quell’alleanza, mantenuta poi nella successiva, della Legge. Subito dopo abbiamo la rivelazione della nascita di Isacco, “Figlio del riso”solo apparentemente in ricordo dell’episodio in cui Sara rise a questa promessa, ma le cui ragioni vanno ricercate in 21.6-7, “Motivo di lieto riso mi ha dato Dio: chiunque lo saprà riderà lietamente di me! Chi avrebbe mai detto ad Abrahamo che Sara avrebbe allattato figli? Eppure gli ho partorito un figlio nella sua vecchiaia”.

Elemento che si tende a sottovalutare è costituito da una nota apparentemente di poco conto che troviamo in 17.22 che conclude il dialogo fra Dio ed Abrahamo riguardo alla nascita di Isacco: “Iddio terminò così di parlare con lui e lasciò Abrahamo, levandosi in alto”. Oltre a confermarci ciò che già sappiamo, cioè che Dio a quel tempo si rivelava in forma umana, non credo sia possibile altra conclusione se non che a parlargli fosse stato il Figlio, che di Dio è Parola, che con quell’ascensione di un corpo che aveva preso forma umana abbia voluto dare al tempo stesso un segno del luogo in cui dimora, che un riferimento a quanto avverrà più di 4mila anni dopo. Ad Abramo appare con corpo, a Mosé viene detto che non potrà essere visto perché “Tu non puoi vedere il mio volto, perché l’uomo non può vedermi e vivere”(Esodo 33.20). Il Dio delle promesse, quello che parla, è vicino, quello della Legge è distante, per quanto operativo, nella Sua Santità e Potenza.

Molto significativo sulle teofanie ad Abrahamo è quanto leggiamo in 18.1,2, preludio al rinnovo della promessa della nascita di un figlio da Sara: “Poi il Signore apparve a lui alle querce di Mamre, mentre egli sedeva all’ingresso della tenda nell’ora più calda del giorno. Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui”.

Sull’identità di costoro interviene l’autore della lettera agli Ebrei scrivendo “Non dimenticate l’ospitalità; alcuni praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo”(13.2), ma ci sono fondati motivi per ritenere che uno di essi, ancora una volta, fosse il Figlio di Dio: sarà infatti solo uno a parlare senza considerare il verso 13 “E il Signore disse ad Abrahamo: «Perché ha riso Sara, dicendo potrò mai partorire, essendo già vecchia?»”. Si noti “Il Signore”, e non un suo angelo, che intervenne personalmente stante la solennità del momento perché con la nascita di Isacco si sarebbe posta una pietra miliare nel percorso dell’umanità verso la salvezza.

La presenza di Gesù, tornando al tema, credo sia anche deducibile dal fatto che a entrare in Sodoma furono due, mentre il terzo, credo Lui, restò fuori (19.1): la ragione di questo, credo, vada ricercata nel fatto che era ai due angeli che spettava il compito della distruzione, strumento di giudizio, mentre al Figlio, in quanto Dio, di ordinarla dopo un attento vaglio:“Ora io scenderò– come avvenuto con la torre di Babele – e vedrò se sono venuti allo stremo come il grido che è pervenuto a me– probabilmente da Lot –. Se no, lo saprò”(18.21). Scrivo questo come opinione personale, parlando il testo di Genesi non in modo illuminante come il Nuovo Testamento, quando si distinguono in modo più accurato i ruoli di YHWH. E non potrebbe essere altrimenti pensando ad Atti 17. 30,31: “Dio dunque, passando sopra i tempi dell’ignoranza, ora comanda agli uomini che tutti, in ogni luogo, si ravvedano, perché ha fissato un giorno nel quale giudicherà il mondo con giustizia per mezzo dell’uomo che egli ha stabilito, e ne ha dato sicura prova a tutti, risuscitandolo dai morti”.

Abbiamo poi, riguardo ai tre personaggi che apparvero ad Abrahamo, una successione particolare poiché, quando si accomiatano da lui, se è scritto che “Quegli uomini, partitisi di là, si diressero verso Sodoma, ed Abrahamo rimase ancora davanti al Signore”(v.22), quindi furono solo due a partire, mentre il terzo si fermò a parlare con lui che intercedé per i giusti, qualora fossero là presenti. Ecco allora che le parole di Gesù “prima che Abramo fosse, io sono”assumono una forte valenza non solo sulla Sua eternità, ma anche nella citazione di “Abrahamo, mio amico”(Isaia 41.8). Il nome di Abrahamo viene allora citato sia perché i Giudei lo avevano da poco nominato, ma anche in riferimento a tutta la protezione e stima di cui fu oggetto nonostante gli errori commessi nella carne.

Anche su Lot ci sarebbe molto da dire; basta però sottolineare il fatto che fu risparmiato dal giudizio sulla città (per quanto si trattò di un’intera regione). Illuminanti sono le parole dell’angelo, “Affrettati, rifugiati là, perché io non potrò far nulla finché tu non sia arrivato là”, dalle quali rileviamo che il giusto sarà sempre risparmiato dalla distruzione riservata all’empio: ciò che avvenne a Sodoma è la figura degli avvenimenti che caratterizzeranno la “Gran Tribolazione”dalla quale la Chiesa sarà risparmiata e in quel “non potrò far nulla”discerniamo tutta la protezione di Dio nei confronti di coloro che lo amano e temono di fronte alla quale l’angelo, che di Lui è un fedele e assoluto esecutore, si ferma.

Pensare che Sodoma fu punita esclusivamente per l’omosessualità praticata ovunque è però un errore: va piuttosto considerato l’atteggiamento totalmente antropocentrico che la caratterizzava, la ricerca (compulsiva) del benessere fine a se stesso indipendentemente da quale fosse lo strumento del piacere; leggiamo le parole rivolte a Gerusalemme: “Ecco, questa fu l’iniquità di tua sorella Sodoma: essa e le sue figlie– le altre città – erano in piena superbia, ingordigia, ozio indolente. Non stesero però la mano contro il povero e l’indigente. Insuperbirono e commisero ciò che è abominevole davanti a me. Io le eliminai appena me ne accorsi”(Ezechiele 16.49-50). E Giuda, nella sua lettera, scrive “Ora voglio ricordare a voi (…)che il Signore, dopo aver salvato il suo popolo dal paese d’Egitto, in seguito fece perire quelli che non credettero. Egli ha pure rinchiuso nelle tenebre dell’inferno con catene eterne, per il giudizio del gran giorno, gli angeli che non conservarono il loro primo stato, ma che lasciarono la loro propria dimora. Proprio come Sodoma e Gomorra e le città vicine, che alla stessa maniera si abbandonarono all’immoralità e seguirono vizi contro natura, stanno subendo esemplarmente le pene di un fuoco eterno”(v.7). Il giudizio che si abbatté sulla regione, poi, non fu solo un castigo, la parola “fine” posta da Dio alla presunta autonomia umana, ma di monito per tutti quelli che ne avrebbero concretato la tendenza: “Così pure condannò alla distruzione le città di Sodoma e Gomorra, riducendole in cenere, lasciando così un segno ammonitore a quelli che sarebbero vissuti senza Dio”(2 Pietro 2.6).

Qui ci troviamo ad un punto fondamentale perché tutta la Scrittura parla del giudizio di Dio su chiunque lo rifiuta, principio che viene sempre esposto nella maniera più chiara possibile: l’uomo con le sue gioie (poche e comunque non garantite come lo sono la sofferenza e la morte) passa anche se si illude di poter vivere un eterno presente. Se sa di dover morire, agisce come se questo evento sia sempre e comunque lontano, non gli appartenga perché, nella carne, non sa come affrontarlo. Esemplare in proposito è il testo di Deuteronomio 29.18-20: “Non vi sia fra voi uomo o donna o famiglia o tribù il cui cuore si allontani dall’Eterno, il nostro Iddio, per andare a servire gli dèi di quelle nazioni; non vi sia tra voi radice alcuna– quindi che agisce sotto terra –che produca veleno o assenzio; e non avvenga che alcuno, ascoltando le parole di questo giuramento, in cuor suo faccia propria una benedizione dicendo «Avrò pace anche se camminerò secondo la caparbietà del mio cuore» come se l’ebbro potesse essere incluso al sobrio. L’Eterno non gli potrà mai perdonare, ma in tal caso la sua ira e gelosia arderanno contro quell’uomo e tutte le maledizioni scritte in questo libro si poseranno su di lui, e l’Eterno cancellerà il suo nome sotto il cielo”.

Concludendo questo scritto, e come consuetudine tornando al tempo in cui Gesù parlò ai Giudei, il nome di Abrahamo da loro pronunciato così alla leggera avrebbe dovuto farli riflettere anche attorno al giudizio su Sodoma, ricordato fra l’altro da Lui stesso in un’altra occasione quando disse alla città di Capernaum “…se in Sodoma fossero avvenuti i miracoli compiuti in te, oggi ancora essa esisterebbe!”. Il nome di Abrahamo implica certo le promesse, la circoncisione che anticipava la Legge, il rinnovo in un certo senso del patto dell’appartenenza e l’essere sua progenie secondo la carne, ma anche il giudizio sugli operatori d’iniquità, genere di persone alle quali indubbiamente quei Giudei appartenevano. Amen.

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12.19 – ABRAMO PER PADRE II/IV (Giovanni 8.39-41)

12.19 – Abramo per padre 2 (Giovanni 8.39-41)

           

39Gli risposero: «Il padre nostro è Abramo». Disse loro Gesù: «Se foste figli di Abramo, fareste le opere di Abramo. 40Ora invece voi cercate di uccidere me, un uomo che vi ha detto la verità udita da Dio. Questo, Abramo non l’ha fatto. 41Voi fate le opere del padre vostro». Gli risposero allora: «Noi non siamo nati da prostituzione; abbiamo un solo padre: Dio!».

 

Prima di passare a considerare gli altri episodi della vita di Abramo, proviamo a riassumere il significato di quelli accennati nello scorso capitolo:

1) Fu preso dalla condizione di ignoranza in cui viveva. Di Dio aveva una vaga opinione e mai avrebbe pensato, un giorno, che Lo avrebbe incontrato. Fu quindi oggetto di un intervento, fu chiamato così com’era e venne fatto oggetto di rivelazioni particolari senza fare nulla perché ciò si verificasse, per quanto dovette dare il suo benestare e così avvenne. L’apostolo Paolo scrive infatti in Romani 4.1-3 “Che diremo dunque di Abrahamo, nostro progenitore secondo la carne? Che cosa ha ottenuto? Se infatti Abrahamo è stato giustificato per le opere, ha di che gloriarsi, ma non davanti a Dio. Ora, che cosa dice la Scrittura? Abramo credette a Dio e ciò gli fu accreditato come giustizia”. La prima caratteristica di questo personaggio fu quindi non quella di avere delle qualità particolari, ma di essere stato scelto ed aver creduto, fattori che posero le premesse perché agisse secondo la volontà di Dio.

2) Acconsentendo di abbandonare Carran, territorio in cui era nato e cresciuto, per la destinazione che gli venne indicata, il Paese di Canaan, dimostrò di ritenere le promesse che gli furono rivolte infinitamente migliori rispetto alla vita che conduceva, presumo tranquillamente, in quella città. Abramo accettò di cambiare radicalmente la sua esistenza sulle parole “Io farò di te una grande nazione e ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai una benedizione”, cioè coinvolsero il futuro e non un presente tangibile al di là della voce udita, così particolare rispetto alle altre.

3) Non fu mai lasciato solo nemmeno quando, per salvarsi la vita senza consultarsi con YHWH, preferì sottoporre la propria moglie Sarai alla contaminazione col Faraone e al rischio di fare altrettanto con Abimelek. Ho scritto “contaminazione” e non “adulterio” stante la particolarità del periodo storico.

4) Pur non pienamente consapevole di quanto avveniva, incontrò Melchidedec e quindi ebbe un contatto dal fortissimo valore simbolico con l’Artefice della Grazia, rifiutando qualunque contatto con le ricchezze che poteva donargli il re di Sodoma, dimostrando di tenere nella corretta considerazione ciò che era il dare a Dio e il ricevere dall’uomo. Ciò avvenne una volta liberato Lot e la sua gente con “i suoi uomini esperti nelle armi, schiavi nati nella sua casa, in numero di trecentodiciotto”(14.14). Si tratta di una cifra particolare che troviamo solo qui, simbolicamente importante perché ottenuta moltiplicando il 100+6×3, quindi 10×10 (il compimento pieno) più il 6, numero dell’uomo moltiplicato per la triade divina. Se questo numero non fosse stato importante, l’autore del libro della Genesi non lo avrebbe certo annotato.

5) Non solo credette alla promessa secondo la quale sarebbe diventato una grande nazione, ma ancor di più nel fatto che avrebbe avuto un figlio nonostante fosse in età molto avanzata, come la moglie: credette cioè nell’umanamente impossibile, conscio che quanto gli veniva prospettato era parola di Dio e fu questo che lo portò a venire considerato giusto.

 

Il nuovo episodio che possiamo aggiungere si trova in 15.7-17, qui non trascritto per evitare di appesantire lo spazio a disposizione, che andrebbe comunque letto: la prima osservazione la possiamo fare sul sacrificio in cui sono citati tutti gli animali che saranno poi richiesti nei sacrifici nella dispensazione della Legge, tanto quelli offerti dai ricchi che dai poveri: la giovenca, la capra, l’ariete, tutti di tre anni, la tortora e il piccione. Anche se lo abbiamo accennato in un precedente capitolo, è importante l’intervento degli uccelli al verso 11, che scesero su quei corpi morti, ma furono scacciati da Abramo, episodio che conferma il fatto secondo cui l’Avversario si può servire di qualunque elemento, umano oppure no, per distogliere la persona dalla comunione e dalla preghiera con Dio. Infine abbiamo la visione riportata al verso 17, “Quando, tramontato il sole, si era fatto buio fitto, ecco un braciere fumante e una fiaccola ardente passare in mezzo agli animali divisi”, in cui possiamo discernere la maestà del Dio che passa vagliando quanto fatto dall’uomo, in questo caso approvando ciò che era avvenuto sia quanto alla forma che, soprattutto, al contenuto. Abramo fece ciò che gli era stato ordinato senza nulla aggiungere né togliere, capendo che così firmava il suo patto con l’Eterno Iddio. Inoltre, quella manifestazione fu la risposta alla sua domanda “Signore Dio, come potrò sapere che ne avrò possesso?”riferito alla terra promessa.

 

Seguendo la cronologia degli avvenimenti giungiamo alla nascita di Ismaele, avuto dalla serva di Sarai, l’egiziana Agar, narrato al capitolo 16. Si tratta di un passo importante prima di tutto perché Sarai indusse il marito ad infrangere il comandamento originario sul matrimonio, “perciò l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla propria moglie, e i due saranno una sola carne”(2.24) nonostante a quel tempo il concubinato fosse tollerato, ma mai praticato da Adamo fino ad allora per quanto riguarda le generazioni fedeli aYHWH. In pratica avvenne che Sarai, sapendo che il marito aspettava il realizzarsi della promessa di Dio in base alla quale avrebbe avuto un erede, lo indusse all’unione con la sua serva, fra l’altro di etnia diversa. La stessa cosa farà Rachele con Isacco: “«Ecco la mia serva Bila: unisciti a lei, partorisca sulle mie ginocchia cosicché, per mezzo di lei, abbia anch’io una mia prole». Così ella gli diede in moglie la propria schiava Bila e Giacobbe si unì a lei”(30.3,4). Notiamo inoltre che il testo di 16.2 mette in risalto l’errore di Abramo, quando scrive che “ascoltò l’invito di Sarai”, che ci rimanda immediatamente alla condanna di Eden: “All’uomo disse: «Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato (…) maledetto il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba dei campi. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane, finché non ritornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere ritornerai”(3.17-19). Il nato da Agar fu chiamato Ismaele per espresso ordine dell’angelo del Signore in 16.11, cioè “Iddio esaudisce”, quando Abramo aveva 86 anni, essendo considerato suo figlio anche da Dio cui riservò delle benedizioni, ma con uno sviluppo diverso.

È scritto che “Dio fu con il fanciullo– Ismaele –  che crebbe e abitò nel deserto e divenne un tiratore d’arco”(21.20), ma soprattutto ebbe un ruolo di antagonista proprio nei confronti della discendenza effettiva di Abramo; queste infatti furono le parole dell’Angelo del Signore ad Agar: «Ecco, sei incinta: partorirai un figlio e lo chiamerai Ismaele, perché il Signore ha udito il tuo lamento. Egli sarà un uomo simile ad un asino selvatico; la sua mano sarà conto tutti e la mano di tutti contro di lui, e abiterà in fronte ai suoi fratelli”(16.11,12). Precisazione doverosa: “sarà come”è riferito al fatto che darà inizio ad una progenie fiera e rozza, senza essere in grado di intrattenere relazioni civili coi popoli a lui vicini, anzi dando luogo a contese e guerre continue. Non è infatti possibile addomesticare l’asino selvatico: “Chi lascia libero l’asino selvatico e ne scioglie i legami? Io gli ho dato come casa il deserto– e Ismaele vi abiterà – e per dimora la terra salmastra”(Giobbe 39.5).

Tornando alla nascita di Ismaele, così la commenta l’apostolo Paolo in chiave spirituale e simbolica, citando anche Isacco: “Sta scritto che Abramo ebbe due figli, uno dalla schiava e uno dalla donna libera. Ma il figlio della schiava è nato secondo la carne; il figlio della donna libera, in virtù della promessa. Ora queste cose sono dette per allegoria: le due donne infatti rappresentano le due alleanze. Una, quella del monte Sinai, che genera nella schiavitù, è rappresentata da Agar. Il Sinai è un monte dell’Arabia; essa corrisponde alla Gerusalemme attuale, che di fatto è schiava, insieme ai suoi figli. Invece la Gerusalemme di lassù è libera ed è la madre di tutti noi”(Galati 4.22-26).

 

Un dato significativo, già rilevato in un altro capitolo, lo abbiamo nei tredici anni di silenzio fra la nascita dei due figli di Abramo, in cui nulla avvenne tra lui e Dio. Anche qui a parlare sono i numeri: non il primo (86) che, comunque lo si tratti, non dà nulla di significativo, ma il secondo (99), quello dell’annuncio e della circoncisione, cui manca un’unità per arrivare al cento compiuti quando nacque Isacco (21.5). Ai novantanove abbiamo l’alleanza in cui fu stabilita la circoncisione, da osservare “di generazione in generazione”per tutti: “Dev’essere circonciso chi è nato in casa, sia quello comprato con denaro da qualunque straniero che non sia della tua stirpe”(17.13). Ai novantanove abbiamo anche il cambiamento del nome, da Abramo in Abrahamo, “padre di una moltitudine di nazioni”(v.5) in cui vediamo tutti, sia israeliti che pagani convertiti secondo Romani 4. 11: “Egli divenne padre di tutti i non circoncisi che credono, cosicché anche a loro venisse accreditata la giustizia ed egli fosse padre anche dei circoncisi”.

 

Per ora, credo sia giusto fermarsi qui anche per la complessità degli argomenti trattati, non senza sottolineare ancora una volta, raccordandoci alla situazione del tempo di Gesù, quanto fosse distante da Lui la posizione spirituale dei Giudei che non avevano capito il significato reale della circoncisione, ritenendolo un segno sufficiente a qualificare il popolo di Dio e ritenersi superiori agli altri, dimenticando Deuteronomio 30.6: “Il Signore, tuo Dio, circonciderà il tuo cuore e il cuore della tua discendenza, perché tu possa amare il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore e con tutta l’anima e viva”. Ricordiamo anche Geremia 4.4 “Circoncidetevi per il Signore, circoncidete il vostro cuore, uomini di Giuda e abitanti di Gerusalemme, perché la mia ira non divampi come fuoco e non bruci senza che alcuno la possa spegnere, a causa delle vostre azioni perverse”.

Ancora una volta, fare “le opere di Abrahamo”si riferisce ad una condizione di spirito, preclusa ai Giudei che guardavano la superficialità della lettera: Abrahamo era loro padre in quanto da lui discendevano e, nell’apparenza, così era anche perché portavano nel loro corpo il segno della circoncisione appartenente a un’alleanza ormai destinata a divenire obsoleta. Quei Giudei non erano in grado ci compiere però né le “opere” di Abramo, né quelle di Abrahamo.

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12.18 – ABRAMO PER PADRE I/IV (Giovanni 8.39-41)

12.18 – Abramo per padre 1 (Giovanni 8.39-41)

39Gli risposero: «Il padre nostro è Abramo». Disse loro Gesù: «Se foste figli di Abramo, fareste le opere di Abramo. 40Ora invece voi cercate di uccidere me, un uomo che vi ha detto la verità udita da Dio. Questo, Abramo non l’ha fatto. 41Voi fate le opere del padre vostro». Gli risposero allora: «Noi non siamo nati da prostituzione; abbiamo un solo padre: Dio!».

Credo che, per capire questi versi, sia necessario raccordarci a quelli precedenti, affrontati nello scorso capitolo, e vari approfondimenti. Ricordiamo il testo già esaminato da 31 a 38: “Gesù allora disse a quei Giudei che gli avevano creduto: «Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi. Gli risposero: «Noi siamo discendenti di Abrahamo e non siamo mai stati schiavi di nessuno. Come puoi dire «Diventerete liberi»?. Gesù rispose loro: «In verità, in verità io vi dico: chiunque commette il peccato è schiavo del peccato. Ora lo schiavo non resta per sempre nella casa; il figlio vi resta per sempre. Se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero. So che siete discendenti di Abrahamo. Ma intanto cercate di uccidermi perché la mia parola non trova accoglienza in voi. Io dico quello che ho visto presso il Padre; anche voi dunque fate quello che avete ascoltato dal padre vostro”.

A proposito del nome di Abrahamo, si noti che lo riporto con la “h” intermedia anziché, come in molte versioni moderne, senza di essa. Queste distinguono fra “Abram”e “Abramo”a seconda del momento storico in cui si parla di lui. Questa versione però, pur agevole a leggersi, non è corretta perché non riproduce il testo quando Iddio stesso cambiò nome da “Abramo”, cioè “Padre grande”, in “Abrahamo”, “Padre di una moltitudine” (Genesi 17.4,5): “Quanto a me ecco, la mia alleanza è con te: diventerai padre di una moltitudine di nazioni. Non ti chiamerai più Abramo, ma ti chiamerai Abrahamo, perché padre di una moltitudine di nazioni ti renderò”.

Ora quando si parla di lui viene sempre alla mente la sua fede, i passi del Nuovo Testamento che lo nominano, il sacrificio di Isacco e le promesse che ebbe da Dio e questo, di per sé, è sufficiente per capire le parole di Gesù “Se foste figli di Abrahamo, fareste le opere di Abrahamo”, ma vale la pena di allargare un poco il discorso su di lui, perché la sua storia non si limitò a questi episodi, ma implica molto altro.

Di Abramo abbiamo la genealogia in Genesi 11.10-26 dalla quale risulta essere discendente di Sem, primogenito di Noè, cui fu riservata la benedizione “Benedetto sia il Signore, il Dio di Sem, e sia Canaan suo servo”(9.26), quindi apparteneva alla stirpe di coloro che avrebbero ereditato le promesse di assistenza e doni da parte di YHWH. Di Jafet è detto che avrebbe abitato “nei tabernacoli di Sem”,promessa quindi di una esperienza futura con Dio. Abramo, nella genealogia citata, occupa il decimo posto, il numero della completezza e dell’azione; da lui infatti si può dire che parta una storia nuova, quella che porterà in breve tempo, biblicamente parlando, alle dodici tribù di Israele e da lì a tutta l’attuazione del piano di salvezza attraverso i secoli, prima e dopo Cristo.

Abramo viveva la propria quotidianità ad Ur dei Caldei anche se poi la sua famiglia si stabilì ad Haran (detta anche Carran, o Carre), nell’odierna Turchia, città religiosamente importante perché in lei si praticava più che in altre il culto al dio della Luna, presente anche in Ur e Babilonia. Interessante è il fatto il fatto che gli dèi là venerati fossero tre, Sin come primo, seguito da Shamash e Istar.

Ebbene, a parte la singolarità del numero degli dèi presenti a Carran, le due città in cui Abramo visse il primo periodo della sua vita ci parlano di un’esistenza pesantemente condizionata dall’idolatria altrui che probabilmente lo coinvolse come avvenuto ad esempio per i suoi parenti, di cui è detto che avevano delle statuette che evidentemente veneravano: emblematico in proposito è l’episodio in cui Rachele ruba gli idoli di famiglia appartenenti al di lei padre Labano, provocandogli una reazione caratterizzata da una ricerca angosciata e ossessiva per ritrovarli (Genesi 31.19,34,35).

Fu a Caran, quindi in mezzo ai pagani, che Abramo ascoltò per la prima volta la voce di Dio, che evidentemente seppe riconoscere fra le tante che ascoltava dentro e attorno a sé: “Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò. Farò di te una grande nazione e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e possa tu essere una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò, e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra”(12.1-3).

Abramo quindi sentì una voce che riconobbe diversa da quella dei suoi pensieri, si pose in ascolto e mise in pratica, certo non senza fatica, le parole che aveva udito: “Allora Abramo partì come il Signore gli aveva detto, e Lot andò con lui. Abramo aveva settantacinque anni quando partì da Haran”(12.5). Solo successivamente quest’uomo fu beneficiario non più di un semplice messaggio, ma di un’apparizione: “Allora il Signore apparve ad Abramo– non ci è detto in che modo, ma sono convinto in forma umana come vedremo – e disse: «Io darò questo paese alla tua discendenza»”(v.7). Si trattò quindi di una chiamata inequivocabile, importante a tal punto che fu proprio da quell’episodio che Stefano, a distanza di circa duemila anni, iniziò la sua testimonianza (Atti 7.2). Il tutto avvenne senza che Abramo lo volesse nel senso che sapeva che certamente esisteva un Creatore, ma lo conosceva attraverso le tradizioni della sua gente, inquinate dal paganesimo. Le parole a lui rivolte, poi, ci parlano del fatto che per seguire e servire Dio bisogna “andarsene”dalla propria gente, uscire dall’ambiente inquinato, contaminante che la caratterizza; per farlo ci vuole però una chiamata, quindi un’esperienza individuale e precisa, oltre a un’accettazione incondizionata delle Sue parole altrimenti il cammino sarà solo a metà, in bilico, privo di un’identità chiara per quanto con buone intenzioni. E Abramo, per ubbidire all’ordine di Dio, fece un viaggio di più di 800 km. da Carran a Canaan che, a quel tempo, dovette essere fortemente impegnativo.

 

Altro episodio saliente lo abbiamo in Egitto quando, temendo di venire ucciso a causa della bellezza della di lui moglie Sarai, le ordinò di dire che fosse sua sorella (12.11-13), mezza verità perché lei, come dirà lui stesso ad Abimelek re di Gerar, “…è veramente mia sorella, figlia di mio padre, ma non figlia di mia madre, ed è poi divenuta mia moglie”(20.12). Si tratta di due episodi simili, ma la loro lettura (che si consiglia per meglio capire queste note) differisce in particolari non di poco conto: il faraone egiziano, il cui termine significa “difensore” o “liberatore” fu colpito da Dio con piaghe, mentre ad Abimelek andò a parlare e impedì che fosse commesso un peccato. Infatti “Dio venne da Abimelek in un sogno di notte, e gli disse: «Ecco, tu stai per morire a motivo della donna che hai preso, perché ella è sposata»”(20.3). Riflettendo sui due episodi e sul diverso trattamento ricevuto dai due uomini, vediamo che il faraone si caratterizzava con presunzione e arroganza anche nel nome, ma ad Abimelek Iddio riconobbe un cuore integro: “Sì, lo so che hai fatto questo nell’integrità del tuo cuore e ti ho quindi impedito dal peccare contro di me: per questo non ti ho permesso di toccarla”(20.6).

 

Altro avvenimento nella vita di Abramo è riportato al capitolo 14 in cui abbiamo la liberazione di Lot, catturato a Sodoma da “Chedorlaomèr e dagli altri re che erano con lui”: è dopo la sua liberazione che abbiamo l’incontro con un personaggio particolarissimo, “Melchisedec re di Salem”(Gerusalemme) in cui va riconosciuta la presenza del Figlio di Dio secondo le parole di Paolo in Ebrei 7.1-4: “Questo Melchisedec, re di Salem, sacerdote del Dio altissimo, andò incontro ad Abramo mentre ritornava dall’aver sconfitto i re e lo benedisse; a lui Abramo diede la decima di ogni cosa. Anzitutto il suo nome significa «re di giustizia»; poi è anche re di Salem, cioè «re di pace». Egli, senza padre– umano – senza madre, senza genealogia, senza principio di giorni né fine di vita, fatto simile al Figlio di Dio, rimane sacerdote per sempre. Considerate dunque quanto sia grande costui, al quale Abramo, il patriarca, diede la decima del suo bottino”.

L’incontro fra Abramo e Melchisedec fu quello fra due mondi, furono due dispensazioni che si incrociarono per un attimo con una portata immensa vista nell’offerta di “pane e vino”, cioè senza un sacrificio espiatorio! Da un lato fu data a Lui “la decima di tutto”, ma Abramo rifiutò di ricevere dal re di Sodoma qualunque cosa, per non contaminarsi, dicendo “Alzo la mano davanti al Signore, il Dio altissimo– giuramento – creatore del cielo e della terra: né un filo né un legaccio di sandalo, niente io prenderò di ciò che è tuo; non potrai dire: io ho arricchito Abramo. Per me niente, se non quello che i servi hanno mangiato”(14.22-24). Fu dopo questo che “La parola del Signore fu rivolta ad Abramo, in visione, con questi termini: «Non temere, Abramo, io sono il tuo scudo; la tua ricompensa sarà molto grande»”(15,1).

In queste parole risiede tutta la realtà della vita di quest’uomo, che sperimentò come Noè prima di lui, sotto l’aspetto del venire custodito, cosa significasse accettare di essere uno strumento nelle mani di Dio; ricordiamo Salmo 3.4 “Ma sei il mio scudo, Signore, sei la mia gloria e tieni alta la mia testa”, 5.13 “Tu benedici il giusto, Signore, come scudo lo circondi di benevolenza”, 84.12 “Perché sole e scudo è il Signore Dio; il Signore concede grazia e gloria, non rifiuta il bene a chi cammina nell’integrità”, 91.4 “Ti coprirà con le sue penne, sotto le sue ali troverai rifugio, la sua fedeltà ti sarà scudo e corazza”, 119.114 “Tu sei mio rifugio e mio scudo: spero nella tua parola”.

Possiamo concludere questa prima panoramica su Abramo con quanto avvenne poco dopo, quando ricevette la promessa di una discendenza in 15.3-6: “«Ecco, a me non hai dato discendenza e un mio domestico sarà mio erede». Ed ecco, gli fu rivolta questa parola dal Signore: «Non costui sarà il tuo erede, ma uno nato da te sarà il tuo erede». Poi lo condusse fuori e gli disse: «Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle»; e soggiunse: «Tale sarà la tua discendenza»”. Infine, l’autore della Genesi chiude l’episodio con una nota a noi famigliare: “Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia”.

Già da questi dati raccolti, tornando ai versi oggetto di considerazione in Giovanni, vediamo quanto fossero distanti quei Giudei che proclamavano di avere “Abramo per padre”: non solo non avevano nessuna delle sue caratteristiche né di cuore, né di fede, ma non erano neppure in grado di ascoltare, valutare, considerare altro se non ciò che proveniva dal loro cuore indurito. Per questo Gesù disse loro “Voi fate le opere del padre vostro”, ben diverso dal Suo, da identificare nel “principe di questo mondo”. Amen.

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12.17 – LA VERITÀ VI FARÀ LIBERI (Giovanni 8.31.38)

12.17 – La verità vi farà liberi (Giovanni 8.31-38)

           

31Gesù allora disse a quei Giudei che gli avevano creduto: «Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; 32conoscerete la verità e la verità vi farà liberi». 33Gli risposero: «Noi siamo discendenti di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno. Come puoi dire: «Diventerete liberi»?». 34Gesù rispose loro: «In verità, in verità io vi dico: chiunque commette il peccato è schiavo del peccato. 35Ora, lo schiavo non resta per sempre nella casa; il figlio vi resta per sempre. 36Se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero. 37So che siete discendenti di Abramo. Ma intanto cercate di uccidermi perché la mia parola non trova accoglienza in voi.38Io dico quello che ho visto presso il Padre; anche voi dunque fate quello che avete ascoltato dal padre vostro».

 

Siamo giunti, in questo capitolo ottavo di Giovanni, ad un punto particolare perché, alla luce del verso 31, “Gesù allora disse a quei Giudei che gli avevano creduto”,Nostro Signore si rivolge ad un uditorio profondamente diviso e non poteva essere altrimenti, “non essendo venuto a mettere la pace, ma la spada”, ovviamente quella dello Spirito. Si tratta di una spada che opera comunque indipendentemente dal fatto che la si lasci agire o che ci si opponga, poiché “…la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di una spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore. Non vi è creatura che possa nascondersi davanti a Dio, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi di colui al quale noi dobbiamo rendere conto”(Ebrei 4.12-13). La parola di Dio quindi seleziona, setaccia, divide, stimola nel profondo costringendo le persone a rivelarsi per quello che sono, tanto in positivo che in negativo. E allo stesso tempo il suo accoglimento implica la realizzazione o meno delle promesse di Gesù, fra cui quella riportata al verso 31, “Se rimanete nella mia parola”, che esprime la condizione della persona che desidera e cerca la propria realizzazione spirituale; a questa viene spiegato che il semplice credere in Lui costituisce solo la premessa per raggiungerlo perché la condizione è “rimanere nella mia parola”, tradotto anche con “perseverare”, cioè mantenersi costante in un atteggiamento, insistere, perdurare.

Va fatta però un’importante precisazione perché l’episodio in esame, che non si esaurisce qui, riporta tanto gli interventi dei Giudei che lo avevano accolto tanto di quelli che a Gesù si opponevano. “Quei Giudei che gli avevano creduto”erano al primo passo verso la salvezza, cioè avevano escluso una volta per tutte che fosse un impostore e che era davvero Colui che diceva di essere, ma altro non sapevano. Probabilmente lo ritenevano il Messia secondo il concetto ebraico del termine, ma comunque avevano individuato in Lui quello che doveva arrivare ed era stato promesso. Teniamo sempre presente che, all’interno del Sinedrio, oltre a Nicodemo vi erano diversi membri che erano discepoli di Gesù, ma di nascosto perché temevano i loro correligionari e le conseguenze derivanti dalla esclusione dalla Congregazione di Israele. Il riconoscere Gesù come Figlio di Dio significava unicamente che si erano arresi, ma avevano tutto un cammino da compiere davanti a loro che avrebbe richiesto il“rimanere nella mia parola”, espressione che allude ad un impegno di ricerca molto diverso da quello cui erano abituati.

Ciò che Nostro Signore pone come condizione per essere “davvero”suoi discepoli è il radicarsi nella sua parola, dimorare, costruire il proprio edificio spirituale sulla roccia per “conoscere la verità”, quella che ha infinite forme e sfaccettature perché così è la creatività di Dio che non può riassumersi in un solo gesto o pensiero: sarebbe come contare i colori del verde di un bosco o dell’azzurro di un cielo all’alba o al tramonto.

Il “rimanere” o “perseverare” descritto a quei Giudei era necessario perché non avevano ancora in loro quella conoscenza sufficiente perché si impiantasse la vera fede ed ecco perché abbiamo un’esortazione in tal senso. Si noti che tanto la permanenza quanto la perseveranza è apparentemente la stessa raccomandata dai capi delle vuote religioni, ma il risultato, che ogni vero cristiano ha sperimentato, è “conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi”, due passaggi ben distinti fra loro: “Conoscere la verità” è la rivelazione che porta al passaggio dalla Legge alla Grazia perché, quando un ebreo si converte a Cristo, porta con sé tutto un bagaglio di conoscenze che un pagano non ha, né potrà avere perché cresciuto e allevato in modo diverso.

Il pagano che si converte e legge la Scrittura per capirla, incontra molte più difficoltà e ha molte più domande da porsi rispetto a chi proviene dal popolo originario di Dio. Certo che entrambi arrivano a “conoscere la verità”, ma in modo diverso per quanto ugualmente salvifico. E comunque tutti i credenti beneficiano di una preghiera particolare che Gesù rivolge al Padre al capitolo 17 di questo Vangelo, chiedendo “Consacrali nella verità”, cioè una destinazione precisa, un dimorare in essa possibile solo grazie a un intervento di Dio.

Conoscere la verità equivale all’acquisizione della salvezza, impossibile se prima non si comprende l’amore del Padre, del Figlio donato per noi e quindi la nostra condizione di peccato, di totale estraneità alle realtà e al piano per “non essere più stranieri né ospiti, ma concittadini dei santi e membri della famiglia di Dio, edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti– ecco l’Antico e il Nuovo – e avendo come pietra angolare lo stesso Cristo Gesù”(Efesi 2.19,20).

Conosciuta la verità, questa “vi farà liberi”, termine molto spesso equivocato perché non allude a fare quello che si vuole, ma all’affrancamento dello schiavo, alla sua liberazione che può essere stigmatizzata con le parole di Romani 8.12: “Ora, dunque, non c’è nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù. Perché la legge dello Spirito, che dà vita in Cristo Gesù, ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte”. E qual è questa “legge”? Certo, quella dell’Antico Patto, ma anche dell’inevitabile consumarsi senza rimedio, privi di una meta fino alla capitolazione del corpo.

Il concetto del venire liberati, o affrancati, è spiegato sempre in questa stessa lettera in cui vengono descritti gli effetti della fede nel Figlio, “Via, Verità e Vita”: “Il peccato non dominerà su di voi, perché non siete sotto la legge, ma sotto la grazia. (…) Non sapete che, se vi mettete a servizio di qualcuno come schiavi per ubbidirgli, siete schiavi di colui al quale obbedite, sia del peccato che porta alla morte, sia dell’obbedienza che conduce alla giustizia? Rendiamo grazie a Dio, perché eravate schiavi del peccato, ma avete obbedito di cuore a quella forma di insegnamento alla quale siete stati affidati. Così, liberati dal peccato, siete stati resi schiavi della giustizia”(6.14-18).

Qualcuno potrebbe obiettare che allora uno passa da una schiavitù ad un’altra e la libertà sia solo un’illusione, ma credo ci sia differenza fra essere soggetti a pensieri, desideri e progetti che portano alla morte, e scegliere liberamente di obbedire a un’altra legge, quella dello Spirito che porta a non subire più gli effetti di quelle sollecitudini ansiose di cui parlò Gesù, ad esempio, nel sermone sul monte quando disse “Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta”(Matteo 6.33). E questo è solo un esempio, quello più immediato perché quello completo lo abbiamo in 2 Timoteo 2.25,26 quando, parlando degli uomini schiavi del peccato raccomandando la preghiera per loro, leggiamo “…nella speranza che Dio conceda loro di convertirsi, perché riconoscano la verità e rientrino in se stessi, liberandosi del laccio del diavolo, che li tiene prigionieri perché facciano la sua volontà”. Prigionia o libertà, dunque.

Credo che questa sia una bellissima descrizione: “la verità vi farà liberi”comprende il fatto che le catene siano, grazie alla potenza del Figlio, finalmente sciolte e notiamo che nel verso appena ricordato compaiano due termini fortemente penalizzanti, “laccio”e “prigionieri”. Il credente non sarà mai schiavo di nessuno, se sarà in grado di realizzare queste fondamentali parole, condizionate al “rimarrete nella mia parola”, la sola che libera nel senso già visto di “affrancare”.

 

Una conferma di quanto sarebbe stato necessario per quei Giudei perseverare nelle Sue parole la abbiamo nella rivendicazione della loro discendenza da Abrahamo e nel fatto che sì, avevano creduto il Lui, ma come Messia aspettandosi che avrebbe ridotto le altre nazioni sotto il loro dominio. Furono proprio le parole “la verità vi farà liberi”a suscitare perplessità e una fortissima ritrosia perché l’orgoglio nazionale di quei Giudei – e qui non è comunque chiarissimo da chi fu pronunciata la risposta – li aveva portati a fare un’affermazione assolutamente non vera, “non siamo mai stati schiavi di nessuno”dimenticando i 400 anni di schiavitù in Egitto, i circa 300 in cui furono sottomessi ai Filistei e altri popoli vicini, i 70 anni di cattività babilonese e il dominio romano al quale erano soggetti. Si tratta di un’affermazione talmente enorme che alcuni commentatori hanno ipotizzato che il verbo greco impiegato potesse avere un significato diverso da come è stato tradotto, a noi non pervenuto. Forse, quei Giudei facevano riferimento alla loro elezione e tradizione che costituiva la base stessa di Israele, per cui non si poteva dire che avessero bisogno di essere liberati, possedendo la Legge e soprattutto le Promesse di Dio a loro favore.

A questo punto era necessario un chiarimento, che avviene puntualmente: “Chiunque commette il peccato è schiavo del peccato”, parole con cui Gesù spiega che il peccato cui fa riferimento è un sistema di vita e non un avvenimento isolato nel quale si può sempre cadere; il termine “schiavo”è qui usato nella sua accezione più dura, come era per coloro che versavano nella condizione di non speranza, condannati – se non interveniva qualcuno a liberarli – a vita. Chi vive un’esistenza di peccato è schiavo perché ogni peccato non è un qualcosa di accidentale, ma un segno della sua stessa natura e della schiavitù nella quale essa, faticosamente, si trascina ed ecco dove sta la libertà: chi si affida a Dio sceglie liberamente di farlo, ma chi fa altrettanto col mondo, ne rimane schiavo inconsapevole. E per questo la sua rovina sarà grande.

Prima ho scritto che non è inequivocabilmente chiaro da chi venisse l’obiezione in base alla quale i Giudei non erano mai stati schiavi di nessuno, ma sicuramente le frasi dei versi 30 e 31 sono rivolti a degli oppositori: “So che siete discendenti di Abrahamo. Ma intanto cercate di uccidermi perché la mia parola non trova accoglienza in voi”. Anche qui possiamo vedere l’agire dell’uomo schiavo: la discendenza da Abrahamo secondo la carne non garantiva nulla, dato che mentre lui credette e fu per questo “amico”di Dio, loro ponevano la genealogia come garanzia di giustizia indipendentemente dalle azioni e questo li portava ad assumere una posizione assurda, diametralmente opposta a quella del loro antico padre di cui è detto che “…esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e fu pieno di gioia”(Giovanni 8.56), arrivando a nutrire su Gesù pensieri, programmi di morte.

E qui torniamo al concetto di libertà leggendo Ebrei 10.1-4: “La Legge infatti, poiché possiede soltanto un’ombra dei futuri beni e non la realtà stessa delle cose, non ha mai il potere di condurre alla perfezione per mezzo di sacrifici, sempre uguali che si continuano ad offrire di anno in anno, coloro che si accostano a Dio. Altrimenti, non si sarebbe forse cessato di offrirli, dal momento che gli offerenti, purificati una volta per tutte, non avrebbero più alcuna conoscenza dei peccato? Invece in quei sacrifici si rinnova di anno in anno il ricordo dei peccato. È impossibile infatti che il sangue di tori e di capri elimini i peccati”. È il sacrificio di Cristo, “fatto una volta per sempre”, che toglie qualsiasi schiavitù che dimora nello spirito e nell’anima dell’uomo. Amen.

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12.16 – MORIRE NEL PROPRIO PECCATO (Giovanni 8. 21-30)

12.16 – Morire nel proprio peccato (Giovanni 8.21-30)

 

21Di nuovo disse loro: «Io vado e voi mi cercherete, ma morirete nel vostro peccato. Dove vado io, voi non potete venire». 22Dicevano allora i Giudei: «Vuole forse uccidersi, dal momento che dice: «Dove vado io, voi non potete venire»?». 23E diceva loro: «Voi siete di quaggiù, io sono di lassù; voi siete di questo mondo, io non sono di questo mondo. 24Vi ho detto che morirete nei vostri peccati; se infatti non credete che Io Sono, morirete nei vostri peccati». 25Gli dissero allora: «Tu, chi sei?». Gesù disse loro: «Proprio ciò che io vi dico. 26Molte cose ho da dire di voi, e da giudicare; ma colui che mi ha mandato è veritiero, e le cose che ho udito da lui, le dico al mondo». 27Non capirono che egli parlava loro del Padre. 28Disse allora Gesù: «Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora conoscerete che Io Sono e che non faccio nulla da me stesso, ma parlo come il Padre mi ha insegnato. 29Colui che mi ha mandato è con me: non mi ha lasciato solo, perché faccio sempre le cose che gli sono gradite». 30A queste sue parole, molti credettero in lui.

 

Ci troviamo di fronte al proseguimento del discorso iniziato a seguito dell’accusa mossa a Gesù dai farisei secondo cui dava testimonianza “di se stesso”, e abbiamo letto che Giovanni specifica al verso 30 “A queste sue parole, molti credettero in lui”, dando prova che “molti”avevano compreso l’urgenza di salvarsi a fronte di un tempo breve ancora loro concesso. A questa scelta, quei “molti”, erano giunti dopo aver compreso che Gesù non dava affatto testimonianza da solo e che non vi era nulla che impedisse loro di credere: bastava l’obiettiva constatazione che mai nessuno aveva parlato come Lui, dando prova di presentare verità come mai prima sentite, che ogni cosa detta trovava riscontro nel Suo modo di vivere ed agire nei confronti dell’uomo perché questi potesse essere spiritualmente guarito, sollevato; in poche parole, avesse un Pastore. La frase del verso 21 può essere considerata da un punto di vista storico, cioè rivolta ai farisei e a tutti coloro che ne condividevano la posizione (i “Giudei”, quindi tutto l’insieme delle autorità religiose), ma anche come qualcosa di lapidario, valida in ogni tempo fino al Suo ritorno. Ognuno di noi, infatti, ha un tempo di vita stabilito, con un termine che non conosce.

“Io vado”è chiaramente riferito alla Sua morte e resurrezione tornando così al Padre, ma è quel “e voi mi cercherete”che ha suscitato in me domande importanti perché mi sono chiesto come fosse possibile, una volta avuta soddisfazione con l’averlo soppresso, che venisse da loro cercato avendone in cambio la morte “nel loro peccato”. È indubbio che vi sia sproporzione fra l’annuncio della Sua dipartita, risolta in due parole a differenza di quando aveva parlato ai discepoli, e quelle impiegate a descrivere il destino dei Giudei, “voi mi cercherete, ma morirete nel vostro peccato”, quindi un riferimento alla sorte che loro stessi avevano scelto. La ricerca cui fa riferimento Nostro Signore non allude a quella dettata dalla fede e dal pentimento, ma quella spinta dalla sola disperazione (come fu per Giuda quando capì che non avrebbe potuto tornare indietro), quando è imminente la rovina personale o collettiva. È facile trovare, storicamente parlando, il senso di queste parole in almeno due avvenimenti che si sarebbero verificati da lì a poco tempo.

Citando un passo della profezia delle settanta settimane di Daniele 9, vediamo la morte di Gesù, “un consacrato sarà soppresso senza colpa in lui”, e la rovina di Gerusalemme nel 70 d.C., “il popolo di un principe che verrà distruggerà la città e il santuario”(v.24), avvenimento terribile che durò dal 66 al 73, anno in cui avvenne la distruzione di Masada, caratterizzata dal suicidio di massa degli Zeloti coi propri figli e mogli. Giuseppe Flavio racconta che il numero complessivo di prigionieri catturati nell’intera guerra fu di 97mila e i morti pari a oltre un milione (1.100.000), numero superiore a qualsiasi altro sterminio prima di allora. L’assedio di Gerusalemme, piena di pellegrini là giunti per la festa degli Azzimi, fece un numero enorme di vittime a causa prima della peste e poi della fame conseguenti all’assedio. Il Tempio, orgoglio e simbolo della religione ebraica, fu distrutto, come da profezia di Gesù “Verranno giorni in cui, di tutto quello che ammirate, non sarà lasciata pietra su pietra che non sia distrutta”(Luca 21.6) che su di lei pianse.

Altro avvenimento certamente angoscioso si verificò una quarantina di anni prima, proprio con la morte del corpo di Gesù, quando “il velo del tempio si squarciò in due da cima a fondo, la terra si scosse, le rocce si spezzarono, i sepolcri si aprirono e molti corpi di santi morti risuscitarono”(Matteo 27.51,52); Matteo e Luca parlano di un’eclissi di sole che provocò “buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio”e che “Anche tutte le folle che erano accorse a questo spettacolo, ripensando a quanto era accaduto, se ne tornarono percuotendosi il petto”(21.44; v.49), gesto che solitamente alludeva al pentimento, ma qui credo esclusivamente formale, frutto del solo spavento di fronte a quanto accaduto perché altrimenti, alla prima riunione della futura Chiesa di Gerusalemme, non vi sarebbero certo state solo 120 persone.

Ecco allora che, a fronte di avvenimenti sui quali l’essere umano non può avere nessun controllo, c’è un “cercare” che è solo animato dal desiderio impossibile di vederli risolti e quindi, sotto questo aspetto che caratterizza sempre l’uomo radicato nella propria carne, non solo c’è un “non trovare”, ma soprattutto la morte “nel proprio peccato”come sola conseguenza di una vita vissuta nel costante di Lui rifiuto.

Ora vorrei citare un passo di Apocalisse, riferito ai tempi dei giudizi di Dio sull’umanità dopo il rapimento della Chiesa: “Il resto degli uomini che non furono uccisi da questi flagelli, non si ravvidero dalle opere delle loro mani; non cessarono di adorare i demòni e gli idoli d’oro, d’argento, di bronzo, di pietra e di legno che non possono né vedere, né udire, né camminare. Non si ravvidero neppure dai loro omicidi, né dalle loro magie, né dalla loro fornicazione, né dai loro furti”(9.21). La stessa cosa, per quanto in piccolo ma che comunque rappresenta un indicatore molto significativo della condizione dei nostri tempi, la si è constata in occasione della pandemia originata dal Covid-19 in cui tutto si è fatto tranne che meditare costruttivamente non solo sulla fragilità della vita umana, ma sul significato ultimo di quanto accaduto e tutti, non appena questo si è ridotto, hanno ripreso a vivere come se niente fosse, salvo poi tornare a spaventarsi alla sua ripresa. Ogni essere umano infatti è costantemente chiamato a riflettere sulla precarietà della propria vita non considerando il tema a livello filosofico, ma per rimediare ad una condizione che altrimenti non può che giungere alla fine del tutto. Siamo in pratica, nel caso di specie, testimoni di un avvenimento che è solo paragonabile in modo infinitamente pallido a quanto è davvero imminente a giudicare dal livello di moralità che abbiamo raggiunto e dall’impegno posto nella distruzione del pianeta e nell’omologazione della moralità comune.

“Non mi troverete, ma morirete nel vostro peccato”nel senso che ogni uomo o donna, se non avrà creduto affidandosi fattivamente al Figlio di Dio, non potrà che morire portandosi dietro il peso, appunto, della propria condizione senza possibilità di presentare appello e dovrà adeguarsi alla sentenza che verrà pronunciata quando sarà costretto, suo malgrado, a presentarsi in giudizio dove Satana, come accusatore, avrà successo perché verrà a mancare proprio Gesù come Avvocato: “Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate; ma se qualcuno ha peccato, abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo giusto. Egli è vittima d’espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo. Da questo sappiamo di averlo conosciuto: se osserviamo i suoi comandamenti. Chi dice: «Lo conosco» e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo e verità non è in lui; ma chi osserva la sua parola, in lui l’amore di Dio è veramente perfetto”(1 Giovanni 2.1-5).

“Morire nel proprio peccato”si verifica quando si persiste nella condizione di morte rifiutando la vita, cosa che nessuno farebbe per il proprio corpo, ma che molti mettono in pratica per la loro anima.

Proseguendo nel testo, abbiamo ancora una prova ulteriore della cecità dei Giudei perché, se prima avevano ipotizzato che Gesù se ne andasse a predicare agli ebrei della dispersione in territorio pagano, qui pensano che stia per suicidarsi, gesto che presso quel popolo era messo allo stesso livello dell’omicidio: qui non trovano risposta, ma una frase che testimonia il profondo baratro che intercorreva tra loro, cioè“Voi siete di quaggiù, io sono di lassù; voi siete di questo mondo, io non sono di questo mondo”. Ecco, qui l’essere“di questo mondo”trova le tenebre come luogo di dimora stabile e rifiuto della luce. “Io sono la luce del mondo”.

“Se non credete che io sono, morirete nei vostri peccati”amplia poi quanto scritto poco prima: occorre credere in Gesù come “Io sono”, quindi come Dio nella sua sostanza di Figlio, Parola fatta carne; viceversa la morte dell’anima sarà l’unica, inutile coperta con la quale “proteggersi” da un freddo irrimediabile visto (anche) nel “pianto e stridore di denti”. Come ha scritto un fratello, “Mediante le parole “Io Sono”, egli si fa conoscere come la sorgente della vita, della luce e della forza, si presenta come la invisibile Maestà di Dio e come ad unire nella sua persona, in virtù dell’essere suo essenziale, il visibile e l’invisibile, il finito e l’infinito”.

 

La domanda “Tu chi sei?”contiene tutto il disprezzo dei Giudei, perché sapevano che era discendente da Davide, ma qui credo che il riferimento sia alle sue umili condizioni di figlio del carpentiere che vogliono contrapporre a quell’ “Io sono”appena pronunciato: Gesù, secondo loro, non meritava di essere ascoltato anche per questo e persistono in questa tesi non capendo “che egli parlava del Padre”(v.21). La frase successiva, “Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora saprete che Io Sono e non faccio nulla da me stesso, ma come mi ha insegnato il Padre, così io parlo. Colui che mi ha mandato è con me e non mi ha lasciato solo, perché io faccio sempre le cose che gli sono gradite”(vv.28,29) generò però una spaccatura in quel gruppo perché “a queste parole, molti credettero in lui”e sappiamo che proprio subito dopo inizierà un altro discorso diretto “a quei Giudei che avevano creduto in lui”(v.31). Si tratta di un riferimento sia alla Sua morte sulla croce, ma ancor di più alla conseguente resurrezione perché in un altro passo dirà “Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me”(12.32) dove quel “tutti”non è indistinto, ma riguarda tutte le Sue pecore che da lì in poi avrebbero creduto.

Infine, quel “saprete che Io Sono”ha riferimento con l’unicità nella resurrezione come insegnò l’apostolo Paolo in Romani 1.1-4: “…per annunziare il Vangelo di Dio che egli aveva promesso riguardo al Figlio suo, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne. Costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la resurrezione dai morti, Gesù Cristo, nostro signore”. Sapere che Lui è l’ “Io Sono”costituisce la prima, profonda esperienza di ogni cristiano non di nome, ma di fatto. Sapere che Lui è, inoltre, fu anche dimostrato dagli avvenimenti che si verificarono alla Sua morte di cui abbiamo parlato nel precedente capitolo soprattutto da individuare nello strappo della cortina, che sancì la fine della dispensazione della Legge come condicio sine qua non per il perdóno, per la giustificazione temporanea perché, una volta rimesso, il peccato si presentava puntualmente alla porta con tutta la sua forza distruttiva.

Infatti: “Ora, noi sappiamo che tutto ciò che dice la legge lo dice per quelli che sono sotto la legge, perché sia chiusa ogni bocca e tutto il mondo sia riconosciuto colpevole di fronte a Dio. Infatti in virtù delle opere della legge nessun uomo sarà giustificato davanti a lui, perché per mezzo della legge si ha solo la conoscenza del peccato. Ora invece, indipendentemente dalla legge, si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla legge e dai profeti; giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono. E non c’è distinzione: tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù”(Romani 3.19-24).

Mi viene in mente la diversa disposizione delle due Bibbie, quella Ebraica e quella Cristiana: la prima ha al centro la Legge, quindi i Profeti (anteriori con Giosuè, Giudici, Samuele 1 e 2 e Re 1 e 2, e posteriori con Isaia e tutti gli altri compresi Esdra, Neemia e 1 e 2 Cronache) e gli Scritti (i libri sapienzali), ma la seconda, quella cristiana parte dalla Legge e conduce progressivamente a Cristo mettendo appositamente i profeti per ultimi intendendo la Scrittura non come qualcosa di circolare, dove tutto ruota attorno alla Torah, ma lineare in direzione del Cristo. Credo che, tra i tanti argomenti portati da Gesù qui nel Tempio, vi sia stato anche questo. Amen.

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12.15 – CONFUTAZIONI AI FARISEI (Giovanni 8.13-20)

12.15 – Confutazioni ai farisei (Giovanni 8.13-20) 

13Gli dissero allora i farisei: «Tu dai testimonianza di te stesso; la tua testimonianza non è vera». 14Gesù rispose loro: «Anche se io do testimonianza di me stesso, la mia testimonianza è vera, perché so da dove sono venuto e dove vado. Voi invece non sapete da dove vengo o dove vado. 15Voi giudicate secondo la carne; io non giudico nessuno. 16E anche se io giudico, il mio giudizio è vero, perché non sono solo, ma io e il Padre che mi ha mandato. 17E nella vostra Legge sta scritto che la testimonianza di due persone è vera. 18Sono io che do testimonianza di me stesso, e anche il Padre, che mi ha mandato, dà testimonianza di me». 19Gli dissero allora: «Dov’è tuo padre?». Rispose Gesù: «Voi non conoscete né me né il Padre mio; se conosceste me, conoscereste anche il Padre mio». 20Gesù pronunciò queste parole nel luogo del tesoro, mentre insegnava nel tempio. E nessuno lo arrestò, perché non era ancora venuta la sua ora.

In questi versi sono narrate le reazioni dei farisei di fronte alla dichiarazione di Gesù come “luce del mondo”. La frase con cui esordiscono, precedute da “allora”, cioè “a quel punto”, “in conseguenza”, costituisce un’accusa di non credibilità: la Sua testimonianza, non essendo supportata secondo loro da alcuna prova attendibile, non poteva essere accettata. Ricordiamo che già in un’altra occasione, quella della guarigione del paralitico di Betesda, Gesù aveva risposto dicendo “Se fossi io a render testimonianza a me stesso, la mia testimonianza non sarebbe vera; ma c’è un altro che mi rende testimonianza, e so che la testimonianza che egli mi rende è verace”(Giovanni 5.31,32). Subito dopo aggiunse “Io non ricevo testimonianza da un uomo, ma vi dico queste cose perché possiate salvarvi”a significare che ciò che Lo supportava era quanto faceva e diceva. Tutto ciò aveva già posto molti, che in Lui avevano creduto, di salvarsi e sperimentare personalmente e nella maniera più inconfutabile chi fosse. Ancora una volta i farisei, qui come in questo episodio, non lo accusano di bestemmia e falso, ma rilevano che, in mancanza di“due o tre testimoni”, mancavano le prove necessarie per stabilire chi effettivamente Gesù fosse.

La frase con cui Nostro Signore risponde, però, va oltre: se nel passo appena citato aveva chiamato in causa il Padre che rendeva vera la Sua testimonianza perché Lui stesso, tramite i profeti, Lo aveva annunciato, qui, dicendo “Anche se io do testimonianza di me stesso”, parla della Sua funzione di “luce del mondo” specificando di sapere “da dove son venuto e dove vado”a differenza dei suoi oppositori: Gesù parlava di cose che solo Lui sapeva e che gli uomini, per la loro ignoranza, non potevano confermare né negare. In pratica viene chiamato in causa quel ragionamento libero, esente da preconcetti, che aveva costretto le guardie venute ad arrestarlo ad affermare pubblicamente “Mai un uomo ha parlato così”: “Mai”, cioè fra tutte le persone che avevano ascoltato in ambito religioso e di scienza delle Scritture, le Sue parole avevano risvegliato la loro coscienza. Anche il centurione che aveva sovrinteso all’esecuzione della croce fu costretto ad ammettere “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio”(Marco 15.39). Ricordiamo poi la testimonianza data dal Padre stesso al battesimo di Gesù, “Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento”(Matteo 3.17), e alla trasfigurazione a cui viene aggiunto “ascoltatelo”(17.5).

La prima testimonianza, quindi, non fu di Gesù, accusato di darla isolatamente, ma del Padre. Infine, a proposito del riconoscerLo, possiamo pensare alle parole del cieco guarito di fronte a quelle dei farisei: “«Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio, ma costui non sappiamo di dove sia». Rispose loro quell’uomo: «Proprio questo stupisce: che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi»”(Giovanni 9.29,30). Poco dopo, siccome quel cieco aveva una visione spirituale ancora imperfetta, fu guarito anche da quella: “Tu credi nel figlio dell’uomo?». Egli rispose: «E chi è, Signore, perché io creda in lui?». Gli disse Gesù: «Lo hai visto: è colui che parla con te». Ed egli disse: «Credo, Signore!». E si prostrò davanti a lui”. (9.35-38).

Ecco allora che possiamo fare una considerazione evidente: per riconoscere Gesù quale Figlio di Dio, o “Figlio dell’uomo”secondo le profezie di Daniele, per il suo essere la “Parola fatta carne”, non è necessaria una cultura particolare, ma arrendersi all’evidenza, all’ascolto del Padre che chiama perché “Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno”(6.44). Perché ciò accada, è necessaria una sensibilità che o si ha per natura, come fu per Natanaele o altri personaggi definiti “giusti”, o emerge a un certo punto della vita, come avvenuto per il ladro sulla croce che, a differenza dell’altro, non insultava Gesù, ma gli disse “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno”(Luca 23.42). E a proposito in cui un’anima capitola di fronte all’invito del Padre ricordo un mafioso importante, di cui non rammento il nome perché sono passati molti anni, che bussò una notte a una caserma di Carabinieri con una Bibbia in mano, disse nome e cognome al piantone allibito aggiungendo che, alla luce di quanto aveva letto, non riusciva più a sopportare il peso di ciò che aveva fatto ed era giusto che si costituisse.

È scritto “Oggi, se udite la sua voce, non indurite i vostri cuori”, “Oggi”perché la voce di Dio si fa sentire e, se la si ascolta davvero, genera una profonda crisi che può spaventare in quanto, nel momento in cui ciò avviene, si scopre la necessità di rivedere completamente la propria vita intesa come azioni, convinzioni, attitudini da correggere perché incompatibili con la realtà spirituale che viene posta davanti. È nel momento in cui l’uomo indurisce il proprio cuore respingendo la proposta di salvezza che determina la nullità del Vangelo, che sceglie di persistere nel proprio modo di vivere e, quindi continuerà ad agire e giudicare “secondo la carne”.

Dicendo “Voi invece non sapete da dove vengo o dove vado”, Nostro Signore fa riferimento proprio alla condizione di ignoranza, carnale e diabolica, scelta da quelle persone che né allora né dopo si ponevano il problema di comprendere realmente chi fosse, come invece fece Nicodemo, personaggio a mio giudizio sotto certi aspetti fra i più “tormentati” (in senso positivo) del Nuovo Testamento che, a differenza dei suoi correligionari, trovò la forza di schierarsi dalla parte di Gesù. Giuda tradì senza altra possibilità della propria estinzione, Nicodemo seppe ricucire, chiamato da Dio, lo strappo interiore che lo dominava entrando a pieno titolo nella Chiesa di Gerusalemme. L’autore della lettera agli Ebrei riporta il verso dell’ “oggi”per tre volte in 3.8, 3.15 e 4.7; proprio in quest’ultimo illumina il concetto scrivendo “Dio fissa un nuovo giorno, oggi, dicendo mediante Davide, dopo tanto tempo, «Oggi, se udite la sua voce, non indurite i vostri cuori»”. Ecco allora che abbiamo un “se”, riferito al fatto che la voce di Dio è unica e si distingue da quelle false che portano alla perdizione. “Se”chiama in causa l’udito spirituale, quella sordità che caratterizza chiunque si dà al mondo radicandosi come una pianta nella terra: tanto più profonde sono le sue radici, tanto più esiste la difficoltà, se non l’impossibilità, ad essere estirpato da essa per venire trapiantato nei terreno, appunto, dello Spirito e del Perdóno.

“Voi giudicate secondo la carne, io non giudico nessuno”(v. 15) è la descrizione di un’altra caratteristica dell’uomo naturale, schiavo dei propri modelli di vita e convinzioni, pronto a giudicare il prossimo in base al suo metro valutativo corrotto – anche da una religione – che si scontra con il ruolo di Gesù fino al Suo ritorno: Egli non giudica nessuno, come dimostrò con la mancata condanna della donna adultera in quanto venuto “non a giudicare, ma a salvare ciò che era perduto”(Luca 19.10). E qui abbiamo il concetto di salvezza secondo l’uomo e secondo Dio: “Chi cercherà di salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà”(Luca 9.24). Il giudicare cui fa riferimento Gesù in questo passo non allude alla formulazione di un giudizio di valore, ma il sottoporre il prossimo ad una sentenza di assoluzione o condanna, cosa che non fece mai nei suoi tre anni e mezzo circa di ministero: rimproverò, descrisse la condizione spirituale di molti, ma sempre dando loro la possibilità di porvi rimedio. L’uomo, ascoltando Cristo, ha sempre l’opportunità di tornare indietro, modificare la propria posizione, mutare itinerario.

Così leggiamo in Ebrei 2.1-4: “Per questo bisogna che ci dedichiamo con maggiore impegno alle cose che abbiamo ascoltato, per non andare fuori rotta. Se, infatti, la parola trasmessa per mezzo degli angeli si è dimostrata salda, e ogni trasgressione e disubbidienza ha ricevuto la giusta punizione, come potremmo noi scampare se avremo trascurato una salvezza così grande? Essa cominciò ad essere annunciata dal Signore, e fu confermata a noi da coloro che l’avevano ascoltata, mentre Dio ne dava testimonianza con segni e prodigi e miracoli d’ogni genere e doni dello Spirito Santo, distribuiti secondo la sua volontà”. Qui viene ricordata la parola scritta dell’Antico Patto, lasciata oggi a noi come esempio perché paragonassimo l’esperienza di un tempo lontano a quella possibile oggi identificata con le parole “una salvezza così grande”, prima non rivelata. Ed ecco che, perché questa proposta di “salvezza così grande”fosse credibile, fu supportata da “segni, prodigi e miracoli d’ogni genere”oltre che, per chi vive la dispensazione della grazia a tutti gli effetti, con “i doni dello Spirito Santo, distribuiti secondo la sua volontà”.

Gli ultimi versi del nostro passo sono tristi e umilianti al tempo stesso, perché la domanda “Dov’è tuo Padre?”rivela tutta la volontà di persistere nella condizione di cecità di quelle persone, aggravata dal fatto che si consideravano guide illuminate del popolo. La domanda dei farisei è particolare perché non chiedono chi fosse il Padre di Gesù, lasciando intendere forse che avessero bisogno di un chiarimento, ma dove fosse, quindi lo sfidano a produrre una Sua manifestazione, stante il fatto che Dio non lo si poteva vedere. “Dov’è tuo Padre?”contiene quindi tutto il sarcasmo e la presunzione di quella gente, profondamente ancorata alla terra e alla carne. Per questo Gesù aggiunge “Voi non conoscete né me, né il Padre mio; se conosceste me, conoscereste anche il Padre mio”: il Dio d’Israele non sarebbe stato più raggiungibile né con lo studio, né con la preghiera, né con le assemblee nella Sinagoga e soprattutto tramite i riti del Tempio perché le modalità di approccio erano cambiate e ben pochi lo avevano capito e ne gioivano.

Proviamo a paragonare quanto avvenuto in questo passo alle parole di Giovanni nel primo capitolo del suo Vangelo: “Venne fra i suoi e i suoi non l’hanno accolto. A quanti però lo hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio”(vv.11,12): un potere che prima non avevano e che qui viene ancora una volta respinto da persone cui null’altro importava se non mantenere vive tradizioni religiose e costumi privi di qualsiasi legame con Colui che già aveva detto “Voglio misericordia e non sacrificio”. Per loro, era meglio continuare così, ignorando il messaggio di chi “non è il Dio dei morti, ma dei viventi”(Matteo 22.23).

Infine l’ultimo verso della nostra lettura è “E nessuno lo arrestò, perché non era ancora venuta la sua ora”: potrebbe sembrare una ripetizione visto che Giovanni lo aveva ricordato altre volte; in realtà specifica questo a testimoniare che chi è lontano da Dio può desiderare tante cose, persone, cose o fatti, ma è del tutto impotente ad agire. Certo, in questo caso ci troviamo di fronte ad un avvenimento che era stato stabilito, concordato dal Padre e dal Figlio, ma non stava certo agli uomini determinare il quando e il come.

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12.14 – LA LUCE DEL MONDO III/III (GIOVANNI 8.12)

12.14 – La luce del mondo 3 (Giovanni 8.12)

  

12Di nuovo Gesù parlò loro: «Io sono la luce del mondo: chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita».

 

DEL MONDO

“Mondo” è un termine che racchiude molti significati il più immediato dei quali è l’ambiente in cui l’uomo vive con tutti i suoi equilibri. Senza di lui non si ha “il mondo”, ma “la terra”che di lui costituisce la base, la premessa perché posa realizzarsi ed esistere. Il mondo è stato creato da Dio, è il risultato e l’immagine della Sua sapienza e potenza come emerge da una notevole quantità di passi, tra i quali possiamo citare il cantico di Anna, “Al Signore appartengono i cardini della terra e su di essi egli poggia il mondo”(1Samuele 2.8), Salmo 24.1 e 50.12 in cui viene rivendicata la Sua proprietà, “Del Signore è la terra e quanto contiene: il mondo, con i suoi abitanti”e “Mio è il mondo e quanto contiene”. Da qui vediamo che il “mondo”, come già premesso, è un termine che si riferisce il più delle volte a ciò che di animato popola il pianeta e, secondo la Scrittura, tutto ciò che vediamo in esso è stato formato con la diretta partecipazione del Figlio. Se Giovanni è esplicito in proposito in 1.10 del suo Vangelo, “Era nel mondo e il mondo  stato fatto per mezzo di lui, eppure il mondo non lo ha riconosciuto”, l’Antico Patto lo presenta in forma nascosta: parlando della Sapienza, così scrive Salomone in Proverbi 8.22-31: “il Signore mi ha creato come inizio della sua attività– quindi prima del “Sia la luce!”, nell’eternità che è il contrario del tempo come noi lo misuriamo – prima di ogni sua opera, all’origine. Dall’eternità sono stata formata, fin dal principio, dagli inizi della terra. Quando non esistevano gli abissi, io fui generata; quando non vi erano le sorgenti cariche d’acqua; prima che fossero fissate le basi dei monti, prima delle colline, io fui generata, quando ancora non aveva fatto la terra e i campi né le prime zolle del mondo. Quando egli fissava i cieli, io ero là; quando tracciava un cerchio sull’abisso, quando condensava le nubi in alto, quando fissava le sorgenti sull’abisso, quando stabiliva al mare i suoi limiti, così che le acque non ne oltrepassassero i confini, quando disponeva le fondamenta della terra, io ero con lui come artefice ed ero la sua delizia ogni giorno: giocavo davanti a lui in ogni istante, giocavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo”. Possiamo allora considerare che a Salomone, che scrive nel 980 a.C. circa, come Isaia due secoli dopo, era stato rivelato che la terra aveva la forma di un globo, cosa che Aristotele inizierà ad ipotizzare nel 340 a.C.

Il Signore, che ha “formato la terra con la sua potenza, ha fissato il mondo con la sua sapienza, con la sua intelligenza ha dispiegato i cieli”(Geremia 51.15), ha però dovuto assumere dei provvedimenti precisi una volta che il peccato entrò a stravolgere i meravigliosi equilibri che aveva fissato: una lettura di quanto accaduto, che sposta la responsabilità originale della disubbidienza di Adamo ed Eva al comandamento ricevuto, ce la dà il libro della Sapienza con le parole “…ma per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo e ne fanno esperienza coloro che le appartengono”(2.24) e qui vediamo sia il principale responsabile, l’Avversario, sia che la morte è il fine ultimo di ogni esistenza, e non poteva essere altrimenti visto che la “via, la verità e la vita”per sfuggirle non era stata ancora rivelata. Sarà l’apostolo Paolo, molti secoli dopo, a spiegare che “…a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte, e così in tutti gli uomini si è propagata la morte, poiché tutti hanno peccato”(Romani 5.12). Il mondo, quindi, dall’estromissione da Eden, non fu letteralmente più lo stesso: privato della presenza, assistenza e amore incondizionato di Dio, si trasformò in un deserto di sospetti, fraintendimenti e di buio, per quanto caratterizzato dalle due generazioni di uomini, quella di Set che Lo cercava, e Caino che Lo rifiutava.

Il mondo può essere visto, sotto una certa ottica spirituale, anche come un territorio neutro in cui purtroppo entrambe le tipologie di uomini sono costrette a convivere: “Il campo è il mondo e il seme buono sono i figli del Regno. La zizzania sono i figli del maligno”(Matteo 13.38), ma è soprattutto una fonte di miraggi e di illusioni, come dalla frase a conclusione dell’insegnamento su cosa volesse dire seguire Gesù: “Quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la sua anima? O che cosa potrà dare in cambio della sua anima?”(Matteo 16.26).

L’uomo naturale trova nel mondo l’unica ragione di essere, cioè vivere ed esprimersi seguendo tutto ciò che lo attira e, nella misura in cui questa attitudine è presente, lo acceca rendendolo incapace di riconoscere la luce, come brevemente descritto nei due capitoli precedenti di queste riflessioni.

Definendosi “la luce del mondo”, Gesù non solo si propone, ma avverte che al di fuori di Lui non esiste alcun’altra via di uscita e quindi salvezza, che si concreta con l’illuminazione. Il mondo è un ambito in cui si vive, con le sue ragioni e sollecitudini che saranno sempre a Lui contrarie ed è proprio la Sua Parola a determinare una divisione tra ciò che è santo e gli appartiene e ciò che non lo è: la Parola è rivolta a tutti indistintamente, ma vediamo dalla parabola dei terreni che spesso viene portata via immediatamente, altre volte viene ascoltata, “ma la preoccupazione del mondo e la seduzione della ricchezza soffocano la Parola ed essa non dà frutto”(Matteo 13.22).

Il nostro verso poi è caratterizzato da una profonda promessa e verità, “chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita”, quindi Cristo, “la luce del mondo”è sì paragonabile al sole per rendere agevole comprendere il concetto dell’illuminare, ma i verbi “seguire”, “camminare” e “avere” ci trasportano in un contesto completamente diverso: “seguire” significa non avere né volere alcun altro riferimento al di fuori di Gesù; questo riguarda fondamentalmente il “tendere a” e non una costrizione rituale, religiosa, un “ufficio delle ore” rigidamente costituito per non distrarsi. Se si segue un sistema così strutturato, per il quale peraltro ho estremo rispetto, si corre il rischio di banalizzare la vita cristiana e di renderla un dovere, un qualcosa da adempiere comunque e quindi si può insinuare la finzione, la ricezione di qualcosa che si trasforma in un’abitudine. Di qui può nascere la sterilità della persona che corre il rischio di passare da una prigione a un’altra.

“Seguire”, invece, è caratterizzato da quel continuo confronto col Maestro che si concreta attraverso la preghiera, la lettura della Sua Parola e soprattutto quel voler essere continuamente un tutt’uno con Lui in quanto Suoi fratelli. “Camminare nelle tenebre” sarà allora impossibile in quanto l’appartenenza a Cristo lo esclude, se effettivamente sarà tale. Infatti “Noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio per conoscere ciò che Dio ci ha donato”(1 Corinti 2.12). Credo che, sotto l’aspetto del camminare, ogni cristiano sia chiamato a considerare la misura in cui la Parola di Dio dimora in lui, perché si può sempre professare con le labbra, mentre il cuore è lontano dalla realtà effettiva. Giacomo, “fratello del Signore”scrive “Gente infedele! Non sapete che l’amore per il mondo è nemico di Dio? Chiunque vuole essere amico del mondo, si rende nemico di Dio”(4.4). L’apostolo Giovanni poi andrà oltre: “Non amate il mondo, né le cose del mondo! Se uno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui”(1 Giovanni 2.15). Diventa allora chiaro che l’amare il mondo non è il rifiuto sistematico a qualunque attività che in esso si può sempre fare, ma l’adesione alla sua mentalità, a quella scala di valori e tipi di rapporto sociale che ben conosciamo perché un tempo era tutta cosa nostra.

Ora, però, il credente è caratterizzato dall’ultimo termine usato da Gesù in questo passo, avere “la luce della vita”, quindi qualcosa di estremamente più prezioso di una semplice lampada: avere la “luce della vita”è qualcosa che abbraccia ogni istante dei nostri giorni, che interviene nel momento in cui usiamo la prudenza e ci confrontiamo con Dio presentandogli le nostre richieste di aiuto perché i nostri passi siano illuminati. Non credo che avere “la luce della vita”sia qualcosa di garantito sempre e comunque, che sia gestibile a prescindere perché il tutto è subordinato dal “seguire”: “chi segue me”contiene due individualità precise viste nel discepolo e nel Cristo, nessun altro. E uno dei primi effetti è proprio l’abbandono, certo progressivo ma costante, del mondo che “passa con la sua concupiscenza, ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno”(1 Giovanni 2.17).

Il fatto che Gesù sia “la luce del mondo”per quel poco che abbiamo esaminato, significa che illumina ogni cosa e soprattutto tutti, nessuno escluso, e ciò avviene attraverso il Vangelo scritto e predicato che ciascun essere umano è libero di accogliere o rifiutare: se si sceglie la prima opzione si ha un’importante promessa, “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”(Matteo 28.20); nel caso della seconda, la prima conseguenza è che si aderisce al dio alternativo, quello che è chiamato “il principe di questo mondo”, ma anche, a proposito di chi non crede, di persone cui “il dio di questo mondo ha accecato la mente, perché non vedano lo splendore del glorioso vangelo di Cristo, che è immagine di Dio”(2 Corinti 4.4).

Non si potrebbe concludere questa trilogia su Giovanni 8.12 senza ricordare che, se Nostro Signore è la luce del mondo, lo stesso sono o dovrebbero essere i cristiani: Gesù disse nel sermone sul monte “Voi siete la luce del mondo”e Paolo ribadisce “In mezzo a loro voi risplendete come astri nel mondo”(Filippesi 2.15), quindi ci troviamo ancora nella regione della responsabilità e dell’impossibilità a dividere Cristo dai suoi fratelli. Le tenebre sono allora sinonimo di ignoranza, pericolo e peccato, la luce di conoscenza, sicurezza e santità, qui trasmissibili proprio perché la fonte è Gesù stesso e chi gli appartiene non può che rifletterne la natura vista negli astri, ciascuno fonte di luce maggiore o minore a seconda della sua funzione, ma non per questo classificabile da noi più o meno importante come purtroppo molti sono soliti fare secondo un metodo a mio giudizio discutibile.

Credo a questo punto che, per non aggiungere contenuti e versi già citati in abbondanza, sia giusto fermarci qui anche perché, se letto con attenzione, ci troviamo di fronte a riflessioni che portano con sé molte domande: impossibile non porsele e soprattutto non risolverle come scritto in Romani 12.2. “Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto”. Amen.

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12.13 – LA LUCE DEL MONDO II/III (Giovanni 8.12)

12.13 – La luce del mondo 2 (Giovanni 8.12)

            12Di nuovo Gesù parlò loro: «Io sono la luce del mondo: chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita».

 LA LUCE

È, come anticipato brevemente nello scorso capitolo, il complemento oggetto. Qui, senza di lui, resterebbe chiara l’identità di Gesù col Padre per l’ “Io sono”, ma non sapremmo nulla sulla Sua funzione, su ciò che gli uomini avrebbero dovuto conoscere di Lui: infatti, che Egli “è”nel senso più puro ed alto del termine era già stato manifestato attraverso i molti miracoli che aveva compiuto e le remissioni dei peccati di cui solo una minima parte è stata riportata. Ecco perché, a un certo punto del Suo ministero, Pietro e gli altri furono in grado di comprendere che Gesù era “Il Cristo”, certo dopo una rivelazione del Padre (Matteo 16.17).

Ora cerchiamo di esaminare, sinteticamente per quanto lo spazio di questo capitolo lo concede, la “Luce”, primo elemento di cui è comandata l’esistenza in Genesi 1.3, “Iddio disse: «Sia la luce!». E la luce fu”. È bello considerare che “Iddio”, preferibile al generico “Dio”perché è un termine racchiude tutte e tre le Sue forme e sostanza, non è detto che creò personalmente, ma che ordinò, come già osservato dal Salmista molto tempo prima di noi: “Egli parlò, e tutto fu creato; comandò, e tutto fu compiuto”(33.9). L’unico essere frutto del Suo progetto diretto, nel senso che intervenne materialmente, fu l’uomo e solo lui: “E Iddio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò”(1.27); come questo creare si manifestò è descritto in 2.7, “…il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente”. Certo il racconto di questo libro è antropocentrico, teso a rivelare la prima verità che dev’essere conosciuta, e cioè che l’Universo fu fatto in funzione dell’uomo, poiché sappiamo che il Creatore riversò in questo sistema la Sua infinita intelligenza e qui possiamo ricordare come esempio Giobbe 38.4 e i suoi riferimenti: “Quando ponevo le fondamenta della terra, tu dov’eri? Dimmelo, se sei tanto intelligente!”. Resta il fatto che l’uomo fu l’unico in cui il Creatore soffiò il Suo Spirito nelle narici.

La luce, tornando a Genesi, fu quella fonte di energia ordinata per prima in quanto senza di lei la vita non avrebbe potuto generarsi, rendendo possibile la creazione nel terzo giorno: “Produca la terra germogli, erbe che producono seme, ciascuna secondo la propria specie, e alberi che fanno ciascuno l frutto con il seme, secondo la propria specie”. Possiamo facilmente comprendere che, poiché la luce fu la prima ad irrompere in un’eternità di buio, è il fenomeno con il quale Dio fece irruzione in un qualcosa di non definibile nei dettagli, ma certo “informe e vuoto”, con “le tenebre che ricoprivano la faccia dell’abisso”. Senza la Sua presenza e un Suo intervento, non possono infatti esistere altro che il buio più profondo e l’immobilità. Se poi prendiamo 1 Giovanni 1.5,“Dio è luce e in lui non vi sono tenebre”, troviamo la vera ragione per cui dovette separarle così come avverrà per le due generazioni, quella di Caino e quella di Seth, che prese il posto di Abele.

La separazione luce – tenebre,  immediatamente raffigurata nell’alternanza tra il giorno e la notte per quanto non caratterizzata dal buio completo, da allora in poi avrà un suo riferimento con la presenza o assenza di Dio in funzione degli uomini, come rileviamo in due episodi nel libro dell’Esodo: pensiamo alla penultima piaga che fu appunto caratterizzata dall’oscurità più totale talché gli Egizi “…non si vedevano più l’un l’altro e per tre giorni nessuno si poté muovere dal suo posto. Ma per tutti gli Israeliti c’era luce là dove abitavano”(10.23). Ricordiamo anche come Dio si caratterizzò nel cammino nel deserto, quando “…il Signore marciava alla loro testa di giorno con una colonna di nube, per guidarli sulla via da percorrere, e di notte con una colonna di fuoco, per far loro luce, così che potessero viaggiare giorno e notte”(13.21). Anche qui, abbiamo la stessa separazione, quella intercorrente fra una collettività guidata e un’altra, ben più numerosa, che operava nell’assenza, che nel libro di Giobbe è laconicamente descritta con le parole “Vi sono quelli che avversano la luce, non conoscono le sue vie, né dimorano nei suoi sentieri”(24.13).

La luce, o le tenebre, valgono tanto per un insieme di persone, ma soprattutto per il singolo che di esse fa un’esperienza diretta trattandosi di un àmbito a volte che si sceglie consapevolmente:“Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l’amaro in dolce e il dolce in amaro”(Isaia 5.20). Il fatto è che, poiché senza luce è impossibile vivere, ogni uomo decide di averne una, come da due passi che prendiamo ad esempio: “Certamente la luce del malvagio si spegnerà e più non brillerà la fiamma del suo focolare”(Giobbe 18.5) e “La lucerna dei malvagi è il peccato”(Proverbi 21.4); eppure, nonostante questo stile di vita, c’è chi sceglie altro: “Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino”(Salmo 119.105) e “Il Signore è mia luce e mia salvezza: di chi avrò timore? Il Signore è difesa della mia vita: di chi avrò paura?”(27.1).

Tralasciando le profezie sulla venuta della luce per il mondo che Matteo ha raccordato nel suo effetto più immediato quando Gesù venne ad abitare a Capernaum (4.12-17), vediamo che l’inizio del Suo ministero è descritto con le parole “Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino”(v.17), le stesse parole con cui Giovanni Battista si presentava agli uomini, però non supportate da miracoli, guarigioni e, soprattutto, remissione dei peccati. Del Battista infatti è detto “Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce”(Giovanni 1.8). Possiamo paragonare allora il ministero che parte da Capernaum all’alba che piano piano anticipa il giorno, dissolvendo le ombre.

“Io sono la luce”, con cui Gesù si qualifica agli uomini dopo più di due anni di ministero, è la dichiarazione aperta di una delle Sue caratteristiche che formano un tutt’uno con il Suo essere Figlio di Dio che l’uomo deve conoscere e non per nulla Giovanni apre il suo Vangelo con “In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce risplende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta”(1.4). E quella “vita”, a sua volte, la connettiamo a quell’ “albero” in Eden che consentiva ad Adamo ed Eva di essere illuminati, con quella vista che contemplava la visione del micro e del macro, la ricezione totale di frequenze che abbiamo perso perché con esse distingueva ogni essere anche spirituale che oggi non vediamo. Quindi, “Luce”e “Io sono”non lasciano dubbi sul fatto che non esiste altra alternativa se non quella di percorrere la propria vita illuminati da Dio attraverso il Cristo perché “Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo”(1.9), certo se la si accoglie. Si può dire che il Vangelo di Giovanni, più degli altri, parla di questo elemento, riportando le parole di Gesù “Io sono venuto nel mondo come luce, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre”(12.46): da qui in poi, questo elemento sarà sempre attribuito a Nostro Signore e al ruolo di rivelare il Padre. Parlando ad Agrippa, l’apostolo Paolo dirà “…ti mando alle nazioni per aprire i loro occhi, perché si convertano dalle tenebre alla luce e dal potere di Satana a Dio, e ottengano il perdono dei peccati e l’eredità, in mezzo a coloro che sono stati santificati per la fede in me” (Atti 26.18).

Ancora, tornando al nostro verso, è da sottolineare l’articolo, “La”e non “Una” davanti a “luce” dalla quale vediamo chiaramente che non ce ne possono essere altre per poter pervenire a quella unica e vera di cui l’essere umano ha veramente bisogno; diversamente, come abbiamo visto brevemente nei pochi passi citati, se ne avrà una falsa, quella che ad esempio possedevano quei farisei che vengono chiamate “guide cieche”. E del resto questa confusione iniziò proprio nel momento in cui i nostri progenitori furono estromessi dal giardino di Eden dopo aver conosciuto certamente il peccato, ma soprattutto la menzogna poiché, una volta introdotti nel mondo corrotto, non si fidarono più l’uno dell’altro e Caino, riproducendo la tecnica dell’Avversario, disse a suo fratello “Andiamo ai campi”.

La menzogna è non solo bugia, ma seduzione, inganno, travisamento, tutto ciò che non è chiaro e, quindi, luce. La scienza umana in proposito, a conferma del fatto che il mondo è nelle tenebre sotto quest’ultimo aspetto, ha accertato che l’uomo acquista la capacità di mentire per il proprio tornaconto dall’età di cinque anni e che gli stessi animali non sono esenti da questa tecnica: lo fanno per sopravvivere, nascondendo il cibo, mimetizzandosi, lanciando falsi allarmi alle altre specie che, fuggendo da un determinato luogo, lasciano loro spazio per nutrirsi di quel cibo di cui altrimenti si sarebbero impossessati. E l’uomo può mentire anche a se stesso, spesso senza accorgersene. Questo esempio per far capire che le “tenebre” hanno un significato che va molto oltre quello della semplice assenza di una fonte luminosa, ma sono riferite ad un buio che ogni essere si porta dentro essendo stata, con il peccato, la luce di Dio preclusa ad ogni creatura che, da allora, può pensare solo alla sua sopravvivenza immediata. Ecco perché è da irresponsabili non accogliere e non rivolgersi a Cristo, unica e vera Luce. E, concludendo, possiamo dedurre che quando Gesù disse “In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come un bambino, non entrerà in esso”(Luca 18.17) e ne prese in braccio uno prendendolo ad esempio, si riferisse proprio all’innocenza che caratterizza i bimbi attorno ai quattro anni.

Tornando all’apostolo Giovanni, che di luce parla fin dal primo capitolo del suo Vangelo, possiamo concludere queste riflessioni con una citazione molto indicativa, illuminante: “Chi crede il lui non è condannato, ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nell’unigenito Figlio di Dio. E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio”(3.18-21). Amen.

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12.12 – LA LUCE DEL MONDO I/III (Giovanni 8.12)

12.12 – La luce del mondo I/III (Giovanni 8.12)

12Di nuovo Gesù parlò loro: «Io sono la luce del mondo: chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita».

            Sono stato in dubbio se rivolgere tutte le attenzioni a questo solo verso oppure inserire anche quelli che seguono in cui viene descritta la questione sorta coi farisei che, di fronte all’affermazione di Gesù come “Luce del mondo”, cercarono in ogni modo di reagire. Ritengo però che sia meglio occuparci di un solo verso, lasciando ad un prossimo capitolo l’analisi degli altri. C’è però, nel testo integrale che non ho riportato, un particolare degno di nota e cioè che Gesù, nel frattempo, si era spostato dal cortile dei gentili a quello delle donne, la parte più frequentata del tempio dai soli israeliti, vicinissimo al Gazith, o Sala del Sinedrio; Giovanni, infatti, si preoccupa di scrivere al verso 20 “Queste parole Gesù le pronunziò nel luogo del tesoro mentre insegnava nel tempio”, cioè quel posto, appunto nel cortile delle donne, in cui erano murate 18 cassette destinate a raccogliere le offerte (e non solo), come avremo modo di esaminare nell’episodio conosciuto come quello de “il quattrino della vedova”.

Venendo al verso in esame l’osservazione più immediata è possibile sul “Di nuovo”con cui si apre, che si presta a due interpretazioni o, se preferiamo, a due alternative: infatti, ammettendo come proprio di Giovanni l’episodio della donna adultera, si vuole suggerire che Gesù, chiusa la questione precedente, riprese ad insegnare. Rimanendo però nell’ipotesi che sia difficile collocarlo temporalmente,  possiamo fare un raccordo a 7.53, “E tornarono ciascuno a casa sua”: quel “Di nuovo”potrebbe allora venir letto come una ripresa degli insegnamenti di Gesù avvenuta il giorno seguente, in un ambiente differente.

Veniamo ora al nostro verso che possiamo dividere in quattro parti la prima delle quali è composta da tre elementi che vivono di vita propria e presentano una progressione andando via via aggiungendosi: “Io sono”, “Io sono la luce”e “Io sono la luce del mondo”. Ciascuna di essi ha un senso compiuto.

IO SONO

Rappresenta da sempre il modo in cui un individuo pensante e agente dichiara la propria identità, la sua condizione morale, psicologica o lo stato in cui versa. L’uomo la usa per qualificarsi di fronte al proprio simile, a volte mentendo, ma Dio se ne serve sempre per presentarsi e la prima volta che questo avvenne fu con Abrahamo quando, all’età di novantanove anni quindi prima di raggiungere i cento che è la cifra del compimento, si sentì dire “Io sono l’Iddio Onnipotente, cammina davanti a me e sii integro”(Genesi 17.1). “Io sono”, quando è Dio a pronunciarlo, è sinonimo di promessa a meno che non definisca la Sua Identità assoluta e insondabile, “Io solo colui che è”, tradotto anche con “colui che sono”(Esodo 3.14). Come promessa ricordiamo le parole dette a Giacobbe, “Io sono il Dio di Abrahamo, tuo padre; non temere perché io sono con te: ti benedirò e moltiplicherò la tua discendenza a causa di Abrahamo, mio servo”. Più avanti nella storia, si presentò a Mosè usando come credenziali, perché non poteva essere confuso con altri e doveva esservi una linea continua nell’osservanza delle Sue parole, queste parole: “Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abrahamo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe”(Esodo 3.6). Tra l’altro, riguardo al “Colui che è”, al popolo bastava proprio la prima persona del verbo essere per identificarlo: “Così dirai agli israeliti: «L’Io sono mi ha mandato a voi»”. Altre volte le parole furono semplici, “Io sono il Signore”, alle quali viene aggiunto a ricordo “che vi ho fatto uscire dalla terra d’Egitto per essere vostro Dio; siate dunque santi, perché io sono santo”. È quindi impossibile rivolgersi a Lui o accostarsi alla Sua Parola, quindi a Gesù quanto alla Scrittura, senza tenere presente l’onnipotenza, la volontà e il piano che ha per l’uomo che deve a Lui inevitabilmente adeguarsi mettendo da parte ciò che è sconveniente e non caritatevole: “Non maledirai il sordo, né metterai inciampo davanti al cieco, ma temerai il tuo Dio. Io sono il Signore”(Levitico 19.12).

Quando l’ “Io sono” si presenta, pone sempre l’uomo nelle condizioni di temerlo, lo avvisa di camminare rettamente, gli presenta una via che, se vuole avere la Sua benedizione, comporta l’astenersi da determinate azioni quali ad esempio il non farsi idoli per prostrarsi davanti ad essi (Levitico 26.1), non opprimere il prossimo (25.17), non raccogliere gli avanzi della mietitura per lasciarli al forestiero (23.22), osservare i Suoi comandamenti per metterli in pratica (22.31), questo perché “…vi ho fatto uscire dalla terra d’Egitto perché non foste più loro schiavi; ho spezzato il vostro giogo e vi ho fatto uscire a testa alta”(26.13).

Nell’Antico Patto – ma anche nel Nuovo comunque per quanto la Grazia venuta da Gesù Cristo consenta un rapporto diverso, ma non per questo meno responsabile – l’identità di YHWH si presenta con l’assoluto “Sono io che do la morte e faccio vivere; io percuoto e io guarisco, e nessuno può liberare dalla mia mano”(Deuteronomio 32.39).

Ora, fatta questa panoramica molto generale, l’ “Io sono”di Gesù non è diverso, ma complementare, cioè necessario sul piano qualitativo, quantitativo, strutturale, compiuto nel senso che mette in luce ciò che nell’antichità era velato, nascosto. La Sua identità come “Il Cristo, il figlio dell’Iddio vivente”riservata a chi lo aveva ed ha conosciuto, necessitava infatti di ampliamenti: l’uomo non può andare a Lui se non conosce le caratteristiche più importanti della Sua natura, il Suo ruolo, ciò per cui è sceso dai cieli irraggiungibili sulla terra, quindi rendendosi visibile come qualsiasi essere umano, al contrario del Padre. Ad esempio, parlando della resurrezione dei morti ai Sadducei, disse che “Iddio non è il Dio dei morti, ma dei viventi”(Matteo 22.32), di non essere “venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori”rivelando la Sua volontà di salvare ciò che sarebbe inevitabilmente andato perduto ed è bello considerare che, quando si presentò ai discepoli risorto, non disse “io sono”, ma “Coraggio, sono io, non abbiate paura”(Marco 6.50).

Davanti al Sinedrio si presentò in modo inequivocabile: quando il Sommo Sacerdote gli domandò “«Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto?», Gesù rispose «Io lo sono»”(Marco 14.61,62), ma agli altri uomini, quelli non chiusi dal proprio orgoglio che avrebbero potuto accoglierlo o quantomeno farlo dopo un percorso di dubbio e crescita personale, usò altri termini, come ad esempio “Il pane vivo disceso dal cielo”, “Il pane della vita”. Non venuto da se stesso, ma inviato dal Padre, rimarcò la differenza fra Lui e i suoi accusatori, “Voi siete di quaggiù, io sono di lassù; voi siete di questo mondo, io non sono di questo mondo”(Giovanni 8.23), disse di non far nulla da se stesso, di essere venuto perché “coloro che non vedono, vedano, e quelli che vedono, diventino ciechi”(9.39), “non per condannare, ma per salvare il mondo”(12.47) di essere “la porta”(10.9), il “buon pastore”, “la resurrezione e la vita”(11.25), “la via, la verità e la vita”perché, parole dette a Pilato, “Tu lo dici, io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce”(18.37).

È sicuramente da sottolineare che l’identità di Gesù, come abbiamo visto, sotto gli aspetti del Suo “Io sono”è l’apostolo Giovanni a rivelarla esplicitamente più degli altri tre evangelisti e verrà da lui completata nell’ultimo scritto quando Gesù dirà “Io sono l’Alfa e l’Omega, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente”(Apocalisse 1.8), “Io sono il Primo e l’ultimo, e il Vivente. Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi”(v.17,18).

Anche qui abbiamo dato una panoramica generale e ciascuna delle identità di Gesù andrebbe sviluppata e lo faremo, per quanto non qui, ma nel corso dei vari capitoli di questi scritti; nel caso del nostro verso, all’ “Io sono”segue “la luce”a significare una delle qualità del Dio che, non essendo in Lui “tenebre alcune”non può che avere questa funzione. La “luce”di cui parla Gesù non è qualcosa di generico, ma da identificare nel “sole”sia perché il Suo volto brillò così alla trasfigurazione, sia per la promessa profetizzata da Zaccaria, padre di Giovanni Battista: “Grazie alla tenerezza e misericordia del nostro Dio, ci visiterà un sole che sorge dall’alto, per risplendere su quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra della morte, e dirigere i nostri passi sulla via della pace”(Luca 1.78,79). Sono questi passi che suggeriscono un cammino continuo verso una direzione consapevole e precisa il cui risultato è descritto nella parabola della zizzania: “La mietitura è la fine del mondo e i mietitori sono gli angeli. Come dunque si raccoglie la zizzania e la si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti quelli che commettono iniquità e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Allora i giusti – cioè i giustificati per fede –splenderanno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchie, ascolti!”(Matteo 13.40-43).

Concludendo, “Io sono”è al tempo stesso un’affermazione lapidaria perché ha come primo riferimento l’identità di Dio con l’eternità nella quale vive e dalla quale proviene nel momento in cui si rivela, ma in questo caso ha bisogno, perché l’uomo comprenda, di un complemento oggetto che, per il verso in esame, è prima “la luce”e poi “del mondo”; e qui Gesù parla a tutti coloro che lo ascoltano, allora come oggi, perché possano determinare la loro condizioni di salvati o di perduti. Amen.

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12.11 – LA DONNA ADULTERA II/II (Giovanni 8.1-11)

12.11 – La donna adultera 2 (Giovanni 8.1-11)

1Gesù si avviò verso il monte degli Ulivi. 2Ma al mattino si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui. Ed egli sedette e si mise a insegnare loro. 3Allora gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e 4gli dissero: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. 5Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?». 6Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo. Ma Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra. 7Tuttavia, poiché insistevano nell’interrogarlo, si alzò e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». 8E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra. 9Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani. Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo. 10Allora Gesù si alzò e le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». 11Ed ella rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù disse: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più».

 

            La risposta di Gesù al “Tu, che ne dici?”degli scribi e farisei mi ha sempre profondamente impressionato perché non è di tipo verbale, per lo meno all’inizio. Scrive col dito per terra, viene da pensare chinandosi un poco dalla posizione seduta sul proprio mantello e se è impossibile sapere cosa scrivesse – altre traduzioni hanno “faceva dei segni per terra”, sicuramente l’agire in quel modo sottolinea il Suo volersi estraniare dalla questione, pensando al fatto che non era venuto per condannare, ma “per cercare e salvare ciò che altrimenti sarebbe andato perduto”(Luca 19.20). E chi cerca, non lo fa certo distrattamente. Come rispondere alla domanda che gli era stata posta in modo che tutti capissero? È proprio la peculiarità del Suo gesto a segnalare a mio giudizio l’autenticità del passo, che credo non sarebbe venuto in mente a nessun narratore salvo che a un testimone dell’evento.

Giovanni, al verso settimo, scrive che i suoi avversari “insistevano nell’interrogarlo”, per cui quel “Tu, che ne dici?”fu ripetuto più volte, magari in altre forme che ne lasciavano invariata la sostanza per cui Gesù si alzò dando loro una risposta tesa a spiazzarli completamente: certo la Legge prescriveva la lapidazione per gli adulteri, ma dovevano essere proprio i testimoni accusatori a lanciare per primi la pietra sul condannato, come leggiamo nel passo principale in Deuteronomio 17.2-7 che prescrive “Qualora un uomo o una donna faccia ciò che è male agli occhi del Signore, tuo Dio (…),colui che dovrà morire sarà messo a morte sulla deposizione di due o tre testimoni, non potrà essere messo a morte sulla deposizione di un solo testimone. La mano dei testimoni sarà la prima contro di lui per farlo morire, poi sarà la mano di tutto il popolo. Così estirperai il male in mezzo a te”. Lo stesso avvenne alla lapidazione di Stefano, dove leggiamo che “…lo trascinarono fuori della città e si misero a lapidarlo, e i testimoni– prima di agire – deposero i loro mantelli ai piedi di un giovane chiamato Saulo”(Atti 7.58).

La risposta verbale di Gesù si rivolge a tutti i componenti del gruppo di accusatori ancora una volta dando una bellissima lezione di cosa effettivamente richiedesse la Legge, cioè non tanto l’esecuzione di una persona colta nella flagranza di un peccato, quanto del titolo che dovesse possedere chi la commettesse a partire dai testimoni per arrivare fino agli altri, cosa che Mosè non aveva prescritto: “Chi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei”. Quello che Nostro Signore voleva dire fu immediatamente compreso da tutti: il testimone dell’adulterio doveva essere senza peccato non nel senso che doveva essere un “santo”, quindi un “puro”, ma una persona che era esente dall’infrazione del settimo comandamento, ”non commetterai adulterio”di fatto o nel cuore come Lui aveva già dichiarato in uno dei Suoi insegnamenti: “Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore”(Matteo 6.28). Nessuno dei presenti fu in grado di ribattere alcunché, confermando così indirettamente le parole di quelle guardie cui era stato ordinato di arrestare Gesù e non vi riuscirono dichiarando “Nessuno parlò mai come quest’uomo”.

Le parole di Gesù, quindi, andarono dritte alla coscienza dei presenti ai quali, carnalmente, non pareva vero di poter commettere un omicidio legittimato dalla Legge dietro il quale mascherarsi, sentirsi più giusti per aver compiuto un atto spiacevole, ma comandato, il che avviene ancora oggi nelle società integraliste. In quel caso, però, compresero che nessuno di loro poteva dirsi innocente da un adulterio praticato di nascosto, o desiderato. Ecco allora che il gettare “per primo la pietra contro di lei”era qualcosa che andava ben oltre il rituale della lapidazione, ma coinvolgeva tutta la persona che quella pietra l’avrebbe lanciata. Certo la lapidazione non sarebbe mai potuta avvenire né all’interno del cortile, né in città, ma fuori dalle mura, ma comunque avrebbe chiamato in causa vari passaggi che avrebbero richiesto una ferrea volontà di fare “giustizia”: cercare una pietra idonea, prenderla in mano, prendere la mira e lanciarla perché così si sarebbe dovuto fare. Chi lapidava, quindi, si assumeva in pieno tutta la responsabilità dell’atto.

In quel caso, però, questa volontà venne meno perché fu la coscienza a bloccarla, spegnerla, farla scomparire. Quel “per primo”non si trovò. Forse i presenti si guardarono l’un l’altro mentre Gesù, “chinatosi di nuovo, scriveva per terra”aspettando una loro reazione nuovamente estraniandosi dal contesto ma, a differenza della prima volta, qui lascia a loro la totale responsabilità delle azioni future. Cosa avrebbero fatto di quella donna era di competenza dei Suoi avversari e, tornando a scrivere, li lascia soli con le Sue parole e la loro coscienza. Sappiamo che “Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani”: qui vengono accomunati tutti, scribi, farisei e gli integralisti fra il popolo e in una versione si aggiunge “convinti dalla coscienza”. Per primi se ne vanno gli anziani, in cui è presente la memoria di un percorso di vita ed è assente l’ardore giovanile così sensibile agli ideali non supportati dalla realtà; quegli anziani furono consapevoli per primi di essere peccatori in opere o pensieri e poi furono seguiti in questo da tutti gli altri, ammettendo così di essere impuri e non volendo essere ipocriti fino alla fine. La loro non fu pietà verso la donna, ma la comprensione del fatto che non avevano titolo per lapidarla alla luce di quanto Gesù aveva detto. Rinunciarono a portare la donna con sé per rinchiuderla da qualche parte nell’attesa che il Sinedrio si riunisse nonostante potessero farlo, ma la sorte di lei era passata in secondo piano. E tutto questo avvenne di fronte agli altri, quelli che erano venuti ad ascoltare il Maestro. “Lo lasciarono solo, con la donna nel mezzo”, conferma che ad allontanarsi furono solo gli avversari di Gesù, ma che nessuno di quelli che erano venuti ad ascoltarLo si era allontanato perché non chiamato in causa.

A questo punto abbiamo le due domande, “Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?” tese tanto a far considerare a quella persona tanto la situazione in cui si era venuta a trovare, cioè che i suoi accusatori erano scomparsi, ma ancora di più a farla riflettere sull’infrazione commessa che rimaneva comunque: il fatto che non fosse stata lapidata non significava che fosse innocente, ma che il debito con Dio era presente e, secondo la Legge, avrebbe dovuto morire comunque. Quindi, cosa avrebbe dovuto fare?

La risposta “Nessuno, Signore”allude certamente al fatto che, senza le parole di Gesù, sarebbe stata lapidata, ma in più abbiamo un’attesa di sapere sottolineata dal suo comportamento perché, quando quelli che l’accusavano si erano ritirati, non era fuggita via. Il suo rimanere lì indica un enorme stupore conseguente al trauma causato dall’angoscia di una morte estremamente dolorosa che dava per certa e quel “Signore”non fu usato per cortesia e rispetto, dettato da un sentimento che includeva timore e adorazione. Liberata dalla prospettiva di morte certa, non sapeva cosa fare e si aspettava che le fosse indicata una soluzione al suo problema.

Abbiamo però quel “Neanch’io ti condanno”che racchiude tutto l’amore del Dio che non giudica, per lo meno in quel momento, per cui alla persona dev’essere dato il tempo per ravvedersi pensando molto seriamente a cosa fare dal momento in cui scopre il proprio peccato in poi. Vediamo infatti che le stesse parole furono dette al paralitico guarito alla piscina di Betesta, ma che qui manca “perché non ti avvenga qualcosa di peggio”, segno a mio avviso che entrambi, Gesù e la donna, sapevano che il concetto era stato compreso.

Come “Signore”, qui viene rivelato non l’aspetto del Dio Giudice che Gesù era comunque, ma quello del Dio “pietoso e clemente, lento all’ira e di grande benignità”(Salmo 103.8) che molti avevano dimenticato o della cui qualità sapevano, ma senza averlo mai provato su di loro. È quel Dio rivelato anche nell’Antico Patto che “conosce la nostra natura e si ricorda che siamo polvere”(v.14) e sono convinto che sia per questo che veniamo ripresi, ma non puniti come dovremmo, quando sbagliamo. La donna del nostro episodio comprese la propria situazione non solo di individuo peccatore, ma anche l’opportunità che le era stata data: “Come è vero che io vivo, dice il Signore, l’Eterno, io non mi compiaccio della morte dell’empio, ma che l’empio si converta dalla sua via e viva”(Ezechiele 33.11) e “Quando l ‘empio si allontana dalla sua empietà e compie ciò che  giusto e retto, per questo egli vivrà”(v.18).

Resta ora una conclusione di natura tecnica: è innegabile che dal verso 12 del nostro capitolo esista un brusco cambiamento di stile perché si passa dalla cronaca di un fatto a una teologia molto fine e profonda: Gesù inizia un lungo discorso ai presenti su Lui come luce del mondo, sul fatto che presto sarebbe andato in una dimensione nella quale non sarebbe potuto essere raggiunto, su cosa siano verità e libertà e molto altro ancora. Per questo motivo non è azzardato supporre, come accennato all’inizio, che quanto avvenuto si sia verificato dopo Luca 21.37,38, “Durante il giorno insegnava nel tempio, la notte usciva e pernottava all’aperto sul monte detto degli Ulivi. E tutto il popolo veniva a lui di buon mattino per ascoltarlo”, ma la questione è superata dalla profondità dell’insegnamento qui contenuto, di ampia portata tanto per noi quanto per ogni uomo o donna che ancora segue le orme e soprattutto la mentalità perversa di questo mondo. Ora, ragionando sui contenuti dell’episodio, ha l’opportunità, per poco tempo ancora, di convertirsi e salvarsi. Amen.

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12.10 – LA DONNA ADULTERA I/II (Giovanni 8.1-11)

12.10 – La donna adultera 1 (Giovanni 8.1-11)

           

Premessa

Stiamo per affrontare un passo sulla cui autenticità si è molto discusso per quanto nulla lasci supporre, per l’insegnamento in esso contenuto ed il comportamento avuto da Gesù, che sia inventato. Fatto sta che il racconto, negli antichi manoscritti che riportano il Vangelo di Giovanni, o non è presente o si trova in un altro contesto, raccordabile a dopo Luca 21.37,38 quando leggiamo che “Durante il giorno insegnava nel tempio, la notte usciva e pernottava all’aperto sul monte detto degli Ulivi. E tutto il popolo veniva a lui di buon mattino nel tempio per ascoltarlo”. Si sottolinea che lo stile non sembra essere quello di Giovanni, che Origene (184-254), Tertulliano (155-230), Cipriano (210-258), Cirillo (370-444) e Crisostomo (344-407) non ne parlano mai nei loro scritti, ma d’altro canto l’episodio si trova nel Codice di Beza (380-420) e in circa trecento manoscritti corsivi anteriori di cui cinquanta lo segnano con un asterisco in segno di dubbio. San Girolamo, autore della Vulgata, annota che “il passo relativo alla donna adultera si trova in molti codici greci e latini” e Sant’Ambrogio, Sant’Agostino ed altri Padri del IV° secolo lo ammettono come autentico, supponendo che la sua assenza in alcune copie fosse dovuta al timore che la misericordia usata da Gesù alla donna in questione potesse far credere che il suo atto fosse immune dal peccato. Altro punto di interesse si trova nelle “Costituzioni apostoliche” raccolte da Clemente Romano (II° sec.) in cui viene fatta allusione all’episodio, fatto importante perché ci segnala che il racconto fosse già noto prima che venissero redatti i più antichi manoscritti oggi conosciuti.

Come affrontare quindi il brano? Ritenendolo autentico, ma allo stesso tempo segnalandone i dubbi senza ritenere infondato quando supposto da Sant’Agostino: se ci furono delle ragioni per non farlo entrare nel Vangelo di Giovanni, non pare possibile che ve ne fossero per includerlo se non fosse stato presente dal principio.

 

1 Gesù si avviò verso il monte degli Ulivi. 2Ma al mattino si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui. Ed egli sedette e si mise a insegnare loro. 3Allora gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e 4gli dissero: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. 5Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?». 6Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo. Ma Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra. 7Tuttavia, poiché insistevano nell’interrogarlo, si alzò e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». 8E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra. 9Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani. Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo. 10Allora Gesù si alzò e le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». 11Ed ella rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù disse: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più».

 

            Il primo verso ci parla fondamentalmente di distanze o, se preferiamo, di livelli. Ricordiamo la conclusione del passo precedente quando abbiamo letto che, dopo il rimprovero alle guardie e alla questione posta da Nicodemo con relativa lite, “ciascuno tornò a casa sua”. I componenti del Sinedrio tornano alle loro case – e qui avevo fatto un appunto relativo alla temporaneità della loro quiete – e Gesù si avvia “verso il monte degli Ulivi” per cui possiamo raccordarci a Luca che, nel passo poc’anzi citato, ci ha scritto che lì “pernottava” coi discepoli. I dodici dormivano, Gesù credo molto meno. Comunque sia abbiamo tre distanze, o livelli, che denotano lontananza o vicinanza, esclusione o compartecipazione al piano di Dio per la salvezza dell’uomo, per essere o non essere Suoi strumenti, essere esclusi o rientrare nel Suo Piano: il Sinedrio, i dodici – tra i quali però vi era anche Giuda – e Gesù. In tutto questo contesto, cioè di quelle che abbiamo chiamato “distanze”, si inserisce un elemento neutro visto in “tutto il popolo” che “andava a lui”, cioè persone che venivano poste nelle condizioni di accogliere o rifiutare le Sue parole. Alcuni di questi sarebbero andati a Lui a bere.

Ora è in questo preciso momento, quello di Nostro Signore che insegna, che si inserisce l’intervento dei Suoi avversari, ma prima di parlarne occorre considerare cosa fossero la Festa dei Tabernacoli, a livello pratico, e l’adulterio; sono argomenti che entrambi sono stati affrontati in precedenza e che qui sorvoleremo con qualche aggiunta.

Il primo tema, quello della festa, è piuttosto semplice: sappiamo che durava sette giorni e che l’ottavo, definito in Levitico 23.36 come giorno di “santa convocazione e offrirete al Signore un sacrificio fatto con fuoco. È giorno di assemblea solenne, non farete in esso alcun lavoro servile”, non si svolgeva esattamente come ordinato da Dio. Per meglio dire, lo si osservava nella lettera, ma certo non nella sostanza poiché Plutarco, circa trent’anni dopo l’episodio, definirà quel giorno “la festa di Bacco presso i Giudei”, quindi una sorta di Carnevale in cui molti abbandonavano ogni ritegno per cui valeva l’adagio “semel in anno licet insanire”. Fu in quel contesto motivazionale che si verificò l’adulterio di cui parla Giovanni, reato che prevedeva la morte per entrambe le parti che lo commettevano. Leggiamo infatti in Deuteronomio 22.22: “Se un uomo viene trovato coricato con una donna maritata, moriranno entrambi: l’uomo che si è coricato con la donna e la donna. Così estirperai il male di mezzo a Israele”. In quel caso, invece, a pagare sarebbe stata solo colei che, a differenza della controparte, non era riuscita a fuggire.

C’è poi da considerare il motivo principe della pena di morte per un reato che, soprattutto oggi, nel mondo non è più considerato tale. L’adulterio, tanto nell’Antico che nel Nuovo Patto, era ed è inammissibile perché l’unione matrimoniale raffigurava la dedizione reciproca che avrebbe dovuto intercorrere tra Dio e il Suo popolo Israele. La stessa cosa è ora con la Chiesa, cioè amore che si caratterizza attraverso un’unione intima e stabile che non può venire inquinata da rapporti con estranei. Ricordiamo poi che esiste l’adulterio spirituale che si concreta nel momento in cui si scelgono altri dèi cui servire e adorare, o si mescolano e praticano elementi pagani nelle riunioni della Comunità dei credenti. Sappiamo che nella storia l’adulterio e la fornicazione spirituale è sempre stato un elemento scatenante di giudizi molto pesanti, primo fra i quali il diluvio. Sotto questo aspetto vale la pena citare l’esempio della chiesa di Tiatira di cui, in Apocalisse 2.20-23 leggiamo: “Ma ho da rimproverarti che lasci fare a Gezabele, la donna che si dichiara profetessa e seduce i miei servi, insegnando a darsi alla prostituzione e a mangiare carni immolate agli idoli. Io le ho dato tempo per convertirsi, ma lei non vuole convertirsi dalla sua prostituzione. Ebbene, io getterò lei in un letto di dolore e coloro he commettono adulterio con lei in una grande tribolazione, se non si convertiranno dalle opere che ha loro insegnato. Colpirò a morte i suoi figli e tutte le Chiese sapranno che io sono Colui che scruta gli affetti e i pensieri degli uomini, e darò a ciascuno di voi secondo le loro opere”.

Sono questi indubbiamente versi sui quali andrebbe effettuato uno studio a parte, ma vediamo che la “prostituzione” e l’ “adulterio” di cui si parla, per quanto possano alludere a quelli carnali, siano un sistema che confluisce in una pratica religiosa che si concreta in un rigetto della dottrina e di tutto quanto originariamente ricevuto attraverso un pericolosissimo aggiungere e togliere.

Per un popolo come quello di Israele in cui era fondamentale la genealogia e il procreare – pensiamo alla sterilità considerata come un castigo divino – l’adulterio era inammissibile anche perché in questo modo la paternità sarebbe stata impossibile da stabilire. Pensiamo ad esempio a Siracide 23.22-26 che spiega molto bene queste dinamiche: “…così anche la donna che tradisce suo marito e gli porta un erede avuto da un altro. Prima di tutto ha disobbedito alla legge dell’Altissimo, in secondo luogo ha commesso un torto verso il marito, in terzo luogo si è macchiata di adulterio e ha portato in casa i figli di un estraneo. Costei sarà trascinata davanti all’assemblea e si procederà a un’inchiesta sui suoi figli. I suoi figli non metteranno radici, i suoi rami non porteranno frutto. Lascerà il suo ricordo come una maledizione, la sua infamia non sarà cancellata”.

Ora, tornando al nostro testo per quanto riguarda i primi due versi, notiamo che dopo la riunione del Sinedrio abbiamo tre divisioni: i suoi membri tornano alle loro case (prima divisione) e per farlo devono separarsi l’uno dall’altro non certo in armonia (seconda) e infine Gesù si allontana andando al monte degli Ulivi (terza). Il giorno seguente, però, abbiamo un avvicinamento visto nel convergere al tempio del popolo desideroso di ascoltare e di Lui che li raggiunge, si siede e si mette “a insegnare a loro”, cioè da un lato parla di cose che non sapevano e dall’altro, fedelmente all’etimologia del termine, “in signo”, lo fa lasciando un segno profondo nri Suoi uditori.

È anche importante l’ “Allora” con cui inizia il verso terzo, che sta a indicare “a quel punto”, certo giunto non a caso, ma segno della volontà da parte degli oppositori di Gesù non solo di metterlo in difficoltà, ma di creare sconcerto e dubbio in quanti erano venuti lì ad ascoltarlo. Abbiamo una volontà di spettacolo cinica e brutale, come ha scritto un fratello: “il produrre quella donna in pubblico a quel modo era un atto di inutile crudeltà verso di lei ed un insulto a tutti gli spettatori di cuore generoso e modesto. Avrebbero potuto tenerla in carcere mentre riferivano il fatto a Gesù, senza contare l’indelicatezza brutale nei termini coi quali veniva pubblicata la sua colpa”.

Invece, quelli la presero non appena colta sul fatto, la condussero nel cortile del tempio e la gettarono “in mezzo”, cioè in quello spazio che si era venuto a creare tra Gesù e quanti lo desideravano ascoltare. Teniamo presente che ciò avvenne è di mattina, presumiamo presto, ad un orario in cui il Sinedrio, l’unica autorità che poteva decidere la morte di una persona, non era convocato. Leggendo poi la domanda posta a Nostro Signore è chiaro che non gli chiedono una sentenza di morte, ma un parere – “Tu, che ne dici?” – per cui abbiamo un ulteriore indizio sulla reale intenzione di turbare gli animi dei presenti: agli insegnamenti di grazia ed amore proposti da Lui, contrappongono la durezza implacabile della Legge di Mosè al riguardo.

Questo però fu solo l’aspetto più apparente e immediato, poiché in realtà ciò a cui miravano gli avversari di Gesù era di “metterlo alla prova e avere motivo di che accusarlo” (v.6): se Gesù avesse assolto la donna, si sarebbe ribellato alla Legge e così poteva essere accusato come impostore e falso Messia; se l’avesse condannata avrebbe agito in modo contrario alla compassione che sempre aveva dimostrato nei confronti dei pubblicani e peccatori in genere.

Poi, ragionamento ancora più sottile, se Gesù avesse assolto la colpevole, “sostituendosi a Dio”, sarebbe stato facilmente condannabile dal Sinedrio come bestemmiatore, ma se la condannava sarebbe entrato in conflitto con l’autorità romana che non puniva l’adulterio con la morte e per questo sarebbe stato denunciato a loro dagli scribi e farisei.

E sappiamo che la prima risposta di Nostro Signore sarà quella di scrivere col dito per terra.

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12.09 – MAI UN UOMO HA PARLATO COSÌ (Giovanni 7.40-53)

12.09 – Mai un uomo ha parlato così (Giovanni 7.40-53)

           

 

40All’udire queste parole, alcuni fra la gente dicevano: «Costui è davvero il profeta!». 41Altri dicevano: «Costui è il Cristo!». Altri invece dicevano: «Il Cristo viene forse dalla Galilea? 42Non dice la Scrittura: «Dalla stirpe di Davide e da Betlemme, il villaggio di Davide, verrà il Cristo?». 43E tra la gente nacque un dissenso riguardo a lui. 44Alcuni di loro volevano arrestarlo, ma nessuno mise le mani su di lui. 45Le guardie tornarono quindi dai capi dei sacerdoti e dai farisei e questi dissero loro: «Perché non lo avete condotto qui?». 46Risposero le guardie: «Mai un uomo ha parlato così!». 47Ma i farisei replicarono loro: «Vi siete lasciati ingannare anche voi? 48Ha forse creduto in lui qualcuno dei capi o dei farisei? 49Ma questa gente, che non conosce la Legge, è maledetta!». 50Allora Nicodemo, che era andato precedentemente da Gesù, ed era uno di loro, disse: 51«La nostra Legge giudica forse un uomo prima di averlo ascoltato e di sapere ciò che fa?». 52Gli risposero: «Sei forse anche tu della Galilea? Studia, e vedrai che dalla Galilea non sorge profeta!». 53E ciascuno tornò a casa sua.

 

            Quanto letto relativamente ai commenti della folla è la conseguenza dei discorsi sentiti fino ad allora nel cortile del Tempio di cui Giovanni ha riportato l’essenziale. Leggiamo però che l’apostolo ha scritto “All’udire queste parole”, quindi l’invito “Se qualcuno ha sete, venga a me e beva chi crede in me”, ma non possiamo escludere anche quelle altre dette due o tre giorni prima, quando da un lato abbiamo la volontà di arrestarlo e, dall’altro, la gente che si domandava “Il Cristo, quando verrà, compirà forse segni più grandi di quelli che ha fatto costui?”(v.31). Ebbene, questa domanda in un certo senso portò i presenti a due conclusioni più una risposta la prima delle quali fu che Lui fosse “davvero il profeta!”,in cui sottolineiamo l’articolo determinativo per cui Lo prendevano per Elia o per quel “profeta come me, in mezzo a te, fra i tuoi fratelli”a cui avrebbero dovuto “dare ascolto”citato in Deuteronomio 18.15. Sappiamo che non era chiaro, per l’interpretazione che davano a quel passo, se si trattasse del Messia o del Suo precursore, ma è certamente indicativo, in questa pericope, quanto fosse incisivo quel “davvero”e l’articolo “il”che andava dritto al cuore del problema. Fra la moltitudine c’era quindi chi si poneva nelle condizioni di approfondire la posizione di Gesù con successo.

La seconda conclusione è più specifica, “Costui è il Cristo”: anche qui abbiamo l’indicativo “è”,quindi privo di forma dubitativa, a conferma del fatto che Gesù non poteva essere altri se non il Messia promesso e questa portò ad un’osservazione, o replica, che rivela quanto il popolo ignorava e cioè le effettive origini di Colui che stava parlando: era opinione diffusa che Gesù venisse “dalla Galilea”(Nazareth e Capernaum), ma in realtà apparteneva tanto alla genealogia di Davide in quanto nato a Betlehem di Efrata. Aveva dunque tutte le credenziali per essere creduto. Quelli che allora parlavano in quel modo, dubitando che Gesù fosse effettivamente il Cristo perché secondo loro veniva da una regione estranea al casato di Davide, sbagliano per ignoranza. Sappiamo che i capi dei sacerdoti e gli scribi dissero ad Erode che il “Re dei Giudei”sarebbe nato a Betlehem e lo facevano su passi della Scrittura ben precisi.

Prima di tutto il Cristo non avrebbe potuto venire da nessun’altro, genealogicamente, se non da Davide secondo Salmo 89.4,5: “Ho stretto alleanza con il mio eletto, ho giurato a Davide, mio servo. Stabilirò per sempre la tua discendenza, di generazione in generazione edificherò il tuo trono”. In proposito possiamo ricordare le due genealogie di Matteo e Luca in cui vengono nominati i rappresentanti delle generazioni che si succedettero nel tempo fino a Gesù. Lo stesso dicasi per Salmo 132.11 “Il Signore ha giurato a Davide, promessa da cui non torna indietro: «Il frutto delle tue viscere io metterò sul tuo trono»”. Abbiamo poi Isaia 11.1 con “Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse– padre di Davide –, un virgulto spunterà dalle sue radici. Su di lui si poserà lo spirito del Signore, spirito di sapienza e di intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e di timore del Signore”. Geremia 23.5,6: “Ecco, verranno i giorni (oracolo del signore) nei quali io susciterò a Davide un germoglio giusto, che regnerà da vero re e sarà saggio ed eserciterà il diritto e la giustizia sulla terra. Nei suoi giorni Giuda sarà salvato e Israele vivrà tranquillo, e lo chiameranno con questo nome: Signore-nostra-giustizia”.

La provenienza da Betlehem sappiamo che fu predetta dal famoso passo di Michea 5.2, ma trova la sua base proprio in Iesse, quando viene così identificato in 1 Samuele 17.12: “Davide era figlio di un Efrateo di Betlemme di Giuda chiamato Iesse, che aveva otto figli”. E tutto torna perché chi indaga nella Scrittura, a prescindere dall’epoca in cui vive, non può venire confuso se guidato dallo Spirito e non si arrende (ricordiamo il cercare “come i tesori”).

Comunque, come accade anche oggi, abbiamo da una parte chi ha creduto in lui e chi no, con opinioni diverse e quel “volevano arrestarlo”, o “prenderlo”come traducono altri, ci può lasciar pensare che quella fu la volontà non solo dell’autorità religiosa che aveva mandato le “guardie”, ma anche di coloro che, tra la folla, vedevano in lui un impostore e il loro integralismo li spinse ad azioni violente contro di Lui. È importante sottolineare che il verso 44 ha senso ambivalente e riguarda anche gli inviati ad arrestarlo: erano le guardie del Tempio, che curavano l’ordine pubblico non solo lì, ma anche in città ed erano alle dipendenze del Sinedrio e in particolare del suo magistrato.

Ebbene quegli uomini andarono lì e, dopo averlo ascoltato, non furono in grado di eseguire l’ordine loro affidato per un motivo molto semplice, cioè furono toccati nel profondo della loro coscienza mentre gli altri, quelli della folla ostile, semplicemente non poterono. Giovanni non dice che le guardie credettero, ma solo che furono concordi nel dire “Mai un uomo ha parlato così”, frase che, detta da loro, ci dice molto perché conoscevano tutti i membri del Sinedrio, avevano ascoltato i loro discorsi, frequentavano la Sinagoga e conoscevano gli insegnamenti dei rabbini più autorevoli. Eppure, in quel momento, dichiarano di non avere mai sentito nessuno parlare in quel modo, cioè con quella conoscenza e autorità che ai sinedriti mancava nonostante gli studi severi che avevano intrapreso e la scienza scritturale che possedevano, ma in maniera umana. Dobbiamo tener presente che il mandato di arresto a quei tempi non era necessariamente immediato, ma poteva anche essere intesto come da eseguire alla prima occasione favorevole, poiché sappiamo che “i capi dei sacerdoti e gli scribi cercavano in ogni modo di toglierlo di mezzo, ma temevano il popolo”(Luca 22.2). Ecco perché le guardie inviate ebbero occasione di ascoltare Gesù mentre parlava, ricordando che Giovanni riporta una minima parte di ciò che disse. Lo stesso timore descritto da Luca emerge anche in Marco 11.32 quando annota, in un contesto diverso, che “…temevano la folla, perché tutti ritenevano che Giovanni– Battista – fosse veramente un profeta”.

“Mai nessuno parlò come quest’uomo”allora ci rivela che solo ascoltando le parole di Gesù, il Vangelo, l’uomo può riconoscere se sia il Figlio di Dio che dice di essere oppure no alla luce di quel “Tutto è compiuto”che riguarda non solo l’osservazione della Legge fin nello “iota”, ma nella presentazione del piano di Dio per l’uomo e nel fatto che solo ascoltandolo si può giungere ad una perfetta identità con Lui: “Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi”(Giovanni 14.3).

La risposta delle guardie del tempio adirò profondamente i membri del Sinedrio e li accusarono di essere stati sedotti, ricordando loro che nessuno dei capi o dei farisei aveva creduto in lui e definiscono “maledetta”la moltitudine perché ignorava la Legge, quella cui proprio loro avrebbero dovuto insegnare per portarli non tanto alla minuta osservanza, ma al suo senso spirituale fino a quando non sarebbe giunto il Cristo, il Messia promesso. Ora è chiaro che quel “maledetta”riflette tutto il disprezzo che quella classe religiosa provava per i propri simili, atteggiamento ben diverso da quello che la Legge stessa dava per naturale, cioè che tutti fossero fratelli e l’uno prossimo dell’altro. Impossibile infatti pascere un gregge che non si ama. Invece sappiamo che proprio loro parlavano degli ebrei che non avevano studiato nelle loro scuole ed erano ritenuti “fango che si calpesta”, “uomini di terra” e “vermi”.

A questo punto ecco intervenire un personaggio che aveva incontrato Gesù due anni prima, Nicodemo, figura del dubbio provato e del timore di manifestare la propria fede, ma anche della Parola che germina lentamente nel cuore. Certo, anche del tormento che prova un’anima quando è frenata dal prendere una posizione che avrebbe inevitabilmente generato sofferenza personale vista nell’esclusione dalla società cui apparteneva. Sappiamo che Nicodemo non era l’unico: pensiamo a Giuseppe d’Arimatea, “membro del sinedrio, buono e giusto, che non aveva aderito all’operato degli altri”(Luca 23.50) e a tutti quelli che “…anche tra i capi, credettero in lui, ma, a causa dei farisei, non lo dischiaravano per non essere esclusi dalla sinagoga”(Giovanni 12.42). Sono queste persone che provano su di sé gli effetti della Parola di Dio, “più tagliente di una spada a doppio taglio”, che sono coscienti di non appartenere al mondo di prima ed ora si trovano di fronte ad una scelta da affrontare. Vivere in una coscienza divisa è terribile, per lo meno fino a quando non si trova il coraggio per spiccare il volo verso l’Alto. Ebbene, Nicodemo prende la parola e lo fa in modo prudente, potremmo dire combattendo a modo suo affrontando i suoi pari grado in modo legale alla luce di tre passi: Deuteronomio 1. 16,17 “Ascoltate le cause dei vostri fratelli e decidete con giustizia fra un uomo e suo fratello o lo straniero che sta presso di lui. Nei vostri giudizi non avrete riguardi personali, darete ascolto al piccolo come al grande”, dove si parla di ascolto e decisione non offuscata da impressioni o sentimenti provenienti dalla carne.

Abbiamo poi 17.8: “Un solo testimone non avrà valore contro alcuno, per qualsiasi colpa e per qualsiasi peccato; qualunque peccato uno abbia commesso, il fatto dovrà essere stabilito sulla parola di due o di tre testimoni”e questo accadeva in presenza dell’accusato. In 19.16 infatti si parla dell’eventualità in cui “un testimone ingiusto si alzi contro qualcuno per accusarlo di ribellione”. E sappiano che l’accusato aveva diritto di replica, come dalle parole di Pilato a Gesù in Marco 15.4: “Non rispondi nulla? Vedi di quante cose ti accusano”. Secondo Nicodemo, quindi, proprio coloro che in quel frangente condannavano Gesù a priori e reputavano “maledetta”la folla, erano i primi a trasgredire la Legge. Lungo dal pensare a questo, lo esortano a studiare (ricordiamo il loro detto “va’ e impara”) le Scritture perché da esse veniva la verità in base al quale “dalla Galilea non sorge profeta”, ma sbagliavano: Giona nacque infatti a breve distanza da Cana (2 Re 14.25), Eliseo poco distante da Betlehem (1 Re 4.12; 19.16), e Nahum a El Kush, piccolo villaggio della Galilea.

L’episodio si concluse con un nulla di fatto:“Ciascuno tornò a casa sua”, temporaneamente al sicuro nelle proprie quattro mura.

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12.08 – SE QUALCUNO HA SETE (Giovanni 7.37-39)

12.08 – Se qualcuno ha sete (Giovanni 7.37-39)

           

37Nell’ultimo giorno, il grande giorno della festa, Gesù, ritto in piedi, gridò: «Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva 38chi crede in me. Come dice la Scrittura: Dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva». 39Questo egli disse dello Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui: infatti non vi era ancora lo Spirito, perché Gesù non era ancora stato glorificato.

 

            Sappiamo che la festa dei Tabernacoli durava sette giorni, ma siccome a quelli se ne aggiungeva uno di solenne convocazione, in realtà ne abbiamo otto. Fra i riti dell’ultimo giorno ve ne era uno, posteriore alla Legge di Mosé e di origine incerta quindi non comandato, che era più popolare degli altri: un sacerdote, accompagnato da una processione preceduta da un gruppo di suonatori, si recava alla piscina di Siloe, riempiva d’acqua un vaso d’oro che portava nel cortile del tempio e lo versava in due vasi d’argento posti sull’altare mentre gli altri sacerdoti e i leviti cantavano il grande Hallel (Salmo 113 e 118) seguito dalle parole di Isaia 12.3“Voi attingerete con gioia l’acqua dalle fonti della salvezza”. Questa parte della cerimonia commemorava con gratitudine la misericordia di Dio per aver provveduto d’acqua Israele mentre vagava nel deserto. Interessante è la simbologia di questo rito, con l’acqua che passava dal vaso d’oro, che rappresentava la Maestà di Dio, ai due d’argento, che avevano riferimento all’uomo, due a sottintendere entrambe le nature, quella terrena e quella spirituale? Oppure il numero era riferito all’essere umano nei suoi due elementi, uomo e donna? Si trattava di una simbologia interessante, ma non comandata e quindi aggiunta dalla tradizione.

Questo è il contesto in cui Gesù si alzò in piedi e, gridando, parlò rivolgendosi a chi si riconosceva assetato. Era impossibile a chi lo ascoltava non cogliere immediatamente il parallelismo tra quanto si stava celebrando in quel momento e gli elementi fondamentali del Suo messaggio: se la Festa delle Capanne parlava di un percorso nel deserto che gli antichi avevano fatto e di come fossero stati dissetati da Dio che non li aveva abbandonati, ora potevano avere un’acqua nuova, molto più preziosa di quella per la sopravvivenza del corpo. Accanto a questo accostamento immediato, ci sono poi le parole di Isaia 55.1-3:“O voi che siete assetati, venite all’acqua, voi che non avete denaro, venite, comprate e mangiate; venite, comprate senza denaro, senza pagare, vino e latte. Perché spendete denaro per ciò che non è pane e il vostro guadagno per ciò che non sazia? Su, ascoltatemi e mangerete cose buone e gusterete cibi succulenti. Porgete orecchio e venite a me, ascoltate e vivrete. Io stabilirò per voi un’alleanza eterna, i favori assicurati a Davide”.

Anche in questo passo c’è un invito agli assetati a bere; potrebbe sembrare un controsenso perché chi ha sete l’acqua la cerca da solo, ma qui è chiaro che si parla di provare un’arsura diversa che può essere soddisfatta porgendo orecchio, ascoltando. Anche in Isaia il messaggio è rivolto a “voi che non avete denaro”, cioè quanti sarebbero impossibilitati a comprare alcunché, tagliati fuori anche dal minimo necessario per vivere, ma che qui trovano “senza pagare vino e latte”cioè addirittura il di più, visto che chi ha sete trova nell’acqua il mezzo più idoneo a soddisfare il corpo. “Voi che non avete denaro”, più propriamente, allude all’impossibilità dell’uomo incompatibile con Dio a comprare ciò che è da Lui donato liberamente. Accanto al soddisfare questa necessità, poi si aggiungono “cose buone”e “cibi succulenti”, quindi il ristabilimento completo della persona come nella parabola del buon samaritano.

In questi versi c’è anche un inciso, una domanda che riguarda lo spendere “denaro per ciò che non è pane”e il “guadagno per ciò che non sazia”dove si vuol porre l’accento sul fatto che l’uomo si affatica e spende quanto ha da parte o ciò che guadagna quotidianamente per cose inutili e tralascia quell’unico nutrimento che porta alla vita eterna.

Quel “venite alle acque”di Isaia che poi si conclude con “ascoltate e vivrete”, prosegue con la promessa di un alleanza eterna, “i favori assicurati a Davide”dalla cui discendenza il Gesù uomo proveniva. Quali siano questi “favori”li troviamo in 2 Samuele 7.8-16 in cui, accanto al ricordo di quanto YHWH aveva fatto per lui, leggiamo una promessa che riguarda il futuro: “Quando i tuoi giorni saranno compiuti e tu dormirai con i tuoi padri, io susciterò un discendente dopo di te, uscito dalle tue viscere, e renderò stabile il trono del suo regno Egli edificherà una casa al mio nome e io renderò stabile il trono del suo regno per sempre”(vv.12-13). Ecco allora l’adempimento in Gesù, come disse Paolo nella Sinagoga di Antiochia: “Ora Davide, dopo aver eseguito il volere di Dio nel suo tempo. Morì e fu unito ai suoi padri e subì la corruzione. Ma colui che Dio ha risuscitato, non ha subito la corruzione. Vi sia dunque noto, fratelli, che per opera sua viene annunciato a voi il perdono dei peccato. Da tutte le cose da cui mediante la legge di Mosè non vi fu possibile essere giustificati, per mezzo di lui chiunque crede è giustificato”(Atti 13.36-40).

Ecco perché il passo di Isaia che abbiamo letto prosegue con la figura del Santo che non subì la corruzione: “Ecco, l’ho costituito testimone fra i popoli, principe e sovrano delle nazioni. Ecco, tu chiamerai gente che non conoscevi; accorreranno a te nazioni che non ti conoscevano”(Isaia 55.4,5) viste nei pagani.

Leggendo le parole di Gesù dei primi due versi, notiamo che racchiudono due fasi: in una prima abbiamo l’invito ad andare a lui “se uno ha sete”, quindi chi non la prova può benissimo evitare di farlo; la seconda è “beva chi crede”, cioè solo la persona che ha trovato e soprattutto constatato che il bere di cui parla Gesù produce un risultato che non può essere paragonato a nient’altro. Posso dire di avere conosciuto uomini dalla cultura molto profonda, versati nella scienza, nella storia e nella filosofia che hanno praticato con un amore profondo dissetandosi in esse, ma tutti si sono rivelati senza risposte di fronte a quelli che sono chiamati “i grandi miseri della vita” che tali non sono per chi beve alle fonti di Dio, avendo lo Spirito Santo come guida. Ed ecco perché “Chi crede in me– che la nostra traduzione non riporta – come dice la Scrittura, dal suo grembo usciranno fiumi d’acqua viva”, frase che oltre a una promessa è la descrizione di un percorso, di una crescita che produce quell’ “usciranno fiumi d’acqua viva”utile all’edificazione e alla conversione di chi deciderà di ascoltarli.

È doveroso sottolineare che Gesù parla di “grembo”, tradotto da altri “ventre”, quindi tanto ciò che genera, inteso come utero, quanto ciò che elabora il nutrimento ingerito e sappiamo bene che è la digestione, con l’assimilazione dei cibi, a tenere in vita il nostro corpo. La digestione è elaborazione, da essa dipende la salute o la malattia, ci si può intossicare oppure guarire.

Ricordiamo le parole alla donna samaritana, “Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna”(Giovanni 4.13,14): lì Gesù parlò di sorgente, qui di “fiumi”. Si tratta di figure che ampliano quanto già conosciuto, come ad esempio Proverbi 10.11, “Fonte di vita è la bocca del giusto”, o 18.4, “Le parole della bocca dell’uomo sono acqua profonda, la fonte della sapienza è un torrente che straripa”in cui vengono posti a confronto il parlare umano, frutto di una psiche molto complessa che solo Dio può conoscere, e un torrente che non può venire contenuto perché la Sapienza ha rivoli infiniti, è un torrente che scorre e non un fiume limaccioso.

La promessa che Gesù fa nel cortile del tempio, invitando l’assetato ad andare a lui e a bere una volta creduto, adempie quella che Dio fece a Giacobbe, chiamato anche Israele: “Io verserò acqua sul suolo assetato, torrenti sul terreno arido. Verserò il mio spirito sulla tua discendenza, la mia benedizione sui tuoi posteri”(Isaia 44.3).

In questa panoramica sui versi connessi all’acqua, credo vada citata la comparazione fra ciò a cui spinge la religione e il frutto dello Spirito a livello pratico: “Ecco, nel giorno del vostro digiuno curate i vostri affari, angariate i vostri operai. Ecco, voi digiunate fra litigi e alterchi e colpendo con pugni iniqui. Non digiunate più come fate oggi, così da fare udire il vostro chiasso. È forse come questo il digiuno che bramo, il giorno in cui l’uomo si mortifica? Piegare come un giunco il vostro capo, usare sacco e cenere per letto, forse questo vorresti chiamare digiuno e giorno gradito al Signore? Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo? Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza trascurare i tuoi parenti? Allora la tuo luce sorgerà come l’aurora, la tua ferita si rimarginerà presto. Davanti a te camminerà la tua giustizia, la gloria del Signore ti seguirà. Allora invocherai e il Signore ti risponderà: «Eccomi!». Se toglierai di mezzo a te l’oppressione, il puntare il dito e il parlare empio, se aprirai il tuo cuore all’affamato, se sazierai l’afflitto di cuore, allora brillerà fra le tenebre la tua luce, la rua tenebra sarà come il meriggio. Ti guiderà sempre il Signore, ti sazierà in terreni aridi, rinvigorirà le tue ossa; sarai come un giardino irrigato e come una sorgente le cui acque non inaridiscono”(Isaia 58.3-11).

Ecco gli elementi delle Scritture Antiche a disposizione dei presenti quando Nostro Signore gridò per farsi sentire: racchiudevano un universo di significati, di implicazioni pratiche che chi seguiva la religione e la Legge di Mosè non metteva in atto, per quanto uno studio spirituale li avrebbe facilmente svelati. Chi si distaccava dalla massa che osservava principi di apparenza, però, provava una sete profonda nonostante, quella stessa che fece dire a Simeone, un uomo giusto in Gerusalemme, “Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza”(Luca 2.29,30).

Concludendo, abbiamo quindi due letture di questo passo, una per il tempo in cui furono pronunciate e una per quello in cui viviamo: la prima è riferita alle conseguenze dell’andare a Gesù prima della Sua resurrezione e conseguente discesa dello Spirito Santo, in cui la guarigione e il perdono dei peccati costituiva l’effetto tangibile della grazia ricevuta; la seconda invece è quella che ha dato la possibilità agli uomini di parlare secondo lo Spirito e, come già accennato, contribuire alla crescita spirituale di coloro che necessitano di crescere e soprattutto sono consapevoli della necessità di provvedere ad un percorso che rifiuti la via “larga e spaziosa”che porta alla perdizione.

Il passo in esame, infine, si conclude con una nota di Giovanni: “Questo egli disse dello Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui: infatti non vi era ancora lo Spirito, perché Gesù non era ancora stato glorificato”, cosa che avvenne una volta adempiuto il proprio compito terreno con la morte, resurrezione e ascensione al cielo. Qui si parla dello Spirito Santo che si manifesta in una forma nuova, diversa da quella dell’Antico Patto in cui operava comunque; possiamo pensare a Giovanni Battista, ripieno di esso “fin dal ventre di sua madre”(Luca 1.15). Lo Spirito Santo è ora la Forza tesa a guidare, sostenere, consolare chiunque lo voglia davvero, cioè senza lasciarsi inquinare da quegli elementi carnali (e ciascun credente ha i propri) che gli impediscono di agire.

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12.07 – A GERUSALEMME, AL TEMPIO IV/IV ( Giovanni 7.32-36)

12.07 – A Gerusalemme: Al Tempio IV (Giovanni 7.32-36)

           

 

32I farisei udirono che la gente andava dicendo sottovoce queste cose di lui. Perciò i capi dei sacerdoti e i farisei mandarono delle guardie per arrestarlo. 33Gesù disse: «Ancora per poco tempo sono con voi; poi vado da colui che mi ha mandato. 34Voi mi cercherete e non mi troverete; e dove sono io, voi non potete venire». 35Dissero dunque tra loro i Giudei: «Dove sta per andare costui, che noi non potremo trovarlo? Andrà forse da quelli che sono dispersi fra i Greci e insegnerà ai Greci? 36Che discorso è quello che ha fatto: «Voi mi cercherete e non mi troverete», e: «Dove sono io, voi non potete venire»?».

 

            Con questi versi si conclude il racconto di ciò che avvenne nel tempio di Gerusalemme, quando Gesù si mise a insegnare. Giovanni, omettendo gli accadimenti dei circa due giorni successivi, riprenderà il racconto una volta giunto “…l’ultimo giorno, il grande giorno della festa” (v.37 e segg.). Il quadro che l’evangelista ci offre è molto indicativo sull’ostilità che si era venuta a creare non solo nei confronti di Nostro Signore, ma di chiunque fosse anche solo un Suo generico simpatizzante: infatti “i farisei udirono che la gente andava dicendo sottovoce queste cose di lui”, cioè quella constatazione che la gente faceva: “Il Cristo, quando verrà, potrà fare segni più grandi di quelli che ha fatto costui?” (v.31).

In pratica non era certo la prima volta che veniva minata l’autorità religiosa dei farisei (e con loro tutti gli altri), ma questa volta essi entrarono in fibrillazione perché parte del popolo iniziava a pensare che proprio Gesù fosse il Messia promesso. Ecco perché la loro reazione immediata fu quella di mandare “delle guardie per arrestarlo”. Quest’ordine fu dato dai farisei e dai “capi dei sacerdoti”, cioè quelli delle ventiquattro classi, o mute, nelle quali Davide aveva diviso i discendenti di Aaronne (1 Cronache 24.7-19) e che dopo di lui Giosia, Esdra e Nehemia avevano ricostituito. Ora cosa successe? Non è che come i Giudei si accorsero del mormorio del popolo inviarono le loro guardie, ma, anche se Giovanni non lo scrive, dovettero convocare con urgenza il Sinedrio che prese il provvedimento di procedere all’arresto di Gesù che si concreterà “l’ultimo giorno della festa”. Ecco perché quanto abbiamo letto ai versi 31 e 32 non trova immediata conclusione, che troveremo poi dal 44 a seguire, temporalmente circa due giorni dopo. Ecco cosa accadrà: “Alcuni di loro volevano arrestarlo, ma nessuno gli mise le mani addosso. Le guardie tornarono quindi dai sommi sacerdoti e dai farisei e questi dissero loro: «Perché non lo avete condotto?». Risposero le guardie: «Mai un uomo ha parlato come parla quest’uomo!»”.

Ora, rimandando le considerazioni su questi versi a un capitolo successivo, possiamo esaminare le parole di Gesù ai Suoi uditori a prescindere dalla posizione che avevano assunto: ciò che viene annunciato non è solo la Sua morte, ma soprattutto ricorda l’appuntamento che ogni essere umano da lì in poi avrebbe avuto con la fine in genere, morte compresa. E si tratta di un tema fondamentale, quello di quanti ritengono che tutto debba scorrere secondo le proprie aspettative: ogni mattina ci si alza, si affronta il giorno coi suoi problemi e le sue “gioie”, ci si accorda magari per il successivo dando per scontato che arrivi e venga vissuto senza pensare all’imprevisto più o meno grave che può sempre verificarsi o che tutto possa finire. Qui però Gesù parla di molto altro.

“Ancora per poco tempo sono con voi” possiamo dire che sia il primo annuncio di un tempo a finire dato a persone diverse dai suoi discepoli e, come per tutte le altre volte anche dai dodici, non fu capito. Si tratta di parole rivolte a tutti, quelli che stavano per credere in Lui o lo avevano già fatto e coloro che ne stavano architettando la morte. Qui Gesù esprime un concetto temporale raccordato agli uomini perché ne approfittasero perché quel “con voi” è ben diverso dall’analogo detto ai Suoi, “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Matteo 28.20): a loro promise e la Sua presenza incessante, mentre nel nostro caso il riferimento è alla Sua missione perché “poi vado da colui che mi ha mandato”. Sarebbero allora finiti quei giorni in cui l’Emmanuele, il “Dio con noi” sarebbe stato disponibile e pronto così come si era manifestato. Ricordiamo infatti come viene presentato Gesù dai Vangeli e come potevano vederlo i suoi contemporanei: come Re da Matteo, come Servo da Marco, Figlio dell’uomo da Luca, e Figlio di Dio da Giovanni.

Ebbene, incontreremo altre frasi che rappresenteranno il concetto espresso al Tempio, ad esempio in 12.35,36, sempre diretto alla folla: “Ancora per poco tempo la luce è con voi. Camminate mentre avete la luce, perché non vi sorprendano le tenebre; chi cammina nelle tenebre non sa dove va. Mentre avete la luce, credete nella luce, per diventare figli della luce”.

Leggendo il nostro testo sappiamo che i presenti non capirono le parole di Gesù, o meglio non si soffermarono sul “poco tempo”, ma si chiesero dove andasse, cosa volesse significare quel “dove sono io non potete venire”; lo fecero in modo del tutto cieco, usando il letteralismo cui erano abituati, ma in realtà tutti avrebbero potuto capire sia il concetto dell’urgenza di cercare e trovare il Signore, sia dove si sarebbe recato, nella regione dove si trova il Perfetto Spirito, come da Isaia 55. 6-9: “Cercate il Signore, mentre si fa trovare, invocatelo mentre è vicino. L’empio abbandoni la sua via e l’uomo iniquo i suoi pensieri; ritorni al Signore che avrà misericordia di lui e al nostro Dio che largamente perdona. Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie, oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri”.

Ora Gesù sarebbe andato là dove le vie di Dio sovrastano le loro e con le parole “vado da colui che mi ha mandato” dichiara la fine prossima della Sua missione, dove nulla di meno della perfezione era stato fatto per la salvezza dell’uomo, “Tutto è compiuto”. Quando guardo a ciò che ho fatto nella mia vita, nei molti compiti che mi sono stati affidati o nelle attività che ho svolto, trovo sempre dei punti che avrei potuto migliorare, sviluppare, elementi che ho tralasciato, mancanze, difetti nonostante il mio lavoro sia sempre stato apprezzato, per non parlare degli errori compiuti nella mia vita personale: ebbene, Gesù è l’unico che non sbagliò mai nonostante il suo crescere “in terra arida”, non fece nulla di meno e fu perfetto a tal punto da essere misurato così dal Padre non come Figlio, ma come Uomo. E fu definito, come sappiamo, “Ultimo Adamo” perché, con la sua vita terrena, rimediò agli errori del primo a tal punto da essere definito “Spirito che dà la vita”. E riuscì dove tutti gli altri uomini fallirono.

Il fatto che Nostro Signore fosse con loro “ancora per poco” è un’apertura temporanea che si conclude con “e non mi troverete”, spiega che il “mentre si fa trovare” di Isaia finisce senza che vi sia poi una possibilità per tornare indietro. Anche questo è un concetto che verrà ripetuto più avanti, ma in maniera molto più drammatica: “Io vado e voi mi cercherete, ma morirete nel vostro peccato. Dove vado io, voi non potete venire” (8.21). In 7.36 abbiamo “Dove io sono”, in 8.21 “Dove io vado” perché l’uno implica l’altro, perché Gesù, proceduto dal Padre, “Io sono”, a Lui ritorna. E ricordiamo quanto detto a Pietro: “Dove vado io per ora non puoi seguirmi; mi seguirai più tardi” (13.36): lui e tutti coloro che avrebbero creduto avrebbero seguito Gesù, non i suoi avversari, detrattori, negazionisti.

Occorre però sviluppare, per quanto brevemente, quel “mi cercherete, ma non mi troverete”, che trova un suo approfondimento nel “morirete nel vostro peccato” perché “se non credete che io sono, morirete nei vostri peccati” (8.24). In queste parole si potrebbe vedere una contraddizione con la promessa “cercate e troverete” che dà libero accesso all’anima alla sincera ricerca di Dio, ma così non è perché qui Gesù si rivolge a chi lo cerca non per risolvere il problema della propria identità e soprattutto destinazione finale, ma a chi agisce in tal senso per avere un aiuto unicamente materiale come hanno sempre fatto molti che cercano l’aiuto di Dio quando capiscono che per loro è impossibile mutare una situazione. Sono convinto che qui Gesù alluda alla catastrofe che da lì a un tempo prossimo avrebbe colpito la nazione giudaica e che, in quel frangente, avrebbe cercato non tanto Lui, ma un Messia che lo salvasse. “Mi cercherete” non per avere la salvezza dell’anima ed essere veramente uomini, ma perché avrete timore della distruzione e della morte. Quindi, “non mi troverete”. E leggere le cronache dell’assedio, conquista e distruzione da parte delle truppe romane comandate da Tito è angosciante anche perché quell’azione militare non riguardò soltanto la “santa città”, ma tutti i territori ebraici che si erano ribellati a Roma, quindi l’intera Palestina.

Il “Voi mi cercherete, ma non mi troverete” si può dire che sia uno dei molti avvertimenti di Gesù, o anticipazioni, dati sulla rovina della città e su quello che per gli ebrei rappresentava: ricordiamo quando pianse su di lei, le parole dette ai discepoli “Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta” (Luca 21.6), per non parlare del sermone profetico: “Allora quelli che sono in Giudea fuggano ai monti, chi si trova sulla terrazza non scenda a prendere roba di casa e chi si trova nel campo non torni indietro a prendersi il mantello. Guai alle donne incinte e a quelle che allatteranno in quei giorni”. Da notare che i morti, alla fine della distruzione, furono un milione, i deportati centomila e che il Tempio, che nelle intenzioni di Tito avrebbe dovuto essere risparmiato, fu distrutto dalla furia incontrollabile dell’esercito, diventata tale a seguito dell’esasperazione per il lungo assedio, la conquista estremamente difficoltosa di parti della città e le estenuanti imboscate degli zeloti. Se la cortina del tempio si divise in due dopo la morte di Gesù, qui ad essere distrutto quindi fu il Tempio, ritenuto la dimora di Dio e il centro dell’ebraismo.

Tutti questi avvenimenti, nel 32 circa, erano inconcepibili per tutti i presenti che sottovalutarono l’invito ad approfittare  della presenza di Nostro Signore “ancora per poco” per essere salvati, ma si preoccuparono di dove mai sarebbe potuto andare: “Dove potrà mai andare costui, che non potremo trovarlo?” è frase chiaramente detta dai rettori del popolo gli uni con gli altri a sottintendere che mai avrebbe potuto essere risparmiato dal loro potere. La seconda parte del loro chiedersi dove mai potesse andare, è ironica e dispregiativa al tempo stesso: “Andrà forse fra coloro che sono dispersi fra i Greci e insegnerà ai Greci?” è un riferimento a quegli ebrei che si erano stabiliti fuori dalla Palestina, in Africa, Asia minore e Siria o in tutto l’Oriente in genere ai quali, secondo loro, avrebbe potuto andare come ultima spiaggia pur di propagandare la sua dottrina.

In realtà, quella frase fu inconsapevolmente profetica perché ai Giudei dispersi Gesù si rivolgerà attraverso gli Apostoli, Pietro e Giacomo in particolare che dedicherà loro una lettera (Giacomo 1.1 “Alle dodici tribù che sono disperse nel mondo”). Sappiamo che lo stesso sommo sacerdote Caiafa (o Caifa) farà un’affermazione degna di nota nonostante la intendesse in modo diverso, “Voi non capite nulla e non considerate che conviene per noi che un solo uomo muoia per il popolo e non perisca tutta la nazione” (11.49,50) dove al verso successivo Giovanni annota che “non disse questo da se stesso, ma, essendo sommo sacerdote in quell’anno, profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione”.

Concludendo, vediamo l’interrogativo di prima ripetuto (v.36), segno che nonostante la derisione nei confronti di Gesù, i suoi dertrattori cercavano comunque di comprenderne il senso, ma rimase senza risposta.

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12.06 – A GERUSALEMME, AL TEMPIO III/IV (Giovanni 7.25-31)

12.06 – A Gerusalemme: Al Tempio III (Giovanni 7.25-31)

           

 

25Intanto alcuni abitanti di Gerusalemme dicevano: «Non è costui quello che cercano di uccidere? 26Ecco, egli parla liberamente, eppure non gli dicono nulla. I capi hanno forse riconosciuto davvero che egli è il Cristo? 27Ma costui sappiamo di dov’è; il Cristo invece, quando verrà, nessuno saprà di dove sia». 28Gesù allora, mentre insegnava nel tempio, esclamò: «Certo, voi mi conoscete e sapete di dove sono. Eppure non sono venuto da me stesso, ma chi mi ha mandato è veritiero, e voi non lo conoscete. 29Io lo conosco, perché vengo da lui ed egli mi ha mandato». 30Cercavano allora di arrestarlo, ma nessuno riuscì a mettere le mani su di lui, perché non era ancora giunta la sua ora. 31Molti della folla invece credettero in lui, e dicevano: «Il Cristo, quando verrà, compirà forse segni più grandi di quelli che ha fatto costui?».

 

            Giovanni, nei primi versi di questo passo, ci informa che quando Gesù si mise a insegnare nel Tempio aveva di fronte tre tipi di persone, cioè chi gli era avverso, coloro che venivano dalle campagne e capivano quanto potevano senza avere comunque una visione della realtà politica del luogo, e chi a Gerusalemme risiedeva e per questo aveva conoscenza delle intenzioni dei capi del popolo visti nel Sinedrio, quindi soprattutto degli scribi e farisei. Ora proprio il fatto di vedere Gesù lì a insegnare fece supporre a chi sapeva i loro piani che addirittura si fossero ricreduti e lo avessero accettato, o “sospettato” come Messia, aggiungendo però tutto lo scetticismo del caso: “Ma costui sappiamo di dov’è – cioè di Nazareth o Bethlehem –; il Cristo, invece, quando verrà, nessuno saprà di dove sia” (v.27). È questa affermazione sulla quale possiamo soffermarci perché pare contraddire quanto detto ad Erode sul Messia proprio dai sommi sacerdoti e gli scribi del popolo quando “…s’informava da loro sul luogo in cui doveva nascere” e “gli risposero: «A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta” (Matteo 2.3,4 che cita Michea 5.1).

Ricordiamo anche il dissenso che da lì a circa due giorni scoppierà tra i presenti, quando alcuni diranno “Il Cristo viene forse dalla Galilea? Non dice forse la Scrittura che il Cristo verrà dalla stirpe di Davide e da Betlemme, il villaggio di Davide?” (vv.41,42): quanto detto da alcuni nel nostro passo si riferisce alla credenza comune in base alla quale il Cristo, il Messia, sarebbe apparso prima di tutto in Betlehem, ma poi sarebbe stato rapito e nascosto fino a quando non avesse ricevuto l’unzione da Elia e quindi si avrebbe avuto la Sua manifestazione improvvisa senza che si potesse dire né quando, né come. Alcuni commentatori non escludono che fosse a questa credenza che Gesù si sia riferito quando disse ai Suoi “Allora, se qualcuno vi dirà: «Ecco, il Cristo è qui», oppure: «È là», non credeteci” (Matteo 24.23) e non penso abbiano torto. Infatti: “…non credeteci, perché sorgeranno falsi cristi e falsi profeti e faranno segni e portenti per ingannare, se fosse possibile, anche gli eletti. Voi però state attenti! Io vi ho predetto tutto” (Marco 13.22,23).

L’ignoranza, procedente sempre dall’Avversario, qui vuole indagare sulle “origini” del Cristo senza far caso a quanto da lui fatto e detto fino ad allora, accontentandosi cioè di una conoscenza esterna, quella cui Gesù fa riferimento quando, alzando la voce per farsi sentire ancor di più, dice “Certo, voi mi conoscete e sapete di dove sono”, stesso “conoscere” e “sapere” dei suoi concittadini di Nazareth che non arrivarono a nessun risultato spirituale giudicandolo nulla di più che uno di loro. In questo episodio, però, Nostro Signore ha un “eppure”, cioè un avversativo più forte di un semplice “ma”: “non sono venuto da me stesso, ma chi mi ha mandato è veritiero, e voi non lo conoscete” (v.28), frase che ci dà tre realtà, la prima che Gesù non è venuto sulla terra di propria iniziativa, ma è stato “mandato” da chi è “veritiero”, termini fondamentali per il discorso che sta facendo ai presenti e quindi anche a noi. Il “mandato” nella scrittura ha molti significati, ma qui penso vi sia un riferimento preciso alla parabola dei malvagi vignaioli che riassume da un lato le molte attenzioni di Dio verso il suo popolo e dall’altro quanto esso Lo considerasse: “Un uomo piantò una vigna, vi pose attorno una siepe, scavò un torchio, costruì una torre, poi la diede in affitto a dei vignaioli e se ne andò lontano. A suo tempo inviò un servo a ritirare da quei vignaioli i frutti della vigna. Ma essi, afferratolo, lo bastonarono e lo rimandarono a mani vuote. Inviò loro di nuovo un altro servo: anche quello lo picchiarono sulla testa e lo coprirono di insulti. Ne inviò ancora un altro, e questo lo uccisero; e di molti altri, che egli ancora mandò, alcuni li bastonarono, altri li uccisero. Aveva ancora uno, il figlio prediletto: lo inviò loro per ultimo, dicendo: Avranno rispetto per mio figlio!” (Marco 12.1-6). Sappiamo che però quei vignaioli, “afferratolo, lo uccisero e lo gettarono fuor della vigna”. L’essere mandato, poi, comporta l’essere un tutt’uno col Padre non solo perché costituiscono un “unico”, ma perché la perfezione dell’opera del Figlio sarà tale quando Lui stesso dirà “Tutto è compiuto”.

Il secondo punto su cui soffermarsi, per quanto brevemente, è il “veritiero” che nell’originale greco si riferisce a qualcosa di genuino, reale, originale in opposizione a ciò che è simile o rappresentativo. Lo stesso termine lo abbiamo in 15.1 “Io sono la vera vite”, quindi a escludere che ve ne siano altre alle quali l’uomo, come tralcio, possa essere unito per avere un nutrimento reale. Al di fuori di Cristo, quindi, tutto è un surrogato, qualcosa che dà l’idea di sfamare e alimentare il corpo, ma è in realtà nocivo esattamente come il “cibo spazzatura” che tanti danni fa al corpo terreno.

La terza realtà descritta da Gesù è umiliante per i Suoi uditori: è stato mandato dal Dio vero, unico, quello che nessuno fra i presenti conosceva nonostante professasse di credere in Lui: abbiamo letto “chi mi ha mandato è veritiero, e voi non lo conoscete” nonostante i vostri riti, la vostra scienza, il vostro indagare le Scritture da sempre perché ora “…nessuno conosce il Figlio se non il Padre e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo” (Matteo 11.27): capiamo? L’unico modo che i presenti, allora come oggi, avevano e hanno per ”conoscere” è ascoltare il Figlio, quello “diletto nel quale ho preso il mio compiacimento”. E sappiamo che dopo queste parole Dio aggiunge “Ascoltatelo” (Marco 9.7; Luca 9.35).

Gesù però nel nostro passo dice altro, cioè “Io lo conosco, perché vengo da lui e mi ha mandato”, nel senso che di più non poteva fornire come credenziali, visto che per Lui parlavano i miracoli fino ad allora operati e la dottrina fin lì esposta. E anche in questa frase abbiamo tre elementi che possono fronteggiarsi ai precedenti nel senso che da una parte abbiamo gli uomini e dall’altra il Figlio di Dio: in altri termini per gli uomini non è venuto da se stesso, ma è stato mandato da chi è veritiero (notare l’ “è” nel senso dell’ “Io sono”), ma quando parla di Lui dice “Lo conosco – a differenza di voi – perché vengo da lui – non nel senso di luogo, ma di sostanza – ed egli mi ha mandato – nel vostro interesse –”. E qui ogni ignoranza ha la possibilità di infrangersi perché si tratta solo di mettersi in ascolto non di noi stessi, ma del Figlio che ancora oggi si dona. Allora come oggi l’uomo non potrà andare da nessuna parte senza guardare all’Unico che può rivelare il Padre perché la stessa creatura proviene da Lui nel senso che siamo stati formati, tratti dalla polvere della terra e costituiti “anima vivente” dal Suo soffio. In realtà è proprio ascoltando il Figlio, da Lui mandato, che ci riappropriamo della nostra identità e, se lo rifiutiamo, non rinneghiamo tanto Lui quanto il nostro stesso esistere. È come per chi rinnega il proprio padre o madre naturali, o entrambi. E qui possiamo comprendere quanto imponente sia l’inganno di Satana che fin dal principio fa credere all’essere umano che solo negando Dio possa essere veramente libero perché così facendo sarebbe simile a Lui.

Ricordo che da giovane vedevo spesso scritte delle bestemmie sui muri e ne rimanevo chiaramente scandalizzato, ma recentemente mi è capitato di vedere scritto “Dio” con la “D” coperta da una “X”, dimostrazione eloquente tanto del rifiuto quanto della sostituzione umana a Lui. Molto più agghiacciante del semplice insulto dei tempi andati: e chi legge la scrittura sa che sarà perdonata qualunque bestemmia, ma non quella allo Spirito Santo che si concreta proprio con quella “X”.

Riprendendo, arriviamo al verso 30, “Cercarono allora di arrestarlo, ma nessuno riuscì a mettere le mani su di lui, perché non era ancora giunta la sua ora”. Si tratta di un verso importante perché esprime tutta la limitatezza dell’uomo, da solo o con altri, che crede sempre di essere e di potere, ma che qui si scontra non tanto con Dio, ma con il suo piano, e non riesce a fare nulla. Qui Giovanni non dice cosa avvenne, come fece in altre circostanze ad esempio in 8.59 quando “si nascose e uscì dal tempio”, “sfuggì dalle loro mani” (10.39) oppure, a Nazareth quando volevano gettarlo dal precipizio, ma “passando in mezzo a loro, se ne andò” (Luca 4.30). Semplicemente scrive “Non era ancora giunta la sua ora”, che si riferisce ad un momento preciso fissato perché fosse dato nelle mani degli uomini e non prima. Ricordiamo anche la risposta ai suoi fratelli che gli dicevano “Mòstrati al mondo”: “Il mio tempo non è ancora venuto. Il vostro, invece, è sempre pronto” (7.6), frase con la quale divise nettamente il tempo umano dal proprio.

Il “cercavano di arrestarlo, ma…” ancora una volta pone un confine tra la volontà dell’uomo e la realtà di ciò che deve affrontare: senza freni, disposto a tutto pur di concretare un progetto, non tollera alcuna sconfitta nel senso che, quando si trova impotente, non medita sulle ragioni del proprio fallimento. Nulla cambia rispetto ai tempi di Caino, quando Dio gli disse “Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto? Se agisci bene, non dovresti forse tenerlo alto? Ma se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, e tu lo dominerai” (Genesi 4.6).

Nulla è cambiato da 6mila anni a questa parte e nulla cambierà, poiché la visione di Giovanni sull’umanità degli ultimi tempi, è senza possibilità di appello: “E gli uomini (…) bestemmiarono il nome di Dio che ha in suo potere tali flagelli, invece di pentirsi per rendergli gloria” (Apocalisse 16.9). Da notare anche i versi 10 e 11 “Gli uomini si mordevano la lingua per il dolore e bestemmiarono il Dio del cielo a causa dei loro dolori e delle loro piaghe, invece di pentirsi delle loro azioni”. Quando arriva la sconfitta, sempre e comunque causata da una mancata volontà di ascolto, la bestemmia, intesa come ribellione cieca, sembra essere da sempre l’unica soluzione praticata dalle menti cieche.

C’è a questo punto una nota positiva espressa al verso 31: nonostante questo clima ostile, “molti della folla credettero in lui” e questo avvenne proprio lasciando da parte le questioni che potremmo definire razionaliste sul fatto che “il Cristo, quando verrà, nessuno saprà di dove sia” (v.27): la frase addotta da quelli che tra la folla credettero, è semplice e incontestabile: “Il Cristo, quando verrà, compirà forse segni più grandi di quelli che ha fatto costui?”. Da notare che l’inizio delle due frasi è identico, “Il Cristo, quando verrà”, cioè si parte da un medesimo principio per giungere a conclusioni diametralmente opposte perché opposti sono i destini, le appartenenze, il mondo della vita e quello della morte. In pratica, chi non crede mormora, cerca spunti carnali e terreni per rifiutare il messaggio, chi crede semplicemente si arrende perché, onestamente, non riesce ad immaginare cosa potesse fare un Messia di più rispetto al Figlio di Dio presente in mezzo a loro.

La stessa cosa può fare l’uomo oggi, perché non è possibile trovare una logica spirituale diversa da quella annunciata da Gesù, l’unico a conoscere il Padre ed essere proceduto da Lui. Amen.

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12.05 – A GERUSALEMME, AL TEMPIO II/IV (Giovanni 7.20-24)

12.05 – A Gerusalemme: Al Tempio II (Giovanni 7.20-24)

           

 

20Rispose la folla: «Sei indemoniato! Chi cerca di ucciderti?». 21Disse loro Gesù: «Un’opera sola ho compiuto, e tutti ne siete meravigliati. 22Per questo Mosè vi ha dato la circoncisione – non che essa venga da Mosè, ma dai patriarchi – e voi circoncidete un uomo anche di sabato. 23Ora, se un uomo riceve la circoncisione di sabato perché non sia trasgredita la legge di Mosè, voi vi sdegnate contro di me perché di sabato ho guarito interamente un uomo? 24Non giudicate secondo le apparenze; giudicate con giusto giudizio!».

 

            Prima di esaminare i versi sopra riportati, occorre tenere presente ciò che avviene prima: Gesù era salito al Tempio e si era messo ad insegnare suscitando la meraviglia dei suoi avversari che non riuscivano a capire “Come mai costui conosce le Scritture, senza avere studiato?” e quindi della folla che lo ascoltava. Abbiamo quindi un doppio riconoscimento da parte di chi chi le Scritture le conosceva per tradizione e dall’altra di quanti erano abituati ad apprenderla proprio da loro. Le due categorie di persone presenti, quindi, era impossibile che non fossero stati toccati nella loro coscienza, più o meno cauterizzata, e che non ammettessero che udivano era qualcosa di nuovo, di esteso, che nessuno prima di allora aveva dimostrato di possedere, neppure i profeti che, quando annunciavano la Parola loro rivolta, era per rivelazione e non per un sapere che possedevano.

Dopo tutte quelle parole, quindi, alla domanda “Perché cercate di uccidermi?”, arriva il giudizio “Sei indemoniato!” descrittivo del fatto che i presenti Lo ritennero affetto da manie di persecuzione, un paranoico, e il riferimento al demonio che secondo loro lo animava riflette l’opinione del tempo in base alla quale chiunque si comportasse in modo diverso dagli altri ne fosse affetto. Possiamo ricordare in proposito Matteo 11. 18,19 “È venuto Giovanni, che non mangia e non beve, e dicono «È indemoniato». È venuto il Figlio dell’uomo, che mangia e beve, e dicono «Ecco, è un mangione e un beone, amico di pubblicani e di peccatori». Ma la sapienza è stata riconosciuta giusta per le opere che essa compie”, oppure ciò che dissero di lui Maria coi suoi figli in Marco 3.21 “Allora i suoi, sentito questo, uscirono per andare a prenderlo; dicevano infatti «È fuori di sé»” (vedasi il verso 31, “Giunsero sua madre e i suoi fratelli e, stando fuori, mandarono a chiamarlo”).

Ecco allora che, di fronte al messaggio che avrebbe dovuto implicare una severa riflessione sulla propria persona, modo di pensare e di vivere per prendere gli opportuni provvedimenti, si sceglie la via più breve per liquidare il problema del ravvedimento e continuare nei propri errori come se nulla fosse: le parole “Sei indemoniato!”, o come altri traducono “Tu hai un demonio! Chi cerca di ucciderti?”, costituiscono il segno che i presenti non ritenevano possibile che i capi del popolo, su cui gravava la responsabilità della conduzione spirituale di Israele, potessero arrivare ad uccidere Gesù.

A questo punto vediamo che Nostro Signore non risponde chiaramente alla loro domanda, ma ancora una volta desidera porre le premesse affinché i presenti non giudichino “secondo le apparenze”, ma “con giusto giudizio” e prima di tutto ricorda il miracolo avvenuto in Betesda con l’infermo pochi mesi prima. Ricordiamo che la persona guarita si trovava in quelle condizioni da trentotto anni, numero che ci parla del cammino penalizzante dell’uomo che si è allontanato da Dio e che si raccorda a Deuteronomio 2.14 in cui leggiamo “La durata del nostro cammino, da Kades-Barnea al passaggio del torrente Zered, fu di trentotto anni, finché tutta quella generazione di uomini atti alla guerra scomparve dall’accampamento, come il Signore aveva loro giurato”. I trentotto anni, allora ci parlano di incredulità perché quello fu il peccato degli esclusi dalla terra promessa, e del fatto che viene un tempo in cui l’uomo proverà su di sé le conseguenze della sua trasgressione: “Saprete cosa comporta ribellarsi a me” (Numeri 14.34), perché se non esiste errore che non si paghi, in un modo o in un altro, lo stesso avviene per il peccato.

Possiamo sottolineare il verbo “ribellarsi” che appartiene all’Avversario, che così fece in Eden, ma anche a tutti quegli uomini che decidono di non seguire il volere di Dio, di non cercarlo allora come oggi e che quindi, al momento opportuno, sapranno “cosa comporta”.

La liberazione dell’infermo di Betesda, allora, poteva venire solo da Dio e non da un guaritore qualunque; si trattava di un miracolo specifico che rivestiva una grande quantità di significati visti in minima parte nel capitolo a lui dedicato e il riferimento di Gesù in questo episodio non è casuale: “Un’opera sola ho compiuto e tutti ne siete meravigliati” è il riferimento a ciò che avvenne e di cui ancora persisteva il ricordo; ricordiamo che Gesù passo di là non per caso, ma nemmeno in un tempo ordinario perché a Gerusalemme c’era un’altra festa, forse la Pentecoste, e di quel miracolo non furono informati solo gli abitanti della città, ma anche la gente di tutti quei territori vicini e lontani dai quali provenivano i pellegrini.

Ricordiamo che la guarigione dell’infermo avvenne di sabato, giorno per il quale al tempo di Gesù esistevano ben 1.521 azioni che non era permesso fare: se Esodo 20.10 stabiliva che di sabato non andasse fatto alcun lavoro, i farisei avevano fatto un primo elenco che contemplava il divieto di seminare, arare, mietere, legare i covoni, trebbiare, vagliare, scegliere, macinare, ventilare, impastare, cuocere, tosare la lana, imbancarla, cardarla, tingerla, tessere, ordire, fare due fili, intrecciare due fili, separare due fili di una corda, annodare, sciogliere, cucire due punti, strappare il filo per cucire due punti, cacciare, uccidere, scuoiare, salare, conciare, raschiare, tagliare, scrivere due lettere dell’alfabeto, cancellare, costruire, demolire, accendere un fuoco, spegnere un fuoco, battere con il martello, portare una cosa da un posto a un altro. Per ognuna di queste voci, per un totale di trentanove, ne erano altrettante costruite su ciascuna di esse, fra le quali il divieto di consolare le persone in lutto e visitare gli ammalati per cui, moltiplicando 39×39, abbiamo 1.521 proibizioni. Ecco un esempio della puntigliosità farisaica.

Ecco perché il miracolo di Betesda, fatto di sabato, aveva provocato nei rettori del popolo indignazione ed orrore a tal punto da ritenere Gesù degno di morte. Come ha detto un fratello, il bene della dottrina (escogitata dall’uomo) era più importante del bene dell’uomo, creatura di Dio. E poco importava che questa creatura fosse stata liberata dal peccato e dai suoi effetti, visti appunto nei trentotto anni d’infermità caratterizzati non solo dall’impossibilità della persona di muoversi, ma dall’umiliazione provata per la mancanza di aiuto che il suo prossimo non gli dava, dall’oltraggio del venire ignorato, emarginato.

A questo punto Nostro Signore chiama in causa la circoncisione, orgoglio degli ebrei, segno di appartenenza dei maschi al popolo eletto: “Mosè vi ha dato la circoncisione – non che essa venga da Mosè, ma dai Patriarchi” è la prima parte del verso 22. Abbiamo così un richiamo a Levitico 12.3 quando la circoncisione viene istituita ufficialmente, ma il richiamo ai “Patriarchi” è un primo invito-lezione a riflettere sul significato originario di ciò che aveva finito, ai tempi di Gesù, per diventare un mero rito e un segno di distinzione fine a se stesso. Il riferimento è infatti ad Abramo cui Dio, dopo avergli promesso il territorio di Canaan, disse “Da parte tua devi osservare la mia alleanza tu e la tua discendenza dopo di te, di generazione in generazione. Questa è la mia alleanza che dovete osservare, alleanza tra me e voi e la tua discendenza dopo di te: sia circonciso fra voi ogni maschio. Vi lascerete circoncidere la carne del vostro prepuzio e ciò sarà il segno dell’alleanza fra me e voi. Quando avrà otto giorni, sarà circonciso fra voi ogni maschio di generazione in generazione, sia quello nato in casa sia quello comprato con denaro da qualunque straniero che non sia della tua stirpe. Deve essere circonciso chi è nato in casa e chi viene comprato con denaro: così la mia alleanza sussisterà nella vostra carne come alleanza perenne. Il maschio non circonciso, di cui cioè non sarà circoncisa la carne del prepuzio, sia eliminato dal suo popolo: ha violato la mia alleanza” (Genesi 17.9-14).

La circoncisione era quindi il segno esteriore dell’appartenenza, dell’adesione al Patto di Dio con l’uomo che, allora, non poteva averne altri e proveniva, come spiegò l’apostolo Paolo, in seguito alla giustizia che Abramo aveva conseguito per fede: “Infatti egli ricevette il segno della circoncisione come sigillo della giustizia derivante dalla fede, già ottenuta quando non era ancora circonciso” (Romani 4.11). E dobbiamo tener presente che i credenti giudei che componevano la Chiesa di Roma erano molti e che tanti sono, in questa lettera, i riferimenti al giudaismo.

Quindi, quando Gesù afferma “Non che essa venga da Mosè, ma dai Patriarchi” intende proprio questo: senza fede non solo è impossibile piacere a Dio (Ebrei 11.6), ma anche avere una visione corretta delle cose, dove per “corretto” intendiamo consono alla vera realtà, quella spirituale, che chi non crede non può avere. Ricordiamo le parole della lettera a Tito 1.15: “Tutto è puro per chi è puro, ma per quelli che sono corrotti e senza fede nulla è puro: sono corrotte la loro mente e la loro coscienza”. Così era per gli avversari di Gesù, che non avevano posto il circoncidere “un uomo”, cioè un maschio, in giorno di sabato nei trentanove divieti originari per non infrangere un altro comandamento di Mosè, quello visto in Levitico 12.3, “L’ottavo giorno si circonciderà la carne del prepuzio del bambino”. “Ottavo giorno” perché è lì che il sangue ha il maggior potere coagulante.

Per i farisei e i rettori del popolo, che avevano finito per corrompere le coscienze altrui quali “pastori che disperdono il gregge”, si poteva intervenire chirurgicamente, ma non guarire, consolare, esercitare la carità nel suo senso più nobile del termine. Gesù aveva guarito di sabato e questo era stato visto come un lavoro, quasi che avesse dovuto trasportare dei pesi o fare comunque fatica per arrivare a quel risultato: aveva invece detto “soltanto una parola”.

Altra sottolineatura va fatta proprio sulle ultime parole di Nostro Signore che non dice “ho guarito un uomo”, ma “interamente un uomo”, con riferimento al suo ristabilimento più immediato visto nel fatto che camminava, ma soprattutto a quello spirituale: l’infermo di Betesda aveva ricevuto il perdono di Dio che si manifestava in modo tale da essere definito “interamente guarito”. Questo particolare agli uditori di Gesù era sfuggito, perché mai avrebbe potuto essere compreso, allora come oggi nel momento in cui menti superficiali, indipendentemente dalla loro cultura, affrontano i miracoli vedendone il risultato, ma non l’origine primaria. Qualunque cosa venga vista con gli occhi della carne non potrà mai essere valutata correttamente nel senso di essere liberatoria, guidare alla verità.

Infine l’esortazione “Non giudicate secondo le apparenze, ma con giusto giudizio” solo apparentemente è tale essendo un richiamo scritturale a Deuteronomio 1.17 che in quella circostanza veniva assolutamente disattesa: “Nei vostri giudizi non avrete riguardi personali, darete ascolto al piccolo come al grande. Non temerete alcun uomo, poiché il giudizio appartiene a Dio”. Ecco allora che l’insegnamento qui è al non giudicare le cose con precipitazione, o ignoranza, o secondo le apparenze esterne, ma dopo un attento vaglio materiale – perché siamo sulla terra – e spirituale, perché questo non va mai disgiunto da noi. Perché “l’uomo spirituale giudica ogni cosa senza poter essere giudicato da nessuno” (2 Corinti 2.15). Amen.

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12.04 – A GERUSALEMME. AL TEMPIO (I/IV) (Giovanni 7.11-19)

12.04 – A Gerusalemme: Al Tempio I (Giovanni 7.11-19)

          

14Quando ormai si era a metà della festa, Gesù salì al tempio e si mise a insegnare. 15I Giudei ne erano meravigliati e dicevano: «Come mai costui conosce le Scritture, senza avere studiato?». 16Gesù rispose loro: «La mia dottrina non è mia, ma di colui che mi ha mandato. 17Chi vuol fare la sua volontà, riconoscerà se questa dottrina viene da Dio, o se io parlo da me stesso. 18Chi parla da se stesso, cerca la propria gloria; ma chi cerca la gloria di colui che lo ha mandato è veritiero, e in lui non c’è ingiustizia. 19Non è stato forse Mosè a darvi la Legge? Eppure nessuno di voi osserva la Legge! Perché cercate di uccidermi?». 

 

            Siamo “a metà della festa”, quindi dopo tre giorni e mezzo  dopo l’episodio precedente in cui i Giudei cercavano Gesù per tendergli trappole dottrinali ed avere così degli elementi per accusarlo di eresia o bestemmia davanti al Sinedrio. Ebbene Nostro Signore “salì al tempio e si mise ad insegnare”. Un’occasione per metterlo alla prova si verificherà di lì a poco quando, sempre nel Tempio, gli porteranno una donna adultera chiedendogli un parere sulla sua lapidazione o meno (Giovanni 8).

Restando sul nostro episodio, l’Evangelista non ci ha riportato i contenuti esposti, anche se non lo nomina, nel Cortile dei Gentili che era uno spazio libero: lì trovavano posto, in occasione delle grandi feste che richiedevano sacrifici, i mercanti di animali e i cambiavalute, ma nel tempo ordinario si andava lì tanto per trattare affari quanto per incontrare sacerdoti o scribi e i rabbini tenevano le loro lezioni. Sappiamo che quello era uno spazio concesso ai pagani, che però non potevano superare una balaustra in pietra sulla quale un’iscrizione li avvisava che non avrebbero potuto andare oltre, pena la morte. Ecco perché Gesù scelse quel luogo, ritenendolo il più idoneo per comunicare il Suo insegnamento che certamente riguardò particolari propri rabbinici, con parole nuove comunque basate sulla Legge o i Profeti. Sappiamo, a proposito dei Suoi approfondimenti scritturali, che “Egli insegnava loro come uno che ha autorità, e non come i loro scribi” (Matteo 7.29) per cui fu proprio quella particolare modalità a stupire i presenti.

Giovanni scrive che “I Giudei ne erano meravigliati e dicevano “Come mai costui conosce le Scritture, senza avere studiato?” perché solo dopo molti anni di studio si permetteva a uno studente giudeo di insegnare e solo dopo quel lungo periodo veniva ammesso alla confraternita dei Dottori della Legge. Vero è che Gesù, come tutti gli altri ebrei, aveva ricevuto l’istruzione ordinariamente impartita nelle scuole annesse alle varie sinagoghe, ma non aveva mai frequentato le grandi istituzioni rabbiniche né aveva avuto un maestro umano.

Dall’esame del verso 15 rileviamo tre punti, il primo dei quali è “I Giudei ne erano meravigliati”, cioè provarono in loro un senso di stupore dopo aver seguito attentamente i Suoi discorsi: questo particolare è importante perché non lo attaccarono immediatamente quando videro che insegnava, ma ascoltarono, verificarono secondo la loro scienza scritturale le Sue parole e non vi trovarono nulla di biasimevole. Questo significa che quelli dovettero ammettere da un lato che Gesù conosceva le Scritture e che dall’altro dava luogo ad approfondimenti, connessioni e applicazioni alla vita reale andando molto più oltre quanto loro non facessero. Già nel sermone sul monte abbiamo avuto una prova di tutto questo, in particolare quando leggiamo “avete inteso che fu detto (…) ma io vi dico”, cui seguivano riferimenti alla condizione del cuore della persona e al fatto che nessuna religione, nessuna applicazione pedissequa della norma può indirizzare correttamente a Dio, ma la sola fede e amore per Lui.

I Giudei quindi, trovandosi di fronte alla conoscenza di Gesù, furono stupiti, ma in questo sentimento dobbiamo includere anche la reazione di fronte a ciò che non potevano capire e cioè le applicazioni spirituali che coinvolgono l’apparato recettore che solo lo Spirito può attivare. Andando un poco più oltre, dirà “Voi non credete perché non fate parte delle mie pecore” (Giovanni 10.26), quindi abbiamo un’esclusione, una divisione categorica che coinvolge tutta la persona, cioè un’anima e soprattutto uno spirito diversi. È bello considerare che quando Nostro Signore parla di pecore e di gregge coinvolge anche tutti quelli che proprio i Giudei disprezzavano (come oggi), cioè i pagani. Infatti: “E ho altre pecore che non provengono da questo recinto – Israele –: anche quelle devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore” (Giovanni 10.16).

Altro particolare del verso 15, secondo e terzo punto, è che, oltre alla meraviglia, “dicevano” evidentemente l’un l’altro, “Come mai costui – altro spregiativo assieme a “quel tale” incontrato nello scorso capitolo – conosce le scritture, senza avere studiato?”. Lasciamo in sospeso, per ora, la domanda e soffermiamoci sul “dicevano”: si chiesero l’uno con l’altro, ma non andarono a interpellare Gesù. L’uomo carnale si affiderà sempre ad un suo simile nel tentativo di avere una risposta a ciò che per lui è oscuro. Nicodemo, non trovandone, decise di andare da Lui, per quanto di nascosto, ma loro, convinti di essere le sole legittime guide del popolo, ma “cieche”, cercarono nel loro simile una risposta che non sarebbe mai potuta arrivare o, qualora giunta, sarebbe stata errata.

Se ci pensiamo, contrariamente a quanto possa apparire, non appartiene all’uomo dire “Io sono”; al massimo può affermare “Io esisto”, che contempla comunque un’espressione di sé, ma la convinzione di “essere” quanto a dignità e potenza è solo un inganno che, tanto più è presente, quanto più ci tiene ancorati al mondo e alla sua orizzontalità e facendoci agire in contrapposizione a Dio. Ma tutti gli uomini, “grandi e piccoli”, dovranno comparire davanti a Lui e rendere conto di come avranno gestito la loro vita e persona, in bene o in male.

Tornando al “dicevano”, sappiamo che alla domanda su come potesse Gesù conoscere le scritture senza avere studiato non riuscirono a dare una risposta, e non poteva essere altrimenti. È Lui stesso a prevenirli, e disse “La mia dottrina non è mia, ma di colui che mi ha mandato”; con queste parole Gesù ci qualifica come un tramite, ma non solo: si dichiara come la Parola perché nessun altro avrebbe potuto rivelare ciò che Dio è, era e sarà, in modo comprensibile agli uomini. Egli è l’inviato promesso dai Profeti che una parte degli Israeliti non si limitava a sapere che sarebbe venuto un giorno, ma aspettava e in Simeone ed Anna troviamo i loro più illustri rappresentanti (Luca 2. 33-38). La stessa Parola che in tempi enormemente lontani da noi disse “Sia la luce!”, nel Tempio insegnava ed era lì, davanti a tutti, Giudei compresi cioè la stessa categoria di persone che nei tempi antichi aveva tramandato, custodito e preservato la Scrittura e che, in quel momento storico, non aveva la capacità di intenderla. L’importante non era sapere “come mai” Gesù conosceva le Scritture senza avere studiato, ma ammettere che le Sue parole erano di vita e aprivano la mente ad una conoscenza superiore, quella che rende liberi, quella che consente di inquadrare correttamente gli accadimenti della vita, di capire, di dare una prospettiva e uno scopo che non finirà mai a differenza dei progetti terreni che ciascuno di noi può sempre avere e portare eventualmente a compimento.

Subito dopo abbiamo “Chi vuol fare la sua volontà – del Padre – riconoscerà se questa dottrina viene da Dio, o da me stesso”: qui viene chiamata in causa la capacità di scegliere, vista nelle parole “Chi vuol fare la sua volontà”, in cui il volere dell’uomo coincide con quello di Dio; perché ciò accada la creatura deve rinunciare al proprio “Io sono” di cui abbiamo parlato poc’anzi. E poiché l’essere dell’uomo è prima di tutto pensiero, ecco perché fu detto “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Marco 8.34 e rif.). Rinnegare se stessi significa prendere coscienza della nostra bassezza che ci porta inevitabilmente alla domanda “Che cosa è l’uomo, che tu ne abbia memoria? E il figlio dell’uomo, che tu ne prenda cura?” (Salmo 8.4). Il volere, per essere tale, non può rimanere nell’ambito della teoria, ma dare un risultato ed ecco perché, in senso spirituale, non può che portare al riconoscere “se questa dottrina viene da Dio” o da un semplice essere umano.

“Chi parla da se stesso, cerca la propria gloria; ma chi cerca la gloria di colui che lo ha mandato è veritiero e in lui non vi è ingiustizia” (v.18) è un altro verso profondamente indicatore del fatto che una persona possa essere o meno un impostore: parlare da se stessi implica il portare avanti ragionamenti e princìpi col solo fine di attuare un interesse personale e questo lo vediamo oggi nella politica e nel commercio, ma anche nelle varie, false istituzioni religiose, nei fondatori delle sette, nel profondo vuoto morale di un sistema falsamente solidale che lascia Cristo fuori dalla porta. Nel cercare “la propria gloria” c’è allora la volontà di porsi in opposizione a Dio, come avvenuto per Simone il mago in Atti 8. 9-21, che offerse del denaro agli apostoli perché gli fosse dato “…questo potere perché, a chiunque io imponga le mani, egli riceva lo Spirito Santo”.

Per chi “cerca la propria gloria” esiste una definizione particolare, che è quella che Pietro dirà proprio a Simone: “Ti vedo pieno di fiele amaro e preso nei lacci della tua iniquità” (Atti 8.23). E il fiele è un liquido secreto dal fegato indispensabile alla digestione e all’assorbimento dei grassi: consente l’eliminazione della bilirubina, colesterolo e altre sostanze tossiche. Essendo il fegato fondamentale nel metabolismo, quando è sano, spiritualmente, sta a significare una corretta assimilazione dei principi spirituali e della loro applicazione nella vita di tutti i giorni. Quando malato, abbiamo invece la totale intossicazione, addirittura visibile dal colore della pelle. L’essere “pieno di fiele amaro” è allora un riferimento alla totale estraneità alla vera esistenza che aveva Simone, cercando ancora la “propria gloria” nonostante avesse creduto e si fosse fatto battezzare, “stando sempre attaccato a Filippo” (8.13).

Gesù, tornando alle Sue parole e considerandole in senso orizzontale, cioè apparente e terreno quindi adatto ai Giudei, era chiaro che non cercasse la propria gloria perché di tutto il Suo predicare non ebbe alcun tornaconto, anzi, sappiamo che spesso, coi discepoli, “non potevano neppure mangiare” per la gente che lo cercava in tutte le ore né avere “ove posare il capo”.

Al verso 19, Nostro Signore si rivolge ai Suoi oppositori chiamando in causa la Legge data da Mosè, cui tanto facevano riferimento e che si vantavano di osservare, mentre era solo un pretesto per dar luogo alla propria giustizia umana: esteriormente erano inappuntabili, ma dentro di loro erano gli ipocriti e i religiosi di sempre, perché “la circoncisione è quella del cuore, nello spirito, non nella lettera; la sua lode non viene dagli uomini, ma da Dio” (Romani 2.29).

Con la frase “nessuno di voi osserva la Legge”, Gesù intendeva dire proprio questo: “Per mezzo della Legge si ha la conoscenza del peccato” (Romani 3.20), ma questa resta inutile se non viene trasformata dalla Grazia, “perché tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per sua grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù” (3.23,24). Capiamo? Gesù, dal Cortile dei Gentili che faceva parte del Tempio, considerato la dimora di Dio, in cui ogni cosa si svolgeva secondo le prescrizioni date dalla Legge, afferma che in realtà questa non era osservata da nessuno perché l’abitudine, il rito, aveva preso il posto della partecipazione, del coinvolgimento profondo. Il cuore era messo da parte, stava lì, si limitava a un battere indifferente. Ecco perché nessuno la osservava. Anche oggi molti cristiani frequentano le assemblee senza alcuna partecipazione interiore, restando gli stessi, magari attratti dalla funzione che tanto più è emotivamente appagante quanto più soddisfa la loro carne, ma possono solo identificarsi in quei Giudei che Gesù rimprovera. “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il loro cuore è lontano da me”.

La nostra porzione di Scrittura si conclude con una domanda, “Perché cercate di uccidermi?”, destinata a far capire che il piano dei Giudei non gli era nascosto, segno che l’uomo deve rendere conto a Dio non quando commette il peccato, ma già da quando pensa di attuarlo, come sappiamo dalle parole dette a Caino migliaia di anni prima. Il concetto di prevenzione e prudenza è qualcosa di assolutamente distante dall’uomo, che ha la presunzione di riuscire sempre e che tutto ciò che di negativo possa accadere riguardi sempre gli altri. Con le Sue parole Gesù non intende tanto denunciare la reale intenzione dei Suoi oppositori, ma ne chiede la ragione dando loro un’opportunità per riflettere ancora una volta su di Lui. Il Suo omicidio, quando sarebbe avvenuto, avrebbe dovuto essere qualcosa di cui i Giudei dovessero assumersene pienamente la responsabilità, al contrario dei romani che non avrebbero avuto né la storia, né tantomeno la cultura per riconoscere in Lui il Figlio di Dio, e infatti alla croce pregherà per il loro perdono.

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12.03 – A GERUSALEMME: DOV’È QUEL TALE? (Giovanni 7.11-13)

12.03 – A Gerusalemme: “Dov’è quel tale?” (Giovanni 7.11-13)

          

11I Giudei intanto lo cercavano durante la festa e dicevano: «Dov’è quel tale?». 12E la folla, sottovoce, faceva un gran parlare di lui. Alcuni infatti dicevano: «È buono!». Altri invece dicevano: «No, inganna la gente!». 13Nessuno però parlava di lui in pubblico, per paura dei Giudei.”

 

            Ipotizzando che Gesù arrivasse con le varie carovane che giungevano in città in occasione della festa delle Capanne, tanto la gente comune quanto i Giudei lo cercavano. Questi vengono citati per primi e a loro viene attribuita la domanda dispregiativa “Dov’è quel tale?”: notiamo infatti che Nostro Signore non viene né chiamato per nome, né con la qualifica più immediata, quella di profeta. “Quel tale”, o “Quello”secondo altre traduzioni, rivela non un’opinione che la gente aveva di Lui – “Giovanni Battista, altri dicono Elia e altri uno dei profeti”(Marco 8.28) – ma quella dei rettori del popolo: Gesù costituiva un problema indipendentemente dai miracoli compiuti e soprattutto dai Suoi discorsi che più volte avevano messo in crisi le loro credenze e usanze religiose, parlando alla coscienza di fronte alla quale avevano rinunciato di dare ascolto.

“Quel tale”, allora è il riassunto dell’opinione che i Giudei si erano fatti di Colui che aveva, a Gerusalemme circa due mesi prima, guarito l’infermo alla piscina di Betesda (Giovanni 5.1-18), episodio che si conclude con le parole “Per questo i Giudei cercavano ancor di più di ucciderlo, perché non soltanto violava il sabato, ma chiamava Dio suo padre, facendosi uguale a Dio”. Sappiamo che questo fu un pretesto perché, nel suo discorso loro rivolto, Gesù fece emerge la vera posizione spirituale che avevano: “La sua parola– quella del Padre – non rimane in voi, perché non credete a colui che ha mandato”(v.39), “Voi non volete venire a me per avere vita”(v.40), in cui il non credere in Lui implica quindi una volontà strettamente personale e non il risentire dell’influenza di altri; “Voi ricevete la gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene dall’unico Dio”(v.44) e infine il verso 47, “Se non credete ai suoi scritti– quelli di Mosè – come potete credere alle mie parole?”.

Anche se sono versi che sono già stati oggetto di riflessione (vol.10, cap.20), cerchiamo di analizzarli di nuovo per capire i Giudei, che avevano fondato la propria vita su un ruolo religioso, quello di tramandare la Scrittura e soprattutto le sue interpretazioni e spiegarle al popolo: costoro avevano la responsabilità di custodire e praticare la “sua parola”che, per quanto da loro conosciuta, “non rimaneva” cioè non metteva radici, non restava in maniera duratura e proficua. Nonostante la conoscenza dei Giudei fosse superiore a quella del popolo, non portava quel frutto che avrebbe dovuto perché non teneva conto del fatto che alla base di ogni azione del Dio che credevano di servire, di ogni Suo messaggio e decreto, c’era un amore immenso che non volevano né potevano capire. Ogni parola della Legge, dei Profeti e degli altri scritti veniva analizzata, sminuzzata, calcolata, teorizzata e raccordata con altre per costruire labirinti concettuali dai quali i Giudei non riuscivano a staccarsi per cui il vero sapere restava nascosto “ai savi e agli intelligenti”ma veniva “rivelato ai piccoli”che, non maliziosi né tantomeno orgogliosi, le capivano nella loro elementarità.

La ricerca della sapienza e della conoscenza allora veniva attuata in un modo non corretto, cioè distante dal primo gradino di una scala al quale c’è la consapevolezza del non sapere, di non poter pervenire a nulla senza l’intervento dello Spirito che può agire solo quando la persona si fa umile e si dichiara disponibile a mettersi alle sole dipendenze di Dio per qualunque cosa. Se “la parola”che i Giudei studiavano fosse rimasta in loro, avrebbero creduto “a colui chemiha mandato”, cioè non avrebbero incontrato problemi né ostacoli a riconoscerlo. Gesù quindi, con le parole del verso 39, va anche oltre questo principio annunciando che, se avessero creduto in Lui, la “parola”di quel Dio che professavano di servire li avrebbe trasformati, riscattati, sarebbe “rimasta” in loro.

Il secondo verso citato, “Voi non volete venire a me per avere vita”, chiama in causa la loro parte più interna, l’anima e lo spirito che l’orgoglio li aveva imprigionati, cioè la volontà. Venire a Lui per avere vita avrebbe implicato l’abbandono del loro stato, della reputazione che avevano presso gli altri, ma ancor più l’esclusione dalla Congregazione di Israele ed ecco perché, ad esempio Nicodemo, era così timoroso nel dichiararsi apertamente discepolo del Signore. Il “non volete venire a me per avere vita”è da leggersi sotto il profilo della scelta consapevole: di fronte alle parole di Gesù, meglio combatterlo e rimanere uniti anziché porre in discussione un metro, uno stile di vita fatto di regole e strutture atte a far sostare la coscienza in una falsa quiete e ancora oggi sono molti quelli che “non vogliono” abbandonare il loro “certo” per quello che, dentro di sé, sanno benissimo che “certo” non è.

In cosa consistesse quella che ho definito “quiete” e il “certo” di quei Giudei è descritta al verso 44, sempre del capitolo quinto, “Voi ricevete la gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene dall’unico Dio”: ciascuno, guardando il proprio correligionario, lo osannava e viceversa come meglio descritto in un altro passo, “Legano fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito. Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente: allargano i loro filattéri e allungano le loro frange, si compiacciono dei posti d’onore nei banchetti, dei primi seggi nelle sinagoghe, dei saluti nelle piazze, come anche di essere chiamati «rabbi» dalla gente”(Matteo 23.4-7). E sappiamo che “questo è il premio che ne hanno”, cioè è qualcosa che finisce lì, che non dura altro spazio al di fuori di quello e così, di segmento in segmento, costruiscono una linea che è tutto tranne che continua, tranne che rivolta a una crescita spirituale perché la rinnega, perché “poco importa”. La religione esalta l’uomo, ma la fede, nel momento in cui si esprime correttamente non lo tiene in alcun conto: “Sono un nulla”, così Paolo diceva di sé in 2 Corinti 12.11), nonostante si dichiarasse, nello stesso passo, non inferiore agli altri apostoli.

L’ultimo verso è un’accusa totale, tesa a scalzare le loro convinzioni, “Se non credete ai suoi scritti, come potete credere alle mie parole?”, perché credere in questo caso richiede identificazione, immedesimazione e non, come comunemente accettato, ritenere vera una cosa. Da sottolineare che al verso precedente Gesù dice una frase eloquente: “Se credeste a Mosè, credereste anche a me, perché egli ha scritto di me”. Ecco allora che la fede in YHWH, se autentica e proveniente da un cuore in attesa del Liberatore promesso, non avrebbe avuto alcuna difficoltà ad accoglierlo, come fecero i discepoli e, prima di loro, Simeone ed Anna quando Lo riconobbero nato da pochi giorni.

Il “non volete”indica una ferma opposizione che implica una altrettanto ferma determinazione, un arroccarsi sulle proprie tradizioni e idee che trova il suo collegamento in Matteo 23.37 e Luca 13.34, curiosamente identici a conferma della estrema serietà e drammaticità delle parole di Gesù: “Gerusalemme, Gerusalemme, tu che uccidi i profeti e lapidi tutti quelli che sono mandati a te, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le ali, e non avete voluto! Ecco, la vostra casa è lasciata deserta”(Luca scrive “È abbandonata a voi”) là dove per “casa”si intende il Tempio che Dio non avrebbe più abitato come in passato: privato dalla Sua presenza, sarebbe stato gestito dagli uomini e dai loro riti vuoti e infine distrutto.

Volere andare a Dio implica rinunciare a tutto ciò che è riteniamo come nostro, quell’ Io che tende a prevaricare ed a imporsi sugli altri e, forse inconsapevolmente, a nostro danno e ci illude sul significato della vita che viene interpretato esclusivamente come realizzazione dell’Io. E questo è uno dei più grossi inganni di Satana, “sarete come Dio”. E chiunque abbia letto o anche solo sentito parlare di quanto avvenuto in Eden, ci creda o meno, sa come andò a finire.

“Non volete”significa, implica il ritenere il Cristo come qualcuno di cui non si ha bisogno, di non necessario, ritenerlo appunto “un tale”, qualcuno che propone un’alternativa al sistema costruito dall’uomo non solo per sentirsi a posto con la propria coscienza, ma per prendere gloria l’uno dall’altro escludendo l’Unico che quella gloria, eterna, può dare.

Non ci sono solo però i Giudei nel racconto di Giovanni, ma la folla, questa massa indistinta di persone ciascuna delle quali si era fatta un’idea di Gesù. La nostra traduzione ha “un gran parlare”, ma in realtà il termine originale fa riferimento piuttosto a un bisbigliare, un parlar confuso di questa gente di Gerusalemme, ma soprattutto venuta da fuori con le varie carovane. Che si ritenesse Gesù un uomo “buono”o uno che “No, inganna la gente”, non era prudente parlarne apertamente, stante la presenza dei Giudei che di lì a poco stabiliranno che, “se uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga”(9.22). Ricordiamo anche 12.42,43: “…anche fra i capi, molti credettero in lui, ma a causa dei farisei, non lo dichiaravano, per non essere espulsi dalla sinagoga. Amavano infatti la gloria degli uomini più che la gloria di Dio”e qui torniamo a quanto detto poco prima sul “non volere” ed il ricevere la gloria gli uni dagli altri estromettendo YHWH.

Ebbene, va sottolineato che quel parlare sommesso della folla non restò ignorato e che quindi gli avversari di Gesù avevano delle spie perché leggiamo, più avanti nel nostro testo al verso 32, che “I farisei udirono che la gente andava dicendo queste cose di lui. Perciò i capi dei sacerdoti e i farisei mandarono delle guardie per arrestarlo”.

Concludendo, la domanda dei Giudei “Dov’è quel tale?”rivela anche le loro intenzioni omicide, perché è impossibile che non sapessero il Nome di colui che cercavano e in tal modo, inconsapevolmente, citano Geremia 11.19: “Abbattiamo l’albero nel suo pieno vigore, strappiamolo dalla terra dei viventi, nessuno ricordi più il suo nome”, nome che per loro sarà determinante in giudizio, anziché in salvezza per tutti quelli che in Lui avrebbero creduto. Amen.

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11.41 – MÓSTRATI AL MONDO (Giovanni 7.2-10)

11.41 – Móstrati al mondo (Giovanni 7.2-10)

 

            2Si avvicinava intanto la festa dei Giudei, quella delle Capanne. 3I suoi fratelli gli dissero: «Parti di qui e va’ nella Giudea, perché anche i tuoi discepoli vedano le opere che tu compi. 4Nessuno infatti, se vuole essere riconosciuto pubblicamente, agisce di nascosto. Se fai queste cose, manifesta te stesso al mondo!». 5Neppure i suoi fratelli infatti credevano in lui. 6Gesù allora disse loro: «Il mio tempo non è ancora venuto; il vostro tempo invece è sempre pronto. 7Il mondo non può odiare voi, ma odia me, perché di esso io attesto che le sue opere sono cattive. 8Salite voi alla festa; io non salgo a questa festa, perché il mio tempo non è ancora compiuto». 9Dopo aver detto queste cose, restò nella Galilea. 10Ma quando i suoi fratelli salirono per la festa, vi salì anche lui: non apertamente, ma quasi di nascosto.

 

Dopo il discorso ecclesiologico, la lettura cronologica dei sinottici presenta non pochi problemi: Matteo scrive che “Terminati questi discorsi, Gesù lasciò la Galilea e andò nella regione della Giudea, al di là del Giordano. Molta gente lo seguì, ed egli li guarì” (19.1); Marco concorda con lui (10.1) e Luca, che esamineremo prossimamente, “Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, egli prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme e mandò messaggeri davanti a sé” (9.51), riportando una lunghissima serie di episodi che, se fossero tutti accaduti in quel viaggio, lascerebbero pensare che fosse durato molto. È Giovanni, coi versi oggetto di meditazione, che ci consente di ricostruire come si svolsero i fatti che portarono al salire di Gesù a Gerusalemme non per l’ultima volta, ma ad abbandonare la Galilea.

Viene qui menzionata “la festa dei Giudei, quella della Capanne”, detta anche “dei tabernacoli”, ultima delle tre grandi feste istituite nei libri di Mosè dopo la Pasqua, o “dei pani azzimi”, e quella “delle settimane” o “Pentecoste”. La festa delle Capanne viene ordinata in Levitico 23.33-36: “Il giorno quindici di questo settimo mese sarà la festa delle Capanne per sette giorni in onore del Signore. Il primo giorno vi sarà una riunione sacra; non farete alcun lavoro servile. Per sette giorni offrirete vittime consumate dal fuoco in onore del Signore. L’ottavo giorno terrete la riunione sacra e offrirete al Signore sacrifici consumati col fuoco. È giorno di riunione, non farete alcun lavoro servile”. Più dettagliata, giorno per giorno, è la versione reperibile in Numeri 29.12-30. Deuteronomio 16.13-15 dà la caratteristica dell’universalità, del “non riguardo per la qualità delle persone”, di questa festa: “Gioirai in questa tua festa, tu, tuo figlio e tua figlia, il tuo schiavo e la tua schiava e il levita, il forestiero, l’orfano e la vedova ce abiteranno le tue città. Celebrerai la festa per sette giorni per il Signore, tuo Dio, nel luogo che avrà scelto il Signore, perché il Signore, tuo Dio, ti benedirà in tutto il tuo raccolto e in tutto il lavoro delle tue mani, e tu sarai pienamente felice”.

La festa della Capanne era stata istituita per una duplice commemorazione, cioè quella della bontà di Dio verso Israele nel deserto, e quella della Sua misericordia per averlo arricchito durante l’anno corrente coi frutti della terra; per sette giorni i Giudei vivevano in capanne fatte con rami d’alberi costruite nei cortili, sui tetti delle case, nel recinto del Tempio e in tutte le strade più larghe di Gerusalemme. Infatti “Dimorerete in capanne per sette giorni; tutti i cittadini d’Israele dimoreranno in capanne, perché i vostri discendenti sappiano che io ho fatto dimorare in capanne gli Israeliti, quando li ho condotti fuori dal paese d’Egitto” (Levitico 23.42,43).

È importante sottolineare che questa era definita “la grande festa” perché celebrata dopo il raccolto del grano, dell’uva e dell’olio, i lavori più pesanti dell’anno si erano conclusi e forse per questo motivo i fratelli di Gesù, parlando con Lui, abbiamo letto che gli dissero “Parti di qua e va’ nella Giudea, perché i tuoi discepoli vedano le opere che tu compi. Nessuno infatti, se vuole essere riconosciuto pubblicamente, agisce di nascosto. Se fai queste cose, manifesta te stesso al mondo!” (vv.3,4).

Riflettendo su quanto detto a Gesù, commentato da Giovanni con le parole “Neppure i suoi fratelli credevano in lui”, va fatta rilevare la loro assoluta inopportunità perché si trattò di una frase pronunciata per dileggio nei confronti di una persona da loro ritenuta “fuori di sé” ( Marco 3.21) e della quale non avevano alcuna idea quanto a dignità e ruolo. I fratelli di Gesù, cioè “Giacomo, Ioses, Giuda e Simone” (6.3), lo sfidano ad andare a Gerusalemme perché così avrebbe potuto mostrarsi “al mondo” e perché i Suoi discepoli potessero “vedere le opere che tu compi” disprezzando completamente tutto quello che aveva fatto fino ad allora, incuranti dei miracoli e del contenuto della Sua predicazione incessante e delle Sue fatiche che proseguivano da circa due anni. Quelli che gli parlano sono gli stessi che, nel verso di Marco 3.21, “Sentito questo – la folla che si era radunata – uscirono per andare a prenderlo”: volevano rinchiuderlo da qualche parte pur di avere tranquillità?

Nelle loro parole, poi, c’è anche una non velata accusa di codardia, perché quel “nessuno, se vuole essere riconosciuto pubblicamente, agisce di nascosto” (v.4) vuole rimarcare il fatto che il loro fratello se ne stava in Galilea “perché i Giudei cercavano di ucciderlo” (v.1) e quindi, se era davvero chi diceva di essere, non poteva avere alcun timore. Abbiamo nelle loro parole anche la pretesa di dare un consiglio, perché la regione in cui aveva fino ad allora agito, dimenticando che a Gerusalemme Gesù aveva già operato, era di minore importanza rispetto alla Giudea, dove esistevano le scuole rabbiniche più importanti e là confluiva molta più gente: in pratica, Lo esortano a puntare sui numeri, a far proseliti, ad avere successo, a diventare quel Messia umano che tutti attendevano per conseguire il pieno riscatto sull’invasore romano.

Il modo di ragionare dei fratelli di Gesù non è nuovo, ma esiste da sempre ed accomuna tutti coloro che per il mondo sono e al mondo appartengono, certo fino a prova contraria: non capendo nulla degli àmbiti spirituali, pretendono di interpretarli e reagiscono con ragionamenti più o meno inconsistenti, ma che molto hanno di umanamente logico perché è la cecità vera a spingerli, come rivela la risposta che ebbero, “Il mio tempo non è ancora venuto; il vostro tempo invece è sempre pronto”, con cui Gesù istituisce una divisione netta fra il mondo cui apparteneva e quello dei suoi fratelli.

Una risposta simile Gesù la diede a Sua madre alle nozze di Cana quando volle ricordarle che non stava a lei interferire perché “la mia ora non è ancora giunta” (2.4) dove “la mia ora” e “il mio tempo” non si riferiscono alla Sua morte, ma a quello di qualunque Suo intervento che non poteva essere disgiunto da quanto concordato col Padre. Con le Sue parole, Nostro Signore dichiara: primo, che se gli altri uomini potevano fare ciò che volevano e seguire quanto la loro mente suggeriva loro, Lui veniva come inviato con un compito preciso in cui nulla poteva essere lasciato al caso e, secondo, prendendo “il mio tempo” in contrapposizione a “il vostro tempo”, Lui avrebbe potuto operare e morire (temporaneamente) nel corpo solo quando sarebbe stato concesso agli uomini di ucciderlo mentre i suoi fratelli, che nulla conoscevano del loro destino, avrebbero potuto concludere la loro esistenza in qualunque momento, cosa alla quale non pensavano neppure lontanamente come avviene anche oggi: l’uomo naturale rifugge l’idea della morte; sa che prima o poi verrà il momento in cui la vita finirà, ma nel momento in cui, quando non giunge all’improvviso e si annuncia con segnali inequivocabili, vorrebbe rimandarla. E cito una frase che Alessandro Meluzzi disse un giorno a un convegno sull’eutanasia: “Non ho mai conosciuto un solo morente che non pensasse di avere ancora un giorno da vivere. Non ho conosciuto un solo morente, neanche negli attimi estremi dell’agonia, che non pensasse di avere ancora un’ora da vivere”.

Ecco allora il senso delle parole di Gesù: sapeva che “il mio tempo non è ancora giunto” perché era l’unico a sapere quando e come il Suo corpo avrebbe ceduto, mentre gli increduli fratelli, così intenti a guardare il presente, no. Né si preoccupavano irresponsabilmente di questo. Ma poi va oltre: “Il mondo non può odiare voi, ma odia me, perché di esso io attesto che le sue opere sono cattive” (v.7). Il mondo è un sistema di vita, ragionamento, aspirazioni, metri di misura che non può che produrre “opere cattive” indipendentemente dalla valutazione e se tutti possono concordare nella valutazione negativa di un omicidio, non si pensa che – per dirne una – anche quelle strutture per dare rifugio e solidarietà alle persone, pur non facendo chiaramente del male, a nulla portano se non fatte “nel Nome” di Cristo: senza appartenergli tutte le opere umane, buone o cattive, si identificano in quella “torre” che gli uomini eressero in Babilonia allo scopo di acquistarsi fama, perché quell’edificio doveva giungere “fino al cielo” di cui vedevano l’azzurro, ma non ciò che questo rappresentava. Il mondo “odia me” come da Genesi 3.15 “Io porrò inimicizia tra te – Avversario – e la donna – qui Eva è vista come colei dalla quale nasceranno uomini di Dio, che troverà in Gesù il suo massimo rappresentante – fra la sua stirpe e la tua stirpe”. Il “mondo”, come sappiamo, non odiò solo il Figlio, ma anche tutti coloro che in lui hanno creduto. E ancora prima, combatté Abele e tutti i profeti, da quelli nominati a quelli no.

Tornando alla nostra traduzione, ancora una volta ne va sottolineata l’inadeguatezza perché Nostro Signore non dice “Non salgo a questa festa”, ma “Non salgo ancora a questa festa”, precisazione importante perché altrimenti, per come si svolsero poi i fatti, si potrebbe pensare ad un Suo ripensamento in proposito, quando rimandò la partenza per non salire coi fratelli e con tutta quella gente che avrebbe composto la carovana diretta a Gerusalemme, cioè la stessa, per struttura e composizione, che lo aveva visto dodicenne andare nella città santa con i suoi genitori.

L’ultimo verso di Giovanni rivela che “Quando i suoi fratelli salirono per la festa – quindi in carovana -, vi salì anche lui. Non apertamente, ma quasi di nascosto”: salì cioè privatamente, accompagnato dai discepoli a sottolineare l’estraneità dagli usi comuni e non perché non voleva essere riconosciuto perché, se così fosse stato, non lo troveremmo nel Tempio ad insegnare né leggeremo che, uscito dal territorio samaritano, “la folla accorse di nuovo a lui e di nuovo egli insegnava loro, come solito fare” (Marco 10.1). E possiamo dire che partì quando il Suo tempo iniziava a compiersi, termine col quale non viene indicata la morte, ma l’ultimo periodo della Sua vita terrena. La Sua partenza dalla Galilea si concluderà con due eventi, l’invio dei settantadue discepoli che lo avrebbero preceduto lungo la via, e le parole molto amare su Betsaida, Corazin e Capernaum.

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11.26 – IL PROFETA ELIA IV/IV: DINAMICHE PROFETICHE (Apocalisse 11.1-14)

11.26 – Elia  IV: dinamiche profetiche (Apocalisse 11.1-14)

 

1 Poi mi fu data una canna simile a una verga e mi fu detto: «Àlzati e misura il tempio di Dio e l’altare e il numero di quelli che in esso stanno adorando. 2Ma l’atrio, che è fuori dal tempio, lascialo da parte e non lo misurare, perché è stato dato in balìa dei pagani, i quali calpesteranno la città santa per quarantadue mesi. 3Ma farò in modo che i miei due testimoni, vestiti di sacco, compiano la loro missione di profeti per milleduecentosessanta giorni». 4Questi sono i due olivi e i due candelabri che stanno davanti al Signore della terra. 5Se qualcuno pensasse di fare loro del male, uscirà dalla loro bocca un fuoco che divorerà i loro nemici. Così deve perire chiunque pensi di fare loro del male. 6Essi hanno il potere di chiudere il cielo, perché non cada pioggia nei giorni del loro ministero profetico. Essi hanno anche potere di cambiare l’acqua in sangue e di colpire la terra con ogni sorta di flagelli, tutte le volte che lo vorranno. 7E quando avranno compiuto la loro testimonianza, la bestia che sale dall’abisso farà guerra contro di loro, li vincerà e li ucciderà. 8I loro cadaveri rimarranno esposti sulla piazza della grande città, che simbolicamente si chiama Sòdoma ed Egitto, dove anche il loro Signore fu crocifisso. 9Uomini di ogni popolo, tribù, lingua e nazione vedono i loro cadaveri per tre giorni e mezzo e non permettono che i loro cadaveri vengano deposti in un sepolcro. 10Gli abitanti della terra fanno festa su di loro, si rallegrano e si scambiano doni, perché questi due profeti erano il tormento degli abitanti della terra.
11Ma dopo tre giorni e mezzo un soffio di vita che veniva da Dio entrò in essi e si alzarono in piedi, con grande terrore di quelli che stavano a guardarli. 12Allora udirono un grido possente dal cielo che diceva loro: «Salite quassù» e salirono al cielo in una nube, mentre i loro nemici li guardavano. 13In quello stesso momento ci fu un grande terremoto, che fece crollare un decimo della città: perirono in quel terremoto settemila persone; i superstiti, presi da terrore, davano gloria al Dio del cielo.
14Il secondo «guai» è passato; ed ecco, viene subito il terzo «guai».

 

Veniamo ora al nostro testo, dopo aver brevemente cercato di inquadrare l’ambito nello scorso capitolo: a Giovanni viene detto, non scrive da chi, di misurare il tempio di Dio e l’altare, il numero di quelli che adoravano in esso, ma di tralasciare l’atrio: nessuno prende le misure di qualcosa se non ha un progetto che le richiede. Qui, oltre al tempio nella sua parte più sacra, viene detto di contare quelli che adorano, altro indice progettuale non più rivolto a una struttura, ma alle persone. “L’atrio fuori dal tempio” non viene calcolato e quindi, se nell’Antico Patto era figura della benevolenza e del futuro accoglimento dei pagani nel popolo di Dio perché chiunque poteva accedervi, qui è indice di esclusione: nelle parole rivolte a Giovanni si dice che quella porzione del tempio “è stato dato in balìa dei pagani, che calpesteranno la città santa per quarantadue mesi”, lo stesso tempo in cui la bestia eserciterà il suo potere. Nel verbo qui usato, calpestare, abbiamo un riferimento alla profanazione, all’indifferenza, all’ostilità verso tutto ciò che è sacro, a maggior ragione verso la Parola di Dio. Ma il tempio, nella sua parte più vera, viene misurato, reso inattaccabile, a differenza di quello naturale distrutto nel 70 dalle truppe romane. E quando il periodo dato all’uomo per ravvedersi scade, se non ha è provveduto diversamente, porta inevitabilmente con sé una grande rovina.

Gerusalemme quindi sarà il teatro di questi avvenimenti e diventerà un centro di potere perché l’Avversario, nella sua volontà di onnipotenza e oltraggio, mira proprio a considerare la città che più di tutte è stata testimone degli avvenimenti profetizzati e adempiuti, della sofferenza e delle benedizioni di Israele, come sua. O, meglio, vorrà toglierla dalle mani di Dio, conoscendo i Suoi progetti, altrimenti non sarebbe il Distruttore.

A questo punto, al verso tre, vengono nominati i due testimoni, che non possono essere che Elia ed Enoc nonostante siano stati proposti altri nomi, ma tutti di uomini che, a parte il loro valore e funzione avuta in determinati tempi storici, hanno conosciuto la morte. Posto che Dio può sempre fare come vuole e quindi far risorgere Mosè, Giosuè o Zorobabele, questi ultimi citati in Zaccaria 4 nella visione del candelabro e dei due olivi, non si capisce perché debba agire in tal senso quando Elia ed Enoch vennero rapiti nel corpo a voler sottolineare un mettere da parte per un ritorno, come fu e sarà per Nostro Signore. Non si tratta qui di avere la pretesa di capire i piani di Dio stante la limitatezza della mente umana, ma di un processo logico molto semplice visto nel “prendere” che, per il Signore, non è mai per sé, ma per dare. Noi stessi, quando prendiamo qualcosa e lo mettiamo da parte, è perché sappiamo che verrà un momento opportuno perché questo venga utilizzato.

Inoltre va tenuto presente che la morte sancisce per tutti il compimento, la fine di tutto quanto si poteva fare e si è fatto oppure no: il concluso e il sospeso rimangono e il finito incontra l’infinito in salvezza o in condanna, ma Elia ed Enoch? La loro vita non conclusa come tutti gli altri uomini implica che debba ancora risolversi con altri compiti e che solo quando questi saranno esauriti potrà avvenire la loro morte, come sarà e di cui leggiamo al verso 7: “E, quando avranno compiuto la loro testimonianza, la bestia che sale dall’abisso li vincerà, e li ucciderà”. Uno degli ultimi poteri dategli.

Elia ed Enoch “sono i due olivi e i due candelabri che stanno davanti al Signore della terra” (v.4), qui descritti nella loro funzione: l’olivo dà frutti che producono olio, figura dello Spirito Santo oltre che del conferimento di un ruolo spirituale che non può scadere. “Due olivi davanti al Signore della terra”, così chiamato perché è Lui che dirige e ordina, stanno a significare la funzione produttiva dei due profeti: al tempo opportuno daranno e olive e l’olio puro. Il candeliere, o candelabro, è la prima cosa che vede Giovanni al capitolo 1, quando si volta “per vedere la voce che parlava con me” (1.12); se, come gli spiega lo stesso Gesù glorificato, “i sette candelabri sono le sette Chiese”, è facile comprendere l’importanza che hanno i due testimoni: faranno luce, illumineranno prima di tutto i credenti di quella dispensazione che li riconosceranno, ma anche gli altri uomini che proprio per questo li combatteranno. Gli uni da quella luce riceveranno calore e guida, gli altri fastidio e “tormento” perché non potranno negare quanto verrà loro dimostrato, cioè la profonda falsità del loro stile di vita, e per questo gioiranno alla loro morte giungendo addirittura a “scambiarsi doni” come a Natale o a Pasqua, festività che oramai hanno totalmente perso il loro significato, se mai ne hanno avuto uno.

Occorre prestare attenzione a un elemento molto importante e cioè che i grandi miracoli, che caratterizzarono le antiche dispensazioni torneranno perché fonte di richiamo al ravvedimento diverso da come oggi opera il Vangelo: “uscirà dalla loro bocca un fuoco che divorerà i loro nemici” è frase che parla dell’azione dello Spirito Santo, paragonato a “un fuoco” che non può esprimersi altrimenti se non divorando, vale a dire rendendo al nulla tutti quanti sono a Lui contrari; costoro combatteranno i due testimoni in quanto Sua chiara emanazione, personificazione, strumento.

C’è poi il richiamo ad Elia, che faceva la stessa cosa (vedi i versi di 1 Re che abbiamo ricordato), mentre di Enoc sappiamo molto meno: “essi hanno potere di chiudere il cielo, perché non cada pioggia nei giorni del loro ministero profetico. Essi hanno anche potere di cambiare l’acqua in sangue e di colpire la terra con ogni sorta di flagelli tutte le volte che vorranno” (v.6). L’unica cosa che sappiamo del secondo testimone è che “Enoc camminò con Dio, poi scomparve perché Dio lo aveva preso” (Genesi 5.24), reputandolo utile al pari di Elia, sicuramente per come aveva vissuto.

L’autorità che Dio concederà loro sarà quindi totale in quanto “ulivi” e “candelabri”. Teniamo presente questo secondo termine, “candelieri” o “candelabri”, perché non allude solo a degli strumenti che illuminano, ma la cui luce proviene dal creatore: dobbiamo infatti pensare alla “Menorah”, il vero candelabro ebraico a sette braccia, che ardeva con olio puro. Le sue braccia simboleggiano la luce divina che si diffonde, ma anche i sette giorni della Creazione con il sabato come luce centrale così come, secondo altre interpretazioni, il sistema planetario col sole al centro, o l’alfabeto ebraico, quindi la capacità di parlare in modo appropriato con Dio e tra uomini e uomini.

I due testimoni costituiranno per la Bestia e il falso profeta un problema molto serio perché, al verso 10, “questi due profeti erano il tormento degli abitanti della terra” e riusciranno ad ucciderli, lasciano i loro corpi esposti a sostegno della vittoria ottenuta su di loro. La “grande città”, Gerusalemme, al contrario di tutti i significati che riveste negli scritti dell’Antico e del Nuovo Patto, è qui chiamata “simbolicamente Sodoma ed Egitto”, sinonimo di tutte le forme di libertà umane nel peccato che si concreteranno da un lato nella totale e sfrenata “libertà sessuale” – vedi i movimenti per la libera espressione dell’omosessualità, la liberalizzazione della droga etc. – e dall’altro nella schiavitù in cui verranno tenuti da una parte i santi consapevolmente, e gli altri uomini senza rendersene conto in quanto dipendenti in tutto dal proprio Io e dal sistema cui avranno aderito. Fondamentalmente, il “tormento degli abitanti della terra” che i due testimoni avranno esercitato prima del loro venire uccisi, sarà consistito nel richiamo al ravvedimento e allo smascherare gli inganni della struttura satanica che fino ad allora sarà stata impotente contro di loro. Abbiamo letto del tramutare l’acqua in sangue, miracolo che anche i magi d’Egitto furono in grado di riprodurre, ma non in senso inverso, non potendo cioè far tornare il sangue in acqua, a tal punto che “Tutti gli egiziani scavarono allora nei dintorni del Nilo per attingervi acqua da bere, perché non poterono bere le acque del Nilo” (Esodo 7.24). Satana è in grado di essere imitatore di Dio, mai però in senso costruttivo. È un riproduttore astuto al di là di qualsiasi immaginazione, ma resta sempre un ignorante.

Altra riflessione possibile può essere fatta al verso 9, quando leggiamo che “uomini di ogni popolo, lingua e nazione vedono i loro cadaveri per tre giorni e mezzo e non permettono che i loro cadaveri vengano deposti in un sepolcro”: abbiamo qui una divisione formale molto netta, perché gli uomini che “vedono i loro cadaveri” non sono gli stessi che “non permettono che i vengano esposti in un sepolcro”. I primi sono gli abitanti della terra, che potranno seguire l’avvenimento attraverso la televisione, Internet e sui propri smartphone ciascuno nella propria lingua, i secondi saranno i rappresentanti delle varie nazioni e popoli che avranno un potere legislativo tale da vietare la sepoltura dei due corpi.

“Tre giorni e mezzo” è un’espressione che troviamo solo qui. È in contrapposizione ai tempi della triade satanica, che ci ha messo millenni per realizzare il suo progetto, da Babilonia all’epoca degli avvenimenti illustrati, e quarantadue mesi per gestire la terra quando ogni cosa sarà sotto il suo potere. Ora, dopo quei tre giorni e mezzo, la metà di sette, i due testimoni non solo risorgono, ma salgono al cielo dopo “un grido possente dal cielo che diceva: «salite quassù» e salirono al cielo in una nube, mentre i loro nemici li guardavano”. Un altro “rapimento”, dunque, che nella memoria dei loro avversari sarà troppo vicino all’altro, quello della Chiesa, per non fare le necessarie connessioni.

Penultima considerazione è sui superstiti del terremoto che, “presi da terrore, davano gloria al Dio del cielo”: non credo questa sia un’espressione, dare gloria, vada letta in senso positivo. Il vedere i due testimoni ascendere al cielo e il terremoto con le relative vittime non portò ad alcun risultato spirituale, anzi in quattro passi (9.20; 9.21; 16.9; 16.11) leggiamo che “non si ravvidero delle loro opere”. Piuttosto, quel “dare gloria al Dio del cielo” implica l’ammissione del fatto che quanto stava avvenendo era vero, ma senza che possa scoccare la scintilla della conversione, di quel profondo esame che segue l’obiettiva constatazione di un percorso sbagliato. Un parallelo possibile è col pentimento di Giuda Iscariotha, che come sappiamo fu “secondo il mondo”, non certo secondo Dio.

E giungiamo così alla fine di questo nostro breve percorso, la nota che Giovanni pone a metà del capitolo undicesimo, “Il secondo «guai» è passato; ecco, viene subito il terzo «guai»”: non “guaio” come ci si aspetterebbe, ma indicazione relativa alle parole dell’aquila “che gridava a gran voce: «Guai, guai, guai agli abitanti della terra, al suono degli ultimi squilli di tromba che i tre angeli stanno per suonare” (8.13).

Qui credo sia giusto fermarsi: sono tempi imminenti, non nostri, per quei “servi” che li vivranno e che era giusto osservare, da lontano ma al tempo stesso vicini, perché credo che il ruolo di Elia non dovesse essere lasciato in sospeso. Per noi, vale quanto scrive l’apostolo Paolo in 1 Tessalonicesi 4.16,17: “…il Signore stesso, a un ordine, alla voce dell’arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i mirti in Cristo; quindi noi, che viviamo e che saremo ancora in vita, verremo rapiti insieme con loro nelle nubi, per andare incontro al Signore in alto, e così saremo per sempre col Signore”. Amen.

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10.20 – VI CONOSCO (Giovanni 5.41-47)

10.20 – Vi conosco (Giovanni 5.41-47)

 

41Io non ricevo gloria dagli uomini. 42Ma vi conosco: non avete in voi l’amore di Dio. 43Io sono venuto nel nome del Padre mio e voi non mi accogliete; se un altro venisse nel proprio nome, lo accogliereste. 44E come potete credere, voi che ricevete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene dall’unico Dio? 45Non crediate che sarò io ad accusarvi davanti al Padre; vi è già chi vi accusa: Mosè, nel quale riponete la vostra speranza. 46Se infatti credeste a Mosè, credereste anche a me; perché egli ha scritto di me. 47Ma se non credete ai suoi scritti, come potrete credere alle mie parole?».

 

L’ultima parte del discorso di Gesù ai Giudei inizia con un’affermazione categorica, “io non ricevo gloria dagli uomini” nel senso che rifiutava quel riconoscimento carnale che più volte proprio loro avevano voluto dargli col volerlo fare re. Paolo, scrivendo ai Tessalonicesi, afferma nella sua seconda lettera “E neppure abbiamo cercato la gloria umana, né da voi, né da altri” (2.6), frase che dovrebbe essere il perno attorno al quale ruota il fine della testimonianza e del servizio cristiano: nel momento in cui esiste un “riconoscimento” umano nel senso stretto del termine abbiamo una deviazione di ruolo e di intenti; l’essere naturale sbaglia sempre e soprattutto fraintende proprio come quelli che, al tempo di Gesù, volevano un Messia terreno, come più volte ricordato. Un fratello amava ricordare che Nostro Signore avrebbe potuto nascere e vivere in una famiglia facoltosa e invece scelse quella di un falegname, non ricco né povero perché altrimenti entrambe le categorie avrebbero potuto rivendicarne l’esclusiva. Fino all’età di circa trent’anni visse in una condizione benestante, conseguita grazie ai doni che i Magi gli portarono e che furono amministrati da Giuseppe e Maria. Nella sua vita pubblica, poi, sappiamo che il suo gruppo contava su una cassa comune tenuta da Giuda, l’uomo di Kerioth.

La gloria umana fu quella che tanto Lui quanto gli apostoli rifiutarono come avvenne, a parte Paolo, anche per Pietro nel suo incontro col centurione romano Cornelio a Cesarea che “stava ad aspettarli coi parenti e gli amici intimi che aveva invitato. Mentre stava per entrare, Cornelio gli andò incontro e si gettò ai suoi piedi per rendergli omaggio. Ma Pietro lo rialzò, dicendo: «Àlzati, anch’io sono un uomo»” (Atti 10.24,26). Un altro episodio con protagonisti Paolo e Barnaba a Listra, dopo la guarigione di un paralitico: “la gente allora, al vedere ciò che Paolo aveva fatto, si mise a gridare, dicendo, in dialetto licaonio,: «Gli dèi sono scesi tra noi in figura umana!» e chiamavano Barnaba «Zeus» e Paolo «Hermes» perché era lui a parlare. Intanto il sacerdote di Zeus, il cui tempio era all’ingresso della città, recando alle porte tori e corone, voleva offrire un sacrificio insieme alla folla. Sentendo ciò gli apostoli Barnaba e Paolo, si strapparono le vesti e si precipitarono tra la folla, gridando: «Uomini, perché fate questo? Anche noi siamo esseri umani, mortali come voi, e vi annunciamo che dovette convertirvi da queste vanità al Dio vivente!»” (Atti 14.11-15).

Abbiamo allora, a parte l’esempio di Gesù che è e sarà sempre il primo, anche quello di chi da Lui dipende per la proclamazione del Vangelo, che non accetterà mai di avere un riconoscimento estraneo alla missione lui affidatagli: quindi, il modo in cui un profeta si comporta, lo qualifica come vero o falso anche nel suo rifiutare o accettare la gloria umana, e qui ognuno di noi può fare le sue considerazioni su come agiscono quanti si comportano così nel mondo cosiddetto cristiano. Dicendo “Io non ricevo gloria dagli uomini”, Gesù afferma che l’unica cosa che gli importava essere – e lo confermò continuamente con azioni e parole – era il servo perfetto cui null’altro interessava se non ottenere la gloria che il Padre gli avrebbe dato. Ricordiamo la frase “Io ti ho glorificato sulla terra, compiendo l’opera che tu mi hai dato da fare” (Giovanni 7.4).

Gesù, al verso 42, prosegue dicendo “Ma vi conosco: non avete in voi l’amore di Dio”: quel “vi conosco”, che ancora una volta si riferisce alla perfetta conoscenza che aveva ed ha del cuore, dell’anima e dello spirito che spinge ogni uomo ad agire, attesta la mancanza dell’amore di Dio in loro, cioè che tutto il loro sapere, acquisito con fatica e uno studio severo, non aveva portato a nulla se non alla sterilità e all’inaridimento in contraddizione con quella frase, “Ama il Signore Iddio con tutto il tuo cuore” scritta sulle loro filatterie, anche quelle uno dei tanti simboli che avrebbero dovuto ricordare la loro dignità e funzione.

La filatteria era un piccolo pezzo di pergamena rinchiuso in un piccolo astuccio che, quando pregavano, tenevano assicurato con una cinghia di pelle alla fronte e al braccio sinistro vicino al cuore con lo scopo di ricordare il dovere di ubbidire ai comandamenti di Dio nella mente e nel cuore. Ebbene, con il passare del tempo si era finito per attribuire – ecco la falsità profonda della religione – a quei pezzi di pergamena il potere di evitare le malattie e scacciare i demoni ed erano divenuti strumento di ipocrisia: “Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente: allargano i loro filattéri e allungano le frange; si compiacciono nei posti d’onore nei banchetti, dei primi posti nelle sinagoghe, dei saluti nelle piazze, come anche di essere chiamati «Rabbi» dalla gente” (Matteo 23.5). Il seguito è ancora più pertinente al nostro caso: “Ma voi non fatevi chiamare «rabbi», perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli” (v.6). A parte tutte le connessioni possibili, credo che queste parole, se raccordate ai nostri tempi, descrivano una realtà desolante, dove ben poco è cambiato rispetto all’ipocrisia denunciata da Nostro Signore. E penso alla distinzione tra “religiosi” e “laici” operata dalla Chiesa di Roma o a quei “Pastori”, operanti soprattutto negli Stati Uniti, che trascinano grandi folle nelle loro predicazioni operando presunti miracoli e che posseggono ingenti patrimoni, avendo fatto della loro retorica un’industria. Ricordo che da bambino, quando frequentavo la mia parrocchia, non riuscivo a capire perché, quando un sacerdote parlasse di un altro, lo definiva “mio confratello” a differenza dei suoi parrocchiani. Gesù invece, nel passo citato, disse “e voi siete tutti fratelli” dove quella congiunzione, “e”, dice sicuramente tutto sulla differenza tra l’orgoglio umano e la realtà dell’essere figli di Dio. E non si tratta di volontà di polemica o di voler sottolineare che alcuni sono migliori di altri, ma solo di constatazione libera.

“Vi conosco”, quindi, è un ricordo di quanto avvenuto a Gerusalemme per la Pasqua all’inizio del suo ministero quando “durante la festa, molti, vedendo i segni che egli compiva, credettero nel suo nome. Ma lui, Gesù, non si fidava di loro, perché conosceva tutti e non aveva bisogno che alcuno desse testimonianza sull’uomo. Egli infatti conosceva quello che c’è nell’uomo” (Giovanni 2.23-25). E non poteva essere diversamente, poiché era stato presente, partecipe e protagonista alla creazione di Adamo.

“Io sono venuto nel nome del Padre mio” quindi sono l’unico a cui dovete dare ascolto, ma purtroppo “se un altro venisse nel proprio nome, lo accogliereste” (v.43), questo perché non avrebbe coinvolto la loro conversione, non avrebbe demolito il concetto di superiorità sugli altri uomini che quegli scribi e farisei avevano di loro stessi. I Giudei avrebbero accolto uno venuto da se stesso, “nel suo nome”, cioè secondo i suoi scopi e idee opposte al Vangelo. Gesù qui esprime il concetto al condizionale, “Se… lo accogliereste”, stante la realtà del momento e per parlare meglio alla coscienza di quei Giudei, ma estese il concetto ai suoi discepoli: “Allora, se qualcuno vi dirà «Ecco, il Cristo è qui», oppure «È di là», non credeteci; perché sorgeranno falsi cristi e falsi profeti e faranno grandi segni e miracoli, così da ingannare, se possibile, anche gli eletti. Ecco, io ve l’ho predetto” (Matteo 24.24). E vediamo che tornano i “segni” e i “miracoli” come strumento di seduzione e distrazione dalla fede di cui abbiamo già dato cenni in precedenti riflessioni. Ecco perché, prima di credere a un “miracolo” o a un “segno” verificato come tale e non come un trucco, occorre procedere con grande cautela e non riceverlo automaticamente come da Dio.

Al verso 44 Gesù afferma che era proprio il fatto che questi cercassero “la gloria gli uni dagli altri” a impedir loro di credere: la visione orizzontale, il bisogno di rispetto della gente e dei loro simili di professione aveva creato un circuito chiuso in cui tutto era a loro misura. Troviamo scritto in Romani 2.29, chiesa formata da Giudei e Pagani convertiti, “…ma Giudeo è colui che lo è interiormente e la circoncisione è quella del cuore, nello spirito, non nella lettera; la sua lode non viene dagli uomini, ma da Dio”.

Proseguendo nella lettura del nostro testo, ora Nostro Signore passa a toccare un argomento molto caro ai Giudei e sul quale erano convinti di basare tutta la loto vita: “Non crediate che sarò io ad accusarvi davanti al Padre; vi è già chi vi accusa: Mosè, nel quale riponete la vostra speranza. Se infatti credeste a Mosè, credereste anche a me, perché egli ha scritto di me. Ma se non credete ai suoi scritti, come potrete credere alle mie parole?”. È un’accusa molto forte, quella di non credere realmente agli scritti di Mosè, quindi alla Torah intera. Scrive l’apostolo ai Romani: “Rendo loro testimonianza – ai Giudei – che hanno lo zelo per Dio, ma non secondo conoscenza. Poiché ignorando – cioè non conoscendo realmente e trascurando – la giustizia di Dio e cercando di stabilire la propria giustizia non si sono sottoposti alla giustizia di Dio perché il fine della legge è Cristo, per la giustificazione di ognuno che crede” (Romani 10.2-4).

Deuteronomio 18.15-18, parole di Dio a Mosè: “Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto. (…) Io susciterò un profeta in mezzo ai loro fratelli e gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto io gli comanderò. Se qualcuno non ascolterà le sue parole, io gliene domanderò conto”. Ma se raccordiamo queste parole a Cristo, “fine della legge”, non pensiamo fare a meno di pensare che è Lui lo scopo finale della promulgazione di essa perché il popolo di Israele potesse comprendere l’importanza di essere liberati da lei attraverso il sacrificio, unico e fatto una volta per sempre, del Figlio. Il “fine della legge”, “il“ e non “la”, trova così in Cristo il punto di arrivo di un percorso inteso al tempo stesso come l’inizio di una vita nuova sia sulla terra, con il cammino della conversione e la guida dello Spirito Santo, sia nel cielo con lui in attesa dei “Nuovi cieli e nuova terra dove dimora stabile la giustizia”.

“Se non credete ai suoi scritti, come potete credere alle mie parole?”: abbiamo il verbo “credere” nella sua unica applicazione possibile, scritturalmente parlando, che ci parla di assimilazione, comprensione, accoglimento, azione, coscienza. Credere significa capitolare nel proprio orgoglio per arrendersi a Dio attraverso quella che definisco “distruzione pacifica di sé”, cioè la conquista della conoscenza di ciò che è davvero importante. Mettere dei paletti alla Parola di Dio, fare dei “distinguo”, arrogarsi il diritto di tenere per sé uno spazio interiore negativo di fronte a Lui che ci ha creato e ha parlato, è quanto di più dannoso che un credente possa fare.

Il risultato della non credenza reale dei Giudei nella Legge di Mosè è così descritto, ancora nella lettera ai Romani: “I gentili, che non cercavano la giustizia, hanno ottenuto la giustizia, quella che però deriva dalla fede, mentre Israele, che cercava la legge della giustizia, non è arrivato a lei. Perché? Perché la cercava non mediante la fede, ma mediante le opere della legge – cioè la religione –; essi infatti hanno urtato nella pietra di inciampo. Come sta scritto: «Ecco, io pongo in Sion una pietra d’inciampo e una roccia di scandalo, ma chiunque crede in lui non sarà svergognato»”. Amen.

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10.19 – TESTIMONIANZE (Giovanni 5.33-40)

10.19 – Testimonianze (Giovanni 5.33-40)

 

33Voi avete inviato dei messaggeri a Giovanni ed egli ha dato testimonianza alla verità. 34Io non ricevo testimonianza da un uomo; ma vi dico queste cose perché siate salvati. 35Egli era la lampada che arde e risplende, e voi solo per un momento avete voluto rallegrarvi alla sua luce. 36Io però ho una testimonianza superiore a quella di Giovanni: le opere che il Padre mi ha dato da compiere, quelle stesse opere che io sto facendo, testimoniano di me che il Padre mi ha mandato. 37E anche il Padre, che mi ha mandato, ha dato testimonianza di me. Ma voi non avete mai ascoltato la sua voce né avete mai visto il suo volto, 38e la sua parola non rimane in voi; infatti non credete a colui che egli ha mandato. 39Voi scrutate le Scritture, pensando di avere in esse la vita eterna: sono proprio esse che danno testimonianza di me. 40Ma voi non volete venire a me per avere vita.

 

In questa terza parte del suo discorso, Gesù ricorda ai Giudei un fatto molto importante avvenuto circa due anni prima, quando Giovanni Battista predicava: “Voi – cioè Scribi, Farisei e Dottori della Legge – avete inviato dei messaggeri a Giovanni ed egli ha dato testimonianza della verità”: non andarono direttamente ad ascoltarlo, ma inviarono dei loro sottoposti, delle spie che lo interrogassero, e infatti leggiamo: “Questa è la testimonianza di Giovanni, quando i Giudei gli inviarono da Gerusalemme sacerdoti e leviti a interrogarlo: «Tu chi sei?». Egli confessò e non negò. Confessò «Io non sono il Cristo». Allora gli chiesero: «Chi sei, dunque? Sei tu Elia?», «Non lo sono», disse. «Sei tu il profeta?». «No», rispose. Gli dissero allora: «Chi sei? Perché possiamo dare una risposta a coloro che ci hanno mandato. Che cosa dici di te stesso?». Rispose: «Io sono voce di uno che grida nel deserto: Rendete diritta la via del Signore, come disse il profeta Isaia»” (Giovanni 1. 19-23). A queste domande sappiamo che ne seguirono altre sul perché battezzasse e capire meglio la sua identità.

Il Battista, ultimo dei profeti dell’Antico Patto, l’unico ad avere avuto il privilegio di annunciare l’arrivo del Figlio di Dio operante in quel momento, a differenza degli altri che lo “videro da lontano”, è definito “la lampada che arde e risplende” proprio per la funzione da lui avuta. Vero è che alla figura di Giovanni Battista abbiamo dedicato diversi capitoli, ma qui possiamo soffermarci sul fatto che Gesù non parla di “una” lampada, ma di “la lampada” dando così un significato alle parole “Tra i nati di donna non sorse alcuno maggiore di Giovanni Battista”. Quello della “lampada” è un paragone che fa lo stesso apostolo Pietro che scrive nella sua prima lettera in 2.19 “E abbiamo anche, solidissima, la parola dei profeti, alla quale fate bene a volgere l’attenzione come a lampada che brilla in un luogo oscuro, finché non spunti il giorno e non sorga nei vostri cuori la stella del mattino”. La notte, allora, qui è sinonimo di veglia e non di sonno.

Le parole degli antichi uomini di Dio, quindi, hanno dato una luce in un “luogo oscuro”, dando speranza e consolazione a coloro che aspettavano chi li riscattasse, ma Giovanni ebbe la funzione di prepararli alla venuta del Figlio presente in mezzo a loro. Le parole “voi solo per un momento avete voluto rallegrarvi alla sua luce” mettono poi in risalto il comportamento di quella parte del popolo che più di ogni altra avrebbe potuto e dovuto riconoscere in Gesù il Cristo ma, quando si trattò di mettere in discussione la loro esistenza e mettere in pratica il ravvedimento, rinunciarono. Le parole “per un breve tempo”, letteralmente “per un’ora”, mettono bene in risalto il fatto che, inizialmente, a Giovanni accorreva gente da ogni parte e lo ascoltava con entusiasmo perché proclamava l’arrivo del Messia e si aspettavano un re temporale; quando però il Battista iniziò ad accusarli nella coscienza e ad esortarli a cambiare tutto il loro modo di agire e pensare, allora si ritirarono da lui. Pensiamo alle conseguenze del miracolo della “moltiplicazione dei pani e dei pesci”: coloro che furono sfamati da Gesù, e dagli Apostoli che portarono loro materialmente il cibo pensarono che, se era stato in grado di sfamare più di cinquemila persone partendo da cinque pani e due pesci, chissà cosa avrebbe potuto fare se fosse stata la loro guida e quali vittorie e benessere avrebbe portato per tutti. Guardando però alla sussistenza materiale e trascurando completamente il significato vero di quel miracolo, Nostro Signore si ritrasse da loro.

Tra le due frasi su Giovanni Gesù inserisce la frase “Io non ricevo testimonianza da un uomo, ma vi dico queste cose perché siate salvati” a sottolineare che, se il Battista ebbe una funzione così importante, Lui ne aveva ed ha una maggiore, come lo stesso omonimo apostolo riporta nella sua prima lettera: “Se accettiamo la testimonianza degli uomini, la testimonianza di Dio è superiore. E questa è la testimonianza di Dio, che egli ha dato riguardo al proprio Figlio. Chi crede nel Figlio di Dio, ha questa testimonianza in sé. Chi non crede a Dio, fa di lui un bugiardo, perché non crede alla testimonianza che Dio ha dato riguardo al proprio Figlio. E la testimonianza è questa: Dio ci ha donato la vita eterna e questa vita è nel suo Figlio. Chi ha il Figlio, ha la vita; chi non ha il Figlio di Dio, non ha la vita” (5.9-12).

Sicuramente, tra le parole appena riportate, vale la pena evidenziare “Chi non crede a Dio”, cioè “a” e non “in”, che stabiliscono il fatto che Uno solo è il Dio che parla davvero, l’autore del Messaggio che risolve il problema della vita dell’essere umano. Credere “a” significa fondare la fiducia e accogliere le verità che vengono proposte, credere “in”, per lo meno qui, equivarrebbe a restare nelle incertezze di prima, limitandosi ad accettare l’idea dell’esistenza di un generico essere superiore. In altri termini qui l’apostolo Giovanni vuole dire a chi legge che ciò che importa è credere nelle parole che Dio ha voluto rivelare all’uomo perché non si perda: la vita è nel Figlio e nessun altro la può dare.

Gesù ricorda ancora una volta il suo essere Uno con il Padre: da una parte abbiamo Lui che, con le sue opere, testimonia di chi lo ha mandato e, dall’altra, il Padre stesso è intervenuto dando testimonianza di Lui (ricordiamo ad esempio quanto avvenne al Suo battesimo). Qui dobbiamo avere sempre presente che, per la Legge, un fatto che fosse testimoniato da più di una persona era accettato da tutti come vero e, nel nostro caso, i testimoni non sono due uomini, ma il Padre e il Figlio che agiscono sempre in modo tale che la creatura sia impossibilitata a negare anche legalmente la loro esistenza e la veridicità del loro operato per la loro salvezza.

Anche la più piccola cosa creata porta la firma di Dio, se la si vuole leggere: “L’ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà e ingiustizia di uomini che soffocano la verità nell’ingiustizia, poiché ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto; Dio stesso lo ha manifestato a loro. Infatti le sue perfezioni invisibili, ossia la sua eterna potenza e divinità, vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo attraverso le opere da lui compiute. Essi dunque non hanno alcun motivo di scusa perché, pur avendo conosciuto Dio, non lo hanno glorificato né ringraziato come Dio, ma si sono perduti nei loro vani ragionamenti e la loro mente ottusa si è ottenebrata” (Romani 1.18-21). Qui Paolo scrive ai credenti della Chiesa di Roma, composta da Giudei e Pagani convertiti, ma Gesù parlava proprio a coloro che, pur avendo ereditato le promesse di Dio, le rigettavano convinti che il loro sapere fosse superiore al Suo. Tutto questo nonostante le due testimonianze, quella del Padre e quella del Figlio che avevano un solo scopo: “vi dico queste cose perché siate salvati” (v.34).

A questo punto, dalla seconda parte del verso 37, Gesù ricorda ai presenti che non avevano mai né udito la voce di Dio, né avevano visto il suo volto eppure credevano, anche se in modo sbagliato, cioè religiosamente vuoto perché “la sua parola non rimane in voi; infatti non credete a colui che egli ha mandato”. La parola che rimane è quella che attecchisce nel cuore e nella mente, è seme che germina, è ricordo permanente e operativo, è tesoro che si custodisce gelosamente perché è riposto per la vita eterna nell’attesa che questa si realizzi pienamente. E se ci soffermiamo su quel “rimanere”, non possiamo fare a meno di pensare che quei maestri fondavano il loro sapere proprio sulle Scritture che venivano studiate, elaborate e sminuzzate, analizzate e interpretate lettera dopo lettera da secoli. Eppure non avevano aperto la minima breccia in quei cuori.

C’è allora un “rimanere” inutile, che nel nostro caso potremmo collegare a Ecclesiaste 12.12 “Non si finisce mai di scrivere libri e il molto studio affatica il corpo”, e uno utile che si concreta nell’ascolto sincero della parola di Dio. Ricordando le parole di Salomone appena riportate, poi, da come proseguono si comprende perché Gesù abbia detto “Voi non volete venire a me per avere vita”: “Conclusione del discorso, dopo aver ascoltato tutto: temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché qui sta tutto l’uomo. Infatti, Dio citerà in giudizio ogni azione, anche tutto ciò che è occulto, bene o male” (vv.13,14). Il “non volere” andare a Lui è il problema che sta alla radice: un metodo di pensiero blando potrebbe ipotizzare che, in fondo, Gesù era troppo diretto nei confronti di quei Giudei che, per la loro formazione, non avrebbero potuto pensare diversamente, ma si tratta di un ragionamento profondamente errato perché un’anima che prova una sete vera cerca acqua e non dei surrogati. In pratica, Gesù dice a quei Giudei che era il loro spirito e chi li abitava a rifiutarlo, non la cultura e il loro infantile volersi arroccare su posizioni che più volte aveva smentito senza che avessero argomenti per ribattere.

Chiunque rifiuta il Vangelo, quindi, secondo le parole di verità pronunciate da Gesù, non è che non può perché ha avuto una vita che lo ha condizionato a tal punto da renderlo impenetrabile al messaggio di Dio e quindi sarà scusato, ma è sempre e solo perché non vuole: “Non volete venire a me” e certo sui meccanismi psicologici che determinano questo rifiuto ci sarebbe molto da dire, ma non aggiungerebbe nulla alla sintesi, al giudizio espresso da quel Gesù che è il solo a leggere l’uomo e capirlo profondamente. La diagnosi è sempre la stessa, “non volete”.

Molti amano “ragionare” mettendo a confronto la scelta di non credere con l’esistenza del libro della vita su cui già sono scritti i nomi dei salvati, dissertando sulla predestinazione, ma la questione è sbagliata perché l’uomo non è mai destinato a qualcosa, ma è sempre libero in quanto percorre il presente, non il futuro. Se mai, sono le scelte di ora che determinano ciò che avverrà dopo. Sempre, così allora come oggi. Amen.

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10.18 – VIENE L’ORA, ED È QUESTA (Giovanni 5.25-32)

10.18 – Viene l’ora, ed è questa (Giovanni 5.25-32)

 

25In verità, in verità io vi dico: viene l’ora – ed è questa – in cui i morti udranno la voce del Figlio di Dio e quelli che l’avranno ascoltata, vivranno. 26Come infatti il Padre ha la vita in se stesso, così ha concesso anche al Figlio di avere la vita in se stesso, 27e gli ha dato il potere di giudicare, perché è Figlio dell’uomo. 28Non meravigliatevi di questo: viene l’ora in cui tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la sua voce 29e usciranno, quanti fecero il bene per una risurrezione di vita e quanti fecero il male per una risurrezione di condanna. 30Da me, io non posso fare nulla. Giudico secondo quello che ascolto e il mio giudizio è giusto, perché non cerco la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato.31Se fossi io a testimoniare da me stesso, la mia testimonianza non sarebbe vera. 32C’è un altro che dà testimonianza di me, e so che la testimonianza che dà di me è vera.

 

Anche in una lettura veloce del testo, se sottolineassimo le parole che circoscrivono il tempo in cui Gesù agisce, non potremmo fare a meno di notare la precisazione appuntata dopo il primo “viene l’ora”, cioè “ed è questa”che manca nel secondo: in un caso “i morti udranno la voce del Figlio di Dio e quelli che c’avranno ascoltata, vivranno”; in un altro, futuro lontano ma per il Signore comunque vicino, “tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la sua voce e usciranno”per “una resurrezione di vita”o “di condanna”.

Abbiamo allora due momenti, due tempi, riferiti ad altrettanti periodi storici ben distinti, uno presente (che riguarda ancora oggi gli uomini) e uno futuro, relativo al giudizio finale. Questi due sono dichiarati come imminenti, ma nel primo caso abbiamo “ed è questa”, precisazione che manca nel successivo, quando “tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la sua voce e usciranno”. In entrambi i casi si parla di “morti”, ma con un distinguo importante perché non si tratta della stessa condizione, avendo Gesù già utilizzato questa espressione per indicare quanti non credevano in Lui: ricordando infatti l’incontro con quel discepolo che intendeva, prima di aggregarsi al gruppo, aspettare che il proprio padre morisse, gli fu risposto “Lascia i morti seppellire i loro morti”(Matteo 8.22), e Luca aggiunge “tu invece va’, e annuncia il regno di Dio”.

“L’ora viene, ed è questa”significa allora che quello era il tempo in cui i“morti”, cioè tutti coloro che hanno la fine del corpo e dell’anima come unica prospettiva, avrebbero avuto l’opportunità di scampare ad essa vivendo. L’ora che viene “è questa”, non altre. Ed è ciò che accade a chi crede in Gesù Cristo. Ricordiamo le parole di Efesi 2.1-3: “Anche voi eravate morti per le vostre colpe e i vostri peccati, nei quali un tempo viveste alla maniera di questo mondo, seguendo il principe delle Potenze dell’aria, quello spirito che ora opera negli uomini ribelli. Anche tutti noi, come loro, un tempo siamo vissuti nelle nostre passioni carnali seguendo le voglie della carne e dei pensieri cattivi: eravamo per natura meritevoli d’ira, come gli altri. Ma Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo: per grazia siete stati salvati”. Questo verso dell’apostolo Paolo ci consente quindi di fare due sottolineature importanti sul passo di Giovanni: “I morti udranno la voce del Figlio di Dio”sono riferiti a tutti gli uomini senza alcuna distinzione, che invece però fatta, nitida e assoluta, con le parole che seguono, “e quelli che l’avranno ascoltata, vivranno”. È nel momento in cui i “morti”ascoltano la voce di Gesù che risorgono e si salvano. Dal verso di Efesi appena citato, poi, vediamo che senza l’annuncio del Vangelo sarebbe impossibile non seguire “il principe delle Potenze dell’aria”, ricordo di ciò che era l’Avversario prima di essere tale e che da allora mette in atto ogni possibile strategia perché gli uomini si perdano.

E il risultato dell’opera di Gesù Cristo è: “Con lui Dio ha dato vita anche a voi, che eravate morti a causa delle colpe e della non circoncisione della vostra carne, perdonandoci tutte le colpe e annullando il documento scritto contro di noi che, con le prescrizioni, ci era contrario: lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce”(Colossesi 2.13); queste parole, che ci riguardano da vicino in quanto pagani convertiti visti nella condizione di “non circoncisione”, affrontano velocemente il tema del decadimento della Legge in quella parte, oltre la cerimoniale, che divideva profondamente il mondo non israelita da quello pagano.

Le parole di Gesù “e quelli che l’avranno ascoltata, vivranno”, che parlano della differenza che intercorre tra chi ascolta e chi no, parlano di vita certamente futura, ma anche di quella che conduciamo quotidianamente, trasformata rispetto a quella di prima perché “Per mezzo del battesimo dunque siamo stati sepolti insieme a lui nella morte affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova”(Romani 6.4) che troverà il suo punto finale nel verso “Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria”(Colossesi 3.4).

 

Gesù, proseguendo nel suo discorso, passa poi a spiegare il perché vivranno quelli che avranno ascoltato la Sua voce: “Come infatti il Padre ha vita in se stesso, così ha concesso anche al Figlio di avere vita in se stesso, e gli ha dato il potere di giudicare perché è figlio dell’uomo”. Nelle parole “Il Padre ha vita in se stesso”non vediamo apparentemente nulla di straordinario se le si prendono come un’attestazione sul fatto che Dio vive, ma se le applichiamo al fatto che è Lui la fonte della vita in quanto Creatore dell’Universo visibile e invisibile, il discorso cambia. Il Padre è Colui che progetta, forma, è l’artefice di ogni forma di vita e senza il Suo benestare nulla avviene e tutto resta inanimato. Senza la Parola, però, tutto sarebbe ancora “informe e vuoto”e qui l’identità di entrambi, Padre e Figlio, viene rivelata. Quel “gli ha dato”, infatti, non si riferisce al conferimento di un potere che prima non aveva, ma al fatto che, siccome Padre e Figlio non sono due esseri indipendenti, viene fatta una distinzione di persona e non di essenza.

Possiamo notare la differenza tra due tempi verbali, “gli ha dato”, riferito al passato remoto e prossimo, ed “è il figlio dell’uomo”al presente, cosicché gli uomini saranno giudicati non da un Dio irraggiungibile, da un creatore distante, ma da chi ha assunto le loro stesse sembianze e da qui viene il potere del giudizio, dopo avere sconfitto il peccato e la morte. Dal discorso dell’apostolo Paolo nell’areopago di Atene leggiamo “Ora Dio, passando sopra ai tempi dell’ignoranza, ordina agli uomini che tutti e dappertutto si convertano, perché egli ha stabilito un giorno nel quale dovrà giudicare il mondo con giustizia, per mezzo di un uomo che egli ha designato dandone a tutti prova sicura col risuscitarlo dai morti”(Atti 17.30,31). Ricordiamoci di Giobbe, che parlando a YHWH lamentava il fatto che non vi fosse un mediatore tra loro: quell’uomo disse “…non è un uomo come me, al quale io possa replicare: «Presentiamoci alla pari in giudizio». Non c’è fra noi due un arbitro che ponga la mano su di noi, allontani da me la sua verga, che non mi spaventi il suo terrore: allora parlerei senza aver paura di lui; poiché così non è, mi ritrovo con me solo”(9.32-35).

Giobbe, persona profondamente spirituale, non aveva ciò che noi abbiamo, vale a dire un Sommo Sacerdote presente, in grado di compatire con noi perché ha provato su di sé ciò che significa vivere in un corpo di carne e lo ha fatto a tal punto da essere “tentato in ogni cosa in modo simile a noi, senza peccato”(Ebrei 4.15), per cui può è il Dio che davvero comprende la sua creatura. Ha scritto un fratello: “A motivo della sua alleanza con la natura umana, del suo sentire le infermità dell’uomo, il Figlio è fra le tre persone della Trinità il più atto a giudicare, oltre che essere il più degno di farlo”.

La pericope “gli ha dato potere”, infine, fu volutamente ignorata dai Giudei che si opponevano a Lui quando avrebbero dovuto conoscere Daniele 7.13, 14: “Guardando ancora nelle visioni notturne, ecco venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio d’uomo;(…)gli furono dati potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano, il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai– notare il tempo passato, presente e futuro – e il suo regno non sarà mai distrutto”. I regni umani passano, gli imperi vengono abbattuti da sempre nonostante, nel loro svilupparsi, la fede in loro fosse totale. E non possiamo fare a meno di pensare all’ultimo, il più terribile di tutti, che nonostante la sua grandezza e controllo totale sulle persone, durerà solo tre anni e mezzo.

Arriviamo così al secondo “Viene l’ora”, privo di quel “ed è questa”del primo, in cui si parla di “tutti coloro che sono nei sepolcri(che) udranno la sua voce”, che ci confermano ancora una volta come l’uomo sia comunque proprietà di Dio: tutti quelli che saranno morti, di cui si sarà perso il ricordo, dal più piccolo al più grande, torneranno in vita. Qui Gesù parla di coloro che sono nei sepolcri per farsi comprendere, ma sappiamo che il riferimento riguarda tutti: “Il mare restituì i morti che esso custodiva, la Morte e gli inferi resero i morti da loro custoditi e ciascuno venne giudicato secondo le sue opere”(Apocalisse 20.13). Si tratta di quelli che anche Daniele cita con l’espressione “coloro che sono nella polvere”(12.2) di cui si è persa ogni “traccia” nel senso che non hanno un sepolcro e sono dispersi nel nulla, nell’indistinto.

Ebbene, la potenza di Dio si rivelerà in tutta la sua forza poiché vi sarà un’altra voce al cui appello quella polvere tornerà a vivere e ad avere forma per “una resurrezione di vita o di condanna”, altrimenti descritta con le parole “…si risveglieranno gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l’infamia eterna. I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento, coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre”(Daniele 12.3).

Gesù parla di quelli che fecero “il bene”o “il male”, ma non si tratta di “buoni” e “cattivi”, ma chi avrà compiuto “l’opera di Dio”che è “questa, che voi crediate a Colui che egli ha mandato”. “Fare il bene” è l’ascolto, la dedizione, il seguire il Figlio, scampando così alla resurrezione di condanna. La “voce” che ascolteranno tutti i morti, indipendentemente dall’epoca in cui avranno vissuto, è descritta in 1 Corinti 15.52 con le parole “la tromba suonerà e i morti risusciteranno”che rendono in modo ancor più marcato l’idea dell’appello, dell’ora solenne, meravigliosa o terribile a seconda dei casi, alla quale nessuno potrà sottrarsi, dove la vita potrà avere senso e dignità totale oppure trovare il suo esatto contrario.

Fatto questo richiamo, Nostro Signore precisa ciò che lo fa agire, cioè la completa dipendenza dal Padre che, come uomo, pregava di continuo: “Da me, io non posso fare nulla– cioè non posso seguire nessun mio interesse personale, né avere iniziative diverse da quelle approvate dal Padre –; io giudico secondo quello che ascolto e il mio giudizio è giusto, perché non cerco la mia volontà, ma quella di colui che mi ha mandato”(v.30). L’ascoltare di Gesù comprende anche il vedere e quindi il sapere: l’essere umano non può fare a meno di rivelarsi e sono proprio le sue parole come sintomo di ciò che sovrabbonda nel cuore che determinano la sua posizione – ricordiamo il principio “dalle tue parole sarai giustificato, e dalle tue parole sarai condannato”–. E qui dovremmo aprire un grosso capitolo sul discernimento che anche noi, come cristiani, siamo chiamati a praticare nei confronti dei nostri simili che possono rivolgersi a noi con fini secondi e terzi, in particolare proprio coloro che affermano di amarci, per quanto sempre a modo loro.

Gesù venne sulla terra per testimoniare del Padre e rivelarlo e al verso 31 afferma “Se fossi io a testimoniare di me stesso, la mia testimonianza non sarebbe vera. C’è un altro che dà testimonianza di me, e so che la testimonianza che egli dà di me è vera”: il Figlio è inscindibile dal Padre, non può parlare di sé senza coinvolgerlo perché entrambi sono gli autori del piano di salvezza per l’uomo, pur con le dovute distinzioni e ruoli. Infatti, contrariamente a quanto possa sembrare di primo acchito, quell’ “altro”che dà testimonianza del Figlio non è Giovanni Battista, ma il Padre stesso che agisce attraverso di Lui ed è addirittura intervenuto al Suo battesimo con le parole “Questi è il figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento”(Matteo 3.17). E tutto è stato fatto e detto per la salvezza di noi, peccatori. Amen.

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10.17 – IL PARALITICO DI BETESDA II/II (Giovanni 5.9-18)

10.17 – Il paralitico di Betesda II (Giovanni 5.9-18)

 

Quel giorno però era un sabato. 10Dissero dunque i Giudei all’uomo che era stato guarito: «È sabato e non ti è lecito portare la tua barella». 11Ma egli rispose loro: «Colui che mi ha guarito mi ha detto: «Prendi la tua barella e cammina»». 12Gli domandarono allora: «Chi è l’uomo che ti ha detto: «Prendi e cammina»?». 13Ma colui che era stato guarito non sapeva chi fosse; Gesù infatti si era allontanato perché vi era folla in quel luogo. 14Poco dopo Gesù lo trovò nel tempio e gli disse: «Ecco: sei guarito! Non peccare più, perché non ti accada qualcosa di peggio». 15Quell’uomo se ne andò e riferì ai Giudei che era stato Gesù a guarirlo. 16Per questo i Giudei perseguitavano Gesù, perché faceva tali cose di sabato. 17Ma Gesù disse loro: «Il Padre mio agisce anche ora e anch’io agisco». 18Per questo i Giudei cercavano ancor più di ucciderlo, perché non soltanto violava il sabato, ma chiamava Dio suo Padre, facendosi uguale a Dio.

 

Dopo aver narrato in sintesi quanto avvenuto a Betesda, Giovanni passa a spiegare le conseguenze dell’operato di Nostro Signore che aveva visto, conosciuto ed era intervenuto nei confronti di quell’infermo. Anche oggi il cristiano quindi sa che Gesù fa le stesse cose verso di lui: il Suo “vedere” implica la presa d’atto di una situazione, il “sapere” implica la Sua conoscenza nel profondo dei meccanismi psicologici che si creano all’interno dell’anima della persona e, infine, l’intervento si verifica nel momento esatto in cui non si può fare a meno di attribuire a Lui, e a Lui solo, la liberazione da una condizione penalizzante, materiale o spirituale.

Gesù ancora una volta, a Betesda, soccorre un “ultimo”: molti potevano affermare di essere stati guariti, riuscendo ad entrare per primi in quell’acqua, da un intervento angelico che testimoniava le attenzioni di Dio per il Suo popolo, ma uno solo poteva dichiarare, con una guarigione visibile a tutti, di aver beneficiato della cura diretta di Dio, per quanto ancora non lo avesse realizzato interamente e non sapeva chi fosse chi lo aveva guarito. Certo nessuno dei tanti che passavano per quel luogo aveva mai chiesto a quell’infermo se avesse voluto guarire, certo nessuno di quelli gli avrebbe mai potuto dire “Alzati, prendi la tua barella, e cammina” mettendolo in condizioni di concretare quell’ordine, diretto al suo corpo, cioè all’involucro, ma che attestava anche il perdóno dei suoi peccati.

Abbiamo accennato al significato di quei trentotto anni, trascorsi certo a soffrire immobile o comunque in una condizione di forte penalizzazione, ma non dobbiamo trascurare il fatto che quell’uomo aveva avuto l’opportunità di pensare al perché era stato reso così: abbiamo infatti letto le parole “Ecco, sei guarito! Non peccare più, perché non ti accada qualcosa di peggio” (v.14), frase diretta non più al corpo, ma all’anima, conscia del peccato commesso e del fatto che le due preghiere, quella di guarire e di essere perdonato, erano state accolte.

C’è una realtà che Giovanni mette in primo piano e che condiziona tutto il nostro episodio: il sabato, giorno di riposo di cui abbiamo già sottolineato il significato e che sappiamo essere stata stravolta dall’interpretazione dei Maestri. A prima vista il richiamo dei Giudei “È sabato, non ti è levito portare la tua barella” aveva un suo significato, poiché effettivamente in quel giorno non si potevano portare dei pesi: “Così dice il Signore: Per amore della vostra stessa vita, guardatevi dal trasportare un peso in giorno di sabato e dall’introdurlo per le porte di Gerusalemme. Non portate alcun peso fuori dalle vostre case in giorno di sabato e non fate alcun lavoro, ma santificate il giorno di sabato come io ho comandato ai vostri padri.” (Geremia 17. 21,22).

Quando però fu loro risposto “Colui che mi ha guarito mi ha detto: «Prendi la tua barella, e cammina»”, vediamo che non vi fu alcuna intenzione di approfondire quella guarigione, ma piuttosto il cercare il responsabile dell’istigazione a infrangere le norme su quel giorno. Non è un particolare da poco, perché quella che a prima vista poteva sembrare un’infrazione alle norme sul sabato, per cui porrebbe quei Giudei dalla parte della ragione, in realtà non lo era, ma rientrava nelle cosiddettte “opere di necessità e misericordia”; ricordiamo ad esempio Matteo12.11 “Chi di voi, se possiede una pecora e questa, in giorno di sabato, cade in un fosso, non l’afferra e la tira fuori? Ora, un uomo vale più di una pecora! Perciò è lecito in giorno di sabato fare del bene”, oppure Luca 13.15 a proposito della donna curva da diciotto anni: “Ipocriti, non è forse vero che di sabato ciascuno di voi slega il suo bue o l’asino dalla mangiatoia, per condurlo ad abbeverarsi? E questa figlia di Abramo, che Satana ha tenuto prigioniera per ben diciotto anni, non doveva essere liberata da questo legame nel giorno di sabato?”. Abbiamo già in questi due versi la spiegazione del fatto che nessuno, né Gesù, né l’uomo da lui guarito, aveva commesso un’infrazione. Chissà se quell’innominato, portando con sé la barella che per tanto tempo lo aveva tenuto prigioniero, avesse voluto conservarla a testimonianza del proprio peccato, dell’infermità ad esso conseguente e delle modalità con cui la sua guarigione era avvenuta.

La stessa risposta ai Giudei data da quell’uomo, “Colui che mi ha guarito mi ha detto: «Prendi la tua barella e cammina»”, alludeva al fatto che non era stata commessa alcuna infrazione alla legge del sabato: solo un intervento di Dio avrebbe potuto guarire quella persona e quindi, essendogli stato detto così, non poteva esservi contraddizione nel senso che sarebbe stato impossibile guarire e peccare subito dopo. In risposta non abbiamo la domanda “Chi ti ha guarito?”, ma “Chi ti ha detto?”, ignorando volutamente quel miracolo che parlava di vita e di perdono, per sostare sulla loro legge interpretata, che in quell’intervento divino trovava evidentemente il suo annullamento. Quello dei Giudei fu un metodo perverso, tipico di chi si ritiene una sorta di “guardiano della fede”, che trova nell’applicazione della norma la ragione del proprio orgoglio, ma non è in grado di vedere oltre, di giudicare vagliando le ragioni di un’azione per inquadrare correttamente un determinato avvenimento. Si può affermare che, in realtà, chi “si faceva uguale a Dio” erano loro, non Gesù.

Il verso 14 della nostra traduzione inizia con “Poco dopo Gesù lo trovò nel tempio”, ma sarebbe stato più appropriato scrivere “Dopo tutto questo” (metà pànta), parole che indicano un intervallo di tempo più ampio tra il miracolo e l’incontro: quell’uomo aveva desiderato tornare al Tempio, figura della presenza di Dio, dal quale era stato lontano per trentotto anni. Nello scorso capitolo ho scritto che avrebbe potuto benissimo andare da un’altra parte a festeggiare l’avvenuta guarigione, ma era consapevole che in nessun altro luogo avrebbe potuto trovare il proprio significato e la sua presenza sommessa una ragione. Il Signore lo aveva guarito, anche se non conosceva ancora l’identità di Colui che era stato il Suo strumento, se un angelo diverso o un profeta.

Anche qui abbiamo una conferma che ogni esperienza dell’uomo col Signore è personale, individuale, non accomunabile a quella di altri. C’è chi chiede il Suo aiuto e lo ottiene, e chi lo prova direttamente senza nemmeno conoscerlo e quindi cerca di capirne la provenienza, ma comunque tutti, indistintamente, passano da una condizione di peccato con le sue visibili, tangibili conseguenze, alla liberazione da esso.

Per il modo con cui Gesù si rivela a quest’uomo, poi, pare che sia intercorso fra i due un dialogo parallelo, interiore, che Giovanni non ha scritto, ma ha lasciato intendere perché le parole di Nostro Signore sembrano indirizzate a una persona perfettamente in grado di comprenderle: “Va’ e non peccare più, perché non ti accada qualcosa di peggio”: “Va’” perché sei libero, “non peccare più” cioè non ritornare al peccato che ti ha reso invalido. In quel “qualcosa di peggio”, poi, non vi è un allusione al fatto che sarebbe tornato nella condizione che lo aveva portato a Betesda, ma alla “morte seconda”, cioè all’impossibilità di tornare indietro dal destino che sceglie chi rifiuta il Vangelo o, peggio, lo abbandona coscientemente una volta conosciutolo. Tornare al proprio peccato significa agire e pensare come prima dell’incontro con Gesù, non certo cadere accidentalmente perché deboli, distratti, soggetti a conoscere l’umiliazione dell’infedeltà naturale che portiamo con noi come eredità in Adamo. Ricordiamo che Pietro, certamente sincero, disse al suo Maestro per tre volte “Signore, tu sai che io ti amo”, e poi lo sconfessò terrorizzato per altrettante.

Arriviamo così al verso 15, “Quell’uomo se ne andò e riferì ai Giudei che era stato Gesù a guarirlo” in cui vediamo non una delazione, ma una volontà di testimoniare: finalmente sapeva chi lo aveva guarito, e suppongo anche perché. Il verbo greco usato, anéngheile, racchiude infatti in sé il senso dell’annuncio e non del tradimento; è come se volesse dire ai Giudei “quelli che escono dall’acqua di Betesda vengono guariti da un angelo, ma io sono stato guarito da Gesù”: ci sarebbe voluto poco per trarre le necessarie conclusioni, soprattutto per loro, studiosi della Legge che, se fossero stati sinceri, avrebbero dovuto rivedere molte loro posizioni. Sarebbe bastato il fatto che le guarigioni di Betesda avvenivano anche di sabato per fare le dovute proporzioni. Invece, “Voi circoncidete un uomo anche di sabato. (…) ora voi vi sdegnate contro di me perché di sabato ho guarito interamente un uomo? Non giudicate secondo le apparenze; giudicate con giusto giudizio!” (Giovanni 7.23,24). Sono parole di una linearità unica, che tuttavia non vennero prese in considerazione, neppure minimamente.

La volontà di rimanere ciechi da parte dei Giudei trova una grande sottolineatura nel verso 16, “Per questo i Giudei perseguitavano Gesù, perché faceva tali cose nel giorno di sabato”, che confermano, oltre quanto detto, il fatto che nemmeno l’esposizione delle ragioni più elementari possono qualcosa di fronte a delle coscienze cauterizzate e a dei cuori induriti.

Le parole “Il Padre mio agisce anche ora e anch’io agisco” (v. 17) possono aver riferimento sia a ciò che avveniva in Betesda e nei confronti di quell’infermo, quanto al fatto che l’opera del Padre non s’interrompeva mai, nemmeno di sabato, e quindi anche quella del Figlio non poteva venire limitata da una norma data agli uomini, tra l’altro senza che il quel giorno venisse effettivamente, legalmente violato. Inoltre, quell’ “anche ora” in cui il Padre agiva si riferisce al fatto che Gesù, senza di Lui e al tempo stesso essendo con Lui Uno, era l’Unico a cui gli uomini avrebbero potuto dare ascolto, allora come oggi, nel loro esclusivo interesse.

Giungiamo così alla nota conclusiva di Giovanni, “per questo i Giudei cercavano ancor di più di ucciderlo, perché non soltanto violava il sabato, ma chiamava Dio suo Padre, facendosi uguale a Dio”: ancora una volta abbiamo il non voler esaminare quanto avvenuto a Betesda con gli occhi del ricercatore sincero. Quei Giudei, con la loro conoscenza, avrebbero avuto tutti gli strumenti per iniziare una sincera operazione di vagliatura: il miracolo come punto di partenza a cui avrebbe potuto far seguito un esame delle Sue parole, dei Suoi discorsi e degli altri miracoli confrontati con le parole dei profeti. Avrebbero potuto scoprire che quello era effettivamente il tempo dell’Emmanuele, del “Dio con noi” e gioirne perché posti all’interno del piano eterno di Dio per l’uomo.

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10.16 – IL PARALITICO DI BETESDA I/II (Giovanni 5.1-9)

10.16 – Il paralitico di Betesda (Giovanni 5.1-9)

 

1 Dopo questi fatti, ricorreva una festa dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. 2A Gerusalemme, presso la porta delle Pecore, vi è una piscina, chiamata in ebraico Betzatà, con cinque portici, 3sotto i quali giaceva un grande numero di infermi, ciechi, zoppi e paralitici. [ 4] 5Si trovava lì un uomo che da trentotto anni era malato. 6Gesù, vedendolo giacere e sapendo che da molto tempo era così, gli disse: «Vuoi guarire?». 7Gli rispose il malato: «Signore, non ho nessuno che mi immerga nella piscina quando l’acqua si agita. Mentre infatti sto per andarvi, un altro scende prima di me». 8Gesù gli disse: «Àlzati, prendi la tua barella e cammina». 9aE all’istante quell’uomo guarì: prese la sua barella e cominciò a camminare.

 

Quello che abbiamo letto è un episodio molto particolare sotto diversi aspetti, il primo tra i quali, non per importanza ma per una questione strutturale, riguarda la disposizione dei capitoli da 5 a 7 del Vangelo di Giovanni poiché la loro successione corretta sarebbe 6 – 5 – 7 e non quella che abbiamo in tutte le Bibbie, indipendentemente dalla loro provenienza denominazionale. Così annota Giuseppe Ricciotti nella sua “Vita di Gesù Cristo”: «Questa inversione, del cap. 6 premesso al cap. 5, appare già seguita nell’antichità da Taziano – il Siro, che nel 150 circa scrisse il Diatessaron in cui cercò di armonizzare il racconto dei quattro Vangeli – e nel Medioevo da vari espositori e oggi è abbastanza comune fra studiosi di ogni campo. La serie normale dei codici (capp. 4, 5, 6, 7) si potrebbe forse spiegare con un accidentale spostamento dei fogli contenenti il cap. 5 (o 6) in un archetipo antichissimo».

Altro punto, controverso per gli studiosi, è quale sia questa “festa dei Giudei”, che Giovanni non fa precedere dall’articolo determinativo “la”, ma dal generico “una”. Ora, stante il carattere preciso dell’apostolo pare improbabile che, se si fosse trattato della Pasqua, non lo avesse specificato. Fatto sta che la questione è ancora aperta e che forse si trattò della Pentecoste, che celebrava la rivelazione di Dio a Mosè sul monte Sinai, in seguito alla quale la Torah fu rivelata al popolo.

Venendo poi al luogo, Betesda, o Betzatà, vi è incertezza anche sul significato del nome, “Casa dell’oliveto” (da “beth zetha”) perché inserita in un quartiere nuovo della città dove prima vi era un oliveto, oppure “Casa di misericordia” (da Beth hisdà); fatto sta che Gesù, in questo suo secondo viaggio a Gerusalemme, stando a Giovanni, sostò in Gerusalemme per pochissimo tempo stante i piani omicidi nei Suoi confronti da parte del potere politico-religioso.

Il verso 2 ci dà la possibilità di identificare il luogo, la “Porta delle Pecore” e la piscina, con “cinque portici”: la prima è menzionata da Nehemia (8) quando narra la ricostruzione delle mura di Gerusalemme, della seconda è stata confermata l’esistenza da alcuni scavi archeologici: misurava 120×60 metri, era recinta da quattro portici più uno trasversale che la divideva in due bacini. Ora pare che lì si raccogliessero le acque di una fonte sotterranea dalla quale sgorgavano in modo intermittente, facendone innalzare il livello. Sotto i cinque portici, numero nel quale molti hanno voluto vedere raffigurati i libri della Legge, “giaceva un gran numero di infermi, di ciechi, zoppi e paralitici”. La nostra traduzione è mancante del quarto verso e di parte del terzo. Il testo completo sarebbe

 

“…un gran numero di infermi, ciechi, zoppi e paralitici che aspettavano il movimento dell’acqua. 4Perché di tempo in tempo un angelo scendeva nella piscina e intorpidiva l’acqua; e il primo che vi entrava, dopo l’intorpidimento dell’acqua, qualunque malattia avesse, guariva”.

 

Perché? Sono parole che mancano nei due più antichi codici, il Sinaitico e il Vaticano, ma sono presenti nell’Alessandrino a loro appena posteriore e in altre collocabili tra la fine del I e l’inizio del II secolo. San Girolamo, nella sua Vulgata, inserisce questi versi e lo stesso fanno il Diodati e il Luzzi, oltre che altri. Inserire o meno questo passo è quindi una scelta dei traduttori, ma occorre tener presente l’effetto diverso che dà la lettura dell’episodio con queste aggiunte: sappiamo perché quei malati erano lì, e soprattutto abbiamo la spiegazione di quelle guarigioni, impossibili per una semplice acqua termale. Da sottolineare il fatto che non si trattava di miracoli isolati, ma che si verificavano con continuità ogni volta che l’acqua si intorpidiva e solo per la prima persona che vi entrava. Come tutto ciò fu scoperto, non è dato sapere. Le parole dei versi terzo e quarto, quindi, escludono la spiegazione razionale della fonte sotterranea, o per lo meno la mettono su un piano ben distinto, attribuendo l’intorpidimento della piscina e la conseguente guarigione del primo infermo che vi entrava ad un intervento angelico.

Possiamo immaginarci la scena: da una condizione di relativa calma attorno alla piscina, tutto il luogo si animava all’improvviso quando l’acqua si intorpidiva, o agitava, e quel “grande numero di infermi” cercava di raggiungerla, o da soli, o aiutati da amici e parenti che, presi dal desiderio di veder guarire il loro congiunto, non esitavano a gesti scorretti verso gli altri pur di entrarvi per primi.

Ma c’era lì un uomo, “malato da trentotto anni”, cifra alla quale è facile non far caso poiché l’attenzione del lettore si sposta subito sul lato emotivo, cioè sul fatto che il malato era tale da molto tempo e sulla delusione rappresentata dal non poter mai guarire, essendo impossibilitato a raggiungere l’acqua perché non aiutato da nessuno. Sappiamo da quanto tempo quella persona era inferma, ma non da quanto si trovasse a Betesda. Nella Scrittura il numero trentotto non compare molte volte, ma quei pochi versi ci consentono di individuare correttamente il suo significato. Leggiamo Deuteronomio 2.14: “La durata del nostro cammino, da Kades-Barnea al passaggio del torrente Zered, fu di trentotto anni, finché tutta quella generazione di uomini atti alla guerra scomparve dall’accampamento, come il Signore aveva loro giurato”. Questo avvenne per la sfiducia che quelli avevano dimostrato nei confronti di Dio nonostante li precedesse “…nel cammino per cercarvi un luogo dove porre l’accampamento: di notte nel fuoco, per mostrarvi la via dove andare, e di giorno nella nube”. Fu lì che il Signore disse “Nessuno degli uomini di questa generazione malvagia vedrà la buona terra che ho giurato di dare ai vostri padri, se non Caleb, figlio di Gefunne. Egli la vedrà e a lui e ai suoi figli darò la terra su cui ha camminato, perché ha pienamente seguito il Signore” (Deuteronomio 1.32 e segg.).

Il numero 38, allora, ci parla del provvedimento, selezione e giudizio di Dio. È anche indice di forte negatività e disobbedienza volontaria, a Lui in opposizione, che ci ricorda Acab, figlio di Omri, che “divenne re su Israele a Samaria nell’anno trentottesimo di Asa, re di Giuda. Acab, (…) fece ciò che è male agli occhi del Signore più di tutti i re d’Israele prima di lui”. Stessa cosa per Zaccaria di cui leggiamo: “Nell’anno trentottesimo di Azaria, re di Giuda, Zaccaria, figlio di Geroboamo, divenne re su Israele a Samaria. Egli regnò sei mesi. Fece ciò che è male agli occhi del Signore, come l’avevano fatto i suoi padri; non si allontanò dai peccato che Geroboamo, figlio di Nebat, aveva fatto commettere a Israele – l’idolatria –. Ma Sallum, figlio di Iabes, congiurò contro di lui, lo colpì a Ibleàm, lo fece morire e regnò al suo posto” (2 Re 15.8-12).

Dato un cenno sulla realtà spirituale compresa nel numero degli anni in cui quell’anonimo era paralitico, resta quella terrena, da lui conosciuta benissimo, fatta da una serie ininterrotta di giorni passati a sperare nell’aiuto di qualcuno senza che arrivasse. E qui viene chiamato in causa il tempo, che implica un vivere soggettivo ben diverso da quello segnato dalle lancette dell’orologio che scorrono uguali per tutti: l’esperienza del tempo, infatti, è creata dalla mente perché esso non trascorre, ma semplicemente è. Chiunque è andato a scuola sa benissimo che ci sono “ore” che finiscono presto ed altre che non passano mai e che comunque quasi non si fa in tempo ad iniziare l’anno che subito arrivano le vacanze di Natale, poi quelle di Pasqua, e poi le estive, dopo di che tutto ricomincia da capo. Che la vita passi in un soffio, lo si impara presto fin da bambini.

Ora sono convinto che il tempo vissuto dall’ignoto paralitico gli dovesse essere sembrato enormemente lungo. Non che fosse da trentotto anni nella piscina, ma certo aveva vissuto la propria sofferenza nell’indifferenza generale, senza poter contare sull’aiuto specifico di qualcuno. Fra l’altro, è interessante il fatto che quella persona fosse paralitica lo ha deciso la tradizione, poiché il testo parla di una persona “malata” o “inferma”, segno che non era totalmente inabile, ma certamente invalido. Non può esservi migliore descrizione di quella che quell’uomo dà di sé: “Signore, non ho nessuno che mi immerga nella piscina quando l’acqua si agita. Mentre infatti sto per andarvi, un altro scende prima di me”.

Il nostro testo recita “Gesù, vedendolo giacere e sapendo che da molto tempo era così, gli disse: «Vuoi guarire?»”. Nostro Signore, quindi, vede e sa: vede come tutti gli altri uomini eventualmente presenti lì, ma solo Lui sa “che da molto tempo era così”, e qui non si tratta del semplice, freddo dato dei trentotto anni, ma di come questi erano stati vissuti. Non solo, ma anche quel “sapendo” riguardava la conoscenza dei meccanismi spirituali che avevano portato a quella condizione. Di fatto, quel paralitico attendeva da anni una liberazione che, non potendo certo avvenire scendendo in acqua per primo, era impossibile. Eppure stava lì.

La domanda di nostro Signore è disarmante nella sua semplicità: “Vuoi guarire?”, come fosse qualcosa alla immediata portata di quel pover’uomo. Ed in effetti lo era ma, invece di dare una risposta affermativa, non avendo capito la domanda, quell’anonimo risponde spiegando a Gesù che da solo non sarebbe mai riuscito a scendere nella piscina. A questo punto sappiamo che Nostro Signore, in tutta risposta, gli disse “Àlzati, prendi la tua barella e cammina”, cui seguì  una guarigione istantanea.

Questo è un miracolo molto raro perché qui Nostro Signore agisce di sua iniziativa, non dietro una preghiera dell’interessato e neppure a seguito di una fede in Lui dichiarata: quell’uomo guarì certamente a seguito della compassione che Gesù dimostrò nei suoi confronti, ma soprattutto perché il Figlio di Dio conosceva il suo vissuto, i pensieri e il suo cuore: vedremo infatti che più tardi lo incontrerà nel Tempio a ringraziare l’Iddio d’Israele che aveva provveduto a guarirlo, quindi a perdonarlo, non per strada o in locali pubblici “a festeggiare”.

Io credo che quel “Vuoi guarire?” sia una domanda che viene rivolta a tutti gli esseri umani con la stessa naturalezza, perché la condizione penalizzante del peccato in cui versano, e che così tanto li limita, possa cessare. Sono convinto che anche oggi, ogni giorno, Gesù passi ovunque nel mondo e rivolga la medesima domanda a tutti e soprattutto in un momento ben preciso della loro vita, qui raffigurato nei trentotto anni di paralisi o comunque menomazione grave. Perché il Figlio di Dio interviene e si rivela a coloro che vuole salvare e perdonare. Amen.

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10.14 – A CHI CE NE ANDREMO NOI? (Giovanni 6.59-61)

10.14 – A chi ce ne andremo noi (Giovanni 6.59-71)

59Gesù disse queste cose, insegnando nella sinagoga a Cafàrnao. 60Molti dei suoi discepoli, dopo aver ascoltato, dissero: «Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?». 61Gesù, sapendo dentro di sé che i suoi discepoli mormoravano riguardo a questo, disse loro: «Questo vi scandalizza? 62E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima? 63È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che io vi ho detto sono spirito e sono vita.64Ma tra voi vi sono alcuni che non credono». Gesù infatti sapeva fin da principio chi erano quelli che non credevano e chi era colui che lo avrebbe tradito. 65E diceva: «Per questo vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre».

66Da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui. 67Disse allora Gesù ai Dodici: «Volete andarvene anche voi?». 68Gli rispose Simon Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna 69e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio». 70Gesù riprese: «Non sono forse io che ho scelto voi, i Dodici? Eppure uno di voi è un diavolo!». 71Parlava di Giuda, figlio di Simone Iscariota: costui infatti stava per tradirlo, ed era uno dei Dodici”.  

Il verso 59 ci informa, come già rilevato, del luogo in cui avvenne il discorso di Gesù sul “pane disceso dal cielo”.Sappiamo così che una prima parte del Suo intervento iniziò all’aperto, quando la folla lo trovò “di là dal mare”(6.25) e una seconda, certo la parte più corposa, nella Sinagoga. Ora Giovanni, nei versi che abbiamo letto, descrive le reazioni dei presenti quando ebbe finito di parlare, con particolare riguardo a “molti dei suoi discepoli”, quelli che fino allora lo avevano seguito per motivi politico-religiosi. A loro stava certamente bene avere abbandonato le loro occupazioni ordinarie, dichiararsi suoi discepoli per i miracoli che faceva e i discorsi sulla libertà e l’identità che avrebbero avuto come figli di Dio, ma Lo avevano inquadrato ancora una volta come un Messia fondamentalmente umano, colui che un giorno sarebbe diventato il “Re d’Israele” nel senso immediato del termine. Quando però parlò di se stesso come “il pane della vita”, e della necessità di mangiare “la sua carne e bere il suo sangue”, iniziarono a mormorare fra loro scandalizzati esattamente come i Farisei e i Dottori avevano fatto poco prima. Quelle parole erano “dure”, greco “skleròs”, cioè non tanto difficili da capire, ma piuttosto detestabili, impossibili da ascoltare, empie, proprio come sostenevano i Suoi oppositori storici.

La “parola dura” è quella che scandalizza. È la pietra d’inciampo. La “parola dura” è quella che ancora oggi fa la selezione, che a un certo punto della vita anche del cristiano nominale interviene, gli si pone davanti tramite un concetto che non rientra nelle sue corde e fa sì che si ritragga rivelando che il vecchio uomo, quello carnale, non era mai morto. Alla carne avere una religione può anche star bene, ma a patto che lasci sempre lasciare una via di fuga, una giustificazione. La religione è deve essere recitazione, mai vita. E infatti, come più volte rimarcato, la religione con il Cristianesimo vero non c’entra nulla. Per quei discepoli lo scandalo fu costituito dal principio della carne e del sangue, oggi può essere la richiesta di abbandonare uno stile di vita, un ragionamento, ciò che è stato conquistato con l’ingiustizia. Dobbiamo portare in noi il frutto concreto del pentimento.

A questo punto, dopo che “molti discepoli”sentenziarono che la parola di Gesù era “dura”, ancora una volta Nostro Signore affonda la sua spada a due tagli e parla non più della Sua morte, ma dalla vittoria che avrebbe riportato su di essa, tornando non solo da dove era venuto, dal cielo, ma con un “nome che è al di sopra di ogni altro”(Filippesi 2.5): il senso delle parole “Questo vi scandalizza? E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima?”non è quello, immediatamente interpretabile in base al quale la Sua ascensione sarebbe stata un ulteriore motivo di scandalo, ma: quella difficoltà a capire dei discepoli sarebbe cessato se lo avessero visto salire al cielo? Con queste parole Nostro Signore intende dire che il suo ragionamento sulla sua carne e sangue non andava preso in senso letterale, umano, ma spirituale proprio perché “È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova nulla”. E infatti fu il prendere quel discorso prendendo le parole nella loro letteralità a scandalizzare; se vi fosse stata apertura mentale, se il preconcetto avesse lasciato spazio al puro desiderio di comprendere, le cose sarebbero andate diversamente, ma quella gente si sentiva superiore, in grado di giudicarLo.

La carne, senza l’intervento dello Spirito Santo, è e rimane inerte, morta nonostante sia apparentemente viva; ricordiamo le parole dell’apostolo Paolo “Misero me uomo, chi mi libererà da questo corpo di morte?”. Morte che domina tutto, anche il ragionare. La carne, nonostante sia in vita, pensa cose morte e fa cose morte perché essa è il suo destino, prospettiva, a meno che non intervenga lo Spirito di Dio a risollevarla per portarla in un territorio nuovo. Ed è la comprensione spirituale delle parole del Cristo, in opposizione alla lettera, che può trasformare la morte in vita. Ricordiamo le parole “La lettera uccide, ma lo Spirito vivifica”(2 Corinti 3.6).

“Le parole che vi ho detto sono spirito e vita”costituiscono una verità, un attestato, una certezza che si concreta in tutte le volte che il verbo essere compare nell’episodio: dice Gesù nella Sinagoga “Io sono il pane della vita”(2 volte), “sono disceso dal cielo”, “Io sono il pane vivo”; le Sue parole erano le uniche che potessero condurre l’uomo alla salvezza per cui sta alla creatura, anche oggi, scegliere tra una guida cieca oppure Gesù stesso.

È probabile che le parole sulla Sua resurrezione scandalizzassero ancora di più i discepoli che “non credevano in lui”, mischiati a quelli veri, preludio alla realtà della zizzania nel campo. Sappiamo però che “Gesù sapeva fin da principio chi erano quelli che non credevano e chi era quello che lo avrebbe tradito”: impossibile ingannarlo e quel sapere “fin da principio”ci parla di quei nomi “scritti prima della fondazione del mondo”(Efesi 1.4), dell’impossibilità dell’intrusione che questi soggetti avranno nel Regno di Dio. Nostro Signore sa quindi chi gli appartiene, ma anche i pensieri più profondi e reconditi di ogni essere umano e, nel caso in cui questi diventi figlio, ha un progetto per lui perché, se Dio è nei nostri pensieri, noi lo siamo nei Suoi. Credo che, assieme a quella della salvezza, non possa esservi consapevolezza migliore.

“Molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andarono più con lui”: fecero una scelta. Tornare indietro implica rinunciare a seguirlo, a fare il cammino con Lui, scegliere la solitudine, l’identificazione con la morte, tornare da dove si è venuti dopo un breve intervallo in cui si è creduto di aver trovato un’alternativa. Ma la carne, per quelle persone, fu più forte. Quando purtroppo mi ritrovo a fare i conti con la realtà della mia vita orizzontale, coi suoi problemi a volte difficili, mi chiedo sempre che senso abbia non tanto il doverli affrontare, ma la vita stessa, che trova nella morte il suo punto di arrivo. E concludo che, privato della certezza e della prospettiva di occupare un posto nella “casa delle molte stanze”, ogni cosa sarebbe priva di significato. Tornare indietro, allora come oggi, equivale a rinunciare a un cammino con Gesù, a rinnegare, rifiutare le parole “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Matteo 28.20). È la “bestemmia contro lo Spirito Santo”l’unico peccato a non essere perdonato.

“Molti discepoli tornarono indietro”, ma non tutti. E Nostro Signore, per far sì che i dodici dessero una spiegazione non a Lui, ma a loro stessi, del perché rimanessero lì, chiede “Volete andarvene anche voi?”: la volontà dipende dall’anima e dallo spirito della persona, si esprime sospinta da una forza a loro connessa, ma Pietro, parlando anche per gli altri, che aveva ben vivo il ricordo di ciò che era avvenuto sul lago in tempesta e non solo, lascia spazio a una dichiarazione particolare: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio”, che altre traduzioni riportano con “il Cristo, il Figlio dell’Iddio vivente”a seconda della fonte, che risente dell’influenza di Matteo 16.

Pietro non dice di aver compreso il discorso sulla carne e il sangue, cosa che avverrà dopo la discesa dello Spirito Santo, ma confessa quale più anziano del gruppo che né lui né gli altri avevano alternative una volta riconosciuto di aver bisogno di un Pastore e, soprattutto, averlo trovato. I verbi “creduto”e “conosciuto”fanno riferimento al fatto che i dodici a quella conclusione erano giunti dopo un’attenta osservazione dei fatti di cui erano stati testimoni e protagonisti al tempo stesso, oltre che di una forte volontà di capire i suoi discorsi. Ed erano arrivati a un punto in cui in loro si era creata la consapevolezza del fatto che, senza di lui, non avrebbero potuto essere. Senza il loro Maestro si sarebbero sentiti persi, a differenza di quanti “tornarono indietro”ad una vita che, temporaneamente, li avrebbe distolti dal pensare che un giorno sarebbero morti trovandosi di fronte a ciò che Gesù aveva detto: “Chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anche il Figlio dell’uomo lo riconoscerà davanti agli angeli di Dio; ma chi mi rinnegherà davanti agli uomini, sarà rinnegato davanti agli angeli di Dio”(Luca 18.8).

La risposta “Non sono forse io che ho scelto voi, i dodici?”riguarda non l’elezione per la vita eterna, ma la nomina ad apostoli (Luca 6.13). La immediata aggiunta “Eppure uno di voi è un diavolo”ha fatto seguito al tema dell’elezione probabilmente perché gli altri undici, una volta che Giuda Iscariotha si fosse rivelato, non avessero dei dubbi ipotizzando che il loro Maestro avesse sbagliato a scegliere uno di loro. Il termine usato per indicare Giuda è molto particolare perché di lui non è detto che è un “daimon”, cioè uno spirito maligno, ma “diàbolos”, cioè “colui che divide”, “calunniatore”, “accusatore”, col quale è evidente l’identificazione con Satana. Jacques Masson, teologo vissuto tra il 1400 e il 1500, osservò che “Egli era animato dallo spirito di Satana, così da esser fra i dodici quello che Satana era stato nella famiglia di Dio in cielo”. Occorre però specificare che questa identificazione piena avverrà in un punto preciso, quando ricevette da Gesù il boccone intinto, dopo di che leggiamo che “Satana entrò in lui”, cioè ne prese pieno possesso non per umiliarlo come fece e fa con gli indemoniati, ma per i suoi scopi. Giuda quindi, a quel tempo, era una persona che agiva per se stesso, traendo un illecito guadagno rubando dalla cassa comune di cui era responsabile, oltre a disprezzare costantemente tutto ciò di cui, assieme agli altri, era testimone. “Uno di voi è diavolo”, sono parole che quindi si riferiscono alla prospettiva e al destino di quell’apostolo, ma anche al fatto che a spingerlo nelle sue azioni era una forza contraria che andava oltre oltre l’impermeabilità del cuore e della mente. “Durante la cena,(…) il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda, figlio di Simone Iscariotha, di tradirlo”: si noti il “già” che allude al processo inevitabile di chi non solo rifiuta il Vangelo, ma lo combatte, lo ignora volutamente, resta indifferente nonostante le Sue manifestazioni. Giuda qui “stava per tradirlo”, il che significa che aveva già deciso di attendere il tempo opportuno per farlo: avrebbe ferito al calcagno la “progenie della donna”.

Credo che qui, a prescindere da quanto scritto finora, quel “diavolo”riferito a Giuda sia strettamente connesso a un’altra definizione che Gesù dà di lui: in Giovanni 17.12 leggiamo “Quando ero con loro, io li custodivo nel tuo nome, quello che mi hai dato, e li ho conservati, e nessuno di loro è andato perduto, tranne il figlio della perdizione, perché si compisse la scrittura”. Qui si aprirebbe un argomento immenso, che penso sia impossibile da sviluppare se non poco per volta, stante gli scopi che si prefiggono questi studi sul Vangelo.

Se però Giuda è il livello più alto – in questo contesto – della manifestazione satanica, ricordiamo che non è importante riflettere sulla capacità distruttiva di questo personaggio, quanto piuttosto sul fatto che l’Avversario abita certe persone, compresi quegli Scribi e Farisei cui Gesù si rivolse dicendo “Voi che avete per padre il diavolo, e volete compiere i desideri del padre vostro. Egli è stato omicida fin da principio e non ha perseverato nella verità, perché non vi è verità in lui. Quando dice il falso, parla del suo, perché è menzognero e padre della menzogna. A me, invece, voi non credete, perché dico la verità. Chi di voi può convincermi di peccato? Se dico la verità, perché non mi credete? Chi è da Dio ascolta le parole di Dio: per questo voi non le ascoltate, perché non siete da Dio”. Ecco perché, per trovare un angelo dell’Avversario, o un appartenente a lui, non dobbiamo andare troppo lontano. E, a volte, questo non lo pensiamo. Amen.

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10.13 – CHI MANGIA LA MIA CARNE E BEVE IL MIO SANGUE (Giovanni 6.52-58)

10.13 – Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue (Giovanni 6.52-58)

 

52Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». 53Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. 54Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. 55Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. 56Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. 57Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. 58Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno»”.

 

A un lettore attento ai verbi che descrivono lo stato d’animo dei Giudei non sarà sfuggito che prima “mormorano” e poi che, dopo le parole “il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”, si mettono a “discutere aspramente”perché quella frase rappresentò per loro qualcosa di totalmente assurdo e non sapevano come interpretarla alla luce della loro conoscenza. A cosa alludeva Gesù? Per quanto sapevano i Suoi uditori, non poteva certo riferirsi a una forma di cannibalismo perché avrebbe comportato l’infrazione del comandamento “Non ucciderai”senza contare che cibarsi di un corpo umano sarebbe stato impossibile dal momento in cui, solo per aver toccato un cadavere, una persona rimaneva impura “fino alla sera”. Ora, poiché questi due principi erano chiari a tutti, il fatto che discutevano aspramente ci parla del fatto che, in quella Sinagoga, si erano create due fazioni opposte che, come dal verbo utilizzato, “emaxónto”, “combattevano”tra loro: vi era così un gruppo che credeva in Gesù e ne accettava la dottrina, un secondo che la contrastava ritenendola assurda e impossibile.

A questo punto intervengono i due “Amen” di Gesù in cui pone di fronte quei Giudei a qualcosa di enorme: al mangiare la propria carne aggiunge il bere Suo sangue, altra pratica proibita dalla Legge, per sette volte, a cominciare dalla Genesi in cui leggiamo (9.4) “Soltanto non mangerete la carne con la sua vita, cioè con il suo sangue. Del sangue vostro, ossia della vostra vita, io domanderò conto; ne domanderò conto a ogni essere vivente, e domanderò conto della vita dell’uomo all’uomo, a ognuno di suo fratello”. Sono parole dette a Noè e ai suoi figli una volta usciti dall’arca. Essendo quindi il sangue la sede fisica della vita animale e al tempo stesso facente espiazione per l’anima dell’uomo, come ha scritto un fratello, “ai più riflessivi e sinceri dei suoi uditori, la separazione che Gesù fa fra la sua carne e il suo sangue dovette dar l’idea della morte, non naturale ma espiatoria come accennato al verso 51 «il pane che darò è la mia carne per la vita del mondo»”.

Vorrei a questo punto mettere in risalto gli elementi a disposizione della fazione contraria a Nostro Signore per cercare di capire quanto voleva dire nonostante, più che la verità, a loro interessasse la contesa: prima di tutto c’era il fatto che Gesù era un profeta e, riguardo alla categoria di queste persone, la Legge aveva dato delle indicazioni per distinguere quello vero dal falso: “Qualora sorga in mezzo a te un profeta o un sognatore che ti proponga un segno o un prodigio, e il segno e il prodigio annunciato succeda, ed egli ti dica: «Seguiamo dèi stranieri, che tu non hai mai conosciuto, e serviamoli», tu non dovrai ascoltare le parole di quel profeta o di quel sognatore perché il Signore, vostro Dio, vi mette alla prova per sapere se amate il Signore, vostro Dio, con tutto il cuore e con tutta l’anima. Seguirete il Signore, vostro Dio, temerete lui, osserverete i suoi comandi, ascolterete la sua voce, lo servirete e gli resterete fedeli, Quanto a quel profeta o a quel sognatore, egli dovrà essere messo a morte, perché ha proposto di abbandonare il Signore, vostro Dio, che vi ha fatto uscire dalla terra d’Egitto e ti ha riscattato dalla condizione servile, per trascinarti fuori della via per la quale il Signore, tuo Dio, ti ha ordinato di camminare. Così estirperai il male in mezzo a te”(Deuteronomio 13.2-6). Ora non mi pare che Gesù rientrasse nella categoria qui descritta e sicuramente anche il partito a lui opposto, in quella sede, non avrebbe potuto accusarlo in tal senso.

C’era poi la frase, ripetuta quattro volte, “lo risusciterò nell’ultimo giorno”: non potevano essere parole dette a caso perché Gesù aveva già risuscitato, per quanto sappiamo, due persone, la figlia di Jairo, proprio a Capernaum, e il figlio della vedova a Nain. Quelle parole, quindi, avrebbero dovuto essere elaborate con la massima attenzione. Terzo, Nostro Signore era lì, in mezzo a loro e non ci sarebbe stato altro modo per approfondire interpellandolo direttamente come avvenuto quando, in età di dodici anni, a Gerusalemme è scritto che i Dottori della Legge “erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte”(Luca 2. 47). Attenzione, perché quei maestri venivano da una vita dedicata allo studio, estensione e memorizzazione dei testi sacri e di un mare di sentenze custodite gelosamente da secoli. E mi viene in mente Nicodemo, che andò da Lui per capire e lo interrogò certo non con un senso di superiorità e per contendere.

Tornando al nostro testo sembra quasi, per le dinamiche descritte, che Gesù sembra voler “rincarare la dose” quando, al pane-carne, aggiunge il suo sangue-bevanda, ben sapendo le reazioni che avrebbe provocato: il fatto è che la verità andava detta comunque e in tal modo avrebbe dimostrato, come già detto ai discepoli, di essere “venuto sulla terra non a portare la pace, ma la spada”(Matteo 10.34). Non solo, ma teniamo presente la risposta data ai discepoli circa il motivo del Suo parlare per parabole, quindi per figure che in alcuni casi erano dei veri e propri enigmi: “A voi è stato dato il mistero del regno di Dio; per quelli che sono fuori invece tutto avviene in parabole, affinché guardino, sì, ma non vedano; ascoltino, sì, ma non comprendano, perché non si convertano e venga loro perdonato”(Marco 4.11,12). Non si tratta di una selezione arbitraria operata da un dio capriccioso, ma della conseguenza dello stato dell’anima della persona, del fatto che “Dio resiste ai superbi e fa grazia agli umili”(1 Pt 5.5), concetto espresso anche in Proverbi 3.34 “Dei beffardi egli si fa beffe e agli umili concede la sua benevolenza”. E il superbo è colui che è assolutamente convinto della propria superiorità sugli altri, quindi abituato a trattare il prossimo con arroganza e disprezzo.

Sappiamo che Gesù parlò in parabole, ma che poi le spiegava ai Suoi: lo stesso farà per queste parole sulla Sua carne e il Suo sangue, per quanto più di un anno dopo nell’ultima cena. Leggendo la versione di Matteo 26.26-28 abbiamo: “Ora, mentre mangiavano, Gesù prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e, mentre lo dava ai discepoli, disse: «Prendete, mangiate: questo è il mio corpo». Poi prese il calice, rese grazie e lo diede loro, dicendo: «Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti per il perdono dei peccati”. Abbiamo qui la rivelazione di ciò che Lui intendesse quando parlò ai Giudei a Capernaum: si tratta di una simbologia per alludere alla profonda immedesimazione che dev’esservi tra chi è da Gesù salvato e redento, e Lui stesso in quanto il sacrificio della croce rappresenta il massimo dei doni che vengono porti all’uomo che li accoglie.

Apro una parentesi che mi sembra doverosa: i Giudei rifiutarono il concetto letterale della carne da mangiare e del sangue da bere, ma alcune Chiese ne hanno fatto, altrettanto letteralmente, un dogma stabilendo la transustansazione nell’eucarestia, come dichiarato nel Concilio di Trento (sessione XIII, 11 ottobre 1551): “con la consacrazione del pane e del vino si opera la conversione di tutta la sostanza del pane nella sostanza del Corpo di Cristo, Nostro Signore, e di tutta la sostanza del vino nella sostanza del suo sangue”. Va bene, ma prima? Questa “conversione” esisteva, oppure no?

Al contrario di questa teoria, che poi per il cattolicesimo è un dogma, si tratta di riconoscere in quel pane e in quel vino il corpo e il sangue di Gesù dato per tutti coloro che lo avrebbero accolto. Fu un sacrificio fatto “una volta per sempre”(Ebrei 9.28) che non ha alcun senso che si rinnovi, mentre a ripetersi – questo sì – è il suo ricordo come dalle parole “Fate questo in memoria di me, finché io venga”(Luca 22.19). Se nell’ultima cena gli apostoli avessero sospettato anche lontanamente che quel vino fosse stato davvero il sangue del loro Maestro, non lo avrebbero certamente assunto, così come il pane, se non fosse stata figura del suo corpo e non la presenza reale di esso.

Le parole dei nostri versi in esame, per la circostanza in cui furono pronunciate, hanno riferimento profetico e al significato del credere più che alla celebrazione del Memoriale (o Eucaristia) che, come sappiamo, sarà istituito in seguito: abbiamo prima il pane – carne, quindi un alimento che, a differenza di quello naturale che deperisce, è per la vita eterna. Questo può essere identificato solo nella persona di Gesù, “Verbo”che “si è fatto carne e venne ad abitare in mezzo a noi”con un corpo simile al nostro, che ha conosciuto una morte violenta, ingiusta, eppure l’ha vinta. Scrive l’apostolo Paolo in Romani 5.6-9 “Quando eravamo ancora senza forza, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi. Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. A maggior ragione ora, giustificati nel suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui”.

Sappiamo che “A tutti coloro che l’hanno accolto, ha dato il potere di diventare figli di Dio”, quindi è questa accoglienza, che si concreta inizialmente nel riconoscerlo come la “Parola fatta carne”, che comincia il cammino verso la salvezza. Quando fu detto a molti, uomini e donne “Va’, la tua fede ti ha salvato”, significa proprio che questi nostri fratelli o sorelle che ci hanno preceduto lo avevano riconosciuto come Signore. Il Suo sangue, poi, non può avere altri riferimenti che col sacrificio che affrontò come “Agnello di Dio che toglie– cioè prende su di sé – il peccato del mondo”. Il corpo di Gesù è “vero cibo”e il Suo sangue “vera bevanda”perché l’anima dell’uomo ha bisogno di essere sfamata e dissetata. Infatti “tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù– non in altri –. È lui che Dio ha stabilito apertamente come strumento di espiazione, per mezzo della fede, nel suo sangue, a manifestazione della sua giustizia per la remissione dei peccati passati”(Romani 3.23-25).

L’autore della lettera agli Ebrei scrive a proposito di questo sangue: “Se il sangue dei capri e dei vitelli e la cenere di una giovenca, sparsi su coloro che sono contaminati, li santificano purificandoli nella carne, quanto più il sangue di Cristo – il quale, mosso dallo Spirito eterno, offrì se stesso senza macchia a Dio – purificherà la nostra coscienza dalle opere di morte, perché serviamo al Dio vivente? (…)Ora, una volta sola, nella pienezza dei tempi, egli è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso. E come per gli uomini è stabilito che muoiano una volta sola, dopo di che viene il giudizio, così Cristo, dopo essersi offerto una sola volta per togliere il peccato di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione con il peccato, a coloro che l’aspettano per la loro salvezza”(9.13-28).

Ecco allora perché abbiamo letto “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me ed io in lui”, parole che hanno stretta relazione con un altro passo che ci parla dell’identità dell’uomo finalmente trovata: “Ecco, io sto alla porta e busso: se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me”(Apocalisse 3.20). Per vivere in eterno, per essere risuscitati nell’ultimo giorno. Amen.

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10.12 – IL PANE DELLA VITA (Giovanni 6.45-51)

10.12 – Il pane della vita (Giovanni 6.41-51)

48Io sono il pane della vita. 49I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; 50questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. 51Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».”.

I versi da 26 a 58 di questo capitolo sono dedicati alla presentazione di Gesù come “Pane della vita”con un discorso in cui si rivela non solo come unica fonte di salvezza per l’uomo, ma dà anche per la prima volta un’identità precisa di sé riguardo al proprio corpo e sangue. Già qui abbiamo un’incommensurabile distanza tra ciò che fu Lui come uomo e ciò che siamo noi: le parole “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna ed io lo risusciterò nell’ultimo giorno”(v. 54) fanno riferimento al Suo potere salvifico in contrapposizione alla nostra incapacità risolutiva in tal senso perché la nostra “carne e sangue – cioè così come siamo– non possono ereditare il regno di Dio” (1 Corinti 15.50).

Per quanto noi possiamo fare, allora, non abbiamo nessun potere su ciò che esula dal nostro ambiente terreno per quanto, anche in quel contesto, non possiamo fare “un solo capello bianco o nero”. Si tratta di un’impossibilità già espressa nel dialogo con Nicodemo in cui leggiamo“Se uno non nasce da acqua e Spirito, non può entrare nel regno di Dio. Quello che è nato dalla carne è carne, e quello che è nato dallo Spirito è spirito”(Giovanni 3.5,6).

“Io sono il pane della vita”viene ripetuto per la seconda volta a distanza di poco tempo così come il richiamo alla manna nel deserto ad esso simbolicamente collegato. Mi sono chiesto quali applicazioni si potessero fare sul “pane” nella Scrittura, che simboleggia ciò che alimenta l’uomo e troviamo menzionato la prima volta in Genesi 3.19: “Con il sudore del tuo volto mangerai il pane, finché non tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e polvere ritornerai”. Per poter sopravvivere, quindi, Adamo e la sua discendenza avrebbero dovuto lavorare con fatica, a differenza di quanto avveniva in Eden, quel luogo che il Creatore aveva personalmente realizzato per loro e in cui non si conosceva la fame né altre problematiche legate all’esistenza. Ricordiamo che Adamo e sua moglie avevano a disposizione tutti i frutti del giardino, ma ancora di più quelli dell’ “albero della vita”che si trovava al centro di esso, cioè sempre raggiungibile, mai distante da qualunque punto si trovassero. Contrariamente il pane che Adamo si sarebbe procurato lavorando, lo avrebbe nutrito fino a quando egli non sarebbe ritornato polvere.

Il pane, certo non quello contaminato che abbiamo oggi, è figura di ciò che necessita all’uomo per vivere e infatti è uno dei soggetti di preghiera nel “Padre Nostro”, ma nelle parole di Gesù è un elemento che si trasforma sempre in un concetto di più ampia portata: “l’uomo non vive di solo pane, ma di ciò che procede dalla bocca di Dio”, quindi c’è un nutrimento diverso che va assunto per vivere davvero, al di là di quello che conosciamo. Nella seconda parte del verso 50, poi, c’è un “pane che discende dal cielo perchéchi ne mangia non muoia”essendo il Cristo l’unica opportunità offerta per perché l’uomo si possa appropriare di quella vita eterna che altrimenti gli sarebbe negata. E il paragone con la “manna del deserto”, rivolto al popolo che ben conosceva l’episodio, fu quanto mai pertinente, perché la citazione di quanto avvenuto in Esodo ci parla di un intervento di Dio perché gli israeliti non morissero di stenti in un territorio ostile. Ma c’è di più perché, se per i Giudei la citazione dell’episodio della manna fu il punto di partenza per rifiutare Gesù come riportato al verso 31 (“I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto, come sta scritto”), per Nostro Signore fu quello di arrivo: certo i loro padri l’avevano mangiata e morirono, ma “questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia”(v.50).

Il primo pane, quindi, era per la sopravvivenza temporanea, ma il nuovo, quello “che discende dal cielo”, lo sarebbe stato per la vita eterna. È e fu punto di arrivo perché, dopo di quello, l’uomo non può desiderare altro: cibandosene ha finalmente un ruolo, una prospettiva, una destinazione, una dignità vera. Da notare che i pronomi “Io”e “Me”compaiono in questo capitolo per 35 volte, 5×7, a sostegno della totalità e perfezione dell’opera del Figlio. In quel “sono morti”, infatti, abbiamo un rimando alla descrizione obiettiva che Salomone fa dell’esistenza umana nel libro del Qoèlet quando scrive “Una generazione se ne va e un’altra arriva, ma la terra resta sempre la stessa (…) nessun ricordo resta degli antichi, ma neppure di coloro che saranno si conserverà memoria presso quelli che verranno in seguito”(1.4,11): ora il “ricordo degli antichi”non è riferito ai grandi della storia – anche quelli che troviamo nell’Antico Patto –, ma a tutto quel patrimonio di vissuto, nel bene e nel male, di aspirazioni, esperienze e speranze di tutti quelli che sono stati, in un modo o in un altro, protagonisti della loro storia e che è svanito, di quella verità reale, non ufficiale, che non ci è stata tramandata e che non conosciamo. Credo che lo studio della storia umana sia uno dei più grossi inganni che possiamo subire perché scritta sempre dai vincitori che l’hanno piegata ai loro scopi e dagli storici che, per quanto riguarda quella recente, l’hanno omessa in quei dettagli che avrebbero potuto modificarne il senso.

Certo la manna nel deserto ebbe una valenza spirituale assoluta perché stava a testimoniare l’amore di Dio per il suo popolo, ma costituiva, dal momento in cui Gesù parlava in poi, un evento passato: uno dei tre artefici della manna nel deserto stava lì, davanti a quei Giudei che lo contestavano incapaci di capire e privi della volontà di comprenderne il senso.

Ricordiamo infatti le parole di Proverbi 8.21-31 quando parla la Sapienza “Quando egli fissava i cieli, io ero là, quando tracciava un cerchio sull’abisso, quando condensava le nubi in alto, quando fissava le sorgenti dell’abisso, quando stabiliva al mare i suoi limiti così che le acque non oltrepassassero i loro confini, quando disponeva le fondamenta della terra, io ero con lui come artefice ed ero la sua delizia ogni giorno: giocavo davanti a lui in ogni istante, giocavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo”(Proverbi 8.21-31). Sicuramente da sottolineare il “globo terrestre”, descrizione che sta a indicare come gli uomini di Dio già sapessero che la terra non era piatta, come si riteneva nel mondo antico estraneo alla Rivelazione.

Un giorno ho pensato che l’opera della creazione di Dio fu un atto non meno complesso del piano di salvezza per l’uomo: il Padre scrisse, nel Libro che solo l’Agnello sarà in grado di aprire, i nomi di tutti coloro che sarebbero stati salvati. Diede loro un posto, un ruolo tanto nella vita terrena che in quella eterna provvedendo alla cancellazione del loro peccato, come troviamo scritto, “…e non mi ricorderò più dei loro peccati”(Geremia 31.31): in Ebrei 8.13 infatti leggiamo “Dicendo alleanza nuova– quella di cui Geremia ha parlato –  Dio ha dichiarato antica la prima; ma, ciò che diventa antico e invecchia, è prossimo a scomparire”. Non credo che possa esservi passo migliore, a commento di quanto stava avvenendo nella Sinagoga di Capernaum, di Ebrei 1.1-4 che, in poche parole, traccia il senso della storia umana raccordata a quella della Creazione Nuova di cui Gesù è il responsabile: “Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo. Egli è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza, e tutto sostiene con la sua parola potente. Dopo aver compiuto la purificazione dei peccati, sedette alla destra della maestà nell’alto dei cieli, divenuto tanto superiore agli angeli quanto più eccellente del loro è il nome che ha ereditato”.

È proprio questo ultimo verso a spiegare cosa volesse dire Gesù: il mangiare “di questo pane”è la chiave del discorso, una direzione unica e precisa che ogni uomo, da quando furono pronunciate queste parole, è chiamato a prendere. Per ora stiamo ancora considerando la prima parte di quanto detto da Nostro Signore: mangiare “di questo pane”è un’azione che comporta l’avvicinarsi, prenderlo e cibarsene, cioè farlo profondamente proprio, assimilarlo, quindi ha riferimento con il “credere”che, come più volte sottolineato, è tutt’altro che una semplice presa d’atto. E, certo, comporta delle prese di posizione viste nei due veri “sacramenti” del cristianesimo, il battesimo e la santa cena in cui, assumendo pane e vino, i credenti rinnovano la loro adesione a Cristo obbedendo al comandamento “Fate questo in memoria di me, finché io venga”.

“Se  uno mangia di questo pane vivrà in eterno”, esprime così una condizione, l’unica perché ciò possa avvenire essendo la conseguenza del credere. Poi leggiamo “il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”(v.51), frase che ha generato da allora in avanti una confusione enorme perché presa letteralmente. Subito infatti i Giudei dissero “Come può costui– in senso spregiativo – darci la sua carne da mangiare?”(v.52) e “da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui”(v.66). Sono passi che affronteremo, ma che dicono molto sull’incapacità dell’uomo naturale di comprendere qualsiasi concetto spirituale: esistono le parabole – o per lo meno alcune di loro –, racconti semplici, che rimangono impressi e il più delle volte sono interpretabili anche da un bambino, ma nel momento in cui ci si addentra nelle prime verità nascoste di Dio ecco che la mente carnale subito interviene volendo interpretare correttamente e, non riuscendovi, si arrende nel modo sbagliato, cioè rifiutandole invece che chiedere umilmente a Lui di illuminarlo. Rifiutare un concetto spirituale comporta sia il respingerlo che il giudicarlo, allontanandosene.

Rimaniamo un poco su quanto detto da Gesù finora: la vita eterna la possiede “chi mangia di questo pane”, ma prima, al verso 40, le parole furono “La volontà di colui che mi ha mandato è questa: che chiunque vede il Figliolo e crede in lui, abbia vita eterna, e io lo risusciterò nell’ultimo giorno”, due concetti diversi che portano al medesimo risultato comprendendoli entrambi; “vedere”e “credere”, quindi riconoscere la sua esistenza e presenza spirituale indipendentemente dal tempo in cui si vive. Quando Gesù era sulla terra la gente poteva vederlo di persona e credere o meno, allora come oggi. Ogni credente vissuto dalla morte e resurrezione del Cristo in poi, noi compresi, lo ha visto con gli occhi di chi ce lo ha descritto, in parole e opere, nel Vangelo e in tutti gli scritti che compongono il cosiddetto “Nuovo Testamento”.

Quindi: chi ha mangiato la manna nel deserto morì confermando l’amara constatazione di Salomone “Tutti sono diretti nel medesimo luogo: tutto è venuto dalla polvere e tutto ritorna”(Qoèlet 3.20); chi però afferra l’opportunità di cibarsi del pane disceso dal cielo “vivrà in eterno”perché, pur passando attraverso la morte del corpo, eviterà quella seconda riservata ai “codardi, gli increduli, gli immondi, gli omicidi, i fornicatori, i maghi, gli idolatri e tutti i bugiardi”(Apocalisse 21.8). Si tratta di categorie illuminanti che riguardano tutti coloro che non fanno proprio il sacrificio di Cristo per essere salvati senza produrre quei “frutti degni del ravvedimento”indispensabili a confermare la nuova nascita. Si tratta, ancora, delle stesse tipologie di persone alle quali appartenevamo un tempo. Scrive l’apostolo Paolo che “Tali eravate alcuni di voi, ma siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio!”( 1 Corinti 6.11).

Ancora, sempre in Apocalisse 20.15 leggiamo che “chi non risultò scritto nel libro della vita fu gettato nello stagno di fuoco”, per cui l’uomo non può avere alternative di scampo se non in quel “pane vivo disceso dal cielo”oggi liberamente a disposizione di chiunque. Sono queste parole importanti e mettere i versi di Apocalisse che abbiamo riportato in relazione tra loro è fondamentale perché, lungi dal dividere l’umanità in “buoni e cattivi”, in realtà crea l’insieme dei credenti e dei non credenti, cioè di coloro si nutrono delle parole del Figlio di Dio oppure no, su Lui fanno affidamento e in Lui si nutrono. Amen.

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