16.27 – Il quattrino della vedova (Marco 12.41-44)
41Seduto di fronte al tesoro, osservava come la folla vi gettava monete. Tanti ricchi ne gettavano molte. 42Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo. 43Allora, chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: «In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. 44Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere».
Con questo episodio arriviamo al pomeriggio del martedì quando, terminate le discussioni e gli insegnamenti con parabole, Gesù si sposta con i Suoi nel cortile delle donne, chiamato così non perché loro riservato, ma in quanto più oltre non potevano andare; qui si trovavano murate tredici di quelle che chiameremmo “cassette delle offerte”, dette “trombe” per la loro forma. Di queste, due erano destinate alla famosa tassa del Tempio, il mezzo siclo, ordinata dalla Legge di Mosè; nelle altre finivano i liberi contributi per il servizio giornaliero che avveniva in quel luogo.
Le offerte in Chiesa per noi sono un gesto quasi banale, le vediamo come una somma data per opere che altrimenti essa non potrebbe portare avanti, ma in origine non era così e costituiva una forma di adorazione, di riconoscenza per le benedizioni ricevute con la quale si rinnovava il desiderio di appartenenza al Signore e di avere sempre bisogno di lui. I primi che spontaneamente praticarono questa forma di partecipazione, appunto l’offerta come gesto, furono Caino e Abele che però venne fatta con intenti diversi, il primo con superstizione e sufficienza, soprattutto non tenendo in considerazione il fatto che non poteva presentarsi a Dio in una condizione di peccato, portando avidità e materialismo dentro di sé. Infatti, sappiamo che fu gradito quanto presentò il fratello.
L’offerta del Tempio, di mezzo siclo, è interessante considerare che era stabilita dal Signore come fissa, nel senso che valeva per tutti gli israeliti: “Ogni persona (…) dai vent’anni in su, corrisponderà l’offerta prelevata per il Signore. Il ricco non darà di più e il povero non darà di meno di mezzo siclo, per soddisfare all’offerta prelevata per il Signore, a ricatto delle vostre vite” (Esodo 30. 14,15). Possiamo leggere, tra queste parole, la presenza dell’uguale debito che avevano tutte le anime davanti a Dio, poveri e ricchi che per questo non dovevano dare né di più né di meno, e nell’ “offerta” una delle figure del sacrificio di Gesù, “venuto per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Matteo 20.28; Marco 10.45).
Quanto veniva versato nelle altre undici “trombe” era invece una somma libera perché basata su necessità oggettive: lavori necessari all’edificio o acquisto di materiali e utensili per il servizio. Era un dare molto sentito, in cui il popolo ritrovava la sua identità, ma che costituiva anche, per alcuni, un’occasione di fare sfoggio di sé, mostrare pubblicamente la propria generosità e confermare al tempo stesso lo status sociale cui apparteneva.
Tornando al nostro testo trovo molto bella quest’immagine di Nostro Signore “seduto”, penso perché desideroso di riposare dopo tutto quanto fatto fino ad allora, prima di intraprendere coi Suoi il cammino verso Betania; sedeva e “osservava come la folla vi gettava le monete”: “osservava”, non “guardava”, verbo che ci suggerirebbe qualcosa fatto quasi per passare il tempo.
Al contrario con quell’ “osservava come”, abbiamo il Dio dell’Antico e del Nuovo Patto che legge nei cuori di quanti, appartenenti al Suo popolo, davano le offerte. “Come la folla vi gettava le monete” cioè se in modo consapevole di partecipare, sostenendolo, al servizio del Tempio, oppure per farsi vedere dal prossimo, o ancora come consuetudine, versando lo stretto necessario per non fare la figura degli indifferenti. Va venuto presente che mancavano pochi giorni alla Pasqua e l’affluenza al Tempio doveva essere grande.
“Tanti ricchi ne gettavano molte”: erano monete di rame, come rivela la parola greca xalkòn (rame), che venivano buttate dentro a manciate; così certo si contribuiva non poco, tecnicamente parlando, alle spese necessarie, ma se al valore offerto non corrispondeva un’azione del donare da parte del cuore, tutto si limitava al gesto e al suo risultato meramente tecnico, meccanico nel senso che quel denaro veniva preso e utilizzato senza che però a monte ci fosse la cosa più importante, vale a dire la partecipazione spirituale del donante. Non c’erano, come quando furono cacciati i mercanti, commerci e trattative sul prezzo, ma una successione di gesti prevalentemente aridi. In altri termini Gesù cercava chi donasse liberamente, con amore e consapevolezza, ma non lo trovava a parte, forse, qualche passante un po’ meno distratto degli altri.
Ma ecco, tra la fila delle persone, avvicinarsi lentamente una vedova, categoria sulla quale già ci siamo soffermati, che Marco si preoccupa di definire “povera”, che “vi gettò due monetine, che fanno un soldo”, originale “due piccioli, che sono un quattrino”, o “quadrante”, corrispondente ai nostri 10 centesimi di euro. Il picciolo era la moneta più piccola, per dimensioni e valore in circolazione e certo metterne due nella tromba non avrebbe influito sul valore complessivo delle offerte, ma quella donna volle comunque donarle dando “tutto quello che aveva per vivere” a differenza dei ricchi che diedero “parte del loro superfluo”, quindi neppure tutto ciò che avevano di inutile, che eccedeva i limiti delle loro necessità.
“Tutto quanto aveva per vivere” ci rivela che, quel giorno, la vedova non avrebbe potuto sfamarsi eppure donò confidando che il Signore l’avrebbe comunque ricompensata. È un gesto che ci parla di fede e amore insieme, perché non ci può essere l’una senza l’altra e per questo i due piccioli sono considerati da Gesù come se avesse gettato “nel tesoro più di tutti gli altri”. È usato il passato prossimo, “ha gettato”, ulteriore conferma che Dio valuta le nostre azioni non quanto a risultato, ma dal motore che le fa muovere, come tante volte è stato fin qui sottolineato.
Quella donna ha dato “tutto ciò che aveva” senza preoccuparsi del presente o del domani consapevole che sarebbe stata ricompensata anche solo con la consapevolezza che Dio avrebbe guardato alla sua offerta e quanto donato era l’espressione concreta dei suoi sentimenti verso il proprio Signore, evidentemente al centro della propria esistenza a tal punto da non pensare al suo sostentamento materiale: la Legge non diceva che bisognava dare tutto e quindi avrebbe potuto versare, se avesse voluto, un centesimo, cioè la decima. Siccome monete da un centesimo (secondo il nostro valore) non esistevano, avrebbe potuto gettarne cinque, cioè una sola moneta, ma così non fece. Diede nel disinteresse di tutti, ma non di Dio, il Solo a cui le importava, per poi confondersi tra la folla, in mezzo a quel popolo osservante, ma lontano dal Signore, salvo eccezioni.
Questo episodio, a differenza di altri, ha vita propria nel senso che non ha una doppia applicazione, una per gli uomini di allora e una per noi, ma è lì, fermo nel tempo, a testimoniare che è ciò che abbiamo dentro di noi che ci qualifica davanti al Signore indipendentemente dai gesti più o meno nobili che possiamo fare.
Le riflessioni possibili, allora, riguardano fondamentalmente il cuore della persona, che può essere rivolto verso se stessa, o verso Dio. Si parla di cuore perché si credeva fosse la sede degli affetti e dei sentimenti per il suo battito che muta in base alle emozioni, ma non è una teoria primitiva elaborata nell’ignoranza di un tempo antico: nel muscolo cardiaco si trovano circa 40mila neuroni con memoria a breve e lungo termine; del resto, molte persone che si sottopongono a trapianto sviluppano nuove emozioni e sentimenti che prima non appartenevano loro.
C’è un cuore dell’uomo attaccato alla terra, il cui “ogni intimo intento non è altro che male, sempre” (Genesi 6.5), “è incline al male fin dall’adolescenza” (8.21). C’è un cuore indurito, dall’uomo stesso o da Dio, irremovibile, ostinato, covante odio, insuperbito, ma anche generoso, disposto, dedito alla ricerca, tante definizioni e riferimenti che possiamo sintetizzare, quanto all’uomo che conosciamo, con le parole di Gesù che certo conosceva bene l’essere umano: “Dal cuore provengono propositi malvagi, omicidi, adultéri, impurità. Furti, false testimonianze, calunnie” (Matteo 15.19).
Se un cuore sano, materialmente parlando, è raro da trovare, quello spirituale è impossibile che lo sia a meno di un intervento di Dio: “Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra – insensibile e indurito – e vi darò un cuore di carne – cioè in grado di battere –. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi” (Ezechiele 36.26-27).
Perché tutto questo possa avvenire, per noi, è necessario obbedire a una scelta rigenerante che solo Gesù Cristo può procurare con la conversione della persona, che non avviene da un giorno all’altro, ma è una decisione che viene confermata ogni giorno e possiamo dire si sviluppi nel tempo. E anche qui non si tratta tanto di agire, ma di prepararsi: “La sapienza entrerà nel tuo cuore e la scienza delizierà il tuo animo” (Proverbi 2.10), “Confida nel Signore con tutto il tuo cuore e non affidarti alla tua intelligenza” (3.5), “Il tuo cuore ritenga le mie parole, custodisci i miei precetti e vivrai” (4.4).
Quello del cuore è un tema immenso, nella Scrittura: tra Antico e Nuovo Patto è nominato 747 volte, ma sintetizzando possiamo dire che tutto deriva da lui, vita presente perché se si ferma si muore, ma soprattutto vita eterna perché se Gesù Cristo non vi entra, se il Padre non lo cambia con il suo Santo Spirito come abbiamo letto in Ezechiele, l’uomo non potrà fare altro che tornare e restare la polvere che è e la massima “dov’è il tuo tesoro, qui sarà anche il tuo cuore” dice molto in proposito. È proprio nel credere che viene coinvolto quest’organo perché “Se con la bocca proclamerai: «Gesù Cristo è il Signore!» e con il cuore crederai che lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo. Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia, e con la bocca si fa professione di fede per ottenere la salvezza” (Romani 10. 9,10). Vediamo da questi versi fino a che punto il muscolo cardiaco è coinvolto e che la fede non è un’illusione della mente, quindi artificio, ma qualcosa di profondamente sentito, di scritto dentro.
Il cuore della vedova del nostro episodio era rivolto a Dio a tal punto da dare liberamente le uniche cose che aveva, dimostrando di non tenere in alcun conto la propria vita materiale, dando così un esempio a chiunque avrebbe letto il Vangelo. E non può non venire alla mente “il comandamento più grande” che abbiamo affrontato da poco. Amen.
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