08.10 – LA SECONDA VISITA A NAZARETH (Marco 6.1-6)

8.10 – La seconda visita a Nazareth (Marco 6.1-6)

 

 

1Partì di là e venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono. 2Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? 3Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?». Ed era per loro motivo di scandalo. 4Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». 5E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. 6aE si meravigliava della loro incredulità”.

 

 

È indubbio che il racconto della seconda (o terza, secondo altri) visita a Nazareth contenga degli elementi comuni alla prima, per quanto con più particolari visto che, per questo episodio, abbiamo a disposizione anche la versione di Matteo 13. Comunque sia l’importanza di questo ritorno “nella sua patria” risiede nel fatto che laddove una qualunque persona, rifiutata con le modalità che abbiamo visto, avrebbe definitivamente chiuso con quell’ambiente, Gesù decide di dare una seconda opportunità ai suoi ex concittadini e lo fa dopo un certo tempo. In altri termini Nostro Signore lasciò che a Nazareth giungessero altre notizie sulla sua predicazione e sui miracoli affinché la gente si interrogasse silenziosamente, nel cuore, nelle case. Soprattutto, si confrontassero con le letture e i commenti che ad esse venivano fatte nella Sinagoga.

Teniamo presente che, comunque, molto era stato seminato in quel luogo: pensiamo al passo che Gesù commentò e sul quale ci siamo soffermati, alle parole “Oggi si è compiuta questa scrittura che avete ascoltato”, al fatto che, se ci fosse stato un cuore desideroso di venire purificato, il raccordare i miracoli riferiti e avvenuti altrove con quanto ascoltato avrebbe potuto prepararlo ad un secondo, proficuo incontro, quello con la Parola fatta carne. Succede sempre, alle anime sensibili, di pensare e ripensare a determinati episodi della propria vita, ricordarli non per una questione sentimentale, ma per comprendere meglio certi eventi o le persone con le quali hanno avuto a che fare. O per ricordare i propri errori col fine di non commetterne di analoghi. Nel caso di Nazareth credo che Gesù abbia voluto tornare proprio per non lasciare nulla d’intentato anche solo per recuperare una persona.

E qui possiamo inserire alcune considerazioni proprio sul tempo che Dio dà all’uomo per riflettere, o cambiare il suo modo di considerare il valore della vita che gli è stata data in prestito. Fu sempre così, come rileviamo dal fatto che, dopo il diluvio, alla creatura venne fissato un termine di 120 anni di vita per ravvedersi e salvarsi dalle acque che avrebbero ricoperto la terra. Un Midrash ebraico infatti, interpretando il testo di Genesi 6.5 “Il mio spirito non resterà sempre nell’uomo, perché egli è carne e la sua vita sarà di 120 anni“, afferma che Noè attese 120 anni prima di costruire l’Arca sia per dar modo alle piantine di cedro che aveva messo a dimora per crescere, sia ai suoi conterranei di ravvedersi. In altri termini, il diluvio non fu un fatto improvviso, ma venne dopo un periodo di tempo in cui gli uomini, quei “figli di Dio” che si scelsero fra tutte per mogli le “figlie degli uomini“, videro crescere quei cedri e poi Noè, coi figli, costruire l’Arca. Il testo di Genesi, infatti, pone Noè in età di cinquecento anni quando generò i suoi tre figli, e 600 quando entrò nell’Arca, 1656 anni dopo che Adamo ed Eva vennero estromessi da Eden. Il 120, allora, è il 12 x 10, il numero della pazienza di Dio così come il 40 è quello dell’isolamento. Ed è interessante notare che proprio la data del diluvio, che indubbiamente fu la più grande catastrofe mai avvenuta, abbia proprio questo numero, 1656 in cui sommando  5 e 1 abbiamo 6 6 6 che, evidentemente, è sì un “numero d’uomo” come dice la Scrittura, ma ci parla anche di morte, sterminio, annientamento, il nulla definitivo dopo un presente, più o meno lungo, illusorio.

Anche la seconda visita di Gesù a Nazareth, allora, ci parla di un tempo dato all’uomo per approfittare della grazia di Dio e non solo: arrivava l’Emmanuele, il “Dio con noi”, quel Re mansueto ed umile che voleva portare la Parola di Dio in mezzo a loro dando l’opportunità di far tesoro dei suoi insegnamenti, di immedesimarsi in essi, di cogliere l’opportunità e l’onore di parlare con lui, di accoglierlo e di venire guariti da malattie per le quali non si soffre come con le altre. Chi è cieco, sordo, ha un tumore o altro di invalidante sa di averlo, ma non così come per la presunzione, l’orgoglio, la saccenza, la chiusura mentale.

Il verso 1, “Partì di là e venne nella sua patria e i discepoli lo seguirono” ci fornisce un primo dato nuovo, cioè che Gesù questa volta non arriva a Nazareth da solo, ma con dei testimoni ai quali era necessario non solo mostrare quanto può operare la fede di una persona che ottiene un miracolo liberatorio – lo sapevano già –, ma come può essere limitante vivere senza di essa non ponendosi il problema rimanendo nell’abitudinario quotidiano.

Personalmente, per come narrano Marco e Matteo, non credo che Gesù sia sia presentato un sabato, sia entrato nella Sinagoga e si sia messo a leggere: piuttosto il verso 1 ci dice “venne” e al 2 abbiamo “giunto il sabato”, segno che nella sua città si fermò coi suoi qualche giorno e che non rimasero certo in casa, ma uscirono e stavano nelle strade, magari andando a trovare qualche conoscente visto che in quella città Nostro Signore aveva vissuto fino a circa trent’anni, credo sufficienti per essere conosciuto da tutti.

A differenza della prima visita, poi, ignoriamo il soggetto d’insegnamento di quel sabato, ma certo sappiamo che fu autorevole come gli altri avvenuti in molte Sinagoghe e vediamo che “Molti, ascoltando, rimanevano stupiti”, dove quell’ “ascoltando” ci parla di un uditorio non certo distratto, ma che non fu in grado di effettuare considerazioni pertinenti su quanto veniva loro proposto.

Leggendo l’episodio poi occorre tener presente un errore di lettura che spesso compiono i credenti, che tendono a porsi di fronte al testo biblico affrontandolo come uno dei tanti, con una trama e una successione di eventi da leggere in superficie e, così facendo, ben difficilmente sarà possibile comprendere al di là del narrato. Il lettore spirituale, invece, si pone domande, cerca eventuali, apparenti contraddizioni tra le versioni e scopre le ragioni delle reazioni dei presenti alla luce della realtà, della mentalità del tempo e dell’uomo. Ci dobbiamo sempre chiedere perché, come scritto tempo fa.

La versione di Luca esaminata nei due capitoli precedenti, riguardo a Nostro Signore da parte dei Nazareni, ad esempio, è diversa: per loro Gesù era “Il figlio di Giuseppe” ma qui, secondo Marco, è “il falegname, figlio di Maria, fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone”. Secondo Matteo “il figlio del falegname, sua madre si chiama Maria e i suoi fratelli Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda e le sue sorelle sono fra noi”. Non si tratta di particolari insignificanti, ma al contrario sono elementi che offrono un panorama desolante del contesto perché denotano un esame più approfonditamente incredulo dei presenti nella Sinagoga: la prima volta era “il figlio di Giuseppe”, qui è “il falegname” o suo figlio (Matteo 13) e a conferma che secondo loro era impossibile che Gesù parlasse davvero così chiamano in causa Maria e gli altri suoi figli che conoscevano molto bene. Il rifiuto del messaggio del Figlio di Dio è allora per ancorarlo alla terra, alle loro stesse origini umili e di peccatori: doveva essere uno di loro e, in quanto tale,  era impossibile che insegnasse con una sapienza che gli veniva dall’alto nonostante le testimonianze che arrivavano al villaggio e la presenza dei discepoli, assenti la prima volta. È probabile che Nostro Signore se li portò perché capissero il significato della frase che verrà loro detta quando verranno inviati in missione: “Se in qualche luogo non vi accolgono e non vi ascoltano, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza contro di loro” (Marco 6.12).

Il ragionamento dei nazareni, allora, rivela ancora di più l’ottusità e la difesa allo Spirito di Dio che manifestarono la prima volta. Ottusità perché tali erano per natura, difesa perché per loro era importante che la vita continuasse come prima. Le parole di Gesù, se ascoltate, avrebbero richiesto una sosta, la messa in discussione integrale delle loro azioni e modo di pensare, avrebbero dovuto capire che le loro strade e sentieri erano sbagliati e ciò avrebbe richiesto un abbandono per affrontarne di nuove: “Lasci l’empio la sua via”. E abbandonare le proprie consuetudini significa rinunciare a se stessi lasciando che sia Dio ad occuparsi della propria vita e non noi.

Il fatto che Gesù sia indicato come “il falegname, figlio di Maria” con quel che segue lo vedo come posto in senso spregiativo e mi lascia supporre che, a quel tempo, Giuseppe si fosse già addormentato coi suoi padri. Ricordiamo che alle nozze di Cana non era menzionato come presente.

C’è un particolare che entrambi gli evangelisti riportano, e cioè che il fatto che Gesù parlasse loro avendo quelle origini “era per loro motivo di scandalo”, cioè d’inciampo: facevano di un dettaglio insignificante una questione fondamentale, si trovavano di fronte a un muro che loro stessi avevano costruito che impediva di ascoltare e quindi credere.

Così anche oggi, in tutti i campi, dove non solo per essere ascoltata una persona deve avere un titolo di studio, ma deve anche essere riconosciuta da un’organizzazione, da un ordine, da un collegio di presunti sapienti. Se qualcuno parla usando il solo buon senso raramente è ascoltato e, peggio, viene deriso da incompetenti che vogliono un  imprimatur.

Le giornate di Nazareth, dunque, furono molto tristi non certo per Gesù, che a prescindere dal tipo di ascolto che gli veniva dato era e restava “il figlio dell’Iddio vivente”, ma per i nazareni stessi. “E lì non poteva compiere alcuni prodigi, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì”. “Pochi malati” non sappiamo di cosa, ma viene da pensare che fossero guarigioni private e il senso dominante di una prevenzione nei Suoi confronti impedì quelle grandi manifestazioni procedenti dalla fede di uomini e donne che, altrove, si rivolgevano a Lui.

In un modo o in un altro gli abitanti di Nazareth chiusero intenzionalmente le loro porte all’amore di Dio e poi e ne disinteressarono. Quando l’uomo fa così, anche oggi, di fatto, chiude volontariamente quella porta che poi troverà chiusa quando vorrà entrare nel Regno di Dio e non potrà farlo. E quel “pianto e stridore di denti” allude proprio alla reazione disperata di quelle anime che capiranno di essersi distrutte da sole proprio chiudendo quella porta che Dio voleva aprissero mentre erano in vita. Gesù, proponendosi all’uomo, lo onora del Suo interessamento ma questi, come i nazareni, gli chiude la porta. E la bestemmia contro lo Spirito Santo, è scritto che non sarà perdonata. Amen.

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