15.20 – RICEVERE (Marco 10.28-31)

15.20 – Ricevere (Marco 10.28-31)

 

 28Pietro allora prese a dirgli: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito». 29Gesù gli rispose: «In verità io vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, 30che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà. 31Molti dei primi saranno ultimi e gli ultimi saranno primi».

 

Nel riflettere sul discorso successivo all’uscita di scena del ricco che aveva interpellato Gesù a proposito di cosa avrebbe dovuto fare per avere la vita eterna, torniamo al testo di Marco perché aggiunge, rispetto a Matteo, un particolare importante: come avremo notato manca della parte relativa ai dodici sul giudicare le dodici tribù di Israele e parla di una retribuzione, per chi avrebbe abbandonato i propri averi, “già ora, in questo tempo, cento volte tanto” (v.30), mentre Luca scrive “…che non riceva molto di più nel tempo presente e nel tempo che verrà” (18.30).

La riposta di Gesù a Pietro inizia con “In verità io vi dico”, quindi con il proprio Amen, con tutta la solidità di quanto affermerà subito dopo. Non vi è alcun rimprovero all’apostolo perché la sua domanda è impertinente, anzi la ritenne di grande importanza perché gli dà l’occasione di stabilire un concetto fondamentale: chi avrà lasciato i propri beni, del mondo o affettivi, “per causa mia e per causa del Vangelo”, avrebbe ricevuto “già ora, in questo tempo, cento volte tanto (…) insieme a persecuzioni”.

Ora, presa letteralmente questa affermazione, potrebbe lasciare supporre che il discepolo di Cristo veda moltiplicare già in questa vita ciò che ha lasciato, quindi il suo guadagno sia materialmente tangibile: chi abbandona una casa, ne avrà cento e così via.

La chiave per interpretare correttamente ciò che vuol dire Nostro Signore sta però nel numero 100 che indica piena soddisfazione, il punto in cui si uniscono le aspettative dell’uomo e di Dio. Da qui ne deriva che, chi avrà abbandonato ciò che ha per Gesù ed il Vangelo, avrà molto di più nel senso che troverà il suo premio nella sazietà e nell’abbondanza spirituale “già da ora, in questo tempo” che si concreterà nel non rimpiangere le cose lasciate e si troverà nella condizione di essere pienamente soddisfatto a prescindere.

Non si possono categorizzare le ricompense di Dio nel senso che le sue benedizioni sono diverse e ancora una volta guidate dallo Spirito: guardando alla dispensazione della Legge, cui certamente Gesù volse lo sguardo nel citare la nostra frase, ricordiamo Giobbe quando fu ristabilito: “Il Signore benedisse il futuro di Giobbe più del suo passato. Così possedette quattordicimila pecore e seimila cammelli, mille paia di buoi e mille asine. Ebbe anche sette figli e tre figlie. Alla prima mise nome Colomba, alla seconda Cassia e alla terza Argentea. In tutta la terra non si trovarono donne così belle come le figlie di Giobbe e il loro padre le mise a parte dell’eredità insieme con i loro fratelli”.

Ancora, in Proverbi 3.9,10 e 15.18, abbiamo “Onora il Signore con i tuoi averi e con le primizie di tutti i tuoi raccolti; i tuoi granai si riempiranno oltre misura e i tuoi tini traboccheranno di mosto. (…) La sapienza è più preziosa di ogni perla e quanto puoi desiderare non l’eguaglia. Lunghi giorni sono nella sua destra e nella sua sinistra ricchezza e onore; le sue vie sono vie deliziose e tutti i suoi sentieri conducono al benessere. È un albero di vita per chi l’afferra, e chi ad essa si stringe è beato”.

            Ora, essendo come sappiamo la Legge “un pedagogo che guida verso Cristo” (Galati 3.22), ecco che i “cento” elementi promessi vengono convogliati in uno stato di soddisfazione e quiete che nemmeno le persecuzioni possono scalfiggere e qui entriamo in un campo estremamente particolare perché quel “persecuzioni” della frase in esame sta a significare che, per lo Spirito, la pace con Dio e la Sua approvazione provocano un atteggiamento del tutto nuovo: ricordiamo Mosè che, divenuto adulto, rifiutò di essere chiamato figlio della figlia del faraone, preferendo essere maltrattato con il popolo di Dio piuttosto che godere momentaneamente del peccato. Egli stimava ricchezza maggiore dei tesori d’Egitto l’essere disprezzato per Cristo; aveva infatti lo sguardo fisso sulla ricompensa” (Ebrei 11.24-26). Quest’uomo abbandonò la sua agiata, potremmo dire splendida vita di corte, per farsi carico di un’esistenza profondamente diversa, opposta, ma avendo “lo sguardo fisso sulla ricompensa” non esitò a vivere come sappiamo, un servizio incessante e faticoso sentendone il peso in minima parte, senza tornare indietro.

Riguardo alle persecuzioni, senza citare quelle a cui sono sottoposti i cristiani anche nel tempo presente, guardiamo a quelle subite dall’apostolo Paolo che elenca le sue traversie in 2 Corinti 11. 24-27: “Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i quaranta colpi meno uno; tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balìa delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; disagi e fatiche, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità”.

Pietro e gli altri apostoli, del resto, quando furono arrestati e flagellati dai Giudei, leggiamo che … se ne andarono via dal sinedrio, lieti di essere stati giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù. E ogni giorno, nel tempio e nelle case, non cessavano di insegnare e di annunciare che Gesù è il Cristo” (Atti 5.41). Da notare che Luca, autore di questo commento, omette di citare la sofferenza che gli apostoli avranno indubbiamente provato per la flagellazione, non descrive il loro umanamente pietoso ritorno a casa né le cure di cui saranno stati certamente bisognosi, ma focalizza tutto sullo stato d’animo: paradossalmente, il dolore fisico fu sopportato dall’essere stati giudicati “degni di subire oltraggi per il nome di Gesù”. La sofferenza si tramutò allora in gioia. Del resto leggiamo “…ci vantiamo anche nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato”. (Romani 5.3-5).

Credo che in questi scritti ci troviamo di fronte a un concetto di dolore totalmente diverso, rivoluzionario rispetto a quello comunemente sentito perché non leggiamo di personaggi che affrontano stoicamente un destino e neppure all’imperturbabilità di un Budda, ma a una condizione precisa in cui lo Spirito è naturalmente dominante sulla carne e, avendone il sopravvento, non porta più l’uomo naturale a comportarsi nelle sue reazioni guardando costantemente per terra e a se stesso. La sua esistenza materiale non è più qualcosa di prioritario, da tenere a mente fra gli obiettivi primari, qualcosa da difendere gelosamente con ogni mezzo perché lo Spirito porta la mente, da lui dipendente, ad un livello differente; ecco perché, quando a Lui si sostituisce quello umano, i risultati sono disastrosi.

Consideriamo la morte, che per l’essere umano che conosciamo rappresenta la fine di tutto. In 2 Timoteo 4.6-8, 18 leggiamo qualcosa di totalmente diverso quando l’apostolo Paolo sa che sta per concludere la propria esistenza e scrive “Io infatti sto già per essere versato in offerta ed è giunto il momento che io lasci questa vita. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno; non solo a me, ma anche a tutti coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione. (…) Il Signore mi libererà da ogni male e mi porterà in salvo nei cieli, nel suo regno; a lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen”.

Giunti a questo punto resta da considerare la frase, divenuta poi una sorta di proverbio, “Molti dei primi saranno ultimi e molti ultimi, primi”: può essere un riferimento a quella persona che gli si era gettata ai piedi chiedendo lumi per avere la vita eterna? Indubbiamente, per la società in cui viveva, quell’uomo era un “primo” che però, per la sua ostinazione e incapacità di andare oltre se stesso, si sarebbe ritrovato ultimo.

Il tema è però molto più complesso e riguarda prima di tutto lo stravolgimento del concetto che vedeva Israele come popolo di Dio per eccellenza, ora non più – pur mantenendo l’elezione secondo Romani 11.28-32 – ed “il regno è stato dato ad altri”, perché lo avrebbero “fatto fruttificare” (Matteo 21.43). A commento dell’episodio del servo del centurione, Gesù disse che molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli, mentre i figli del regno saranno cacciati fuori, nelle tenebre, dove sarà pianto e stridore di denti” (8.11-13).

Ricordando poi un altro passo già meditato, Luca riporta “Io vi dico: fra i nati da donna non vi è alcuno più grande di Giovanni, ma il più piccolo nel regno di Dio è più grande di lui.  Tutto il popolo che lo ascoltava, e anche i pubblicani, ricevendo il battesimo di Giovanni, hanno riconosciuto che Dio è giusto. Ma i farisei e i dottori della Legge, non facendosi battezzare da lui, hanno reso vano il disegno di Dio su di loro” (7.28-30).

Lo stravolgimento delle aspettative primi-ultimi e viceversa sarà qualcosa che stravolgerà tutti quelli che lo constateranno, compresi quelli che vedono Israele condannato a prescindere: Non voglio infatti che ignoriate, fratelli, questo mistero, perché non siate presuntuosi: l’ostinazione di una parte d’Israele è in atto fino a quando non saranno entrate tutte quante le genti. Allora tutto Israele sarà salvato, come sta scritto: Da Sion uscirà il liberatore, egli toglierà l’empietà da Giacobbe. Sarà questa la mia alleanza con loro quando distruggerò i loro peccati. Quanto al Vangelo, essi sono nemici, per vostro vantaggio; ma quanto alla scelta di Dio, essi sono amati, a causa dei padri, infatti i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili! 30Come voi un tempo siete stati disobbedienti a Dio e ora avete ottenuto misericordia a motivo della loro disobbedienza, così anch’essi ora sono diventati disobbedienti a motivo della misericordia da voi ricevuta, perché anch’essi ottengano misericordia. Dio infatti ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per essere misericordioso verso tutti!” (Romani 11.12-25).

Il concetto ultimi-primi, riguarda dunque per prima cosa questo rapporto sostitutivo in cui i pagani, i quali non cercavano la giustizia, hanno raggiunto la giustizia, la giustizia però che deriva dalla fede; mentre Israele, il quale cercava una Legge che gli desse la giustizia, non raggiunse lo scopo della Legge. E perché mai? Perché agiva non mediante la fede, ma mediante le opere. Hanno urtato contro la pietra d’inciampo” (Romani 9.30.32).

In second’ordine, sempre riguardo gli “ultimi” e i “primi”, non può non esservi un accenno alla Chiesa, corrottasi nel corso dei secoli ma che ha visto sempre la presenza di un “rimanente fedele”, non considerato dagli uomini, che ha custodito e praticato le parole di Cristo.

Concludendo, tutto si riassume nel commento di Gesù a commento della parabola del fariseo e del pubblicano recentemente esaminata: “Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta – da se stesso – sarà umiliato, chi invece si umilia – da se stesso –, sarà abbassato” (Luca 18.14). Si tratta allora di un processo interiore, che emergerà quando tutti, volenti o nolenti, compariranno al tribunale di Cristo. Amen.

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15.18 – DIFFICILE ENTRARE NEL REGNO DI DIO (Marco 10.23-27)

15.18 – Difficile entrare nel regno di Dio (Marco 10.23-27)

 

23Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!». 24I discepoli erano sconcertati dalle sue parole; ma Gesù riprese e disse loro: «Figli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio! 25È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio». 26Essi, ancora più stupiti, dicevano tra loro: «E chi può essere salvato?». 27Ma Gesù, guardandoli in faccia, disse: «Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio».

 

L’uscita di scena del ricco portò Gesù ad alcune considerazioni che possiamo dividere in due parti, questa e un’altra relativa alle benedizioni conseguenti, come chiese Pietro, all’abbandono dei loro beni, che affronteremo nel prossimo capitolo.

Qui Gesù volge “lo sguardo attorno” per vedere le reazioni degli astanti alle sue parole e alla risposta, non verbale, di colui che lo aveva appena interrogato circa il conseguimento della “vita eterna” e che se ne era andato, triste. Ciò che disse, “Quanto è difficile, per coloro che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!”, li lasciò “sconcertati” perché mai si sarebbero immaginati che persone autorevoli e stimate dagli uomini non sarebbero stati altrettanto considerati e accolti nel Regno e soprattutto occorresse abbandonare “le loro ricchezze”. Per questo occorreva specificare e le Sue parole non sono ben tradotte nella nostra versione, poiché sarebbe più corretto scrivere “Quanto è difficile che coloro che si confidano nelle ricchezze entrino nel regno di Dio”, frase che corregge l’idea che uno si potrebbe fare leggendo la nostra che parrebbe sostenere che a una persona, solo perché benestante o di condizione agiata, sia quasi preclusa la possibilità di salvarsi.

Prima di passare ad esaminare le parole successive va sottolineato che l’avere delle “ricchezze” potrebbe far sì che colui che ne è dotato basi la propria vita su di esse ritenendosi al sicuro da tutto e da tutti, che quello sia il suo “tesoro” e sappiamo che là dove questo è, lì sarà il suo cuore (Matteo 6.19). Il problema è quello, espresso anche nell’impossibilità di “servire a Dio e a Mammona” (Luca 16.13) oltre all’immensa differenza fra l’avere un tesoro sulla terra, “dove tignola e ruggine consumano e i ladri scassinano e rubano” (Matteo 6.19) e in cielo, dove tutto ciò è impossibile. La differenza sta nel fatto che il primo “tesoro” è qualche cosa di oggettivamente tangibile mentre il secondo, quello “nel cielo” viene accettato per fede, rivelato non tanto e non solo dalle parole di Gesù, ma soprattutto dallo Spirito.

C’è quindi un’enorme differenza fra la ricchezza quando viene impiegata per sé stessi o per aiutare il prossimo, quest’ultima stigmatizzata da Gesù a conclusione della parabola dell’amministratore disonesto: “Fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare – con la morte –, essi vi accolgano nelle dimore eterne” (Luca 16.9).

Il dover gestire delle somme ingenti, infatti, porta la persona a darsi interamente ad esse agendo a danno di altri per accumularne di ulteriori, come constatiamo dalle cronache di ogni giorno in cui uomini senza scrupoli, totalmente asserviti alla loro insaziabilità per l’accumulare, sono pronti a calpestare i diritti altrui e, nel caso ad esempio delle multinazionali, provocare squilibri all’ambiente fino a quando la terra stessa non presenterà una volta per tutte un conto che sarà impossibile pagare.

È quindi l’amore disordinato per il denaro, indipendentemente dal fatto che uno sia ricco o povero, che preclude la possibilità di aprirsi verso quello per l’Unico che, alla fine, darà la giusta retribuzione in base a come la persona avrà speso la propria vita perché “Non abbiamo portato nulla nel mondo e nulla possiamo portare via. Quando abbiamo dunque di che mangiare e di che coprirci, accontentiamoci. Quelli invece che vogliono arricchirsi – notare il “vogliono” –, cadono nella tentazione, nell’inganno di molti desideri insensati e dannosi, che fanno affogare gli uomini nella rovina e nella perdizione. L’avidità del denaro infatti è la radice di tutti i mali; presi da questo desiderio alcuni hanno deviato dalla fede e si sono procurati molti tormenti” (1 Timoteo 6.7-10).

Il testo prosegue con l’indicazione dell’unica strada possibile: “Ma tu, uomo di Dio, evita queste cose; tendi invece alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza. Combatti la buona battaglia della fede, cerca di raggiungere la vita eterna alla quale sei stato chiamato e per la quale hai fatto la tua bella professione di fede davanti a molti testimoni” (vv. 11,12). Sono queste azioni chiaramente impossibili anche solo a tentarsi da chi ha obiettivi diversi, visti appunto nel denaro e infatti l’uomo che aveva appena interrogato Gesù su cosa avrebbe dovuto fare per avere la vita eterna, se ne andò rattristato. E a quanto sappiamo non fece più ritorno a Lui.

Il problema, quindi, è nel fare affidamento sugli averi materiali. Così infatti leggiamo in Giobbe 31.24,25: “Se ho riposto la mia speranza nell’oro e all’oro fino ho detto: «Tu sei la mia fiducia». Se ho goduto perché grandi erano i miei beni e guadagnava molto la mia mano, (…) anche questo sarebbe stato un delitto da denunciare, perché avrei rinnegato Dio, che sta in alto”. Ricordiamo che “quest’uomo era il più grande – cioè ricco – tra tutti i figli d’oriente”.

Ancora Salmo 49.7-10: “Essi confidano nella loro forza, si vantano della loro grande ricchezza. Certo, l’uomo non può riscattare se stesso, né pagare a Dio il proprio prezzo. Troppo caro sarebbe il riscatto di una vita: non sarà mai sufficiente per vivere senza fine e non vedere la fossa”. E anche qui possiamo intravedere il “tesoro nel cielo” di cui parla Gesù.

La constatazione della ricchezza e l’associarsi ad altri della stessa condizione, poi, genera la prepotenza, e di chi così agisce è scritto “Perciò Dio ti demolirà per sempre, ti spezzerà e ti strapperà dalla tenda – da te tanto amata e nella quale ti credevi al sicuro – e ti sradicherà dalla terra dei viventi” (52.7).

A conferma poi che la ricchezza non è solo in termini di denaro o possedimenti, ecco Geremia 9.22,23: “Così dice il Signore: «Non si vanti il sapiente della sua sapienza, non si vanti il forte della sua forza, non si vanti il ricco della sua ricchezza. Ma chi vuol vantarsi, si vanti di avere senno e di conoscere me, perché io sono il Signore che pratico la bontà, il diritto e la giustizia sulla terra, e di queste cose mi compiaccio”.

Concludiamo il tema della difficoltà ad entrare nel regno di Dio con le parole di Giacomo 5.1-5 che inquadrano molto bene la categoria del ricco in senso negativo, che poi è un idolatra: “E ora a voi, ricchi: piangete e gridate per le sciagure che cadranno su di voi! Le vostre ricchezze sono marce, i vostri vestiti sono mangiati dalle tarme. Il vostro oro e il vostro argento sono consumati dalla ruggine – espressione figurata per indicare la loro inutilizzabilità di fronte a Dio –, la loro ruggine si alzerà ad accusarvi e divorerà le vostre carni come un fuoco. Avete accumulato tesori per gli ultimi giorni – per vivere la vecchiaia come se fosse una seconda giovinezza –! Ecco, il salario dei lavoratori che hanno mietuto sulle vostre terre, e che voi non avete pagato, grida, e le proteste dei mietitori sono giunte agli orecchi del Signore onnipotente. Sulla terra avete vissuto in mezzo a piaceri e delizie, e vi siete ingrassati per il giorno della strage – convinti di resistere anche al Giudizio –. Avete condannato e ucciso il giusto ed egli non vi ha opposto resistenza”.

Tornando al nostro passo, a questo punto abbiamo una frase diventata famosa anche nell’àmbito non cristiano, “È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio”, apparentemente incomprensibile, come già notato a suo tempo, se si interpreta l’ago come strumento usato per cucire; se infatti “kàmilos” fosse inteso come fune, equivarrebbe sostenere che nessun ricco potrebbe salvarsi, ma se quel termine fosse “kàmelos” “cammello” e l’ “ago” la porticina lasciata aperta di notte alle porte delle città in quanto quella principale veniva chiusa, il discorso cambia. A favore del “cammello” o della “corda” sono state fatte le più svariate ipotesi, ma resta comunque il fatto che Gesù, in questo caso, riferisce un detto comune nel mondo orientale per indicare un paradosso: “Nessuno ha mai visto fiorire una palma d’oro, o un cammello passare per la cruna di un ago”, o anche “Sei forse uno della Scuola giudaica in Babilonia, che sai far passare un elefante per la cruna di un ago?”.

Resta un fatto comunque fondamentale e cioè che quando Gesù parla di “ricco”, in questo caso non indica una persona più o meno agiata, ma chi si identifica nella tipologia di quanti intendono la ricchezza come un bene loro esclusivo e la usano a danni di altri o la idolatrano. In questo caso penso appaia chiaramente l’impossibilità indicata da Nostro signore.

Dal testo rileviamo che i discepoli furono ancora più pronti nella loro reazione, chiedendosi, dato che le cose stavano così, chi potesse essere salvato. Prima rimasero senza parole (il testo dice “erano sconcertati”), poi le trovano esprimendo tutto il loro disorientamento interrogandosi fra loro, cioè sperando di trovare una risposta l’uno con l’altro e non osavano chiedere a Colui che avrebbe potuto chiarire loro ogni cosa. Capirono che l’amore per il denaro e la ricchezza poteva trovarsi in chiunque e di lì la domanda? Non possiamo dirlo con certezza, ma il problema sorse in tutto il suo peso e non sapevano come interpretare le parole del loro Maestro.

A questo punto leggiamo che Gesù li guarda, ed è la terza volta che abbiamo quest’annotazione: la prima fu al verso 21, quando “guardò in viso” l’anonimo notabile, la seconda quando si “guardò intorno” al verso 23, ed infine qui, dicendo “Impossibile agli uomini, ma non a Dio, perché a Dio tutto è possibile!”, cioè spiegando che nessuno, impiegando i propri mezzi o virtù più o meno grandi, potrà mai salvarsi, cosa possibile a Dio tramite la Sua chiamata e lo Spirito Santo, non salvando Lui senza la partecipazione attiva dell’uomo convinto di peccato, giustizia e giudizio.

Credo che un passo significativo a commento di questa frase sia in Geremia 21.17: “Con la tua forza e potenza hai fatto il cielo e la terra, nulla ti è impossibile. (…) Grande nei pensieri e potente nelle opere sei tu, i cui occhi sono aperti su tutte le vie degli uomini, per dare a ciascuno secondo la sua condotta, secondo il frutto delle sue azioni”. Più avanti (v.27) leggiamo “Ecco, io sono il Signore, Dio di ogni essere vivente; c’è qualcosa di impossibile per me?”. Ecco perché, di fronte a Colui che tutto può, compreso rimettere il peccato della creatura che grida a Lui – e qui si manifesta l’ “impossibile” e il “possibile” –  ogni problema trova la sua soluzione, compreso quello della destinazione finale. Amen.

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11.40 – IL DISCORSO ECCLESIOLOGICO 11: “CHI NON È CONTRO DI NOI, È PER NOI (Marco 9.38-41)

11.40 – Il discorso ecclesiologico 11, “Chi non è contro di noi, è per noi” (Marco 9.38-41)

 

38Giovanni gli disse: «Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva». 39Ma Gesù gli disse: «Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: 40chi non è contro di noi è per noi. 41Chiunque infatti vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa».

 

            Con questi versi concludiamo il lungo esame del discorso ecclesiologico di Gesù. Anche se non si può stabilire con certezza chi fosse il personaggio in questione, è doveroso comunque chiederselo e sono state fatte diversi supposizioni in proposito: si è ipotizzato fosse uno dei tanti esorcisti giudei, un discepolo di Giovanni Battista, uno che aveva ascoltato Gesù predicare e aveva deciso di agire in modo indipendente, ma se così fosse quel “nel tuo nome” sarebbe stata una sorta di formula magica che non avrebbe portato ad alcun risultato. Con un margine di probabilità molto più alto, invece, quell’anonimo era una persona che aveva beneficiato di un intervento di Gesù e, dopo un’accurata riflessione su quanto gli era accaduto, aveva deciso di agire esercitando così la sua fede.

Certo sappiamo che Gesù invitò direttamente alcuni uomini a seguirlo – e i dodici, come altri, sono un esempio –, ma che ci furono persone cui parlò diversamente come nel caso dell’indemoniato gadareno di cui è scritto “Mentre entrava nella barca, colui che era stato indemoniato lo supplicava di poter restare con lui. Non glielo permise, ma gli disse: «Va’ nella tua casa, dai tuoi, annuncia loro ciò che il Signore ti ha fatto e la misericordia che ha avuto per te». Egli se ne andò e si mise a proclamare per la Decapoli quello che Gesù aveva fatto per lui e tutti erano meravigliati” (Marco 5.18-20). Possiamo ricordare anche l’episodio di quel discepolo che, prima di seguire il Maestro, non voleva abbandonare il proprio padre prima di seppellirlo: tutti ricordano la prima parte della risposta, indubbiamente forte, “lascia che i morti seppelliscano i loro morti”, ma non la seconda, “Ma tu va’, e annuncia il regno di Dio”.

Ho riportato i primi passi che mi sono venuti alla mente, ma credo bastino per far capire che Gesù volle chiamare i dodici ad essere apostoli, poi accolse un numero imprecisato di discepoli, uomini e donne che lo seguivano spontaneamente partecipando in modo attivo alla Sua predicazione, ma faceva affidamento anche sulla testimonianza di coloro che avevano ricevuto guarigioni da infermità, malattie e schiavitù dall’Avversario. Sappiamo che parte di costoro, una volta guariti, proseguirono la loro vita nell’indifferenza su quanto ricevuto, ma non molti altri e questo ci parla del fatto che, una volta incontrato Gesù lungo la via percorsa, anche oggi, per chi ha beneficiato del Suo intervento in salvezza la vita non può essere più la stessa e, nel modo più confacente alla loro posizione spirituale, danno la loro testimonianza ai loro simili.

L’anonimo rimproverato dai dodici – “volevamo impedirglielo” secondo Marco, “glielo abbiamo impedito” secondo Luca – non poteva essere un religioso perché sappiamo la fine che fecero i figli di Sceva (Atti 19.13-16), né un discepolo del Battista che, già decapitato da Erode Antipa, aveva concluso la sua funzione, né uno che aveva sentito parlare di Gesù, ma una persona che con Lui aveva vissuto un’esperienza profonda quale, secondo il mio parere, avrebbe potuto essere solo la liberazione da uno spirito impuro: una schiavitù di quel tipo priva la persona della libertà di pensare, scegliere, agire, gestire la propria dignità che, una volta ritrovata per intervento divino, non può che riconoscere in Gesù il Signore nel senso più ampio del termine. Credo che la reazione interiore di fronte alla liberazione dallo stato di “indemoniato” sia differente rispetto a quella dalla lebbra, o da una paralisi. Anche guardando alle donne che seguivano Gesù, fu Maria di Magdala, liberata da “sette demoni” quindi da una totalità di miseria e degradazione, quella che amò Gesù più di tutte.

L’anonimo cui i discepoli proibirono, o cercarono di proibire, di agire scacciando demoni quindi, dopo la gioia conseguente alla sua liberazione, aveva intrapreso un percorso personale che lo aveva convinto del fatto che la vita nuova ricevuta per grazia sarebbe stata veramente tale dedicandosi all’annuncio del Nome di Colui che lo aveva liberato: abbiamo letto “scacciava i demoni nel tuo nome”, non di altri. “Nome” in cui quella persona credeva totalmente perché aveva direttamente sperimentato per primo i Suoi effetti. E qui va da sé che non si può parlare di Dio senza conoscerlo e quindi essere parte di Lui, ragione per la quale Gesù proibiva agli spiriti impuri di parlare. Chiunque quindi ha davvero beneficiato dell’intervento del Signore, non può tacere secondo il principio in base al quale una luce, se è tale, non può che brillare. E chi rientra in questa categoria di uomini o donne, illumina anche tacendo.

In questo episodio però ci sono anche delle negatività, purtroppo da parte dei discepoli, proprio loro che avrebbero dovuto essere – ma lo sarebbero diventati – la “luce del mondo”: furono colti da un orgoglio corporativo e agirono autonomamente, presumendo di essere le sole autorità, ricordandosi di essere stati inviati due a due a predicare, compiere miracoli e cacciare i demoni. Commentando l’episodio su cui stiamo riflettendo, scrive un fratello: “Eccoci dunque di fronte allo spirito umano che agisce con atteggiamento che già nell’antichità aveva fatto deviare il popolo d’Israele mediante l’elezione di un re, come avevano altri popoli, rinunciando così al governo teocratico a vantaggio di quello monarchico di Saulle”. E il voler essere indipendenti, prendere decisioni d’istinto senza consultarsi o chiedere un confronto col Signore, non può che porci attori di scelte sbagliate. Ciò che i Dodici avrebbero dovuto chiedersi era se quel tale agiva secondo Dio oppure no e non impedirgli di agire a priori.

Questo episodio ci parla di spirito, quello che usava l’anonimo messo a tacere dai dodici, e di carne, quella che i Dodici esercitarono quando avrebbe dovuto essere – secondo logica – il contrario. Questo episodio dovrebbe insegnare molto ai credenti di tutte le Chiese cristiane, sempre convinti di essere nel giusto e migliori degli altri, che la Chiesa è Una – come in effetti è anche se non nel senso inteso da loro – e che le altre siano nell’errore. È importante la disposizione del cuore, non la forma, che viene confusa con il formalismo, stesso errore dei farisei e di qualunque opportunista. Certo che poi la dottrina dev’essere conforme a quella del Vangelo e degli Apostoli.

In questo episodio però, l’errore è proprio in mezzo ai Dodici: Giovanni parla perché Pietro, ancora mortificato dal rimprovero “Vattene da me Satana, perché tu non hai il senso alle cose di Dio, ma degli uomini”, taceva. Solo più avanti chiederà chiarimenti sul perdóno. Nessuno dei Dodici chiese spiegazioni all’annuncio della morte e resurrezione di Gesù, ma vollero ridurre al silenzio un testimone dell’amore di Dio e del Nome del Figlio. Non videro in quella persona un loro simile, ma un oppositore sulla base di un metro umano provando un sentimento di gelosia anche alla luce del fatto che poco prima non erano riusciti a guarire un epilettico, provocando per reazione le parole “O generazione incredula e perversa, fino a quando starò con voi? Fino a quando vi sopporterò?” (Matteo17.17).

C’è poi un episodio particolare, narrato al capitolo 11 del libro dei Numeri: quando Mosé chiese a Dio ai essere aiutato nella gestione del popolo, Egli rispose di radunare settanta uomini tra gli anziani di Israele sui quali avrebbe infuso parte dello Spirito che era su di lui. Leggiamo dal verso 26 che “…erano rimasti due uomini nell’accampamento, uno chiamato Eldad e l’altro Medad. E lo spirito di posò su di loro; erano fra gli iscritti, ma non erano usciti per andare alla tenda. Si misero a profetizzare nell’accampamento. Un giovane corse ad annunciarlo a Mosè. (…). Giosué, figlio di Nun, servitore di Mosè fin dalla sua adolescenza, prese la parola e disse: «Mosè, mio signore, impediscili!». Ma Mosè gli disse: «Sei tu geloso per me? Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore porre su di loro il suo spirito!». E Mosè si ritirò nell’accampamento, insieme con gli anziani di Israele” (26-30). Da notare il numero settanta, in realtà settantadue, come quello dei discepoli che Gesù invierà, episodio che esamineremo presto.

Quanto letto ci conferma, prima ancora della dispensazione della Grazia, che veramente “il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va: così è chiunque è nato dallo spirito” (Giovanni 3.8). Certo i discepoli non conoscevano ancora lo Spirito e, se questo episodio si fosse verificato più avanti, ad ipotesi nel libro degli Atti, avrebbero certamente accolto quella persona in mezzo a loro, tenendo presente che, come scritto ai Corinti, “Nessuno che parli sotto l’azione dello Spirito di Dio può dire «Gesù è anàtema», e nessuno può dire «Gesù è il signore!» se non sotto l’azione dello Spirito Santo” (1 Corinti 12.3). E abbiamo letto che Nostro signore qui dice “Non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me”.

C’è un ultimo problema da affrontare ed è rappresentato dalla frase “Chi non è contro di noi, è per noi”. In realtà i problemi sono due: il primo è rappresentato da come alcuni traducono il parallelo di Luca, come la versione della CEI che sostituisce al “noi” il “voi” affidandosi a manoscritti diversi, ma meno autorevoli. Il “noi” è riportato nel Codice Vaticano oltre che da diversi onciali, datati dal IV al X secolo. Se avesse usato il “voi”, Gesù si sarebbe estraniato dal gruppo, cosa impossibile perché la Chiesa non può essere che profondamente legata a Lui, pena il fallimento della testimonianza.

Il secondo problema è dato dalla apparente contraddizione esistente tra il “chi non è contro di noi, è per noi” e “chi non è con me, è contro di me”, ma è facilmente risolvibile perché si tratta di concetti che si adattano alle situazioni: il non essere “contro” può fare riferimento alla neutralità inteso come disinteresse (e in questo caso la contrarietà è evidente perché allude a un cuore impermeabile), oppure alla condizione di chi si mette da parte nell’attesa di capire e non si esprime. Un esempio in proposito lo abbiamo in Nicodemo, dottore della Legge, fariseo e membro dei Sinedrio, che prima ascolta l’insegnamento di Gesù e poi rimane “nell’ombra” fino a quando interviene timidamente in Sua difesa quando i suoi correligionari vorrebbero farlo arrestare (Giovanni 7.45-51) e infine, con Giuseppe d’Arimatea, depone il Suo corpo nel sepolcro (19.39-42). Altro esempio lo abbiamo con Giuseppe d’Arimatea, membro autorevole del Sinedrio, unico descritto come discepolo di Gesù, ma “di nascosto per timore dei Giudei” (17.38), persona che come la precedente ebbe il coraggio dopo molto tempo di manifestarsi come discepolo.

Ecco allora che ogni essere umano deve chiedersi, se “non è contro”, per quale ragione abbia questa posizione e se non sia il caso di intraprendere quel percorso che, un volta per tutte, lo possa porre nella condizione di “concittadino dei santi e membro della famiglia di Dio”. Amen.

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11.29 – IL SECONDO ANNUNCIO DELLA PASSIONE (Marco 9.30-37)

11.29 – Il secondo annuncio della passione e chi sia il più grande (Marco 9. 30-37)

 

30Partiti di là, attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. 31Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà». 32Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo.

33Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?». 34Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande. 35Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti». 36E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: 37«Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato».

 

Esaurite le circostanze relative alla guarigione del ragazzo epilettico, tormentato da uno spirito muto e sordo, Gesù rimane solo coi discepoli e inizia un cammino che li porterà nuovamente a Capernaum, ma contrariamente a quanto avvenuto in passato il tempo che rimaneva era poco per cui la Sua attenzione non si sposta più sulla predicazione, che certo continuerà anche se in forme più dirette e individuali, ma sulla formazione dei dodici. Nostro Signore considera quindi concluso il suo operato nei confronti della folla e sceglie di dedicarsi ai Suoi, bisognosi di insegnamenti profondi che dessero i frutti non nell’immediato, ma al momento opportuno. Teniamo presente che tra questi c’era Giuda Iscariotha, che fu sempre testimone, al pari degli altri, dei miracoli e dei discorsi del suo Maestro, restandone impermeabile.

Proprio sotto la necessità della formazione si spiega quel “ma egli non voleva che alcuno lo sapesse”, che questa volta si concreta attraverso un viaggio in incognito. Qui la domanda su come ciò sia stato possibile diventa importante, perché sappiamo che ogni volta che Gesù approdava da qualche parte in barca o attraversava un villaggio veniva puntualmente riconosciuto attirando attorno a sé molta gente. Una prima risposta, la più umanamente ovvia, si riferisce ad una scelta che tutti noi avremmo fatto, cioè percorrere sentieri e strade poco frequentate fino alla destinazione, ma questo non regge perché il gruppo avrebbe dovuto prima o poi entrare in un villaggio per comprare da mangiare e sarebbero stati riconosciuti. La domanda al verso 33, “Di che cosa stavate discutendo per la strada?”, lascia intendere che il cammino dalla regione di Cesarea alla Galilea sia avvenuto per vie normali, non essendo nominati sentieri o mulattiere.

Credo che questa volta Gesù sia intervenuto personalmente perché Lui e i dodici non fossero riconosciuti, come avverrà per i due discepoli incontrati sulla strada tra Gerusalemme ed Emmaus, dove in Luca 24.16 leggiamo che “…i loro occhi erano impediti a riconoscerlo”: il cammino con il Maestro doveva essere caratterizzato dalla calma e dal silenzio e comunque non poteva avere interferenze di sorta. Il verso del nostro episodio, “Insegnava ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà»”, ci fornisce il soggetto principale dell’insegnamento di Gesù, ma non veniva compreso e, a differenza di quanto avvenuto nel caso delle parabole in cui i discepoli non avevano alcuna remora a chiedergli chiarimenti, qui rimasero zitti, non osando domandare spiegazioni.

I motivi di questa ritrosia non stanno solo nel fatto che “non capivano”, ma in tutta una serie di sentimenti e idee che li assalivano ogni qualvolta Gesù parlava della sua morte e resurrezione. Prima di tutto, vediamo la morte: per i dodici, o per meglio dire “gli undici” anche se Giuda era ancora tra loro, era assolutamente inconcepibile che Lui potesse morire. Egli era “Il Cristo, il figlio dell’Iddio vivente”: come avrebbe potuto venire ucciso o “patire molto” dagli altri uomini, Lui, così infinitamente potente e superiore? Ecco una delle ragioni per cui Pietro fu scandalizzato e Gesù altrettanto quando lo rimproverò chiamandolo “Satana” e dicendogli che aveva “il senso non alle cose di Dio, ma a quelle degli uomini”.

Non una confusione minore, poi, era provata riguardo al fatto che il loro Maestro sarebbe risorto, altro punto incomprensibile perché strideva con l’insegnamento che tutti avevano ricevuto fin dall’infanzia, coi Rabbi che insegnavano loro che sì, vi sarebbe stata la resurrezione, ma nell’ultimo giorno e, ad eccezione dei Sadducei, tutta la nazione ebraica riteneva quella dottrina per vera. E si può dire lo stesso valga anche per noi. Teniamo anche presente che di resurrezione i discepoli non solo ne avevano sentito parlare dai testi antichi, ad esempio con quella operata proprio da Elia, ma erano stati loro stessi testimoni di altre, pensiamo alla figlia di Giairo o al figlio della vedova di Nain. Ecco perché era inconcepibile che l’Autore di quelle resurrezioni fosse ucciso per poi – secondo loro –  resuscitare se stesso.

Altro punto grandemente oscuro per gli undici fu la frase esposta al verso 31, quel “Il figlio dell’uomo verrà consegnato nelle mani degli uomini”, frase cui non facciamo molto caso perché sappiamo che così doveva essere, ma per loro proprio quel “consegnato” costituiva motivo di angoscia in quanto il verbo greco impiegato implica la presenza del tradimento, per cui capirono – o sospettarono – che Gesù sarebbe stato consegnato a seguito di un’azione indegna. Quindi in loro si sommarono tutta una serie di dati ai quali ora si aggiungeva anche il tradimento.

Ora i discepoli furono grandemente afflitti perché, come precisa Marco, “non capivano queste parole e avevano timore a interrogarlo”, sapendo di trovarsi di fronte a qualcosa di ben più pesante a sopportarsi rispetto al fallimento con il ragazzo epilettico poc’anzi avvenuto: se le cose stavano veramente così, che ne sarebbe stato di loro? Dove avrebbero potuto andare e soprattutto, citando Pietro, “A chi ce ne andremo noi?”. Queste furono le ragioni che li indussero a non chiedere nulla, spinti da un sentimento e da una serie di pensieri sovrapposti che Gesù conosceva benissimo. E da qui farà anche di tutto perché quanto da lui enunciato fosse almeno capito in futuro: Luca infatti scrive “«Mettetevi bene in mente queste parole: il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini». Essi però non capivano queste parole: restavano per loro così misteriose che non ne coglievano il senso, e avevano timore di interrogarlo su questo argomento” (9. 43-45).

È molto importante sottolineare che gli apostoli, nonostante il loro entusiasmo per seguire il Maestro, il loro impegno, i sacrifici, le rinunce, erano sempre ancora privi della capacità di comprendere che avranno più avanti grazie allo Spirito Santo e che qui l’avvenimento da Lui annunciato è estraneo alla logica quotidiana “spezzando – come scrive un fratello – la trama abituale dell’esperienza costruita in base ai desideri e alle previsioni umane”. Pensiamo: quegli uomini con Gesù si sentivano sicuri, protetti e il fatto che venga annunciato loro che fra non molto ne sarebbero stati privati non può aver che provocato uno sconforto tale da fargli dimenticare quelle parole, talché si misero a discutere su chi fra loro fosse il più grande. Un modo infantile per cacciare il problema? Forse, ma era anche, stante le loro condizioni, l’unico ed ecco perché i due episodi sono collegati fra loro.

Ed ecco anche perché, anche qui, i discepoli tacciono: “«Di che cosa stavate discutendo per la strada?». Ed essi tacevano.” (vv 33,34). Curiosamente, abbiamo a distanza di poco tempo due domande dirette; ricordiamo la prima, quando viene chiesto agli scribi “Di che cosa discutete con loro?”: è Gesù che interviene per correggere, chiarire, ma anche fare emergere quelli che sono i pensieri (o le azioni anche se non è questo il caso) che non Gli vorremmo far sapere. E a quella discussione avevano partecipato tutti, Giuda Iscariotha compreso, che dato il carattere carnale della discussione si sentì coinvolto. La discussione fu certo animata, perché ciascuno di loro avrà portato agli altri il proprio curriculum di esperienze, primi fra tutti Pietro, Giacomo e Giovanni. Ora teniamo ben presente che se Pietro fosse stato destinato ad essere il “capo della Chiesa”, quella sarebbe stata certamente l’occasione giusta per rivelarlo, dando così seguito alla curiosità dei discepoli e risolvendola una volta per tutte.

Ma la risposta di Gesù, alle parole che abbiamo letto, “Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti”, aggiunge un gesto denso di significati, cioè prende un bambino, lo pone in mezzo a loro e lo abbraccia: sulla figura del bambino abbiamo già parlato dicendo che è simbolo dell’innocenza, che ha bisogno dell’adulto che gli insegni e lo guidi, etc.; tutte certo cose vere, ma in questo caso il bambino è la figura dell’ultimo perché ai tempi di Gesù, come in altri più o meno antichi, era un essere privo di diritti. Su questo dovrebbero meditare quelli che affermano “la strage degli innocenti” non essere mai esistita perché Giuseppe Flavio ne sarebbe stato indignato e l’avrebbe certamente citata. Il bambino allora era un essere considerato insignificante, condannato a subire l’autorità paterna che spesso si manifestava con battiture e umiliazioni. Ed ecco perché Nostro Signore lo pone al centro e lo abbraccia. Chissà se, una volta cresciuto, se ne sarebbe ricordato. Chissà se poi, col passare del tempo, avrà fatto delle scelte che lo avranno caratterizzato, qualificato come figlio di Dio. Non lo sappiamo.

Ciò che emerge come dato incrollabile è che la Chiesa non può essere un’organizzazione umana basata sul potere umano. “Voi sapete che i governanti delle nazioni dominano su di esse e i capi le opprimono. Tra voi non sarà così, ma chi vuole diventare grande tra voi, sarà il vostro servitore e chi vuole essere il primo tra voi, sarà vostro schiavo. Come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Matteo 20.25-28).

Gesù quindi prende come esempio un bambino, un essere privo anche di prestigio non potendo ancora caratterizzarsi in bene o in male, dimostrando così di non volere un successore negli uomini né un Vicario; al contrario incarica lo Spirito Santo di tutto questo: “Io pregherò il Padre ed Egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi sempre: lo Spirito di verità che il mondo non può ricevere, perché non lo vede e non lo conosce” (Giovanni 14.23).

E arriviamo così alle ultime parole di Gesù in questo episodio,  “Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome:  ci vuole un bambino, quindi un innocente ultimo, come può essere un uomo appena “nato di nuovo”, ma questo a nulla serve se questo non viene fatto “nel nome di Gesù Cristo” perché la persona che viene aiutata, sollevata, di cui la persona curata deve sapere il motivo per cui questo avviene. Accoglie me – prima identità con Gesù –. E chi accoglie me non accoglie me, ma Colui che mi ha mandato – quindi la reciprocità di Gesù col Padre, che ha parlato agli uomini per mezzo dei profeti e, in questi ultimi giorni, per mezzo della Sua Parola –.

Ecco, credo che un essere umano non possa ricevere onore più grande, tanto nel dare, che nel ricevere. Amen.

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11.28 – IL FANCIULLO EPILETTICO II (Marco 9.20-29)

11.28 – Il fanciullo epilettico, II (Marco 9. 20-29)

 

20E glielo portarono. Alla vista di Gesù, subito lo spirito scosse con convulsioni il ragazzo ed egli, caduto a terra, si rotolava schiumando. 21Gesù interrogò il padre: «Da quanto tempo gli accade questo?». Ed egli rispose: «Dall’infanzia; 22anzi, spesso lo ha buttato anche nel fuoco e nell’acqua per ucciderlo. Ma se tu puoi qualcosa, abbi pietà di noi e aiutaci». 23Gesù gli disse: «Se tu puoi! Tutto è possibile per chi crede». 24Il padre del fanciullo rispose subito ad alta voce: «Credo; aiuta la mia incredulità!». 25Allora Gesù, vedendo accorrere la folla, minacciò lo spirito impuro dicendogli: «Spirito muto e sordo, io ti ordino, esci da lui e non vi rientrare più». 26Gridando e scuotendolo fortemente, uscì. E il fanciullo diventò come morto, sicché molti dicevano: «È morto». 27Ma Gesù lo prese per mano, lo fece alzare ed egli stette in piedi.28Entrato in casa, i suoi discepoli gli domandavano in privato: «Perché noi non siamo riusciti a scacciarlo?». 29Ed egli disse loro: «Questa specie di demòni non si può scacciare in alcun modo, se non con la preghiera».

 

Prima di iniziare l’analisi del testo, vanno ricordate le parole del padre del giovane a Gesù: “Dovunque lo afferri, lo getta a terra ed egli schiuma, digrigna i denti e si irrigidisce”, descrizione dell’epilessia. Il nome “epilessia” deriva dal greco epi-lambano, cioè cogliere di sorpresa. È una malattia caratterizzata da crisi improvvise dovute ad una scarica abnorme del nostro cervello dovute a cause più varie, come predisposizione genetica, lesioni cerebrali, ma un 40% è dovuto anche a predisposizioni costituzionali. La malattia si esprime con varie manifestazioni, a seconda della zona del cervello interessate dalla scarica e questa, una o più, partono autonomamente, non sono prevedibili. In un terzo dei casi le crisi continuano e in questo caso i pazienti sono a rischio di SUDEP, cioè a morte improvvisa, non prevedibile. Molto spesso l’epilessia compare in età giovanile e con lo sviluppo della persona scompare; chi è predisposto ha una fase in cui le crisi si manifestano e poi, in alcuni, la tendenza alla crisi diminuisce spontaneamente non tanto per i farmaci, ma perché l’epilessia si scontra fra la predisposizione e lo sviluppo cerebrale. Ci sono dei pazienti che nonostante la terapia continuano a presentare le crisi che solitamente rientrano sotto controllo nel momento in cui viene usato il farmaco più adatto. Individuato il farmaco giusto, dopo un certo tempo si diminuiscono gradualmente le dosi per verificare se le crisi ritornano o meno; in questo caso, se il paziente sta bene con una dose bassa, significa che la possibilità dell’insorgere di crisi ulteriori diminuiscono.

Questa è l’epilessia moderna, che in comune con quella descritta da Marco e dagli altri ha il “cogliere di sorpresa”, ma qui le “scariche cerebrali” insorgono proprio alla vista di Gesù: coincidenza? Non credo, perché Matteo, Marco e Luca non scrivono autonomamente, ma spinti dallo Spirito Santo che, se quella malattia fosse dovuta alle cause illustrate dalla medicina, avrebbero parlato di un ragazzo infermo, e non epilettico e indemoniato. Non tutti gli epilettici, dunque, sono indemoniati. Alla luce delle conoscenze mediche in merito, sappiamo che quel giovane, senza l’intervento di Gesù, sarebbe morto di SUDEP, cioè per arresto cardiaco causato dall’apnea prolungata per le manifestazioni motorie che impediscono alla persona di respirare.

Quel ragazzo sarebbe morto, ucciso apparentemente dalla malattia, ma in realtà dallo spirito che lo abitava e lo possedeva a suo piacimento, caratterizzandolo anche col mutismo e la sordità. Assistiamo però a un fatto per così dire anomalo, e cioè che Nostro Signore, chiamato dal padre del ragazzo “Maestro”al verso 17 (titolo onorifico solitamente impiegato per gli esorcisti che erano scribi e farisei), a fronte della richiesta “se tu puoi qualcosa, abbi pietà di noi e aiutaci”, non interviene prontamente, ma lascia il giovane in balia dello spirito immondo che, sapendo che stava per essere sconfitto, lo straziava.

Il ragazzo, innominato come il padre, era tormentato fin dall’infanzia, quando la persona è più indifesa e questo ci parla del fatto che l’Avversario e il peccato non hanno pietà di nessuno: da bambino, il demone lo aveva “spesso buttato nel fuoco e nell’acqua per ucciderlo”, due elementi opposti, ma ugualmente letali a significare che non esiste un luogo sicuro per nessuno, a meno che non si eserciti la fede. Acqua e fuoco sono elementi utili perché l’uno riscalda e l’altra disseta ma che, se usati in modo sbagliato, uccidono.

A questo punto avviene qualcosa di molto singolare perché c’è una trasformazione nel cuore di quel padre dopo aver detto “Se tu puoi qualcosa, abbi pietà di noi e aiutaci”. Si tratta di una frase che non può essere in alcun modo paragonata al “Se tu vuoi, puoi guarirmi”espressa dal lebbroso in Matteo 8.1-4: mentre infatti per quest’ultimo c’era la certezza che se Gesù avesse voluto avrebbe risolto la malattia, qui abbiamo “se tu puoi qualcosa”, quasi a dire “le ho provate tutte e adesso sono qui”. Forse quell’uomo metteva Gesù sullo stesso piano di altri che aveva consultato, ma non sapeva fino a che punto arrivasse il suo potere. E quel ragazzo, come scrive Luca, era figlio unico.

È bello vedere che Nostro Signore qui non assume le vesti del pronto soccorritore, ma aspetta ad intervenire perché, nonostante l’urgenza della situazione, era più importante portare quell’uomo alla fede, e infatti gli risponde “Se puoi! Tutto è possibile per chi crede”, a sottolineare che la richiesta, per come gli era stata presentata, non era corretta e che la guarigione dipendeva dalla fede riposta in Lui. E qui abbiamo una confessione particolare, perché la risposta fu ad alta voce in modo che tutti sentissero: “Credo; aiuta la mia incredulità”. In questa versione manca “Signore”, dopo il “Credo”, che ci rivela come il concetto su Gesù fosse cambiato: non è più chiamato “Maestro”, ma “Signore”. In più, con la richiesta di venire aiutato nella sua incredulità, quel padre manifesta tutta la consapevolezza dell’avere poco dentro di sé e la certezza di venire aiutato nel suo credere.

E questo dialogo è stato riportato da Marco proprio per tutti quelli che, guardando dentro di loro, non possono far altro se non ammettere la loro poca fede; è lì, qui, che la porta che Dio può aprire non resta chiusa: se mai siamo noi a temere forse perché abbiamo qualcosa da abbandonare, o perché dubitiamo di saper gestire correttamente quanto ci verrebbe dato. I problemi del vivere la fede sono tanti, a cominciare da noi stessi e infatti quel padre chiede a Gesù di aiutare la “mia”incredulità, cioè tutta quella zavorra che lo tiene attaccato al contingente senza sapere come liberarsene. Allora, accanto alla consapevolezza del potere di guarigione verso il figlio, si aggiunge anche quella della liberazione dal poco credere: la richiesta è quella di arrivare a una fede compiuta nel Signore. E notiamo che Marco scrive che quelle parole furono pronunciate di getto, e sono proprio le reazioni immediate che testimoniano di ciò che alberga nel cuore e nella mente di un uomo.

Al verso 25 leggiamo che Gesù agisce“vedendo accorrere la folla”che evidentemente si stava avvicinando attratta dalle parole di quell’uomo pronunciate ad alta voce. Certo, senza la preghiera di aiuto in campo spirituale, “aiuta la mia incredulità”, non avrebbe fatto nulla. Abbiamo allora l’ordine: “Spirito muto e sordo, io ti ordino, esci da lui e non vi rientrare più”. Sono parole importanti, unitamente alla descrizione di come questo reagì, perché quel giovane non era neppure in grado di parlare e udire. “Esci da lui”è un imperativo riferito al presente, “e non vi rientrare più”rappresenta la garanzia della continuità della guarigione, suggerisce il fatto che quando Dio interviene in una persona è per sempre, come lo stesso accade in tutti coloro che hanno creduto dopo essere stati realmente convinti di peccato, giustizia e giudizio: sanno che, senza l’intervento del Signore che li ha salvati, sarebbero destinati alla morte eterna, al pianto e allo stridore dei denti.

Altro dato importante, ma di cui abbiamo già parlato nell’affrontare l’indemoniato nella Sinagoga di Capernaum, è il modo con cui lo spirito immondo tratta quel ragazzo, cioè “gridando e scuotendolo fortemente, uscì. E il fanciullo diventò come morto, sicché molti dicevano: «È morto»”.Così uno “spirito immondo”tratta una persona prima di lasciarlo definitivamente, come già visto in altri casi, come gli indemoniati gadareni, con la differenza che qui sostenere l’ipotesi della possessione come risultato di una serie di peccati consapevoli non regge, ma è sostenibile quella relativa all’azione di Satana sul territorio, su una condizione della lontananza da Dio dell’umanità che, a quei tempi, doveva constatare la differenza tra gli interventi del Messia promesso e la realtà in cui viveva, oggi apre le porte all’avversario con le sostanze stupefacenti, gli alcoolici e soprattutto i falsi profeti che vorrebbero imporre uno stile di vita a tutti, giovani e vecchi, “piccoli e grandi”.

Tornando al nostro episodio, vediamo che nessuno salvo Gesù ha contatti col ragazzo, questo perché i presenti non osavano avvicinarsi per non incorrere nell’impurità che contraeva chiunque avesse toccato un cadavere. Leggiamo “Ma– perché c’è un “ma” di Dio nella storia di ciascuno – Gesù lo prese per mano, lo fece alzare ed egli stette in piedi”. Tre azioni, le prime due fatte da Lui: prende per mano, una mano che rassicura e promette ogni intervento e guida, lo fa alzare in quanto Signore anche del corpo umano, al che il giovane non può fare a meno che stare in piedi, questa volta senza nessun aiuto, autonomamente. E Luca aggiunge un gesto di una carità e amore unico, cioè “…guarì il fanciullo e lo consegnò a suo padre. E tutti restavano stupiti di fronte alla grandezza di Dio”.

Nostro Signore non si limitò a guarire, ma consegnò personalmente quel ragazzo al proprio padre ed evidentemente i loro sguardi si incrociarono. In pratica, quell’uomo fu esaudito due volte, prima con l’aiuto al soccorso della sua poca fede, poi con la guarigione del figlio.

Sappiamo che poi i nove domandarono a Gesù le ragioni del loro insuccesso, e qui le versioni di Marco e Matteo si completano: il primo pone l’accento sulla preghiera, il secondo sulla poca fede. Ora chiaramente le domande che ci dobbiamo porre sono due, la prima delle quali è se sia necessaria una preghiera specifica per quella possessione, oppure se questa debba rientrare nell’orazione come metodo, chiedendo al Padre la capacità di gestire quell’autorità che come credenti abbiamo o dovremmo avere, poiché se come uomini siamo poca cosa, come cristiani siamo chiamati a gestire lo Spirito e così il discernimento e l’autorità, se abbiamo dei doni.

Matteo, come visto, pone l’accento sulla poca fede dei discepoli: “In verità io vi dico: se avrete fede pari a un granello di senape, direte a questo monte– l’Hermon – «Spostati da qui a là», ed esso si sposterà, e nulla vi sarà impossibile”(17.20). Possiamo concludere chiedendoci, alla luce di queste parole, quale sia la nostra fede e quanto preghiamo il Padre perché, come uno dei protagonisti del nostro episodio, ci sia dato un aiuto nell’esercitare la fede. Quella poca che abbiamo. Amen.

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11.27 – IL FANCIULLO EPILETTICO, I (Marco 9.14-19)

11.27 – Il fanciullo epilettico, I (Marco 9. 14-19)

 

14E arrivando presso i discepoli, videro attorno a loro molta folla e alcuni scribi che discutevano con loro. 15E subito tutta la folla, al vederlo, fu presa da meraviglia e corse a salutarlo. 16Ed egli li interrogò: «Di che cosa discutete con loro?». 17E dalla folla uno gli rispose: «Maestro, ho portato da te mio figlio, che ha uno spirito muto. 18Dovunque lo afferri, lo getta a terra ed egli schiuma, digrigna i denti e si irrigidisce. Ho detto ai tuoi discepoli di scacciarlo, ma non ci sono riusciti». 19Egli allora disse loro: «O generazione incredula! Fino a quando sarò con voi? Fino a quando dovrò sopportarvi? Portatelo da me». 

 

Ho scelto la narrazione di Marco, rispetto a quella di Matteo e Luca, perché molto più ricca di particolari e connessioni a tal punto di rendere necessaria una suddivisione in due parti. Ricordiamo che quanto avvenne è collocato da Luca il giorno successivo alla trasfigurazione, che infatti fu di notte, e qui possiamo fare la prima nota sulla enorme distanza tra quanto avvenuto poche ore prima, cioè quei momenti spirituali così intensi da mutare l’aspetto di Gesù (“Il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce”), e il ritorno nella sua dimensione di uomo fra gli uomini, con gli scribi che questionavano con gli altri nove discepoli che non erano riusciti a guarire un indemoniato. Cessò allora la sublimità di quegli istanti, in cui per poco tempo Gesù aveva potuto vivere un episodio così estraneo alla vita quotidiana; dopo la trasfigurazione e aver parlato con Mosè ed Elia del passato, presente e futuro raccordato all’eternità, “arrivando presso i discepoli”, viene in un certo senso proiettato violentemente a terra, constatando ancora una volta gli effetti del peccato e della miseria umana.

Ricordiamo che anche il tragitto dal monte a dove si trovava il resto dei Suoi fu caratterizzato dalla sopportazione, perché i Pietro, Giacomo e Giovanni non avevano capito le parole più importanti, “anche il Figlio dell’uomo dovrà soffrire per opera loro”, ma si concentrarono sul perché gli scribi sostenevano “che prima deve venire Elia”. E credo che qui possano essere date due letture, una umana che vede nei dodici delle persone lente a capire – e senza lo Spirito Santo ogni recepimento delle cose di Dio è impossibile – e una spirituale che vede l’Avversario impegnato a distogliere la loro attenzione da ciò che è alto e da approfondire, per ciò che riveste un importanza secondaria: non era così necessario sapere “perché dicono gli scribi che prima deve venire Elia”, ma, a fronte di quanto detto ai discepoli, cosa avrebbe implicato il fatto che il loro Maestro fosse “dato in mano agli uomini e patire molte cose per opera loro”.

Esaminiamo ora i versi 14 e 15: Gesù arriva al luogo dove aveva lasciato gli altri discepoli e trova una situazione particolare, e cioè i nove intenti a discutere con degli scribi, circondati da “molta folla”che, quando Lo vide, “fu presa da meraviglia e corse a salutarlo”. Ora il motivo di quella discussione non ci viene detto chiaramente, ma è facile immaginare che riguardasse il fatto che i discepoli non erano riusciti a scacciare il demonio che affliggeva il giovane epilettico; di qui derivarono tutta una serie di questioni dottrinali che sicuramente quei sapienti avranno eruditamente esposto, soddisfatti di mettere i discepoli in difficoltà per il loro fallimento.

C’è però un particolare sul quale è necessario spostare la nostra attenzione, e cioè che la folla “fu presa da meraviglia”: perché? Cosa poteva esservi di straordinario nel vedere Gesù, che era noto che raramente si separava dai dodici, o nel vederlo arrivare? Non poteva che essere nei paraggi. Evidentemente, come avvenne nel caso di Mosè, gli effetti visibili della trasfigurazione non erano svaniti. Leggiamo in Esodo 34.30 che “Quando Mosè scese dal monte Sinai, le due tavole della Testimonianza si trovavano nelle sue mani mentre egli scendeva dal monte. Non sapeva che la pelle del suo viso era diventata raggiante, perché aveva conversato con lui”. Pensiamo all’esperienza che provò Mosè e possiamo dire che ogni volta che il credente si ritrova a conversare con Dio, a pregare, a interrogare la Scrittura, insomma entrare in un ambito spirituale, fa un’esperienza di consolazione e rivelazioni entrando in uno stato d’animo non definibile a parole. Certo la sua pelle non si trasforma, ma come torna nel mondo normale prova questo senso di enorme distanza tra le due dimensioni, soprattutto quando ha a che fare con i propri simili, quando ritorna alla vita nel mondo naturale.

In proposito possiamo anche sottolineare che se un figlio di Dio resta spesso in comunione con il Padre attraverso lo Spirito, questo sarà inevitabilmente notato dagli altri perché avrà modi e comportamenti che rifletteranno il suo rapporto con Lui. Ecco perché, spesso, i credenti si riconoscono tra loro anche senza necessariamente parlare di Cristo. Nella seconda lettera ai Corinti, Paolo parla della trasformazione operata in chi crede: “E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito nel Signore”(3.18). È una trasformazione lenta, profondamente interna, che viene data a chi cerca ed è disposto ad abbandonare i suoi perni umani perché destinati a crollare in un modo o in un altro. E ricordiamo anche il verso di Salmo 34.5 “Guardate a lui e sarete raggianti, non saranno confusi i vostri occhi”: si parla non di felicità incontenibile, ma dell’irradiazione della luce di Dio, mentre quel “non saranno confusi i vostri occhi”ci parla degli effetti insiti nella rivelazione di Gesù Cristo, che Giovanni descrive in 1.9, “Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo”, certo disposto ad accettarla, altrimenti è e rimarrà per sempre cieco.

La folla dunque corre a salutare Gesù, ma  immediatamente Marco sposta l’attenzione del lettore sulla Sua domanda che, dalla nostra traduzione, non è chiaro a chi fu rivolta, se ai discepoli rimasti ad attenderlo, o agli scribi: “di che cosa discutete con loro?”. Certo Gesù era l’Onnisciente e conosceva tutti i discorsi avvenuti, ma voleva una risposta. Sono convinto che anche noi, se ci fosse rivolta la stessa domanda quando discutiamo col nostro prossimo, a volte ci troveremmo in imbarazzo, ma qui il contesto è differente perché i discepoli diventano timorosi di confessare un fallimento, non essendo riusciti a guarire un epilettico indemoniato. I nove non sanno cosa rispondere e così interviene una terza persona, estranea al gruppo, che afferma “…ho detto ai tuoi discepoli di scacciarlo, ma non ci sono riusciti”(v.18). Per inciso, altre versioni riportano correttamente il testo, cioè “Egli domandò agli scribi: «Di che questionate tra voi?»

In altre parole, quei discepoli avevano certamente vivo in loro il ricordo di quanto avvenuto nell’occasione del loro invio in missione: “Chiamati a sé i suoi dodici discepoli, diede loro potere sugli spiriti impuri per scacciarli e guarire ogni malattia e ogni infermità”(Matteo 10.1). Questo è il preambolo, poiché dopo troviamo scritto l’ordine “Guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demòni”(v.8). Ritennero quindi quel mandato ancora valido e sopravvalutarono le loro forze. Gesù allora, quando tornò dai suoi, dalla folla e anche dagli scribi, si scontrò ancora una volta con l’ignoranza: la pretesa di essere quando non si è, di sapere quando non si sa, dell’aver bisogno senza conoscere di chi o di che cosa, tutti elementi correlati tra loro che caratterizzano l’uomo vecchio, sempre convinto di potere e volere.

 

Essere quando non si è.

L’uomo solitamente, dall’infanzia in poi, cerca di caratterizzarsi in modo tale da avere un ruolo, nella famiglia e poi gradualmente nel contesto sociale in cui fa il suo ingresso; che sia una persona di valore oppure no, assumerà un ruolo di comodo, tanto più marcato quanto più sarà il proprio orgoglio a spingerlo. Combatterà chi è al suo pari e disprezzerà i deboli, non importa se fisicamente, finanziariamente o anche solo persone a lui sottoposte. Non ammetterà critiche o rimproveri ed attribuirà i suoi eventuali insuccessi agli altri. E i discepoli non avevano capito che il mandato ricevuto era temporaneo perché avevano ancora tanto da imparare e, senza lo Spirito Santo non ancora disceso su di loro, non avevano ancora acquisito quel discernimento spirituale atto ad orientarli anche nelle situazioni più oscure.

 

Sapere quando non si sa.

Anche qui, senza lo Spirito di Dio, si costruisce sul nulla, o meglio si lavora sulla sabbia. Le conoscenze acquisite – e qui il riferimento è agli scribi – autorizzavano al pronunciarsi sulle cose inerenti alle Scritture, che però erano da loro interpretate e distorte, come sappiamo, a loro vantaggio o in funzione di una religione. Agli scribi non pareva vero trovarsi di fronte all’insuccesso dei discepoli di Gesù e di attribuirGli il loro fallimento. I discepoli, e con loro oggi i cristiani, erano e sono i suoi rappresentanti per cui, come noi, avrebbero dovuto prestare attenzione a ciò che facevano o dicevano. Per il cristiano l’attenzione va anche rivolta a chi frequenta, a come si pone di fronte agli altri per non avere atteggiamenti contraddittori rispetto alla fede che professa. Se fossero stati accorti, i nove avrebbero dovuto attendere prudentemente il ritorno del Maestro, non essendo ancora compiuta la loro formazione. Più avanti infatti, interrogandolo in proposito, si sentirono rispondere: “Questa specie di demòni non si può scacciare in alcuno modo, se non con la preghiera”, oppure “Per la vostra poca fede”secondo Matteo 17.20. Ricordiamo che, nel caso di questo episodio, erano molti che pretendevano di cacciare gli spiriti impuri, come quegli esorcisti giudei che a volte menzioniamo in Atti 19.13 che si sentirono rispondere “Conosco Gesù e so chi è Paolo, ma voi chi siete?”, e uscirono dallo scontro con l’indemoniato “nudi e feriti”. Anche per quegli esorcisti vale il principio della pretesa di essere quando non si è. Per i discepoli quell’insuccesso  fu sicuramente motivo di vergogna, l’esatto contrario di quanto avvenuto tempo prima, quando “Al loro ritorno, gli apostoli raccontarono a Gesù tutto quello che avevano fatto”(Luca 9.10). Allora, non avevano certo motivo di tacere.

L’aver bisogno senza sapere di chi o di cosa lo vediamo in particolare nella folla, che corre da Gesù per meglio vederlo, stante le caratteristiche avute in quel momento, che lo saluta forse con la parola “Shalom”, ma di circostanza. Una folla che era lì in gran parte per vedere e stupirsi, ma non per credere. Così è l’uomo anche oggi che preferisce, quando raggiunge la consapevolezza delle sue imperfezioni, affidarsi ad attività estranee come lo Yoga o molte altre pratiche anziché andare a bussare a quella porta di cui è promessa l’apertura.

Tornando al nostro testo, vediamo che la domanda “di cosa discutevate con loro?”resta senza risposta. O, meglio, questa la dà il diretto interessato, il padre del ragazzo epilettico: “Maestro, ho portato da te– ecco l’identificazione di Lui coi discepoli e della prudenza che questi avrebbero dovuto esercitare – mio figlio, che ha uno spirito muto. Dovunque lo afferri– quindi in modo imprevedibile senza distinzione per il luogo – , lo getta a terra ed egli schiuma, digrigna i denti e si irrigidisce. Ho detto ai tuoi discepoli di cacciarlo, ma non ci sono riusciti”(vv.17-18). Mi sono chiesto se quel “ma”,che suona con un rimprovero prima di tutto ai nove, fosse rivolto anche a Gesù, che secondo quell’uomo non li aveva formati abbastanza. Ecco l’ignoranza con la quale si scontrò Nostro Signore, che ebbe una reazione particolare, dicendo “O generazione incredula– Matteo aggiunge “e perversa”–; fino a quando starò con voi? Fino a quando dovrò sopportarvi? Portatelo da me”.

Il rimprovero di Gesù qui è universale e non esclude nessuno. Come ha scritto un fratello, «è un rimprovero che, seppure con altri termini, ricorre sovente nei Vangeli per mettere in evidenza che l’uomo, chiunque esso sia, non può avere un comportamento corretto, in parole e in opere, senza la guida dello Spirito Santo. Tutto ciò che gli uomini desiderano compiere al di fuori di tutto ciò che Dio ha predisposto è da Lui considerato “un panno sporco”. E i verbi utilizzati, “stare” e “sopportare” sono indicativi di un tempo che stava per concludersi perché il Suo sacrificio stava per compiersi».

“Portatelo da me”, è un imperativo rivolto a tutti con cui Gesù si pone tanto come riparatore all’errato atteggiamento dei suoi discepoli, quando una promessa di intervento. L’unico possibile, risolutore, vincitore su ogni elemento terreno o negativamente spirituale.

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11.10 – IL CIECO DI BETSÀIDA (MARCO 8.22-28)

11.10 – Il cieco di Betsàida (Marco 8.22-28)

 

22Giunsero a Betsàida, e gli condussero un cieco, pregandolo di toccarlo. 23Allora prese il cieco per mano, lo condusse fuori dal villaggio e, dopo avergli messo della saliva sugli occhi, gli impose le mani e gli chiese: «Vedi qualcosa?». 24Quello, alzando gli occhi, diceva: «Vedo la gente, perché vedo come degli alberi che camminano». 25Allora gli impose di nuovo le mani sugli occhi ed egli ci vide chiaramente, fu guarito e da lontano vedeva distintamente ogni cosa. 26E lo rimandò a casa sua dicendo: «Non entrare nemmeno nel villaggio».

 

 

Narrato solo da Marco, si tratta di un miracolo che ha numerose analogie con quello già esaminato del sordomuto della Decapoli, gli unici due in cui Gesù ricorre alla saliva per guarire. È interessante l’introduzione, “Giunsero – e non “approdarono” – a Betsaida”, che ci lascia supporre il fatto che, coi suoi discepoli, Nostro Signore fosse sbarcato in qualche punto disabitato della sponda orientale del lago, dove i dodici si accorsero di non avere che “un solo pane” e vi fu l’insegnamento sui tre lieviti, dei farisei, dei sadducei e di Erode. Evidentemente c’era l’intenzione che il loro ingresso in Betsaida fosse in un certo qual modo più “riservato” rispetto a quello di un eventuale approdo, che avrebbe suscitato la curiosità degli abitanti del luogo che si sarebbero subito radunati sulla spiaggia. Gesù, quindi, arrivò nel paese di origine di Pietro, Andrea e Filippo, in cui aveva già operato molti miracoli come da 1.32-34: “Venuta la sera, gli portarono molti malati e indemoniati, (…) Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demoni, ma non permetteva ai demoni di parlare, perché lo conoscevano”. Per lo stile e gli scopi che Marco si prefigge, cioè narrare gli episodi salienti e ricchi di riferimenti spirituali, va precisato non abbiamo elementi sufficienti per stabilire con piena certezza se quanto appena letto avvenne in Capernaum, oppure nella Betsaida da lei poco distante, o ancora in un punto equidistante da esse.

In ogni caso, in quel villaggio Gesù era ben conosciuto e infatti “gli condussero un cieco, pregandolo di toccarlo”, legati come molti al fatto che doveva esserci un contatto fisico con Lui perché una persona potesse guarire. Nel caso del sordomuto abbiamo letto che “lo pregarono di imporgli la mano”, dando così prova di riconoscerLo come profeta. Se però per quel miracolo è scritto che Gesù “lo prese in disparte”, qui lo prende per mano e lo porta fuori dal villaggio, senza che il cieco opponesse resistenza: ci fu un dialogo tra i due? Gesù gli disse “Guarda, ti porto fuori dal villaggio”, oppure quella mano gli diede sicurezza e speranza senza che vi fosse bisogno di chiedere qualcosa? Certo quelli che lo avevano portato a Lui gli avranno detto che avrebbe incontrato Uno che avrebbe potuto guarirlo ma, non vedendo, quell’uomo non poteva sapere chi fosse, riconoscerlo, guardarlo, pur avendone sentito parlare. L’udito fu allora il primo senso a venire coinvolto.

Ci fu allora, quando i due s’incontrarono, un primo intervento rappresentato dal contatto attraverso la mano, gesto più intimo rispetto a quello del portare una persona prendendola per un braccio (o sotto) ad evitare eventuali cadute o inciampi, come fanno ad esempio i soccorritori di oggi, ma non sarebbe stata la stessa cosa.

La mano. Può essere alzata per colpire, come fece Caino col fratello (Genesi 4.8) e molti altri esempi, per giurare (14.22; 24.2); può ricevere qualcosa, ma anche venire condotta come in questo caso e, andando indietro nel tempo, per confermare l’assistenza di Dio come avvenne con Lot in Sodoma: “Quando apparve l’alba, gli angeli fecero premura a Lot, dicendo: «Su, prendi tua moglie e le tue due figlie che hai qui, per non essere travolto nel castigo della città». Lot indugiava, ma quegli uomini presero per mano lui, sua moglie e le sue due figlie, per un grande atto di misericordia del Signore verso di lui; lo fecero uscire e lo condussero fuori della città.” (Genesi 19.15,16). La mano è quindi figura di un intervento di Dio, come leggiamo in molti episodi del libro dell’Esodo, si cui troviamo anticipazione in 3.19: “Io so che il re d’Egitto non vi permetterà di partire, se non con l’intervento di una mano forte”.

Il cieco allora sentì la mano di Gesù, certamente non fredda, ma quel contatto non lo guarì a differenza di quanto era già avvenuto con chi toccava anche solo le frange del mantello: l’esperienza di quel cieco doveva essere diversa e la guarigione doveva avvenire poco per volta. Se fosse bastato un semplice contatto fisico, allora Nostro Signore sarebbe sottostato ai voleri degli accompagnatori di quell’uomo, che gli chiedevano appunto di toccarlo. Vi fu allora un tempo in cui il cieco stette a stretto contatto con Lui, con quella mano così diversa che sapeva condurlo meglio di chiunque altro nonostante l’insicurezza dei suoi passi. Chi non vede, se vuole affrontare un cammino sconosciuto, deve necessariamente fidarsi del proprio accompagnatore, altrimenti rimane fermo e disorientato, non sa cosa fare e l’unica cosa che può impossessarsi di lui è il timore, cosa che chiaramente non avvenne.  La mano di Gesù allora fu l’unico riferimento per quell’uomo che, privo della vista, aveva sviluppato in modo particolare l’udito e il tatto per cui chissà quali sensazioni avrà provato.

Ora, come avvenuto con sordomuto, Nostro Signore sostituisce il linguaggio verbale con quello dei gesti: nel primo caso usa le dita e la saliva, qui gli umetta gli occhi con essa e gli parla, perché in grado di udire. Il testo riporta una sola domanda. “Vedi qualcosa?”, lasciando all’uomo la risposta esattamente come al paralitico a Betesda, “Vuoi guarire?”. Marco ci descrive la reazione del cieco, che non guarda davanti a sé cercando di vedere, ma scrive “quello, alzando gli occhi”: li teneva bassi, o cercava l’azzurro di cui gli avevano parlato?

La risposta “Vedo la gente – altri traduce “gli uomini” –, perché vedo come degli alberi che camminano”, ha un significato molto più profondo di quello che potrebbe apparire, perché non sappiamo se fosse cieco dalla nascita oppure lo sia diventato. Nel primo caso, non aveva la possibilità di sapere cosa fossero gli alberi, ma conosceva che la tradizione ebraica, oltre che la Scrittura stessa, paragona gli uomini a loro. Gesù stesso disse in Matteo 3.10 “Già la scure è posta alla radice degli alberi: ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco”. Come alternativa, riferita alla seconda ipotesi anche se più dubbia, comunicava a Gesù di vedere in modo confuso in base alla sua conoscenza pregressa.

In realtà ciò che importa è che da quelle parole traspare la richiesta di un aiuto ulteriore, perché la vista cominciava a dare qualche debole segnale, ma non abbastanza per raggiungere quell’autonomia tanto sperata. “Allora gli pose di nuovo le mani sugli occhi ed egli ci vide chiaramente, fu guarito e da lontano vedeva distintamente ogni cosa”: non fu un miracolo imperfetto nel suo evolversi, ma un avvenimento che Marco, una volta disceso lo Spirito Santo, lasciò a testimonianza dell’efficacia della Parola di Dio sull’uomo, cieco prima di conoscerla ed accoglierla, che dopo l’intervento teso a salvarlo ha tutt’altro che raggiunto la possibilità di vedere tutto nei dettagli ed essere autonomo, ma ha bisogno di un percorso per distinguere ciò che lo circonda da vicino e da lontano “distintamente”, parola che sottintende la possibilità di scegliere ciò che è utile da ciò che non lo è e comportarsi di conseguenza. Il vedere “da lontano distintamente ogni cosa”, ci parla poi della capacità di discernere gli effetti delle nostre azioni, di chi fidarci oppure no delle persone con cui abbiamo a che fare per lo spirito che le anima.

Se quel cieco si fosse accontentato di vedere gli uomini come alberi, sarebbe certo inciampato e non sarebbe stato in grado di orientarsi una volta allontanatosi stentatamente da Gesù: quando una persona si converte non conosce tutto il progetto salvifico di Dio nei suoi confronti, ma solo il Suo amore rivelato attraverso la persona ed opera del Figlio; spesso basta un verso per essere presi per mano ed essere portati “in disparte”: “Iddio ha tanto amato il mondo, da dare il suo Unigenito Figlio perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna”.

Ci sono allora dei miracoli immediati, volti a fare ammettere a chi legge che, senza un intervento diretto del Padre che lo attira al Figlio e si rivela tramite lo Spirito Santo, si è e si rimane ciechi, sordi, muti, zoppi o malati (o tutte queste cose assieme); poi però è necessario un cammino, una rivelazione successiva e – aggiungo – continua: fu così col paralitico di Betesda, che non sapeva chi fosse Colui che lo aveva guarito e solo successivamente ne ebbe contezza, col sordomuto che provò su di sé le attenzioni di Gesù avvertendole in quel corpo chiuso alla ricezione e alla trasmissione, così impossibilitato a comunicare. Troviamo tracce dell’insegnamento di Dio con Mosè che, attratto dalla visione del cespuglio che bruciava senza consumarsi, non sapeva di trovarsi di fronte alla Sua presenza. Un fratello ha scritto “Quello del cespuglio ardente è un racconto che fa riflettere circa il nostro passato umano, condizione che non ci permette di stare vicini a Dio così come siamo perché non si può non considerare la santità del suo Nome e la separazione storica tra Lui e l’uomo a causa del peccato introdotto nel mondo da Adamo ed Eva”.

Infatti, se una persona non viene convinta di peccato, giustizia e giudizio per mezzo dello Spirito Santo, non arriverà mai a Lui. Allora, ecco che inizia a vedere “gli uomini che sembrano alberi”, ma quando comprende, paragona la santità di Dio alla condizione in cui vive e medita su di essa, ecco che inizia a prendere atto progressivamente di ciò che lo circonda fino a distinguere le cose anche da lontano.

L’episodio si conclude con una proibizione: rimandandolo a casa sua gli disse “Non entrare nemmeno nel villaggio” perché quanto avvenuto era il frutto di un’esperienza unica, diretta, personale, che solo una volta elaborata e meditata andando oltre la guarigione in sé poteva essere comunicata e rappresentata agli altri con modi e termini appropriati. In pratica, Gesù vuole porre quell’uomo in una condizione diversa, oltre la teatralità dell’esultanza facendosi vedere dai suoi simili gridando la sua guarigione perché avrebbe fatto, di quel miracolo così personale, un pubblico spettacolo.

Abbiamo allora, raccordando tra loro il miracolo del paralitico di Betesda e questo in esame, due domande: prima Gesù chiede all’uomo, infermo sempre e comunque, se vuole guarire e, pensando alle persone che conosciamo, la risposta non è così scontata. Per beneficiare dell’intervento di Nostro Signore, però, è necessario essere presi in disparte, lontano dalla folla indipendentemente dal fatto che questa sia costituita da amici, parenti o semplici persone conosciute superficialmente, poiché il dialogo con lui avviene, appunto, lontano da interferenze.

Poi c’è una domanda fondamentale, “Vedi qualcosa?”, la cui risposta determina davvero la qualità della visione: se uno si autoconvince di vedere, s’incammina verso una vita di presunzione, ma se ammette, confessa di percepire le cose in modo imperfetto, ottiene la vera guarigione come testimoniò anche Pietro nella sua seconda lettera: “Per questo mettete ogni impegno per aggiungere alla vostra fede la virtù, alla virtù la conoscenza, alla conoscenza la temperanza, alla temperanza la pazienza, alla pazienza la pietà, alla pietà l’amor fraterno, all’amor fraterno la carità. Se queste cose si trovano in abbondanza in voi,  non vi lasceranno né oziosi, né senza frutto per la conoscenza del Nostro Signore Geù Cristo. Chi invece non ha queste cose è cieco e miope, dimenticando di essere stato purificato dai suoi antichi peccati” (1.8.9). Amen.

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11.08 – IL SEGNO DI GIONA (Marco 16.1-4)

11.08 – Il segno di Giona (Matteo 16.1-4)

 

1 I farisei e i sadducei si avvicinarono per metterlo alla prova e gli chiesero che mostrasse loro un segno dal cielo. 2Ma egli rispose loro: «Quando si fa sera, voi dite: «Bel tempo, perché il cielo rosseggia»; 3e al mattino: «Oggi burrasca, perché il cielo è rosso cupo». Sapete dunque interpretare l’aspetto del cielo e non siete capaci di interpretare i segni dei tempi? 4Una generazione malvagia e adultera pretende un segno! Ma non le sarà dato alcun segno, se non il segno di Giona». Li lasciò e se ne andò.

 

Prima di affrontare l’episodio è doverosa un’annotazione geografica poiché il resoconto del miracolo della seconda moltiplicazione dei pani e dei pesci si conclude con le parole “Poi salì sulla barca con i suoi discepoli e subito andò dalle parti di Dalmanutà” (Marco 8.10), oppure “Congedata la folla, Gesù salì sulla barca e andò nella regione di Magadàn” (Matteo 15.39). Non si tratta di una contraddizione, poiché “Magadàn”, in diversi manoscritti, è indicata come “Magdala” e “Dalmanutà”; pur non venendo mai menzionato nei Vangeli salvo che in questo passo, Dalmanutà era un villaggio da lei distante circa un chilometro e mezzo.

Altra annotazione riguarda i “farisei e i sadducei”, fazioni spesso in contrasto tra loro soprattutto riguardo al tema della resurrezione dei morti, di cui questi ultimi negavano la possibilità. Ora quelli di cui parla Matteo non erano “venuti da Gerusalemme”, ma del luogo, poiché altrimenti dovremmo pensare che il gruppo gerosolimitano presidiasse ovunque il territorio della Galilea, cosa impossibile. I sadducei disprezzavano Gesù più dei farisei perché, parlando di resurrezione, sconfessava le loro teorie e credenze in toto e, infatti, è riportata una questione emblematica in proposito: “C’erano fra noi sette fratelli; il primo appena sposato, morì, e non avendo discendenza, lasciò la moglie a suo fratello. Così anche il secondo, e il terzo, fino al settimo. Alla fine, dopo tutti, morì la donna, Alla resurrezione, dunque, di quale dei sette lei sarà la moglie? Poiché tutti l’hanno avuta in moglie. E Gesù rispose loro: «Vi ingannate, perché non conoscete le Scritture e neppure la potenza di Dio. Alla resurrezione infatti non si prende né moglie, né marito, ma si è come angeli nel cielo»” (Matteo 22.25.30). Piccola parentesi su questa verità: nella dispensazione dell’eternità il matrimonio non avrà più alcun senso in quanto non più rappresentativo dell’amore di Dio per il Suo popolo, che sarà finalmente unito a lui per sempre e, con la distruzione di Satana, non esisterà neppure il peccato. Ecco che, tornando alla situazione storica dei tempi di Gesù in terra, i sadducei si allearono con i farisei convinti di sconfiggerLo.

A questo punto chi legge l’episodio è facilmente portato a vedere nella richiesta a Nostro Signore di mostrare “un segno dal cielo” l’allusione a un nuovo miracolo, ma in realtà ciò che gli domandavano era molto più sottile: posti nell’impossibilità di negare le guarigioni stante le testimonianze che ricevevano in merito, chiedono “un segno dal cielo”, cioè che provenisse nello specifico da là affinché il loro inquisito, se era veramente chi diceva di essere, mostrasse  qualcosa di più grande rispetto a manifestazioni che altri uomini di Dio avevano prodotto, di cui possiamo leggere i passi relativi.

Il primo “segno dal cielo” fu prodotto da Mosè con la manna dopo i mormorii del popolo in Esodo 16.4. Gli disse YHWH: “Ecco, io sto per far piovere pane dal cielo per voi: il popolo uscirà a raccoglierne ogni giorno la razione di un giorno, perché io lo metta alla prova, per vedere se cammina o no secondo la mia legge”. Il secondo, travisato profondamente dalla religione che arrivò a sostenere che fosse il sole a girare attorno alla terra e non viceversa, lo abbiamo in Giosuè 10.12,13: “Quando il Signore consegnò gli Amorrei in mano agli Israeliti, Giosuè parlò al Signore e disse alla presenza di Israele: «Férmati, sole su Gabaon, luna, sulla valle di Àialon». Si fermò il sole e la luna rimase immobile finché il popolo non si vendicò dei nemici”. Terzo segno fu con Samuele: “Non è forse questo il tempo della mietitura del grano? Ma io griderò al Signore de egli manderà tuoni e pioggia. Così vi persuaderete e constaterete che grande è il male che avete fatto davanti al Signore chiedendo un re per voi” (1 Samuele 12.17). Israele infatti, popolo diverso, un re non lo avrebbe dovuto avere. Quarto e ultimo “segno dal cielo” fu con Isaia in 38.8 dopo che il Signore gli disse “«Ecco, io faccio tornare indietro di dieci gradi l’ombra sulla meridiana che è già scesa con il sole sull’orologio di Achaz». E il sole retrocesse di dieci gradi sulla scala che aveva disceso”.

Stante questi illustri precedenti, secondo farisei e sadducei, se Gesù fosse stato quanto meno un uomo di Dio, non avrebbe avuto certamente difficoltà nel mostrar loro qualcosa che li convincesse definitivamente. Quei personaggi non volevano essere posti nell’impossibilità di replicare sul piano dottrinale, ma erano convinti di metterlo in difficoltà su quello dei segni, certamente impossibili a compiersi da un uomo normale, ma i miracoli operati fino ad allora, cos’erano? La richiesta era assurda, presentata da cuori increduli nel profondo, ed è paragonabile a quella di Satana nel deserto di Giuda: “Allora il diavolo lo portò nella città santa, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù; sta scritto infatti: Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo ed essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra». Gesù gli rispose: «Sta scritto anche: Non metterai alla prova il Signore Dio tuo»” (Matteo 4.5-7).

Tentare o mettere alla prova il Signore era esattamente quello che stavano facendo i detrattori di Gesù, che non si rivolsero mai a lui per essere liberati e guariti nel cuore e nell’anima. Esemplare, come comportamento opposto, ciò che fece il padre del ragazzo epilettico in Marco 9.22,23 che gli chiedeva “Se tu puoi qualcosa, abbi pietà di noi e aiutaci”: Gesù gli disse: «Se tu puoi! Tutto è possibile per chi crede». Il padre del fanciullo rispose subito ad alta voce: «Credo; aiuta la mia incredulità!»”.

A questo punto, tornando all’episodio, abbiamo la risposta di Gesù, che Marco riporta parzialmente, cioè senza il discorso sul tempo buono o cattivo che sta per arrivare, riconoscibile attraverso il colore del cielo al tramonto o all’alba, tramandato anche attraverso un noto proverbio popolare. Ora le parole “Sapete interpretare l’aspetto del cielo e non siete capaci di interpretare i segni dei tempi?” mettono in risalto tutta la volontaria ignoranza di quelle persone che, a differenza del popolo, avevano gli elementi scritturali per riconoscere “i segni” che proprio il loro Dio stava  manifestando perché potessero ravvedersi e convertirsi: molte sono le profezie ricordate da quando sono iniziate queste riflessioni sui Vangeli a cominciare dal fatto che il “Re d’Israele” sarebbe nato a Betlehem e su tutti gli adempimenti ricordati da Matteo, ma qui c’è anche un riferimento alle parole pronunciate millenni prima da Giacobbe, “Non sarà tolto lo scettro da Giuda né il bastone del comando tra i suoi piedi, finché verrà Colui al quale esso appartiene e a cui è dovuta l’obbedienza dei popoli” (Genesi 49.10). Notare l’espressione relativa allo “scettro di Giuda” che sarà “tolto”, collegata alla frase di Gesù già riportata in uno studio precedente, “Perciò io vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti” (Matteo 21.43).

Togliere è un’azione che non avviene mai senza dolore e umiliazione e che, sotto questo aspetto, connettiamo alla frase “Fate attenzione dunque a come ascoltate; perché a chi ha, sarà dato, ma a chi non ha, sarà tolto anche ciò che crede di avere” (Luca 8.18). “Ciò che crede di avere” altro non è che la citazione-anticipazione della fine. Certo ogni uomo può avere un suo tesoro indipendentemente dalla professione che esercita, di ciò che possiede sulla terra e queste sono le eventuali ricchezze visibili, terrene, ma qui Gesù va molto più in profondità perché “ciò che crede di avere” è un riferimento a tutto quello che una persona considera come assolutamente suo anche nel profondo della propria anima, compreso ciò che non è direttamente tangibile come le convinzioni religiose, politiche, il suo essere, in poche parole il proprio Io che lo domina e che la persona fa di tutto perché venga gratificato.

Farisei e sadducei si cullavano nelle loro teorie, nel rispetto che suscitavano nelle persone, nell’onore che queste attribuivano loro, nel fatto che fossero gente “santa” e per questo vivevano appartati dagli altri che non rientravano nella loro setta. Ebbene, Gesù nel passo ricordato afferma che tutto quello sarà loro “tolto” e proveranno la vergogna della nudità di Adamo senza possibilità di un riscatto o di una vita alternativa, per quanto penosa, nell’attesa di un liberatore. L’unica àncora di salvezza, sarà passata perché il tempo che l’essere umano ha per salvarsi è direttamente proporzionale a quello della sua esistenza: finita quella, c’è il rendiconto.

Farisei e sadducei si ritenevano santi, ma Gesù li definisce “Generazione malvagia e adultera”: il malvagio è una persona indifferente o che prova addirittura compiacimento nel fare il male e l’adultero colui che abbandona colei o colui che ha scelto per un’altra/o. Molti sono i versi dedicati a questo tipo di persone, ma basta ricordare la preghiera “Condanna il malvagio, facendogli ricadere sul capo la sua condotta, e dichiara giusto l’innocente, rendendogli quanto merita la sua giustizia” (1 Re 8.32; 2 Cronache 6.33), dove molto si può comprendere se applichiamo “dichiara giusto l’innocente” al ruolo del Cristo risorto. Il secondo attributo che Gesù dà di quella generazione – non tutti gli ebrei, ma quelli che gli erano di fronte in quel momento – è “adultera” riferito alla condizione spirituale: dichiaravano di amare Dio, ma di fatto lo sconfessavano. Come il matrimonio naturale, fondato sull’amore vivo e vero, ha nell’adulterio un completo affronto e annullamento del coniuge innocente, quello spirituale comporta l’abbandono del Creatore e Signore per altre forme di adorazione; in poche parole è un’infrazione al primo precetto, “Non avrai altri dèi di fronte a me”. E l’adulterio dei farisei e sadducei era, se possibile, ancora più grave perché da un lato si presentavano come unico riferimento dato al popolo per essere istruito e guidato alla verità, dall’altro adoravano se stessi. Ma erano e volevano restare “guide cieche”.

Infine abbiamo le ultime parole: “…non le sarà dato alcun segno, se non il segno di Giona”: l’unico possibile, dato non solo a loro, ma a tutti gli uomini, riferito alla sua morte e resurrezione. Come infatti detto in un altro episodio, dopo le stesse parole, abbiamo “Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra” (Matteo 12.40).

I Vangeli ci dicono che Gesù fu tentato con la richiesta di “un segno” tre volte, e in tutte e tre diede la medesima risposta; anzi, la prima fu leggermente diversa e avvenne quando furono cacciati dal tempio i venditori di animali per i sacrifici: “Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: «Quali segno ci mostri per fare queste cose?». Rispose loro: «Distruggete questo tempio e in tre giorni io lo farò risorgere». Gli dissero allora i Giudei: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo fari risorgere?». Ma egli parlava del tempio del suo corpo. Quando poi fu resuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù” (Giovanni 2. 18-22).

La storia insegna che neppure il “segno di Giona” fu elaborato dai Giudei, talché negarono l’evidenza e ricorsero ad ogni stratagemma pur di negarla, ad esempio ordinando alle guardie di dire che, mentre dormivano, i discepoli avevano rubato il corpo del loro Maestro. Anche oggi molti esprimono le loro opinioni su Gesù, ma non prendono in considerazione il suo essere risorto dopo tre giorni: se ciò non fosse avvenuto, tutto sarebbe una colossale illusione, un abbaglio. E l’uomo sarebbe veramente solo, un puntino destinato a scomparire nell’universo. Come scrive infatti Paolo nella sua prima lettera ai Corinti, “Se Cristo non è risorto, allora vuota è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede. (…) Se i morti non risorgono, neanche Cristo è risorto; ma se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati. (…) Se i morti non risorgono, mangiamo e beviamo, perché domani moriremo” (15. 14,17,32).

Come Gesù, dopo queste parole, è scritto che “li lasciò e se ne andò”, così si avvicina e tale rimane accanto a tutti coloro che, avendolo accolto, hanno ricevuto “il potere di diventare figli di Dio”. Amen.

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11.07 – LA SECONDA MOLTIPLICAZIONE DEI PANI (Marco 8.1-10)

11.07 – La seconda moltiplicazione dei pani (Marco 8.1-10)

 

1 In quei giorni, poiché vi era di nuovo molta folla e non avevano da mangiare, chiamò a sé i discepoli e disse loro: 2«Sento compassione per la folla; ormai da tre giorni stanno con me e non hanno da mangiare. 3Se li rimando digiuni alle loro case, verranno meno lungo il cammino; e alcuni di loro sono venuti da lontano». 4Gli risposero i suoi discepoli: «Come riuscire a sfamarli di pane qui, in un deserto?». 5Domandò loro: «Quanti pani avete?». Dissero: «Sette». 6Ordinò alla folla di sedersi per terra. Prese i sette pani, rese grazie, li spezzò e li dava ai suoi discepoli perché li distribuissero; ed essi li distribuirono alla folla. 7Avevano anche pochi pesciolini; recitò la benedizione su di essi e fece distribuire anche quelli. 8Mangiarono a sazietà e portarono via i pezzi avanzati: sette sporte. 9Erano circa quattromila. E li congedò. 10Poi salì sulla barca con i suoi discepoli e subito andò dalle parti di Dalmanutà.

 

Marco e Matteo ci forniscono dei particolari che ci consentono di inquadrare l’episodio, profondamente diverso dalla prima moltiplicazione che abbiamo esaminato: sappiamo che “Gesù si allontanò di là – dai territori di Tiro e Sidone –, giunse presso il mare di Galilea e, salito sul monte, si fermò. Attorno a lui si radunò molta folla, recando con sé zoppi, storpi, ciechi, sordi e molti altri malati; li depose ai suoi piedi ed egli li guarì, tanto che la folla era piena di stupore nel vedere i muti che parlavano, gli storpi guariti, gli zoppi che camminavano e i ciechi che vedevano. E lodava il Dio d’Israele” (Matteo 15. 25-31). Tra quegli infermi, guarì anche il sordomuto esaminato nello scorso capitolo. È l’ultima frase di Matteo, “lodava il Dio d’Israele”, che ci consente di considerare la riconoscenza della folla che aveva compreso le parole “il regno di Dio è giunto fino a voi” perché consci che quei miracoli non potevano venire da un profeta come i tanti vissuti nei tempi dell’Antico Patto, che ricorsero molto più alla parola che non ai miracoli. Tra questi uomini va ricordato Eliseo, di cui parleremo più avanti. Certo, guarendo, Gesù non si limitò a ristabilire il corpo degli infermi, ma parlò, spiegò, comunicò, espose contenuti che non ci sono stati trasmessi, ma che possiamo raccogliere e connettere coi discorsi fatti agli uomini in altre occasioni: portando a Lui quei malati, la gente dimostrava di non avere alternative per la guarigione dei loro cari, riconoscendogli un potere che nessun altro aveva.

Ora tutta quella gente era con Lui “da tre giorni” e la prima la frase che possiamo sottolineare è “Sento compassione per la folla”, identica nei due evangelisti, che si raccorda al sapere cosa significasse avere fame, avendola provata su di sé nei “quaranta giorni e quaranta notti” passate nel deserto di cui è scritto “alla fine, ebbe fame”. Era infatti necessario che Gesù dovesse “rendersi in tutto – quindi non in parte – simile ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote misericordioso e degno di fede nelle cose che riguardano Dio, allo scopo di espiare i peccati del popolo. Infatti, proprio per essere stato messo alla prova e avere sofferto personalmente, egli è in grado di venire in aiuto a quelli che la subiscono” (Ebrei 2.17,18). La “compassione” che il Figlio provò non solo in questa circostanza per le persone, trova la sua origine proprio nel Suo conoscere per esperienza diretta ciò che significa vivere in un corpo come il nostro, soggetto a patimenti fisici e morali, essendosi fatto uomo. Come già ricordato in altre riflessioni, Egli è definito un “sommo sacerdote” diverso dagli altri, che non sapevano “prender parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato”. Proprio per questo è scritto “Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno” (4.15.16).

Bene, in questo episodio vediamo che la compassione di Gesù si manifesta senza che nessuno gli chieda di venire sfamato e che il suo immedesimarsi in loro fu a prescindere dalla posizione assunta nei Suoi confronti: tra la folla c’era chi credeva in Lui, chi provava una profonda riconoscenza per essere stato guarito, chi “lodava il Dio d’Israele”, ma sicuramente anche chi restava perplesso sia per quei miracoli che per le Sue parole, chi era lì per curiosità, magari restando col cuore impermeabile a tutte quelle manifestazioni, proprio come l’Iscariotha. La compassione di Gesù riguarda tutti comunque perché non per questo, a prescindere dalla posizione assunta dalla gente, il corpo soffriva di meno e, per quel tempo, occuparsi di esso stava a simboleggiare prendersi cura dell’anima, l’uno rifletteva l’altra.

Fede, curiosità o dubbio che fosse, Nostro Signore voleva sfamarli e nessuno di quelli, rientrato nelle loro case, avrebbe potuto dire di non avere beneficiato del Suo intervento. Gesù guarda quindi all’uomo nella sua totalità, quindi anche nelle necessità del corpo dando qui “il pane quotidiano”. La compassione di Dio emerge a prescindere perché l’uomo possa beneficiarne e su questo possa interrogarsi esattamente come avviene con le stagioni, ciascuna delle quali porta frutti appropriati per la sua alimentazione, con la pioggia a suo tempo, o per i perfetti equilibri che reggono la terra e l’universo. In altre parole, tutto, in questo mondo, è stato pensato dal Creatore perché l’uomo possa riconoscerLo perché, come leggiamo in Romani 1.20: “Le sue perfezioni invisibili, ossia la sua eterna potenza e divinità, vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo attraverso le opere da lui compiute”.

Ecco perché, alla compassione di Gesù, non poteva che seguire un intervento atto a risolvere il problema serio dei presenti: “Se li rimando digiuni alle loro case, verranno meno lungo il cammino, e alcuni sono venuti da lontano”. Sapeva che non era sufficiente dir loro “andate in pace”. La cura di Dio non è allora tesa ad una soluzione per l’immediato – avevano già fame – ma guarda al futuro, è preventiva per far sì che, in questo caso, la gente non venisse “meno lungo il cammino”.

È stato scritto all’inizio che questo secondo miracolo di “moltiplicazione” è diverso dal primo come appare dalle parole che seguono la compassione di Gesù, poiché, in questo caso, sono i discepoli a prendere l’iniziativa, “Come riuscire a sfamarli di pane qui, in un deserto?”, mentre nel primo avevano suggerito al loro Maestro di congedare la folla “in modo che, andando per le campagne e i villaggi nei dintorni, possano comprarsi da mangiare” (Marco 6.36): a questo punto mi sono chiesto se i discepoli avevano dimenticato il miracolo precedente, oppure la loro domanda fosse non tanto una preghiera, quanto l’espressione di un’attesa, un voler vedere cosa avrebbe fatto Gesù in quella circostanza. Ricordiamo che nel miracolo precedente Andrea gli disse “C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci, ma che cos’è questo per tanta gente?” (Giovanni 6.9).

Alla domanda dei discepoli su come riuscire a sfamare quelle persone in un deserto, ne segue una identica a loro rivolta da Gesù nel primo miracolo, “quanti pani avete?” tesa a ricordar loro come avrebbe agito da lì in poi: i pani a disposizione erano sette. Andando ora oltre alla cronaca dell’episodio, “quanti pani avete?” è ciò che Gesù chiede ad ogni credente e, in particolare, ai ministri della Sua parola, siano essi sacerdoti, pastori o anziani di una Chiesa, perché la “moltiplicazione” del poco che hanno diventa possibile solo quando ci si affida a Dio interamente, con la totalità della mente e del cuore. Nel momento in cui un cristiano, a prescindere dal ruolo, dal “posto” preparato per lui nel Corpo di Cristo, passa dalla dinamica della vita spirituale per la routine e il semplice acquisito, inizia ad entrare nei tristi territori di ciò che è statico, apparentemente vivo e porta lo Spirito nell’impossibilità di agire, di moltiplicare: lo contrista e finisce per fare e dire le stesse cose, si arena sulla sabbia e magari può finire per autoconvincersi di navigare comunque.

Proseguendo nella lettura del testo, l’organizzazione dell’evento fu simile al primo, con la folla fatta sedere per terra, presumo a gruppi per rendere agevole la distribuzione dei pani e dei “pochi pesciolini”. Come già rilevato nell’occasione precedente, il fatto che non si trattò di “moltiplicazione” ma di un non finire dei due elementi è qui più chiaramente spiegato perché “Prese i sette pani, rese grazie, li spezzò e li dava ai suoi discepoli perché li distribuissero”; qui possiamo fare una connessione col profeta Eliseo: “Da Baal-Salisà venne un uomo, che portò pane di primizie all’uomo di Dio: venti pani d’orzo e grano novello che aveva nella bisaccia. Eliseo disse: «Dallo da mangiare alle gente». Ma il suo servitore disse: «Come posso mettere questo davanti a cento persone?». Egli replicò: «Dallo da mangiare alle gente. Poiché così dice il Signore: Ne mangeranno e ne faranno avanzare». Lo pose davanti a quelli, che mangiarono e ne fecero avanzare, secondo la parola del Signore” (2 Re 4.42-44). Quando è l’uomo a donare, a mala pena lo fa per lo stretto necessario; quando però è Dio a farlo, ecco che ci troviamo ad averne sempre in avanzo perché ci troviamo di fronte a un dono perfetto, come vedremo tra breve mettendo a confronto il numero 6 col 7.

Particolare secondario, solo in apparenza perché il “secondario” nella Parola di Dio non esiste costituendo un tutt’uno, lo individuiamo in quel “rese grazie” di cui Gesù come Dio non aveva bisogno, ma che ancora una volta esprime la Sua dipendenza dal Padre.

L’episodio si conclude in modo differente dal primo in cui le ceste avanzate erano dodici, poiché qui sono sette, numero che sappiamo parlarci della perfezione di Dio, ma che qui vorrei considerare in modo diverso, paragonandolo al 6, anch’esso perfetto, ma secondo il metro umano, matematicamente parlando: infatti i numeri più rari e importanti sono quelli in cui i divisori, addizionati, danno come somma il numero in questione che è così chiamato “perfetto”. Il 6, avendo come divisori 1,2 e 3, è di conseguenza un numero perfetto perché 1+2+3=6. Il successivo numero con tale caratteristica è 28 perché 1+2+4+7+14=28. Scrive il fisico Simon Singh; “Oltre ad avere importanza matematica per i pitagorici, la perfezione del 6 e del 28 era riconosciuta da altre culture che notarono che la luna orbita in 28 giorni e che affermarono che Dio creò il mondo in 6 giorni per esprimere con quel numero la perfezione dell’universo. Sant’Agostino osservò che il 6 non era perfetto perché Dio lo aveva scelto, ma piuttosto che la perfezione era inerente alla natura del numero: 6 è un numero prefetto in se stesso e non perché Dio ha creato tutte le cose in sei giorni; è piuttosto vero l’inverso: Dio ha creato tutte le cose in sei giorni perché questo numero è perfetto”.

Ora questa nota di Singh ci consente un’applicazione spirituale per me interessante, e cioè che 6 è indubbiamente un numero che ha questa caratteristica – oltre al 28 abbiamo il 496, l’ 8.128, poi il 33.550.336, l’ 8.589.969.056 e così via fino a raggiungere cifre immense –, ma questo riferito all’ esistenza e ambiente umani. In altri termini, alla sua perfezione, Dio aggiunse l’Uno che stabilì la Sua approvazione: gli equilibri finiti, assoluti, compiuti dell’universo furono sanciti dal Suo riposo senza il quale il creato non avrebbe avuto senso o, per meglio dire, lo avrebbe avuto ma senza di Lui, per cui sarebbe stato e rimasto inutile. Il settimo giorno fu la firma di Dio e il tutto, la terra e l’Universo, se trovano la loro perfezione nel 6, senza il suggello del Creatore avrebbero avuto un fine imperfetto.

Ecco perché “Qui sta la sapienza. Chi ha intelligenza calcoli il numero della Bestia: infatti è numero d’uomo e il suo numero è 666” (Apocalisse 13.18): se in ogni epoca molti hanno cercato di calcolare questa cifra, punto base è che si tratta di una triade di perfezione, una trinità, su misura per gli uomini che avranno fondato la propria vita e il loro centro su un sistema che non potrà che rispondere perfettamente alle loro esigenze, su cui riporre la propria fede politica e religiosa escludendo l’Uno. Alla Bestia, ricordiamo, “fu concesso di fare guerra contro i santi e di vincerli; le fu dato potere sopra ogni tribù, popolo, lingua e nazione. La adoreranno tutti gli abitanti della terra, il cui nome non è scritto nel libro della vita dell’Agnello, immolato fin dalla fondazione del mondo” (13.7,8).

Quelle “sette ceste” del nostro episodio, collegate agli altrettanti “pani” nella disponibilità dei discepoli, sono un riferimento a quanto fin qui esaminato. Sono un segnale, l’indice di quella porta ancora aperta nel cielo per tutti quelli che sono stati salvati, o vogliono esserlo, e del fatto che Dio non si dimenticherà mai di loro, anzi ne ha compassione e cura. Amen.

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11.06 – IL SORDOMUTO DELLA DECAPOLI (Marco 7.31-37)

11.06 – Il sordomuto della Decapoli (Marco 7.31-37)

 

31Di nuovo, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidone, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli. 32Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano. 33Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; 34guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!». 35E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. 36E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano 37e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!».

 

Anche per questo miracolo ci troviamo di fronte, relativamente all’itinerario seguito da Gesù, a dei dubbi che non vi sarebbero se accettassimo questa traduzione, in cui chiaramente entra nel territorio di Tiro e Sidone, scende percorrendo il litorale fino al territorio della Decapoli, allora gestito da Erode Filippo. Per la panoramica generale che queste riflessioni si propongono, però, è giusto far presente che altre versioni non si esprimono in questo modo: Diodati scrive “Poi Gesù, partitosi di nuovo dai confini di Tiro e di Sidone, venne presso il mare della Galilea, per mezzo i confini della decapoli”. Ciò è dovuto alla diversità tra i manoscritti in quanto alcuni hanno “dià Sidònos”, cioè “attraverso Sidone” ed altri “kài Sidònos”, “e Sidone”. Tra l’altro questo miracolo è narrato solo da Marco, per cui viene a mancare un confronto con altri evangelisti. A dire il vero, Matteo ci fornisce un particolare non da poco, e cioè che “Gesù si allontanò di là – dove la preghiera della donna siro fenicia era stata esaudita – e giunse presso il mare di Galilea e, salito sul monte, si fermò. Attorno a lui si radunò molta folla, recando con sé zoppi, storpi, ciechi, sordi e molti altri malati; li deposero ai suoi piedi, ed egli li guarì, tanto che la folla era piena di stupore nel vedere i muti che parlavano, gli storpi guariti, gli zoppi che camminavano e i ciechi che vedevano. E lodava il Dio d’Israele” (15.29-31). Marco, quindi, sceglie di narrare una, la più particolare, delle tante guarigioni che avvennero in quel luogo e fa passare in secondo piano una domanda che altrimenti sarebbe stata d’obbligo, cioè perché Gesù avesse guarito una sola persona.

Ecco allora che Nostro Signore, entrato nel territorio della Decapoli, viene riconosciuto e seguito dalla folla che si formò poco a poco al suo passaggio, fino a fermarsi su un monte, o collina, e lì gli portarono molti infermi, tra i quali un sordomuto. Qui è necessario sottolineare un particolare molto importante, e cioè che ci viene descritta la condizione di quell’uomo senza attribuirla alla presenza di uno spirito impuro: questo ci parla non dell’ignoranza – come molti sostengono – che faceva attribuire a Satana o ai suoi angeli qualunque condizione invalidante, ma del discernimento di chi ha redatto il Vangelo. Inoltre, l’assenza di un’attribuzione spirituale negativa al sordomuto, mette in guardia il credente dal generalizzare e vedere ovunque l’opera satanica, scendendo così nella superstizione.

A questo punto, allora, dobbiamo chiederci chi è un sordomuto, condizione dovuta, in linea di massima, al fatto che, perdendo l’udito entro i due anni di età o nascendo sorda, la persona, pur avendo un apparato fonico-articolatorio perfettamente integro, non è in grado di parlare perché, non sentendo i suoni, non sa riprodurli. Oggi, sottoponendosi a sedute di logopedia, il sordomuto può imparare ad esprimersi, per quanto con voce monotonale, e comprendere quanto gli viene detto leggendo le labbra dell’interlocutore o tramite il linguaggio dei segni; si tratta di procedure che, ai tempi di questo episodio, non erano conosciute. Il sordomuto di allora viveva una condizione estremamente penosa, non potendo capire ciò che gli si diceva, né scrivere, né leggere, condannato all’emarginazione.

Giunti a questo punto, esaminando i versi dal 32 in poi, gli elementi di riflessione sono davvero tanti e il primo lo troviamo nel comportamento degli amici, o parenti non sappiamo, di quell’invalido: “lo pregarono di imporgli la mano”, segno che consideravano Gesù per lo meno un profeta. La richiesta presentata si rifaceva ai tre significati fondamentali del gesto di imporre le mani nell’Antico Patto, poiché la mano, assieme alla parola, costituisce uno dei mezzi più espressivi del nostro linguaggio. L’imposizione delle mani è effettuata per trasmettere una benedizione, come fu per Giacobbe verso Efraim e Manasse, figli di Giuseppe (Genesi 48.14 e segg.) ed è un segno di consacrazione per indicare separazione, ricezione dello Spirito di Dio. Per dovere di cronaca va detto che abbiamo anche un terzo riferimento che è quello dell’identificazione tra chi offre una vittima in sacrificio e la vittima stessa, come più volte citato nel libro del Levitico (1.4; 3.2; 4.4) e in altri della Legge. Per quanto riguarda il tempo della Grazia, anche gli apostoli utilizzeranno quel gesto (Atti 3.6) a simboleggiare la trasmissione di una potenza che viene da Dio.

Amici o parenti del sordomuto volevano quindi che Gesù trasmettesse la sua benevolenza tramite quel gesto, ma vediamo che non viene trattato come gli altri infermi e, per prima cosa, “lo prese in disparte, lontano dalla folla”, segno che quanto sarebbe avvenuto avrebbe costituito qualcosa di preciso e profondamente individuale, che non doveva riguardare altri. Infatti, contrariamente a diversi miracoli, parte dei quali abbiamo già esaminato, Nostro Signore sostituisce il linguaggio dei gesti alla Sua parola perché altrimenti il sordomuto non avrebbe potuto capire ciò che stava avvenendo. Abbiamo così, ancora una volta, il chinarsi di Gesù verso l’uomo, immedesimandosi profondamente in lui e nelle sue sofferenze per fargli comprendere l’importanza e la portata dell’intervento che stava per compere passo dopo passo. Certo avrebbe potuto dire, ad esempio, “lo voglio, guarisci”, ma in tal modo il sordomuto avrebbe saputo solo dopo cos’era avvenuto. Gesù voleva quindi che quel percorso di guarigione fosse effettivamente compreso dalla persona così come nel caso del paralitico di Betesda: “Vuoi guarire?”.

Lontano dalla folla Nostro Signore compie tre azioni, la prima delle quali è porre a quell’uomo le dita nelle orecchie, chiaro rimando al “dito di Dio”, espressione usata per riconoscere il Suo intervento e potenza. La troviamo infatti per la prima volta in Esodo 8.15 quando i maghi del faraone, impossibilitati come in precedenza e replicare i miracoli di Mosè, gli dissero “È il dito di Dio”. Ancora, ricordiamo le tavole di pietra, “scritte dal dito di Dio” (31.18) e, per finire, la frase di Gesù “Se invece io scaccio i demòni col dito di Dio, allora è giunto a voi il suo regno” (Luca 11.20). Applicato al nostro episodio, allora, prima vengono toccate le orecchie, o meglio il foro del condotto uditivo, perché l’uomo prima di parlare deve ascoltare e comprendere, non viceversa.

Seconda azione, “con la saliva gli umettò la lingua”, gesto che potrebbe suscitare repulsione, ma che in quel caso era volto a far comprendere a quella persona che Gesù stava per trasferire la capacità di parlare anche il linguaggio di Dio e non uno qualunque. Come disse Pietro al medicante paralitico, “Non possiedo né oro, né argento, ma quello che ho, te lo do, alzati e cammina” (Atti 3.5). Nostro Signore, Parola di Dio, stava così per trasmettere a quell’uomo il dono della parola e, assieme ad essa, la capacità di parlare anche un linguaggio diverso. La lettura di questo miracolo è sicuramente quella di un’avvenuta guarigione, ma a noi parla del fatto che solo nel momento in cui Gesù opera direttamente e personalmente sull’uomo questo è in grado di ascoltare ed esprimersi proprio come quel sordomuto guarito di cui è detto che “parlava correttamente”. Si tratta di un miracolo che, come vedremo col cieco di Betsaida, ci parla di un percorso preciso, qui condensato in pochi istanti.

Alle azioni di Nostro Signore fin qui esaminate, ne seguono tre riferite alla Sua persona: alza “gli occhi al cielo”, sospira e parla in aramaico dicendo “Effatà, che vuol dire «Apriti»”. La prima è figura della preghiera e qui dobbiamo chiedercene la ragione, visto che operò altri miracoli per sua volontà diretta (abbiamo ricordato le parole “lo voglio, sii guarito” in Matteo 8.3), quasi che in questo caso fosse necessaria l’approvazione del Padre. Credo che, invece, questo sia stato un miracolo di collaborazione tra le due identità, vista la lode “Ha fatto ogni cosa bene: fa udire i sordi e fa parlare i muti”, che possiamo connettere a Isaia 35.6, “Allora si apriranno gli occhi ai ciechi e si schiuderanno le orecchie ai sordi. Lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto”. Nel caso di questo miracolo, allora, abbiamo Gesù come perfetto intercessore a differenza di quelli presunti che una parte del cristianesimo ha voluto proporre-imporre, deviando così le attenzioni e le preghiere che vanno dirette al Padre “nel nome” del Figlio.

Dopo aver rivolto gli occhi al cielo, abbiamo il sospiro che, ancora una volta, ci parla certamente dell’identificazione di Gesù con l’uomo, ma credo si rifaccia al momento della creazione, quando il “soffio” di Dio nelle narici dell’uomo lo rese “anima vivente”. Il “sospiro” di Gesù sta a significare che solo l’intervento del Dio Creatore può modificare una situazione non dovuta alla presenza di uno spirito impuro, ma di qualcosa che, presente dalla nascita, sarebbe altrimenti inguaribile, immodificabile. E allo stesso modo noi nasciamo col contrassegno ereditario del peccato che non potremmo mai eliminare senza un intervento diretto di Colui che per noi si è offerto in sacrificio. Vi è chi vede nel “sospirò” di Gesù, per il verbo greco utilizzato, un gemere pensando alla condizione di chi stava per guarire, e qui vale la pena di ricordare che, alla morte dell’amico Lazzaro, è scritto che “pianse” nonostante sapeva che lo avrebbe resuscitato. A tal punto arrivò in Lui l’identificazione con la penosa realtà e limiti dell’essere umano.

C’è poi l’ordine, “Effatà”, in aramaico, “Apriti”, che nessun altro avrebbe mai potuto pronunciare con il risultato che poi Marco, con il suo caratteristico “subito” riporta: “Gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della lingua e parlava correttamente” una lingua che mai aveva ascoltato, per cui abbiamo un miracolo nel miracolo.

Come già avvenuto in altri episodi, Gesù si raccomanda affinché la notizia di quanto appena avvenuto non fosse divulgata, ciò perché quella guarigione avrebbe dovuto essere constatata poco a poco: questo era il risultato di un’esperienza diretta, di un incontro col Figlio di Dio e non poteva essere qualcosa di paragonato ad una semplice guarigione pubblica senza che non se ne comprendesse il reale significato. Ricordiamo Isaia 50.5, “Il Signore m’ha aperto l’orecchio ed io non ho opposto nessuna resistenza” (50.5), parole che esprimono la precedenza dell’intervento di Dio sull’azione e che quando parla a un essere umano è a lui solo che si rivolge. Solo dopo questi passaggi-iinterventinsarà in grado di “parlare correttamente”.

Ancora, a proposito dell’ascolto, ricordiamo il messaggio “Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese. Al vincitore darò della manna nascosta – cioè il cibo degli eletti – e una pietruzza – il nuovo documento di identità – sulla quale sta scritto un nome nuovo che nessuno conosce all’infuori di chi la riceve – perché la salvezza è personale –“ (Apocalisse 2.17). Amen.

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11.05 – LA DONNA SIROFENICIA (Marco 7.24-30)

11.05 – La donna siro fenicia (Marco 7.24-30)

 

24Partito di là, andò nella regione di Tiro. Entrato in una casa, non voleva che alcuno lo sapesse, ma non poté restare nascosto. 25Una donna, la cui figlioletta era posseduta da uno spirito impuro, appena seppe di lui, andò e si gettò ai suoi piedi. 26Questa donna era di lingua greca e di origine siro-fenicia. Ella lo supplicava di scacciare il demonio da sua figlia. 27Ed egli le rispondeva: «Lascia prima che si sazino i figli, perché non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini». 28Ma lei gli replicò: «Signore, anche i cagnolini sotto la tavola mangiano le briciole dei figli». 29Allora le disse: «Per questa tua parola, va’: il demonio è uscito da tua figlia». 30Tornata a casa sua, trovò la bambina coricata sul letto e il demonio se n’era andato.

 

Se per affrontare questo episodio è stata necessaria una premessa, altrettanto lo è una precisazione importante e cioè che Marco e Matteo presentano versioni differenti: il primo, che sappiamo scrive basandosi su quanto gli rapportava Pietro, scrive “andò nella regione di Tiro”, che letteralmente sarebbe “verso i territori” (Diodati traduce “ai confini di Tiro e Sidone”). Matteo, più ricco in particolari, riporta “si ritirò verso la zona di Tiro e Sidone”, letterale “dalle parti”, lasciando supporre che Gesù fosse entrato in territorio pagano. Nel capitolo precedente è stata scelta questa ipotesi e si sono fatte alcune applicazioni spirituali credo corrette e non rettificabili, ma è necessario sottolineare che sempre Matteo scrive “Ed ecco una donna cananea, che veniva da quella regione”, letterale “uscita da quei territori”, oppure “da quei confini”. Può quindi essere, secondo questi dati, che in realtà Nostro Signore fosse ancora in Galilea, molto prossimo ai territori pagani e che la donna, per raggiungerlo, abbia attraversato il confine tra la Fenicia e la Galilea superiore. C’è incertezza in merito, poiché “i territori” potrebbero alludere anche alla regione in cui l’innominata apparteneva e quindi Gesù avrebbe potuto essere comunque fuori dalla Galilea. Teniamo presente che i due evangelisti non si prefiggono gli stessi scopi, perché Matteo scrive per gli ebrei e Marco, dalla capitale dell’impero, per i Romani per cui i particolari possono differire tra loro.

Anche le origini della donna sono diverse: per Matteo è cananea, quindi appartenente a un popolo visto negativamente perché erede della maledizione di Noè, i cui antenati furono cacciati dagli ebrei dopo la conquista del “paese di Canaan”. Matteo pone così in evidenza il fatto che la donna apparteneva a ciò che restava dell’antica popolazione pagana che abitava la Siria-Palestina prima degli ebrei; Marco la chiama “siro fenicia” perché la fenicia faceva parte della provincia romana di Siria. Riguardo all’itinerario seguito da Gesù, comunque, va detto che molti commentatori parlano addirittura di un “viaggio in Fenicia” dalla quale poi giunse nella Decapoli, dove vi fu la guarigione di un sordomuto e avvenne la seconda moltiplicazione dei pani.

Fatte queste precisazioni, spostiamo la nostra attenzione sulla donna, “la cui figlioletta era posseduta da uno spirito impuro”; non ci viene detto in che modo si caratterizzava questa entità, ma certamente, per il comportamento adottato, non credo costituisca un azzardo paragonarla alla donna emorroissa che “aveva speso tutti i suoi beni con i medici senza poter essere guarita da nessuno” (Luca 8.43). Pur non venendo gli effetti dello “spirito impuro” classificati come una malattia, certamente esistevano anche presso i pagani esorcisti e sacerdoti degli dèi più disparati che avranno cercato in tutti i modi di guarire quella giovane. E tutte le speranze di guarigione si infrangevano puntualmente nel momento in cui ci si trovava di fronte al limite, non superabile, tra la conoscenza e le possibilità umane e ciò che sta oltre. Il testo di entrambi gli evangelisti non specifica da quanto tempo durasse questo stato; fatto sta che quella donna, saputo della presenza di Gesù, “uscì dai suoi confini” – quindi anche quelli etnici e di eredità spirituale negativi in quanto pagana – per andare da Lui, consapevole che sarebbe stato l’Unico in grado di guarire la propria figlia.

A questo punto è bene considerare la cronaca di Matteo che, dopo le parole imploranti di quella madre, scrive “…ma egli non le rivolse neppure una parola. Allora i suoi discepoli gli si avvicinarono e lo implorarono:  «Esaudiscila, perché ci viene dietro gridando!». Egli rispose: «Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa di Israele»” (15. 23,24). Abbiamo qui un particolare non irrilevante, perché i discepoli si rivelano attenti più alla loro tranquillità e al non venire infastiditi, generalizzando così il piano di Dio allora rivolto unicamente al loro popolo.

Il verso 23 che ho riportato, allora, ci parla di una richiesta incessante rivolta a Gesù, paragonabile a quella dei due ciechi in Matteo 9.27 che lo seguirono fino a casa sua. Le continue grida della cananea avevano finito per infastidire i discepoli che addirittura “implorarono” il loro Maestro di esaudirla, ma la risposta che ottennero escludeva qualsiasi intervento in merito: nel Suo ministero terreno non era stato mandato ai pagani, ma solo “le pecore perdute della casa d’Israele” avrebbero dovuto essere i destinatari del Vangelo e dei suoi effetti. Notare l’aggettivo “perdute”, cioè solo quelle che si erano perse e avevano questa consapevolezza più o meno accentuata, non le altre dello stesso popolo, che nell’Avversario avevano trovato il loro pastore. Ricordiamo che gli scribi e farisei non chiesero mai un miracolo a Nostro Signore per venire guariti, ma solo per metterlo alla prova.

Dal testo pare che Gesù si disinteressasse della condizione di quella madre implorante; anzi, dal comportamento duro avuto nei suoi confronti si potrebbe ipotizzare che non volesse avere nulla a che fare con lei anche perché “figlio di Davide”, con cui gli si rivolge all’inizio, era un appellativo di cui non poteva appropriarsi perché racchiudeva tutto un significato di benedizione e promessa che solo un ebreo poteva pronunciare. Non a caso, infatti, Matteo inizia il suo Vangelo proprio con la frase “Genealogia di Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abrahamo”.

Alle parole di Gesù sulla sua missione, ancora Matteo scrive “Ma quella gli si avvicinò e si prostrò davanti a lui dicendo: «Signore, aiutami!»”, segno che comprese quella frase, per cui da un “Pietà di me Signore, Figlio di Davide” evidentemente pronunciato in piedi camminando, passa al prostrarsi chiedendo un aiuto ancora più implorante del primo, ma ottenendo una risposta per lei durissima: “Lascia prima che si sazino i figli, perché non è bene prendere il pane dei figli e darlo ai cagnolini”. E gli ebrei definivano appunto “cani” – cioè animali impuri – tutti i pagani. Come scrive un fratello, “la missione di Gesù era limitata a Israele perché il disegno di Dio era che i beni messianici della salvezza portati dal Figlio di Davide dovevano essere riservati a quel popolo e solo eccezionalmente i pagani avrebbero potuto parteciparvi attraverso una fede supplicante che riconoscesse il privilegio dei Giudei e considerasse puro dono la salvezza divina”. C’è infatti una sostanziale differenza fra pagani ed ebrei: “Essi sono Israeliti e possiedono l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi; da essi proviene Cristo secondo la carne, lui che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli, amen”.

Con le sue parole, Gesù pone la cananea nella posizione storica di essere umano allora impossibilitato a godere dei privilegi che avrebbe avuto se fosse stata appartenente al popolo ebraico, distinzione che verrà abolita più avanti, nella dispensazione della Grazia quando i due popoli, pagani ed ebrei, sarebbero diventati uno solo: “Ora invece, in Cristo Gesù, voi che allora eravate lontani, siete stati avvicinati mediante il sangue di Cristo. Lui infatti è la nostra pace; lui che dei due popoli ne ha fatto uno solo” (Efesi 2.13,14).

Ora, a quei tempi, tale muro esisteva ancora, ma a questo punto la risposta della cananea diventa confessione pubblica: “Signore, anche i cagnolini sotto la tavola mangiano le briciole dei figli”; si tratta di parole che esprimono completamente la posizione da lei assunta e cioè che era conscia del fatto di non appartenere al popolo eletto cui spettava il diritto di essere chiamati “figli” e di stare a “tavola”, ma chiedeva solo le briciole e non il pane. A lei bastavano gli avanzi e quelli sapeva di poter chiedere.

In Marco leggiamo la riposta: “Per questa tua parola, va’: il demonio è uscito da tua figlia”, mentre in Matteo “Donna, grande è la tua fede”, parole che irrompono nella narrazione con una forza unica perché sono le stesse, per lo meno per contenuto, date ad altri uomini o donne ebrei perché la fede è una indipendentemente dal popolo cui si appartiene, come la sofferenza.

Anzi, potremmo aggiungere che parole simili Nostro Signore le utilizzò una sola volta, nel caso del Centurione: “In verità io vi dico, in Israele non ho trovato nessuno con una fede così grande” (Matteo 8.10), ma a conferma che la presunzione di essere qualcosa o qualcuno rappresenta un ostacolo insormontabile per presentarsi davanti a Dio in modo risolutivo, ricordiamo anche la frase “Vi dico che c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elia, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese, ma a nessuna di esse fu mandato Elia, se non a una vedova in Sarepta di Sidone. C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo, ma nessuno di loro fu risanato se non Naaman, il Siro”.

Senza quel percorso di sofferenza, partito dal vedere la propria figlia posseduta dallo spirito impuro senza che nessuno lo fermasse, proseguito con il non vedersi ascoltata da Gesù e respinta perché non appartenente al popolo di Dio, la cananea non sarebbe arrivata da nessuna parte; non avrebbe mai potuto risolvere il problema della propria figlia, condannata ad una vita di dolore ed emarginazione senza alcuna possibilità di un futuro, per quanto umano.

Quella donna ebbe la sua briciola e se Matteo scrive “da quell’ora la sua figlia fu guarita”, Marco aggiunge il particolare “Tornata a casa sua, trovò la figlia seduta sul letto e il demonio se ne era andato”: fece allora, andando a Gesù, un viaggio nel dolore, ma un ritorno sereno con la certezza di essere esaudita. A una gioia moderata, ne seguì poi una completa vedendo la bambina, o ragazza non sappiamo, “seduta” esattamente come l’indemoniato guarito a Gadara, o Gherghesa. E va sottolineato che la posizione seduta, per noi è normale, richiede in realtà un forte equilibrio e controllo della muscolatura impensabile per molti tipi di infermità, ma in particolare per la sconnessione che uno spirito impuro porta nella persona.

La cananea innominata non sapeva che la sua vicenda, attraverso Matteo e Marco, si sarebbe tramandata nei secoli. E a ben guardare, riguardo alla soluzione di un importante problema, la stessa cosa capita anche a noi, che certamente non verremo ricordati da nessuno, ma certamente da Dio, quando ci ritroviamo liberati da situazioni impossibili a risolversi senza il Suo intervento d’amore in quanto suoi figli. Amen.

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11.04 – LA DONNA SIROFENICIA, INTRODUZIONE (Marco 7.24-30)

11.04 – La donna siro fenicia, introduzione (Marco 7.24-30)

 

24Partito di là, andò nella regione di Tiro. Entrato in una casa, non voleva che alcuno lo sapesse, ma non poté restare nascosto. 25Una donna, la cui figlioletta era posseduta da uno spirito impuro, appena seppe di lui, andò e si gettò ai suoi piedi. 26Questa donna era di lingua greca e di origine siro-fenicia. Ella lo supplicava di scacciare il demonio da sua figlia. 27Ed egli le rispondeva: «Lascia prima che si sazino i figli, perché non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini». 28Ma lei gli replicò: «Signore, anche i cagnolini sotto la tavola mangiano le briciole dei figli». 29Allora le disse: «Per questa tua parola, va’: il demonio è uscito da tua figlia». 30Tornata a casa sua, trovò la bambina coricata sul letto e il demonio se n’era andato.

 

Abbiamo letto un episodio molto particolare che va preceduto da considerazioni anche di carattere storico tenendo presente che Gesù parte da Capernaum, il cui nome significa “vicolo di consolazione”, dove aveva stabilito la sua residenza. Il Suo abitare in quel villaggio costituiva l’adempimento di due profezie di Isaia la prima delle quali si trova in 9.1: “Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse”. Matteo, che cita il verso, lo fa precedere da questa nota: “Quando Gesù seppe che Giovanni era stato arrestato, si ritirò nella Galilea, lasciò Nazareth e andò ad abitare a Capernaum, sulla riva del mare, nel territorio di Zàbulon e Nèftali, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaia” (4.12-14). E non poteva esservi luce più “grande”, visto che il Figlio di Dio veniva in mezzo a loro.

Al riguardo si possono fare le stesse applicazioni di quando Nostro Signore si recò nel territorio di Gennezareth, per quanto differenti: Satana era stato sconfitto dopo l’episodio della tentazione nel deserto, ma la Galilea era sotto la politica di Erode Antipa che lo aveva avuto in gestione dal Senato romano quando, alla morte di Erode il Grande, lo aveva diviso in tre tetrarchie. La frase di Isaia “Il popolo che camminava nelle tenebre” (altre traduzione riportano “immerso” in esse) qualificava allora quel territorio di profonda ignoranza spirituale e morale con tutta la depravazione e miseria che ne costituiscono il frutto. Un fratello ha osservato che, sempre a proposito di questo passo, l’espressone “terra tenebrosa”, tradotta anche con “ombre di morte”, “…è un’altra espressione figurata che rileva il contrasto con tutto ciò che ha riferimento con la vita secondo l’ideale di Dio visto nel principio della creazione. Le lezioni storiche tenute da Dio viste nelle alleanze da Lui stipulate a partire da Noè dopo il diluvio fino alla distruzione del Tempio e della città di Gerusalemme, infatti, non furono fatte proprie dal popolo; anzi, furono maggiormente prevaricate”.

Abbiamo poi un’altra descrizione di quanto stava avvenendo con le parole “una luce si è levata”, in opposizione alle precedenti che parlano di buio, che indica verità, purezza, felicità; il verso successivo (Isaia 9.2) infatti recita “Hai moltiplicato la gioia, hai aumentato la letizia. Gioiscono davanti a te come si gioisce quando si miete e come si esulta quando si divide la preda”. Questa avrebbe dovuto essere la reazione di tutto il popolo alla luce del Messia giunto, ma non essendo ciò avvenuto ecco che vi è stato un spostamento temporale in avanti, quando “gli ultimi giorni” avranno un termine e finalmente Israele riconoscerà Gesù nel suo ruolo.

 

C’è poi la seconda profezia di Isaia, che troviamo in 8.23: “Non ci sarà più oscurità dove ora è angoscia. In passato umiliò la terra di Zabulon e Neftali, ma in futuro renderà gloriosa la via del mare, oltre il Giordano, la Galilea delle genti”. Notare l’ultima espressione, “la Galilea delle genti” perché a confine proprio con “quelli di Tiro e Sidone” con il popolo che si era in parte mescolato con loro. Facile a questo punto il collegamento con i “guai” che Gesù decretò su Corazim e Bethsaida, che terminano con “Perché se in Tiro e in Sidone fossero stati compiuti tra voi miracoli, già da tempo si sarebbero pentite, vestendosi di sacco e coprendosi di cenere. Perciò nel giudizio Tiro e Sidone saranno trattate meno duramente di voi” (Luca 10.13). E Gesù, nonostante la Bibbia contenga invettive profetiche e maledizioni contro queste città, come Dio Onnisciente conosceva la loro storia interiore e le considerava predisposte alla conversione. Trattare la storia soprattutto di Tiro è impresa ardua, ma si può ricordare che Chiram, suo re, fu alleato di Davide, fornendogli legname e mano d’opera per la costruzione della sua casa (2 Samuele 5.11), stringendo legami così stretti con lui che poi, Tiro, fu inclusa nel suo censimento. Tiro fornì a Salomone non solo legname e maestranze, ma anche l’oro per il Tempio (1 Re 5.9) e poi marinai per la sua flotta (1 Re 9.27).

Le relazioni amichevoli con Israele, però, nei tempi antichi favorirono il sincretismo religioso al suo interno e ed il re Achab, sposando la figlia del “re di quelli di Sidone”, Jesabel, accettò il culto di Baal: “Eresse un altare a Baal nel tempio di Baal, che egli aveva costruito a Samaria. Acab eresse anche il palo sacro e continuò ad agire provocando a sdegno il Signore, Dio di Israele, più di tutti i re d’Israele prima di lui” (1 Re 16. 32,33). Tiro, difficile da espugnare per la sua posizione, subì soltanto una sconfitta, a parte la piccola parte che  nel 573  a. C. Nabucodonosor riuscì a conquistare dopo un assedio di tredici anni: quella del 332 a.C. da Alessandro Magno che, dopo sette mesi di resistenza, ne ordinò la distruzione. Si avverò così la profezia di Ezechiele 26.8,9: “Poiché hai uguagliato la tua mente a quella di Dio, ecco, io manderò a te i più feroci popoli stranieri; snuderanno le spade contro la tua bella saggezza, profaneranno il tuo splendore. Ti precipiteranno nella fossa e morirai della morte degli uccisi in mezzo ai mari. Ripeterai ancora «Io sono un dio» di fronte ai suoi uccisori? Ma sei un uomo, e non un dio, in balia di chi ti uccide” (28.6-9). Il peccato di Tiro, al pari di quello di Babilonia, fu infatti la superbia ed il fidare in se stessi, il voler escludere Dio dai propri progetti per sussistere da soli.

 

“Partito di là, andò nella regione di Tiro”, è una frase che sottintende una volontà precisa di Gesù in obbedienza ad un itinerario concordato col Padre dopo che molto era già stato fatto e predicato per il Suo popolo, che però non lo aveva ascoltato come avrebbe dovuto. Nostro Signore pare entri in territorio pagano – ma ne parleremo meglio nel prossimo capitolo – e, da queste parole, con decisione. Da notare che diversi manoscritti aggiungono “e di Sidone”. Matteo scrive “si ritirò verso la zona di Tiro e di Sidone” (15.21) quasi a suggerire un precauzionale rifugiarsi in un territorio dove non avrebbe potuto venir catturato; in realtà, credo abbia voluto dimostrare l’anticipazione di quell’avvenimento totale che darà ai pagani la possibilità di convertirsi e beneficiare delle attenzioni di Dio secondo le parole di Paolo ai Galati: “Tutti voi siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù; poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù. E se appartenete a Cristo, allora siete discendenza di Abrahamo, eredi secondo la sua promessa” (3.26-29). Pensiamo che sono parole rivelate da un ex fariseo che, ai tempi della sua professione, avrebbe ritenuto inconcepibili e quasi blasfeme le parole “discendenti di Abrahamo” riferite a dei pagani. È importante tener presente che Gesù non andò in quei territori per portare il Vangelo, ma per anticipare ciò che sarebbe avvenuto un giorno, quando il Regno di Dio sarebbe stato “tolto” ai Giudei per essere “dato a gente che lo avrebbe fatto fruttificare”.

Nostro Signore quindi “andò nella regione di Tiro e Sidone”, o “si ritrasse”, con lo scopo appena evidenziato, ma a questo punto due sono le domande che ci si pongono, e cioè a casa di chi e soprattutto perché ci viene specificato che “non voleva che alcuno lo sapesse”. Credo che Nostro Signore si sia diretto là sapendo di essere accolto e da chi andare a differenza dei discepoli che, da lui istruiti, ricevettero quest’ordine: “In qualunque città o villaggio entriate, fatevi indicare se vi sia qualche persona degna, e lì rimanete fino alla vostra partenza” (Matteo 10.11).

Quanto alla seconda domanda, cioè il perché “non voleva che nessuno lo sapesse”, non possiamo fare a meno di rilevare che quello di Gesù fu un comportamento opposto a quello degli ipocriti, gli scribi e i farisei,  visto ad esempio in Matteo 6.2 “Quando dunque fai l’elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade per essere lodati dagli uomini. In verità vi dico, hanno già ricevuto la loro ricompensa”, stesso principio applicato alla preghiera pubblica. Gesù, recandosi “nella regione di Tiro e Sidone” non solo entra in territorio pagano, ma addirittura in una casa, che ha ancora di più a che fare con l’intimità e le caratteristiche della persona che la abita senza contare che, entrando in quella regione, rinunciava ai privilegi e ai diritti religiosi ed etnici della Sua nazione. È giusto riportare che però non tutti sono d’accordo col fatto secondo il quale Nostro Signore entrò in quei territori, ma sostengono che ne rimase al limite, essendo scritto che la donna “uscì dai suoi confini” (Matteo).

Sappiamo comunque che entrò “in una casa, non voleva che alcuno lo sapesse, ma non poté restare nascosto”, particolare importante che indica quanto Nostro Signore fosse conosciuto e quanto agevolmente circolassero le notizie nonostante la mancanza giornali, radio e televisione; ricordiamo quanto avvenuto in tempi anteriori: “Gesù intanto si ritirò presso il mare con i suoi discepoli e lo seguì molta folla dalla Galilea. Dalla Giudea e da Gerusalemme e dall’Idumea e dalla Transiordania e dalle parti di Tiro e Sidone una gran folla, sentendo ciò che faceva, si recò da lui” (Marco 3.7,8). Luca aggiunge, in 6.17 che tutti questi, compresi quelli “dal litorale di Tiro e Sidone erano venuti per ascoltarlo ed essere guariti dalle loro malattie”.

Gesù, quindi, non era uno sconosciuto e la notizia del suo arrivo in quella casa si sparse subito in quanto era impossibile che “restasse nascosto”: la luce non può far altro che illuminare e nel buio si distingue anche da lontano. E senza volere ho utilizzato due termini, “buio” e “lontano” che hanno riferimento alla condizione spirituale di chi Dio non lo conosce. È nel momento in cui il Vangelo gli viene annunciato che può scegliere se togliersene, o rimanervi.

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11.03 – CIÒ CHE CONTAMINA L’UOMO (Marco 7.14-23)

11.03 – Ciò che contamina l’uomo (Marco 7.14-23)

 

14Chiamata di nuovo la folla, diceva loro: «Ascoltatemi tutti e comprendete bene! 15Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro». [ 16]17Quando entrò in una casa, lontano dalla folla, i suoi discepoli lo interrogavano sulla parabola. 18E disse loro: «Così neanche voi siete capaci di comprendere? Non capite che tutto ciò che entra nell’uomo dal di fuori non può renderlo impuro, 19perché non gli entra nel cuore ma nel ventre e va nella fogna?». Così rendeva puri tutti gli alimenti. 20E diceva: «Ciò che esce dall’uomo è quello che rende impuro l’uomo. 21Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, 22adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. 23Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo».

 

Non sarà sfuggita, leggendo il testo riportato qui sopra, l’assenza del verso 16, che alcune versioni riportano, “Chi ha orecchie per ascoltare, ascolti”, assente nella versione considerata dai questi traduttori.

Ora, collegandoci a quanto avvenuto in precedenza, non risulta né da Marco, né dal parallelo di Matteo 15, che alle parole di Gesù “annullate il comandamento di Dio con la vostra tradizione”, abbia fatto seguito una replica, segno che gli scribi e i farisei non seppero cosa rispondere a quelle accuse. Pertanto Gesù chiama di nuovo la folla che, probabilmente salvo alcuni, si era tenuta a distanza, ma è probabile che i due evangelisti abbiano voluto sottolineare, con le parole “Chiamata di nuovo la folla”, che da quel punto in poi sarebbe iniziato un discorso nell’interesse di tutti e non solo dei “venuti da Gerusalemme” presenti. “Ascoltatemi tutti, e comprendete bene”, dove quel “bene” è assolutamente indicativo.

Partiamo allora dal significato del verbo “contaminare”, che annovera tra i suoi sinonimi “macchiare, insozzare, deturpare, infettare, corrompere”, qui applicato moralmente e spiritualmente. Questo, per la Legge, riguardava in senso corporale l’assunzione di alcuni cibi come la carne di animali da lei proibiti, ma i maestri avevano aggiunto alla proibizione alimentare anche l’abluzione delle mani per riaffermare la loro distinzione dai popoli pagani, considerati impuri talché, se vi era stato un contatto con loro, ci si doveva scuotere di dosso tutta la polvere. Lo storico ebreo Giuseppe Flavio, nelle sue Antichità Giudaiche (13.297) scrive “I farisei hanno trasmesso al popolo numerose prescrizioni avendole ereditate dalla dottrina dei padri, che non si trovano scritte nella legge data da Dio a Mosè”.

In realtà la purità rituale, essendo come sappiamo la Legge “un pedagogo che conduce verso Cristo” era stata data perché Israele mantenesse la sua precisa identità di popolo di Dio rispetto agli altri fino all’arrivo della nuova dispensazione della Grazia, rivelata ufficialmente, riguardo gli alimenti, nell’episodio in cui Pietro, trovandosi sul tetto di casa sua, ebbe una visione: “Vide il cielo aperto e un oggetto che discendeva come una tovaglia grande, calata a terra per i quattro capi. In esso c’era ogni sorta di quadrupedi e rettili della terra e uccelli del cielo. Allora risuonò una voce che gli diceva: «Àlzati, Pietro, uccidi e mangia». Ma Pietro rispose: «No davvero, Signore, poiché io non ho mai mangiato nulla di profano e di immondo». E la voce di nuovo a lui: «Ciò che Dio ha purificato, tu non chiamarlo più profano». Questo accadde per tre volte; poi d’un tratto quell’oggetto du risollevato al cielo” (Atti 10.11.15).

La purità rituale, riguardo agli scritti dell’Antico Patto, stava allora a simboleggiare la differenza tra la corruttele pagane e la santità del popolo di Dio. I maestri ebrei, però, perdendo di vista il vero motivo per cui Israele non poteva essere contaminato come le altre genti, avevano finito per stabilire che i cibi impuri erano atti di per se stessi a inquinare moralmente, per cui l’uso di quelli puri era l’unico modo per mantenersi intrinsecamente integri. Il lavarsi le mani fino al gomito, poi, li preservava ancora di più da tutto ciò di immondo con il quale quegli arti erano venuti a contatto senza che la persona se ne rendesse conto. Capiamo allora perché Gesù sia intervenuto con quell’ “Ascoltatemi tutti e comprendete bene”, preludio a un insegnamento importante per chi volesse capire cosa fosse effettivamente puro e impuro andando alla radice del problema.

La contaminazione non la dà ciò che entra nel corpo, ma ciò che esce da lui. Qui non si tratta chiaramente dell’ambito fisico, ma spirituale, di andare ancora una volta alla radice del vero problema poiché altrimenti si rischia di limitare l’interpretazione agli effetti delle sostanze tossiche eventualmente ingerite, che portano a malattie, se non alla morte dopo un tempo più o meno lungo. Il corpo naturale qui è escluso, ma il riferimento è a ciò che contamina davvero la vita che ogni uomo è chiamato a vivere.

La folla, con le parole di Gesù, è chiamata a considerare che non sono le cose esterne a rendere l’uomo impuro, cioè inadatto all’incontro con Dio, ma è ciò che questi accoglie nel suo cuore custodendo le “cose vecchie” ed impedendo il ritrovamento della comunione con Lui, quella che i nostri progenitori persero.

Il testo ci dice che Nostro Signore fu più esaustivo coi discepoli che lo interrogarono privatamente sul paragone (parabola) appena esposto: a contaminare l’uomo è “ciò che esce dalla bocca”, riferimento, ad esempio, al Salmo 10.7 in cui, parlando del malvagio, leggiamo “Di spergiuri, di frodi e d’inganni ha piena la sua bocca, dalla sua lingua sono cattiveria e prepotenza”, che si collega al principio “La bocca parla di ciò che sovrabbonda nel cuore” (Matteo 12.34). Per questo, sempre nello stesso passo, Gesù stabilirà un’importante verità: “Qualunque peccato e bestemmia verrà perdonata agli uomini, ma la bestemmia contro lo Spirito Santo non verrà perdonata. A chi parlerà contro il Figlio dell’uomo, sarà perdonato; ma a chi parlerà contro lo Spirito Santo, non sarà perdonato, né in questo mondo, né il quello futuro” (vv.31,32). Perché? Credo che molte persone che oggi credono, quando non conoscevano il Signore, abbiano espresso concetti negativi su di Lui, indipendentemente che si trattasse del Padre o del Figlio, bestemmie o negazione della Sua esistenza non importa. Tutte colpe estinte, perdonate, perché “siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio” (1 Corinti 6.11).

C’è però un sistema oltraggioso di vita, visto nella condizione di peccato che la persona vuole assolutamente mantenere senza arrendersi, che se dura fino alla fine, all’ultimo istante di vita dell’uomo, renderà impossibile il suo perdóno. Perché la bestemmia contro lo Spirito Santo è la resistenza strenua a Colui che vorrebbe convincere gli uomini di peccato, giustizia e giudizio per porvi rimedio. Gli atti contrari alla legge di Dio che una persona compie determinano la sua condanna solo se sono confermati da un ostinato rifiuto della Sua parola fino all’ultimo respiro, come ci conferma l’episodio del ladro crocifisso con Gesù che gli disse semplicemente “ricordati di me quando entrerai nel tuo regno” (Luca 23.42); queste parole fanno fremere perché denotano la comprensione di una vita sbagliata che chiede un riscatto possibile. Da sottolineare che quell’uomo chiamò Nostro Signore per nome, dando prova di non esprimere un concetto scaramantico, ma fede.

Anche oggi avvengono conversioni da persone che potrebbero essere da noi giudicate e condannate senza possibilità di appello, certo non solo da parte di un tribunale umano; penso ad esempio a Gaspare Spatuzza, oggi uno dei principali collaboratori di giustizia (umana), rapinatore, protagonista di omicidi importanti tra i quali quello di don Puglisi a Palermo, che a un certo punto della sua vita ha iniziato un percorso spirituale che potrebbe sembrare impossibile stante le azioni di cui si è reso protagonista. Le sue parole sono un attestato di quanto lo Spirito di Dio possa fare in una persona. Spatuzza ha affermato di avere iniziato un “percorso di ravvedimento, vissuto in silenzio, meditazione e astinenze di cose superflue. (…) Soltanto in carcere inizio a leggere libri, in particolare la Sacra Bibbia dandomi modo di entrare in contatto con la Parola di Dio. Allora ti accorgi che la vita è un’altra, da quello che ti hanno fatto sempre vedere, che tutto quello che hai fatto è orribile e privo di giustificazione e chiede vendetta al cospetto di Dio. (…) Devo dire che aspettavo questo momento di passare dalla parte del Bene e una volta fatto il primo passo non ho esitato a mettermi in grazia di Dio”. Queste frasi fanno parte di un memoriale reperibile in rete, ma ascoltando le dichiarazioni di quest’uomo nei processi, quando testimonia la sua conversione con poche parole, molto si può comprendere non solo di quanto la Grazia possa cambiare la vita di una persona, ma dell’amore con cui il Signore accoglie chi si pente. E non potrebbe essere altrimenti, poiché è stato detto “Ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione” (Luca 15.7).

Tornando al nostro testo, è necessario sottolineare le parole di Gesù ai discepoli “Neanche voi siete capaci di comprendere?”, traduzione più morbida rispetto all’originale “Siete anche voi privi di intelletto?”: dalle Sue parole emerge il fatto che Nostro Signore prende atto dell’incredulità, insicurezza e disordine presenti nella mente dei suoi: “il Regno di Dio e la sua giustizia non potevano essere a disposizione di chi non si cibava di alcuni alimenti, ma di chi avrebbe ricercato in Gesù Cristo pace e giustizia mediante lo Spirito Santo”, ha scritto un fratello.

Ancora, non esiste più sottile e pericolosa falsità di quella generata dall’equivoco e dalla manipolazione religiosa che fa passare un modello sociale per ciò che Dio vuole veramente: la Sua volontà viene così strumentalizzata da uomini senza scrupoli al solo scopo di poter controllare le relazioni umane.

Concludendo: chi si puliva le mani con le abluzioni rituali prima di mangiare e sceglieva accuratamente i cibi – pensiamo alla cucina “kosher” – non teneva conto del fatto che aveva un cuore, che non poteva essere certo lavato – per lo meno da loro –, sede di ogni sorta di nefandezze che “vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo”.

Infine possiamo dire che è facile condannare gli scribi e i farisei di allora perché ci sono già le parole di Gesù, ma ricordiamo che c’è una tradizione oscura e distruttiva anche nella Chiesa; è quella che, per dirne una, considera “marginali” o “centrali” alcuni principi della Parola di Dio. Come i maestri della Legge di allora, ci sono in tutte le confessioni persone reputate autorevoli che sostengono che la Scrittura vada interpretata in armonia con le civiltà cui si rapporta – adattando così il cristianesimo al paganesimo, oppure estrapolano versetti al di fuori dal loro contesto originario, amputandoli o proponendoli così come sono, ma senza approfondirli perché tanto “la Parola di Dio è semplice per i semplici”.

Così scrive l’apostolo Paolo nella sua prima lettera a Timoteo: “Se qualcuno insegna diversamente e non segue le sane parole del Signore nostro Gesù Cristo e la dottrina secondo la pietà, costui è accecato dall’orgoglio, non comprende nulla ed  è preso dalla febbre di cavilli e di questioni oziose. Da ciò nascono le invidie, le maldicenze, i sospetti cattivi, i conflitti di uomini corrotti nella mente e privi della verità, che considerano la pietà come fonte di guadagno”.

La purezza. Sembra irraggiungibile, eppure se ci pensiamo altro non è che avere ben presente quell’ “uomo vecchio” che rappresenta ciò che eravamo un tempo e al quale possiamo tornare, per quanto non completamente, se in noi si innesca quel processo degenerativo proprio a partire dal trascurare i principi che Gesù illustra in questo passo. Ecco perché dobbiamo pregare perché il nostro “interno” sia salvaguardato. E farci parte attiva in questo. Amen.

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11.02 – TRASCURANDO IL COMANDAMENTO DI DIO (Marco 7.8-13)

11.02 – Trascurando il comandamento di Dio (Marco 7.8-13)

 

8Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini». 9E diceva loro: «Siete veramente abili nel rifiutare il comandamento di Dio per osservare la vostra tradizione. 10Mosè infatti disse: Onora tuo padre e tua madre, e: Chi maledice il padre o la madre sia messo a morte. 11Voi invece dite: «Se uno dichiara al padre o alla madre: Ciò con cui dovrei aiutarti è korbàn, cioè offerta a Dio», 12non gli consentite di fare più nulla per il padre o la madre. 13Così annullate la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi. E di cose simili ne fate molte».

 

Leggendo questo passo occorre tener presente che, nella versione di Matteo, alla domanda dei “venuti da Gerusalemme” sul perché alcuni dei suoi discepoli trascuravano la regola di lavarsi le mani prima di mangiare, Gesù risponde con un altro interrogativo, “E voi, perché trasgredite il comandamento di Dio per la vostra tradizione?” (15.3) che mostra quanto era stato da loro stravolto il significato del quinto comandamento, “Onora il padre e la madre” e poi passa a citare le parole di Isaia che abbiamo brevemente esaminato nello scorso capitolo.

Il verso ottavo, “Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini” è una demolizione del principio ebraico delle due Taroth, cioè che esista una Legge scritta e una orale, come tuttora l’ebraismo sostiene. “Trascurare” e “osservare”, poi, stabiliscono la distanza enorme che si viene a creare tra l’uomo e il suo Creatore quando si allontana dal comandamento originale per praticare una tradizione aggiunta: l’attenersi alle Sue parole è l’unico modo che l’uomo ha per percorrere un cammino a Lui accetto e aggiungere o togliere equivale, oltre che inquinare un sistema privandolo di equilibrio, sostituirsi alla Sua persona e così spingere persone inconsapevoli a seguire un esempio sbagliato confermando in tal modo la definizione di “Guide cieche” che portano il prossimo alla rovina. Possiamo paragonare l’aggiungere e togliere ad un intervento sul DNA per modificarlo: il risultato è la perdita delle caratteristiche originali di un organismo originariamente creato ed inevitabilmente provoca dei gravi scompensi a lungo termine; pensiamo ai danni alla salute provocati dagli OGM, come allergie, resistenza agli antibiotici, alla riduzione della biodiversità, all’assenza di una agricoltura sostenibile come conseguenza della monocoltura. Si calcola che ogni anno si estinguano almeno trentamila specie viventi perché “Potenzialmente, ogni organismo GM è  una nuova specie introdotta nell’ecosistema e rischia di compromettere gli equilibri naturali del pianeta” (Dossier Greenpeace “OGM, gli impatti sulla salute”).

Aggiungere e togliere. Gli scribi e i farisei erano tutt’altro che persone superficiali o frivole; ricordiamo che i primi erano dei teologi che venivano “ordinati” a quarant’anni dopo studi severi, i secondi si erano separati dal popolo con l’intento di servire e raggiungere Dio attraverso la scienza biblica e la pratica costante della Legge scritta o orale. A questo punto è evidente che, trovandosi davanti al Figlio, avrebbero potuto confrontarsi con Lui per imparare e gioire delle Sue rivelazioni, ma era proprio la loro essere così fondati sulla tradizione a impedirgli di ascoltarlo e aprirgli il cuore. Un’anima che fa un percorso spirituale sincero di umiltà e confronto col Dio che si vuole far conoscere non trova nessun problema ad accoglierne le rivelazioni, ma chi si confronta con Lui avendo già i suoi splendidi castelli di dottrine umane travestite di spiritualità, è molto difficile che voglia imparare, trovare il coraggio di scindere le cose, potare, ammettere che tutto (o gran parte) di ciò che ha praticato finora sia sbagliato e voler rimediare. L’unica soluzione che può escogitare è arroccarsi sulle sue posizioni: ricordiamo che il religioso un dio lo ha già trovato ed è convinto che sia quello vero, ma non si chiede mai il perché e preferisce creare dei dogmi anziché trovare delle risposte. Ricordiamo che, senza la resurrezione di Gesù, anche noi saremmo dei religiosi vuoti: “Se Cristo non è resuscitato, allora vana è la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede” (1 Corinti 15.14).

La frase di Gesù “Siete veramente abili nel rifiutare il comandamento di Dio per osservare la vostra tradizione” è lapidaria, ma lo è ancor di più la traduzione, migliore, di Giovanni Diodati “Bene annullate voi il comandamento di Dio, perché osserviate la vostra tradizione”: la lettura spirituale di Nostro Signore vuole denunciare la strategia di questi personaggi, molto più pericolosi di quanto non possa sembrare, che avevano fatto in modo che il comandamento originario andasse distrutto e, per dimostrarlo, cita il quinto comandamento, “Onora tuo padre e tua madre” e un suo riferimento in Esodo 21.17 che prevedeva la morte per chi li maledisse, letteralmente “parlasse male di loro con astio”. Alla stessa pena soggiaceva il figlio ostinato e ribelle: “Se un uomo avrà un figlio testardo e ribelle che non obbedisce alla voce né di suo padre, né di sua madre e, benché l’abbiano castigato, non dà loro retta, suo padre e sua madre lo prenderanno e lo condurranno agli anziani della città, alla porta del luogo dove abita, e diranno agli anziani della città: «Questo nostro figlio è testardo e ribelle; non vuole obbedire alla nostra voce, è un ingordo e un ubriacone». Allora tutti gli uomini della sua città lo lapideranno ed egli morirà. Così estirperai da te il male, e tutto Israele lo saprà ed avrà timore” (Deuteronomio 21.20,21).

Ora vediamo brevemente in cosa consista, relativamente allo sviluppo che Gesù dà a questo comandamento, onorare il padre e la madre: non si tratta qui di ubbidienza o di rimanere in uno stato di subordinazione finché sono in vita, ma di rispetto in quanto genitori. Il primo caso di mancato onore del Padre lo troviamo in Cam, figlio di Noè che, al contrario dei fratelli, fu colui che lo derise quando, “Avendo bevuto del vino, si ubriacò e si denudò all’interno della sua tenda” (Genesi 9.20,21); su di lui e la sua discendenza si abbatté un giudizio che la penalizza ancora oggi. Dal lato opposto, un esempio è da individuare nel comportamento di Giuseppe, figlio di Giacobbe, che quando in Egitto chiese di essere seppellito presso i suoi padri nella caverna del campo di Efron l’Ittita, fu esaudito nonostante, una volta che il suo corpo fosse deceduto, non avesse certo la possibilità di sapere se il suo desiderio sarebbe stato esaudito (Esodo 49 e 50).

Avvicinandoci al problema posto da Gesù agli scribi e farisei, il quinto comandamento è qui inteso come dare al padre e alla madre il sostegno necessario perché questi lo hanno dato quando i figli ne avevano bisogno, cioè da bambini indipendentemente dall’età: un figlio viene vestito, gli si insegna a muovere i primi passi sostenendolo, andrebbe soprattutto capito e aiutato, guidato fino al conseguimento dell’autonomia grazie alla quale diventerà una persona responsabile anche di fronte alla legge degli uomini occupando un posto nella società cosiddetta “civile”. Così si esprime l’apostolo Paolo nella sua prima lettera a Timoteo: “…essi imparino prima ad adempiere i loro doveri verso quelli della propria famiglia e a contraccambiare i loro genitori: questa infatti è cosa gradita a Dio”.

E qui viene in mente quell’uomo che voleva unirsi ai discepoli di Gesù, ma disse “Permettimi prima di seppellire mio padre”: la risposta che ebbe e sulla quale ci siamo già soffermati, “lascia i morti seppellire i loro morti, ma tu va’, e annuncia il regno di Dio”, non è un invito a rinnegare la pietà filiale, ma evidentemente si riferisce al fatto che quel padre non aveva bisogno di una cura continua perché aiutato da altri, altrimenti vi sarebbe una palese contraddizione col quinto comandamento e ciò non sarebbe stato possibile. “Onora tuo padre e tua madre”, allora, trova l’applicazione nell’assistenza dovuta ai genitori.

Ebbene, vediamo a che punto era arrivata l’errata interpretazione degli scribi e farisei: “Invece voi dite: «Se uno dichiara al padre o alla madre; Ciò con cui dovrei aiutarti è Corbàn, cioè offerta a Dio», non gli consentite di fare più nulla per il padre o la madre. Così annullate la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi. E di cose simili ne fate molte”: la parola Corbàn pare fosse una formula di consacrazione pronunciando la quale un uomo poteva dedicare tutto o parte dei suoi averi per gli usi religiosi, ma così facendo quell’offerta gli impediva di fare altro, come sopperire ai bisogni dei genitori che, in quanto vecchi, dipendevano da lui esattamente come, da bambino, questi aveva bisogno di loro per vivere. In pratica, si spingeva il figlio all’ingratitudine e, con un rito religioso, li si scioglieva da ogni obbligazione verso i genitori.

Si era così creata una religione volontaria non poi diversa, come risultato finale, dall’adesione a riti pagani di cui Israele si era macchiato nella storia perché, pur venendo condannata l’idolatria, l’amore per Iddio era stato gradualmente abolito. Eppure, il vero culto a YHWH non era frutto di invenzione, ma le volontà divine erano state rivelate da Mosè e da tutti i profeti dopo di lui. Questo ci parla del fatto che anche la Chiesa, nuovo popolo di Dio, può introdurre elementi del tutto estranei a quell’adorazione “in spirito e verità” così tanto espressa negli scritti del Nuovo Patto. Allora come oggi, ogni aggiunta alla Parola di Dio comporta un allontanamento da Lui, in quanto peccato e, anziché migliorare l’uomo, lo peggiora. Le parole di Gesù a quegli inviati da Gerusalemme non sono poi così dissimili, nella sostanza, da quelle di Paolo ai Colossesi: “Nessuno che si compiace vanamente del culto degli angeli e corre dietro alle proprie immaginazioni, gonfio di orgoglio nella sua mente carnale, vi impedisca di conseguire il premio: costui non si stringe al capo, dal quale tutto il corpo riceve sostentamento e coesione per mezzo fi giunture e legamenti e cresce secondo il volere di Dio” (2.18.19).

Come quei “venuti da Gerusalemme”, anche quelli che nella Chiesa aggiungono o tolgono dimostrano il loro disinteresse per le cose spirituali in quanto, pur avendo a disposizione il Testo per eccellenza che leggono, non usano l’intelligenza per chiedersi se tutti quei corollari aggiunti abbiano un senso e soprattutto non contrastino con la realtà del Vangelo, sempre semplice nei suoi principi basilari.

Esemplare in proposito è l’episodio in cui Geremia, richiamando il popolo a tornare sulla via del Signore cessando di venerare altri dèi e ricordando le punizioni del passato, così si sentì rispondere: “Quanto all’ordine che ci hai comunicato nel Nome dei Signore, noi non ti vogliamo dare ascolto; anzi, decisamente eseguiremo tutto ciò che abbiamo promesso, cioè bruceremo incenso alla regina del cielo e le offriremo libagioni come abbiamo già fatto noi, i nostri padri, i nostri re e i nostri capi nelle città di Giuda e per le strade di Gerusalemme” (44.16). “Noi non ti vogliamo dare ascolto” quasi che dovessero ubbidire a lui e non al Signore al quale si oppongono con forza, “anzi, decisamente eseguiremo”.

Infine, l’ultimo verso del nostro passo, “Così annullate la parola di Dio con tradizione che avete tramandato voi”, formula una precisa accusa: la “parola di Dio” è quanto Lui ha ordinato all’uomo nel suo esclusivo interesse e che persone a Lui dedite hanno tramandato in ogni tempo, scritti che l’Avversario non è riuscito ad inquinare nonostante i suoi sforzi. “Voi”, è la categoria nella quale rientrano tutti coloro che, per i motivi più disparati, nei secoli hanno voluto “migliorarla” arrogandosi il diritto di equiparare l’autorità della tradizione a quella originale.

Credo che per un religioso non vi sia nulla di più oltraggioso che ascoltare parole che denuncino le sue posizioni, le sue convinzioni false o errate perché, alla fine, a loro di Dio non interessa nulla: infatti, sappiamo che “i Giudei cercavano di ucciderlo”. Ricordiamo la nota di Luca in Atti 7.57,58 a proposito del martirio di Stefano: “Proruppero allora in grida altissime turandosi le orecchie; poi si scagliarono tutti insieme contro di lui, lo trascinarono fuori della città e si misero a lapidarlo”.

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11.01 – LA TRADIZIONE DEGLI ANTICHI (Marco 7.1-6)

11.01 – La tradizione degli antichi (Marco 7.1-6)

 

1 Si riunirono attorno a lui i farisei e alcuni degli scribi, venuti da Gerusalemme. 2Avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani impure, cioè non lavate 3– i farisei infatti e tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavati accuratamente le mani, attenendosi alla tradizione degli antichi 4e, tornando dal mercato, non mangiano senza aver fatto le abluzioni, e osservano molte altre cose per tradizione, come lavature di bicchieri, di stoviglie, di oggetti di rame e di letti -, 5quei farisei e scribi lo interrogarono: «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?».
6Ed egli rispose loro: «Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto: Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. 7Invano mi rendono culto,
insegnando dottrine che sono precetti di uomini.
8Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini»”.

 

È già stato ricordato il verso di Giovanni 7.1, “Dopo questi fatti, Gesù se ne andava per la Galilea; infatti non voleva più percorrere la Giudea, perché i Giudei cercavano di ucciderlo”, che possiamo senz’altro raccordare anche a quanto avvenuto a Gerusalemme con la guarigione dell’infermo a Betesda e alla discussione a lei seguita. È opinione generalmente condivisa che Nostro Signore, dopo quell’episodio, fosse tornato a Capernaum e  lì lo abbiano raggiunto “farisei e alcuni degli scribi, venuti da Gerusalemme”. Qui occorre domandarsi quali fossero le loro reali intenzioni: quando infatti leggiamo “cercavano di ucciderlo” non dobbiamo pensare a un progetto di eliminarlo tramite assassini prezzolati o alla messa in atto di uno stratagemma simile a quello ordito da Erode Antipa e i suoi complici, per Giovanni Battista, ma ad una decisione del Sinedrio che aveva stabilito che occorreva raccogliere il maggior numero possibile di elementi a carico Suo per poterlo accusare e condannare legalmente a morte. È anche probabile che quanto esposto da Gesù predicando o rispondendo alle domande di quegli inviati, “venuti da Gerusalemme”, finisse poi in rapporti accurati, stante la quantità di elementi che potevano raccogliere. Da qui in poi non si tratta più di dispute con i Dottori della Legge del posto, ma con i rappresentanti del potere politico-religioso.

Ora il nostro testo ci mostra chiaramente su cosa si basò la domanda degli inquirenti gerosolimitani, che avevano notato che “alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani impure, cioè non lavate”, in oltraggio alla “tradizione degli antichi” che si basava, essenzialmente, su quanto contenuto nella Misnah e nel Talmud, suddivisi al loro interno in sei argomenti principali (semenza, stagioni, donne, danni, cose sante e cose impure).  Vediamo brevemente i passi della Scrittura dalla quale partiva la “tradizione degli antichi”:

 

  1. I recipienti: “Fra gli animali che strisciano per terra riterrete impuro: la talpa, il topo e ogni specie di sauri, il toporagno, la lucertola, il geco, il ramarro, il camaleonte. Questi animali, fra quanti strisciano, saranno impuri per voi; chiunque li toccherà morti, sarà impuro fino alla sera. Ogni oggetto sul quale cadrà morto qualcuno di essi, sarà impuro: si tratti di un utensile di legno oppure di veste o pelle o sacco o qualunque atro oggetto di cui si faccia uso; si immergerà nell’acqua e sarà impuro fino a sera, poi sarà puro. Se ne cade qualcuno in un vaso di terra, quanto vi si troverà dentro sarà impuro e spezzerete il vaso. Ogni cibo che serve di nutrimento, sul quale cada quell’acqua, sarà impuro; ogni bevanda potabile, qualunque sia il vaso che la contiene, sarà impura. Ogni oggetto sul quale cadrà qualche parte del loro cadavere, sarà impuro; il forno o il fornello sarà spezzato: sono impuri e li dovete ritenere tali”. (Levitico 11.29-35);
  2. I cadaveri: “Chi avrà toccato il cadavere di qualsiasi persona, sarà impuro per sette giorni. Quando qualcuno si sarà purificato con quell’acqua – di purificazione – il terzo e il settimo giorno, sarà puro; ma se non si purifica il terzo e il settimo giorno, non sarà puro. Chiunque avrà toccato il cadavere di una persona che è morta e non si sarà purificato, avrà contaminato la Dimora del Signore e sarà eliminato da Israele. Siccome ‘acqua di purificazione non è stata spruzzata su di lui, egli è impuro; ha ancora addosso l’impurità”. (Numeri 19.11-13);
  3. La lebbra: Tutte le norme sulla lebbra sospetta o accertata dal sacerdote descritte nel capitolo 13 del libro del Levitico;
  4. Il corpo: “Chiunque sarà toccato da colui che ha la gonorrea, se questi non si era lavato le mani, dovrà lavarsi le vesti, bagnarsi nell’acqua e resterà impuro fino alla sera. Il recipiente di terracotta toccato da colui che soffre di gonorrea sarà spezzato, ogni vaso di legno sarà lavato nell’acqua” (Levitivo 15.11);
  5. I fluidi: Prescrizioni relative alla gonorrea, al liquido seminale, il flusso mestruale (Levitico 15)
  6. Le malattie: (ibidem).

 

Il problema per chi legge la Bibbia, tornando al nostro tema, è che non si trovano regole per lavarsi le mani. A questo aveva sopperito la Torah orale, come leggiamo nel Talmud, parola che significa “insegnamento”: “il Santo, che benedetto sia, dette a Israel due Toroth, quella scritta e quella orale. Gli dette la Torah scritta per provvederlo di comandamenti per cui potesse acquistare merito. Gli diede la Torah orale per mezzo della quale potesse distinguersi dalle altre nazioni. Questa non venne data per iscritto, affinché i cristiani non potessero fabbricarsela come fecero con la Toarh scritta, e di essere Israel” (Num. R. 14.10). Il rituale per lavarsi le mani era minuzioso: stabiliva quanta acqua utilizzare (86 cl) che non doveva essere impiegata per altri scopi, doveva essere versata dalla stessa persona, sulle dita non dovevano essere presenti anelli o oggetti vari, l’acqua doveva bagnare anche i gomiti e l’anfora che conteneva l’acqua doveva avere due manici al fine di lavarsi una mano senza che quella non “pura” ne toccasse uno contaminato dall’altra, impura. Mentre si faceva questo, occorreva pronunciare le parole “Benedetto colui che ci ha santificato con i suoi precetti e ci ha comandato l’abluzione delle mani”. Si può aggiungere che, per i Giudei, “la persona che disprezza il lavarsi le mani prima del pasto, dev’essere scomunicata” e la violazione di questo precetto era, come gravità, paragonato alla fornicazione con una prostituta (Rabbi Jose).

 

Notiamo allora la domanda che fu posta a Gesù, “Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi?”: non chiamano in causa un passo profetico o una prescrizione della Legge di Mosè, ma la loro tradizione che, se ci pensiamo, infrangeva lei stessa un comandamento preciso che troviamo in Deuteronomio 4.2 “Non aggiungerete nulla a ciò che io vi comando e non ne toglierete nulla, ma osserverete i comandamenti del Signore vostro Dio, che io vi prescrivo”. C’è poi tutta una serie di passi in cui il principio del non aggiungere viene ampliato, ad esempio in Proverbi 30.5-6 “La parola di Dio è affinata col fuoco. Egli è uno scudo per chi si confida in lui. Non aggiungere nulla alle sue parole, perché egli non ti rimproveri e tu sia trovato bugiardo”. Molti sottovalutano la gravità che contempla il termine, riferito all’opera dell’Avversario, “bugiardo e padre della menzogna” (Giovanni 8.44). “Bugiardo” ha come sinonimi “falso, ingannevole” e si raccorda, restando nei Proverbi, a 11.22 “Le labbra bugiarde sono un obbrobrio per il Signore: egli si compiace di chiunque fa la verità”. Labbra connesse alla mente che ordina loro cosa dire, ma che comunque esprimono “ciò che sovrabbonda nel cuore”.

A questo punto, per quanto nella prossima riflessione dovremo tener presente anche la narrazione di Matteo, Gesù cita un verso che conosciamo, di Isaia 29.13: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi rendono il culto, insegnando dottrine che son precetti d’uomini”. Il testo, che Gesù riassume sapendo di venir compreso comunque, recita: “«Poiché questo popolo si avvicina a me solo con la bocca e mi onora con le sue labbra, mentre il suo cuore è lontano da me e la venerazione che ha verso di me è un imparaticcio di precetti umani, perciò, eccomi, continuerò a operare meraviglie e prodigi con questo popolo, perirà la sapienza dei suoi sapienti e si eclisserà l’intelligenza dei suoi intelligenti. Guai a coloro che vogliono sottrarsi alla vista del Signore per dissimulare i loro piani, a coloro che agiscono nelle tenebre dicendo: «Chi ci vede? Chi ci conosce?»” (29.13-15).

Quindi abbiamo un popolo che si accosta “solo con la bocca” cioè solamente per  parlare, e “mi onora con le sue labbra”, evidentemente bugiarde nel profondo, nell’essenza, quasi che con Dio si possa barare. In realtà si inganna se stessi. Ancora una volta abbiamo la religione, appagante il sentimentalismo superficiale e lontano dalle esigenze del vero Dio a tal punto da impedirgli di agire per l’individuo che così si comporta. Il problema è notevole, perché a un’azione teoricamente positiva, quella di accostarsi a Lui, ne seguono due negative a lei strettamente connesse e, ancora una volta, è il mentire la radice del problema: sperando di ingannare Dio, si fa così con se stessi perché “il cuore è lontano”, cioè si trova a grande distanza, è separato da un lungo intervallo nello spazio. “Lontano da Dio” stabilisce la posizione di chi si comporta in quel modo, dovuta a un inquinamento volontario di pensiero, di voler stabilire di propria iniziativa come rivolgersi a Lui. Non voglio ripetere i concetti già espressi sulla religione, ma qui il dettaglio di Isaia è importante: “La venerazione che ha verso di me è un imparaticcio di precetti umani”, cioè qui è l’uomo che si crea un Dio su misura che tiene alla larga quello vero. Ai Colossesi viene scritto “…son tutte cose destinate a scomparire con l’uso, prescrizioni e insegnamenti di uomini, che hanno una parvenza di sapienza con la loro falsa religiosità e umiltà e mortificazione del corpo, ma in realtà non hanno alcun valore se non quello di soddisfare la carne” (2. 22,23).

Sta allora all’intelligenza umana, illuminata dallo Spirito, chiedersi se si è veramente alla ricerca di Dio, o lo si abbia trovato davvero, oppure se la professione di “fede” non sia altro che l’aderenza a un sistema umano travestito che non vada oltre alle realtà descritte dall’Apostolo Paolo nella sua lettera ai Colossesi. E questa è una nota per tutti a prescindere dalla denominazione cristiana alla quale si appartiene, perché il rischio di stabilire un rito o un sistema che prima intraveda l’apparenza e poi la cristallizzi c’è sempre. Ci si riunisce perché si ama il Signore e lo si vuole in mezzo a noi, non perché “si deve fare e si è sempre fatto”.

Nel passo di Isaia è però bello considerare che, nonostante questi aspetti così negativi e penalizzanti, Iddio non lascia solo il suo popolo e interverrà, al futuro per i tempi di questo profeta, ma al presente per quelli di Gesù e per noi, per far “perire la sapienza” (presunta) e ad “eclissare l’intelligenza dei sapienti”. E nei piani di quelli che “agiscono nelle tenebre dicendo: «Chi ci vede? Chi ci conosce?»” è facile distinguere proprio quei “venuti da Gerusalemme” che qui parlano con Figlio di Dio con la speranza di poterlo accusare.

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10.15 – GENNEZARETH (Marco 6.53-56)

10.15 – Gennezareth (Marco 6.53-56)

 

53Compiuta la traversata fino a terra, giunsero a Gennèsaret e approdarono. 54Scesi dalla barca, la gente subito lo riconobbe 55e, accorrendo da tutta quella regione, cominciarono a portargli sulle barelle i malati, dovunque udivano che egli si trovasse. 56E là dove giungeva, in villaggi o città o campagne, deponevano i malati nelle piazze e lo supplicavano di poter toccare almeno il lembo del suo mantello; e quanti lo toccavano venivano salvati”.

 

La nostra sarà una meditazione basata su tre versetti, ma estremamente densi di significato. Possiamo dire che l’episodio della traversata avvenne il giorno dopo la discussione nella Sinagoga di Capernaum quando Gesù si dichiarò “il pane disceso dal cielo”, avvenimento che i sinottici non riportano. In Giovanni però, all’inizio del suo settimo capitolo, leggiamo “Dopo questi fatti, Gesù se ne andava per la Galilea; infatti non voleva più percorrere la Giudea, perché i Giudei cercavano di ucciderlo”. Credo che di queste intenzioni Giuda Iscariotha ne venne a conoscenza non dopo quanto avvenuto nella Sinagoga, come potrebbe sembrare dalla nota di Giovanni, ma prima, per cui l’annotazione “stava per tradirlo” in 6.71 assume una valenza particolare: da un lato abbiamo i pensieri del traditore, dall’altro la conoscenza di essi da parte di Gesù che li anticipa dicendo “Non ho scelto io voi dodici? Eppure uno di voi è diavolo” (v.70).

Quindi, dopo la disputa a Capernaum, Gesù con i suoi prende la barca e, riallacciandosi al brano di oggi, “compiuta la traversata fino a terra, giunsero a Gennezareth, e approdarono”. Si noti, a proposito del racconto di Marco, che nominando Gennezareth, il cui nome significa “Giardini del principe” a motivo della fertilità del territorio, cita un pezzo di storia, oltre che eventi spirituali, precedentemente accaduto: Gennezareth era chiamata anticamente Kinneroth ed apparteneva alla tribù di Neftali. Si tratta di un luogo che fu testimone di una grande battaglia nel corso della conquista della terra di Canaan fra Israele e una coalizione di dieci re, tra i quali quello di Kinneroth. Leggiamo in Giosuè 11.4-9: Allora essi uscirono con tutti i loro eserciti: erano una truppa numerosa come la sabbia sulla riva del mare, con numerosissimi cavalli e carri.5Tutti questi re si allearono e vennero ad accamparsi insieme presso le acque di Merom, per combattere contro Israele. 6Allora il Signore disse a Giosuè: «Non temerli, perché domani a quest’ora io li consegnerò tutti trafitti davanti a Israele. Taglierai i garretti ai loro cavalli e appiccherai il fuoco ai loro carri». 7Giosuè con tutti i suoi guerrieri andò contro di loro presso le acque di Merom, a sorpresa, e piombò su di loro. 8Il Signore li consegnò nelle mani d’Israele, che li batté e li inseguì fino a Sidone la Grande, fino a Misrefot-Màim e fino alla valle di Mispa a oriente. Li sconfissero fino a non lasciar loro neppure un superstite”.

Ebbene, molti secoli dopo quell’avvenimento, Dio visita il suo popolo approdando in un territorio caratterizzato dalla presenza di Satana che, per quanto sconfitto al tempo di Giosuè nella persona dei dieci re, non per questo aveva rinunciato a dominarlo. Quel dominio veniva esercitato in forma subdola perché l’Avversario non aveva occupato militarmente quel territorio con malattie e infermità di vario tipo, figura della disubbidienza ai voleri di Dio; abbiamo letto che “scesi dalla barca, subito la gente lo riconobbe e, accorrendo da tutta quella regione, cominciarono a portargli sulle barelle i malati – perché il peccato fa ammalare e paralizza l’essere umano – dovunque udivano che si trovasse”. Qui e nell’ultima parte del verso 56, quando leggiamo e rifletteremo sul testo in base al quale gli chiedevano di toccare “almeno il lembo del suo mantello”, occorre sostare brevemente.

Sappiamo che la malattia per Israele era una conseguenza del peccato, mentre per gli altri popoli, come oggi, questa rientrava nelle accidentalità della vita. Risolvendo il problema di quanti andavano a Lui o gli venivano portati, quindi, Gesù non voleva rivelarsi come un “grande guaritore”, ma come l’Emanuele, il “Dio con noi” che, in quanto tale, guariva come scritto in Esodo 15.26, “io sono l’Eterno, che ti guarisco”. La guarigione dalla malattia, qualunque essa fosse, comportava quella dell’anima perché se non vi fosse stato quel desiderio Nostro Signore non avrebbe potuto operare, come ricordiamo si verificò a Nazareth, in cui non avvennero miracoli nonostante la gente glieli chiedesse, ma senza quella fede che risolve.

Sempre riguardo alle guarigioni, va ricordato che queste erano il mezzo mediante il quale Gesù dimostrava di essere in grado di dare il perdono di Dio e di essere Dio stesso secondo la frase “Ti sono rimessi i peccati”. In altri termini, allora i miracoli erano indispensabili per confermare le Sue parole e perché il popolo d’Israele Lo riconoscesse come tale. La continuità dei miracoli nel tempo di allora era un altro elemento importante perché continua conferma del fatto che Gesù era effettivamente chi diceva di essere, ma oggi? Un miracolo, che può sempre avvenire comunque, non può più essere un segno dato affinché la gente possa credere perché quello più importante, la salvezza di un’ anima e la sua conversione, si verifica continuamente e quelli di altro tipo che leggiamo nei Vangeli o nel libro degli Atti, sono da noi accettati e riconosciuti per fede. Il cristiano di oggi vive una realtà profondamente diversa da quella della prima Chiesa e Gesù stesso ricordiamo disse a Tommaso “Perché mi hai veduto, hai creduto; beati coloro che, pur non avendo visto, crederanno” (Giovanni 20.29). Tra l’altro, sbaglieremmo a ritenere il miracolo come condizione base per credere anche ai tempi in cui visse e operò Nostro Signore poiché, ricordando l’episodio del ricco e Lazzaro, alla richiesta del ricco di mandare dei segni ai propri famigliari perché si convertissero prima di incontrare Dio in giudizio, si sentì rispondere “Hanno Mosè e i profeti, ascoltino loro” (Luca 16.29).

L’episodio del ricco e Lazzaro, poi, conferma il principio in base al quale un miracolo viene concesso a chi si trova in una condizione d’animo particolare: “Se non ascoltano – cioè recepiscono e quindi seguono – Mosè e i profeti, neanche se uno resuscitasse dai morti saranno persuasi” (v.30). Ora credo che sia sufficiente considerare quanti hanno creduto nella resurrezione di Cristo per fare le dovute considerazioni.

Mentre il fine di un miracolo, non solo al tempo di Gesù, era quello di condurre uno o più uomini a Dio, quello odierno trova quasi sempre il suo punto d’arrivo nella superstizione e nel traviamento delle anime. Ben sapendo questo, l’apostolo Paolo scrive già in 2 Corinzi 11.14,15 “…ciò non fa meraviglia, perché anche Satana si traveste da angelo di luce. Non è perciò gran cosa se anche i suoi ministri si mascherano da ministri di giustizia; ma la loro fine sarà secondo le loro opere”. Tra l’altro, se osserviamo chi sono i presunti autori dei miracoli di oggi, vediamo che non sono mai attribuiti a Gesù Cristo, ma a divinità immaginarie, aggiunte, parallele a quella che è la sana dottrina cristiana che vede unicamente nel Figlio la sorgente di ogni benedizione, non essendovi altra via oltre a Lui per giungere al Padre.

Il miracolo con provenienza dall’Avversario, al di fuori dei casi immediatamente riconoscibili quanto a intervento di Dio, è ben descritto in Atti 8 con Simon Mago: “V’era da tempo in città un tale di nome Simone, dedito alla magia, il quale mandava in visibilio la popolazione di Samaria spacciandosi per un gran personaggio. A lui aderivano tutti, piccoli e grandi, esclamando: Questa è la potenza di Dio, quella che è chiamata grande. Gli davano ascolto perché per molto tempo gli aveva fatti strabiliare con le sue magie – le stesse esercitate da Satana con Mosè nell’episodio delle dieci piaghe –. (…) ma quando cominciarono a credere a Filippo, che recava la buona novella del Regno di Dio – che non si riduce a cose apparenti – e del nome di Cristo, uomini e donne – cioè persone adulte –  si facevano battezzare. Anche Simone credette e fu battezzato e non si staccò più da Filippo. Era fuori di sé nel vedere i segni e i grandi prodigi che avvenivano”. Sappiamo però che Simone non capì nulla sullo scopo dei miracoli che venivano compiuti allora, talché propose del denaro a Pietro e agli Apostoli pur di riuscire a trasmettere lo Spirito Santo agli altri mediante imposizione delle mani.

 

Giungiamo ora al secondo spunto di riflessione che inizia al verso 54 con le parole “la gente subito lo riconobbe”: come mai, se a Genenzareth approdava per la prima volta? Qui abbiamo un riferimento importante nel vestito di Gesù, che abbiamo già incontrato nell’episodio della donna emorroissa. Nostro Signore non indossava un abito di peli di cammello come il Battista, ma quello descritto in Numeri 15.38: «Parla agli israeliti e ordina loro che si facciano, di generazione in generazione, fiocchi agli angoli delle loro vesti e che mettano al fiocco di ogni angolo un cordone di porpora viola. Avrete tali fiocchi e, quando li guarderete, vi ricorderete di tutti quei comandamenti del Signore per metterli in pratica”. Ecco: Gesù, in quanto assoluto compitore della Legge, l’unico in grado di adempierla in modo perfetto, era anche il solo a poter essere in grado di guarire proprio coloro che “lo supplicavano di poter toccare almeno il lembo del suo mantello”, cioè non un pezzo di vestito, ma proprio quei fiocchi o più propriamente il cordone di porpora viola posto agli angoli del mantello che portava. Qui le traduzioni appropriate sono poche perché quello del cordone, o “frangia” è un particolare che si trova nelle versioni ebraiche.

L’abito che Gesù portava non aveva nulla di miracoloso, ma i lembi, le frange, erano la parte sacra dell’abito e, toccando quelli, i malati dimostravano di voler andare direttamente a Lui perché costituivano l’adempimento di tutti quei comandamenti emanati da Dio che loro non potevano né sapevano adempiere. C’è una profondità immensa in questo gesto che esprime ciò che migliaia di parole non avrebbero potuto dire: una mano si tende e tocca la frangia della Sua veste, quella che stava ai quattro angoli perché, tra l’altro, ad ognuno di loro corrispondeva un nome di Dio. E quattro sono le lettere del tetragramma YHWH. Toccare quel lembo, angolo, frangia, significava dimostrare la volontà di aderire a ciò che Gesù avrebbe potuto fare, Lui e Lui solo. Toccare quella frangia significava sfiorare la Sua Santità e nonostante questo esserne resi partecipi. Ecco perché il verso con cui termina il nostro passo non parla di guarigione, ma di salvezza: “quanti lo toccavano venivano salvati”. Comprendiamo? L’importante era sì guarire, ma con uno scopo nuovo. L’importante era sì guarire, ma come conseguenza, dimostrazione di un perdono ricevuto e ottenuto toccando ciò che era simbolo certamente della santità del Nome di Dio, ma ancor di più del Suo Amore che lo porterà ad immolarsi quale Agnello innocente.

Un cristianesimo fortemente inquinato da tradizioni e concezioni pagane, nei secoli, ha fatto sì che si costituisse la credenza delle reliquie, che però sono completamente fuori da qualsiasi contesto spirituale corretto e appartengono alle regioni oscure della magia, di Simone e di molti altri, che gli apostoli e non solo hanno sempre combattuto.

Gli abitanti di Gennezareth e zone circostanti seppero attribuire alle frange del mantello di Gesù il suo corretto significato e oggi, per guarire, basta ascoltare la Sua voce, contenuta nel Vangelo e nel messaggio che ogni Chiesa è chiamata a proclamare, in ottemperanza e fedeltà al mandato ricevuto. Amen.

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10.06 – GESÙ SUL MONTE (Marco 6.44,45)

10.6 – Gesù sul monte (Marco 6.44-45)

44Quelli che avevano mangiato i pani erano cinquemila uomini. 45E subito dopo egli costrinse i suoi discepoli a montare sulla barca, verso Bethsaida, mentre egli licenziava la moltitudine. Poi, quando l’ebbe accomiatata, se ne andò sul monte, per pregare”.

Tutti ricordano il miracolo dei pani e dei pesci così come quello di Gesù che cammina sulle acque – episodi avvenuti a non più di dodici ore di distanza – ma il Suo salire al monte per pregare, “da solo”secondo Giovanni, resta sicuramente meno impresso. Non essendovi nei Vangeli dei versi più importanti di altri, ma avendo ciascuno di loro qualcosa da insegnare, pare giusto esaminare questo ritirarsi di Nostro Signore collegandoci a quanto già detto nel capitolo “Gesù in preghiera” visto a suo tempo. Dobbiamo infatti tenere presente quanto ci dicono i versi appena letti: Nostro Signore costringe Suoi, che evidentemente desideravano restare con Lui, di salire sulla loro barca “verso Bethsaida”, quindi la prima, quella che si trovava ad Oriente a differenza dell’altra ad Occidente, dopodiché licenzia la folla che se ne tornò a casa stante l’ora tarda. Mi sono chiesto allora che motivo avesse Gesù di salire sul monte, quando avrebbe potuto benissimo restare sulla riva del lago, ugualmente solo. La sua ascesa, quindi, deve avere avuto una ragione credo collegata alla sua umanità e a quella di tutti noi. Guardando alla vita terrena del Cristo credo sia di una rilevanza assoluta considerare che proprio il Suo essere uomo rappresenti il denominatore comune tra  noi e lui nel senso che ogni persona trova in Gesù un punto d’incontro, ha in sé gli elementi per decidere se elevarsi oppure rimanere com’è, restando sulla riva a guardare un orizzonte fermo. E questo accomuna tanto i credenti che i non credenti, entrambi fatti di carne: i primi guardano a Gesù, unico mediatore fra Dio e gli uomini, per crescere e restare saldi, i secondi devono fare altrettanto se vogliono essere salvati.

Nostro Signore, quindi, dopo aver guarito molti malati e infermi, insegnato “molte cose”, non rimane lì a riposare, ma sale sul monte, azione che lo accomuna ad altri prima di lui – nel senso umano del termine – il primo dei quali fu Abrahamo che salì sul Moria indicatogli da Dio sapendo che avrebbe dovuto offrire in sacrificio Isacco. Sappiamo che in questo fu fermato dall’Angelo – che presumo essere stato il Figlio di Dio stesso – che gli disse “Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli niente. Ora so che tu temi Iddio e non mihai rifiutato il tuo figlio, il tuo unigenito”(Genesi 22.12). Sappiamo che al posto di Isacco fu offerto un ariete impigliatosi con le corna in un cespuglio per cui quel giovane fu risparmiato, cosa che non avvenne per Gesù, “offerto in sacrificio per i nostri peccati”, non i suoi che non aveva commesso. Sull’episodio di Abrahamo e Isacco, ricordiamo che, dopo il sacrificio dell’ariete, “Abrahamo chiamò quel luogo «Il Signore vede»; perciò oggi si dice: «Sul monte del Signore sarà provveduto»”(Genesi 22.14). Su quel monte, appunto il Mòria, venne edificata Gerusalemme e più tardi il Tempio di Salomone: “Salomone cominciò a costruire il tempio del Signore a Gerusalemme sul monte Mòria, dove il Signore era apparso a Davide, suo padre, nel luogo preparato da Davide sull’aia di Ornan il Gebuseo”. Il Mòria, allora, ci parla del progetto di Dio che ebbe una tappa importante proprio col sacrificio di Isacco che, nonostante non sia materialmente avvenuto per intervento di YHWH, rappresentò per Lui la conferma che Abrahamo si era affidato totalmente al suo Signore: “Ora– cioè solo adesso, o da adesso in poi – so che tu temi Iddio”là dove il timore non era paura, ma quella consapevolezza dell’affidarsi interamente a Lui a prescindere da ciò che questo comportasse.

Il verbo “salire” ci parla della disposizione presente nell’uomo che vuole accostarsi a Dio ed allontanarsi così da tutto ciò che è basso, umano, contaminato, per modificare la propria posizione, ed ecco perché Gesù non rimase sulla spiaggia. Salire comporta una fatica, figura della ricerca spirituale per realizzare ciò che all’uomo manca a causa del peccato che lo àncora alla terra in una prospettiva e realtà sempre orizzontali. Un fratello ha sottolineato che “salire sul monte”, per un credente, rappresenta il disintossicarsi, l’ossigenarsi, purificarsi dalle impurità che si annidano dentro di noi e che ci allontanano dalla Parola di Dio sottoponendoci alle stesse “passioni e travagli” di tutti gli uomini. Per come siamo fatti, basta poco per tirarci giù da ciò che abbiamo ricevuto e che a nostro modo ci siamo conquistati, come insegna la storia di Salomone, la persona più saggia mai esistita di cui, conoscendone la storia, Ben Sira scrisse “Come fosti saggio nella tua giovinezza e fosti colmo d’intelligenza come un fiume! La tua fama ricoprì la terra, che tu riempisti di sentenze difficili. Il tuo nome giunse lontano, fino alle isole, e fosti amato nella tua pace. Per i canti, i proverbi, le sentenze e per i responsi ti ammirarono i popoli. Nel nome del Signore Dio, che è chiamato Dio d’Israele, hai accumulato l’oro come stagno, hai ammassato l’argento come piombo. Ma hai steso i tuoi fianchi accanto alle donne e ne fosti dominato nel tuo corpo. Hai macchiato la tua gloria e hai profanato la tua discendenza, così da attirare l’ira divina sui tuoi figli ed essere colpito per la tua stoltezza”(Siracide 47.14-20).

Un secondo monte, cronologicamente, fu l’Horeb, o Sinai, sul quale Dio si rivelò a Mosè prima attraverso il roveto ardente, poi molti anni dopo con le tavole della Legge. Se si accetta per buona la identificazione attuale, coi suoi 2.285 metri di altitudine, è la seconda montagna più alta dell’Egitto. Se il monte Moria fu quello della fede, l’Horeb lo fu per le opere e di una nuova – per allora – alleanza perché fu lì che il Creatore affidò a Israele il compito di far conoscere a tutti i popoli della terra le Sue volontà in opposizione al danno causato dalla torre di Babele come sintomo e, al tempo stesso, dichiarazione universale di autonomia umana. Sappiamo che il popolo di Israele fallì nell’adempimento dell’incarico a tal punto che Gesù disse “Vi sarà tolto il regno di Dio e sarò dato a gente che lo farà fruttificare”(Matteo 21.43). Certo, sono parole terribili se pensiamo che Israele fu per circa quattromila anni il popolo eletto, ma la stessa responsabilità la porta la Chiesa, o le Chiese, che deve stare molto attenta a non scandalizzare come avvenuto in passato e purtroppo ancora oggi, là dove i frutti li portano i singoli e non la collettività degli appartenenti ad essa. E qui bisognerebbe aprire capitoli a parte perché quel “fruttificare” si riferisce ai doni dello Spirito Santo che abita in ogni vero credente.

Riguardo al Sinai pensiamo a Mosè, che vi salì perché chiamato, al fatto che fu un luogo santo a tal punto che solo lui poté accedervi e fu necessario delimitarlo perché il popolo, accedendovi, non morisse: “Scongiura il popolo di non irrompere verso il Signore per vedere, altrimenti ne cadrà una moltitudine!”(Esodo 19.21).

Altri monti determinanti furono il Garizim e l’Ebal, quando il popolo, diviso in sei tribù per ciascuno, diede il proprio amen, quindi pose la propria firma a fronte delle maledizioni riportate in Esodo 27.11-26.

Infine tutti conoscono il monte degli Ulivi, frequentato da Gesù in modo direi assiduo: fu lì che espose il suo sermone profetico sulla fine di questo mondo, dal quale ascese al cielo e che lo vedrà ritornare quando si realizzerà la profezia di Zaccaria 14.4 e segg.: “In quel giorno i suoi piedi si poseranno sopra il monte degli Ulivi che sta di fronte a Gerusalemme verso Oriente, e il monte degli ulivi si fenderà in due, da Oriente a Occidente, formando una valle molto profonda; una metà del monte si ritirerà verso Settentrione e l’altra verso Mezzogiorno.(…) Verrà allora il signore, mio Dio, e con lui tutti i suoi santi”.

Ora il salire di Gesù sul monte una volta detto agli apostoli di andare “verso Bethsaida”, ci parla anche di tutte queste cose che abbiamo visto brevemente. Ancora, ci fa pensare a tutti quegli uomini, come Abrahamo, Mosè ed altri, che fecero lo stesso, consapevoli che avrebbero incontrato il Signore nonostante la loro condizione di peccato che li limitava, ma che furono usati come Suoi strumenti. Entrambi erano stati scelti e portavano con loro le conseguenze della disubbidienza di Adamo ed Eva esattamente come noi.

Quando si sale sul monte, si fa fatica perché portiamo con noi un corpo appesantito dalle conseguenze di questa disubbidienza, del nostro stato, della nostra condizione, della nostra carne che all’elevazione si ribella. E quando incontriamo o preghiamo il Signore “sul monte” portiamo con noi tutte le privazioni che abbiamo avuto e che restano: umanamente, ognuno di noi sa di essere stato privato di tante cose. Non abbiamo potuto fare quello che era nei nostri programmi. Svolgiamo un lavoro che forse non è quello che avremmo desiderato e pochi sono quelli che hanno avuto dei genitori che hanno saputo individuare le attitudini dei figli per incoraggiarli e indirizzarli a una professione gratificante, per la quale sarebbero stati portati. Incontriamo ogni giorno problemi ed esseri, umani come noi, che ce ne procurano. Ecco, nel salire al monte portiamo come bagaglio tutte queste cose mentre Gesù, nel suo essere uomo come noi, si presentò al Padre nella condizione di “servo del Signore”per cui il monte fu un luogo d’incontro e denso di significati; pensiamo solo al fatto che, nell’episodio di Mosè che abbiamo citato, è scritto che lui dovette salire e Dio scendere: “Il Signore scese dunque sul monte Sinai, sulla vetta del monte, e il Signore chiamò Mosè sulla vetta del monte. Mosè salì”(Esodo 19.20).

Il monte, come abbiamo concluso, è un punto d’incontro perché se non si sale si rimane fermi, con tutto ciò che questo comporta e cioè: l’orizzonte, il punto di vista, ciò che ci circonda e che respiriamo, non cambiano mai. La fatica dell’ascesa di Gesù descritta in questo episodio si concreta, per il cristiano, con la chiusura della porta della propria “camera”, in cui lascia fuori tutti gli elementi che potrebbero distrarlo, per procedere ad un colloquio in cui si ricevono insegnamenti e rimproveri, ma soprattutto si chiede che ci venga dato ciò che abbiamo più bisogno, vale a dire il discernimento, la prudenza, la capacità di selezionare l’opportunità degli interventi nei confronti del nostro prossimo affinché, disprezzando noi qualora questi siano sbagliati, non faccia altrettanto nei confronti di chi ha dato la propria vita per la nostra salvezza. Amen.

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10.05 – LA PRIMA MOLTIPLICAZIONE DEI PANI E DEI PESCI 2/2 (Marco 6.35-44)

10.5 – La prima moltiplicazione dei pani e dei pesci II (Marco 6.35-45)

 

35Essendosi ormai fatto tardi, gli si avvicinarono i suoi discepoli dicendo: «Il luogo è deserto ed è ormai tardi; 36congedali, in modo che, andando per le campagne e i villaggi dei dintorni, possano comprarsi da mangiare». 37Ma egli rispose loro: «Voi stessi date loro da mangiare». Gli dissero: «Dobbiamo andare a comprare duecento denari di pane e dare loro da mangiare?». 38Ma egli disse loro: «Quanti pani avete? Andate a vedere». Si informarono e dissero: «Cinque, e due pesci». 39E ordinò loro di farli sedere tutti, a gruppi, sull’erba verde. 40E sedettero, a gruppi di cento e di cinquanta. 41Prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò la benedizione, spezzò i pani e li dava ai suoi discepoli perché li distribuissero a loro; e divise i due pesci fra tutti. 42Tutti mangiarono a sazietà, 43e dei pezzi di pane portarono via dodici ceste piene e quanto restava dei pesci. 44Quelli che avevano mangiato i pani erano cinquemila uomini. 45E subito dopo egli costrinse i suoi discepoli a montare sulla barca, verso Bethsaida, mentre egli licenziava la moltitudine. Poi, quando l’ebbe accomiatata, se ne andò sul monte, per pregare”.

 

Dato dei cenni di base sul significato dei numeri contenuto nell’episodio, possiamo passare ad esaminare il resto a partire dalle persone. La nostra traduzione riporta “ordinò di farli sedere tutti, a gruppi”, ma in realtà il termine “prasiài” andrebbe tradotto correttamente in “per aree”o “per quadrati”composti, come sappiamo, da cinquanta o cento elementi: in tal modo abbiamo rilevato che si evitava il disordine che avrebbe comportato una distribuzione casuale del cibo; un gruppo così costituito avrebbe dato modo ai discepoli anche di verificare se i pani e i pesci li avessero ricevuti tutti ed eventualmente rimediare perché un’area di cento persone, la più numerosa, comportava la presenza di dieci elementi per lato. Emerge a questo punto il problema, facilmente risolvibile stante il fatto che Gesù era giunto lì coi Suoi con una barca da pesca, dei recipienti coi quali distribuire i pani e i pesci, che i discepoli si procurarono prima che il loro Maestro prendesse quel cibo, alzasse“gli occhi al cielo, recitò la benedizione, spezzò i pani e li dava ai suoi discepoli perché li distribuissero a loro”: “li dava”, cioè li prendeva da quell’unico recipiente che aveva “quel ragazzo”che Andrea aveva contattato, rimasto sconosciuto.

Tempo fa è stato sottolineato l’intervento di Papa Francesco che giustamente ha affermato che quei pani e quei pesci non furono moltiplicati, “ma semplicemente non finirono”, affermazione sostenuta anche da altri prima di lui in tempi di molto anteriori al nostro; Marco scrive “recitata la benedizione”, altri traducono “fece la benedizione”, Giovanni “rese grazie”: Lui che era Dio, ma in forma umana come inviato del Padre, lo ringraziò per la presenza di quei pani e quei pesci che stavano per essere consumati, cosa che nel corso della Sua vita farà più volte lasciandoci un esempio del ringraziamento da elevare al Padre che ogni giorno ci consente il nutrimento per il corpo, prendendosi cura di noi. In altri termini, collegandoci al fatto che diamo istintivamente per scontato il fatto che lavoriamo, mangiamo e riposiamo, il ringraziamento è doveroso perché non è detto che queste cose facciano sempre parte della nostra vita.

Abbiamo fatto un parallelismo tra il popolo presente lì e quello, molti secoli prima, nel deserto che mangiò la manna, ma credo che uno dei tanti significati del miracolo dei pani e dei pesci risieda nelle parole già espresse nel sermone sul monte, quando Gesù esortò a cercare “prima il regno di Dio”perché le altre cose sarebbero state “sopraggiunte”: a prescindere dalle motivazioni che avevano spinto i presenti ad essere là, ora la dimostrazione dell’amore di Dio che dava loro ciò che non avevano chiesto, ma di cui avevano bisogno, era davanti a loro, potevano sperimentarla concretamente. Ciascuno dei presenti poteva trarre le proprie conclusioni perché non solo erano stati soddisfatti i malati, gli infermi e il desiderio di avere informazioni sul Regno, ma era stato dato anche quel “cibo che perisce”,figura di quello “a vita eterna”. Se Gesù era stato in grado di sfamare cinquemila persone, quanto più avrebbe potuto soddisfare pienamente la loro anima e quanto era a lei connesso? Nessuno dei presenti, quindi, avrebbe potuto affermare di essere tornato a casa senza che dopo l’incontro con Gesù gli fosse mancato qualcosa.

Penso spesso, quando leggo questo episodio, che nulla dicono gli Evangelisti delle reazioni dei discepoli e soprattutto non riesco a immaginarmi lo stupore di quel “ragazzo”che diede, non sappiamo se dietro compenso ma credo di sì, ciò che aveva ai dodici, che non era gran cosa non solo a livello di numero: quando Giovanni in 6.13 scrive che erano “pani d’orzo”non lo fa a caso, ma per sottolineare che era un alimento povero, costituito da focacce di farina d’orzo. In un passo del Talmud si riporta un dialogo tra due persone: il primo dice all’altro “C’è una bella raccolta d’orzo”, ottenendo come risposta “Vallo a dire ai cavalli e agli asini”. Quel “pane” non risulta comunque esser stato disprezzato dai presenti che poterono toccare con mano la totalità dell’intervento di Dio nei loro confronti, che prima aveva voluto nutrirli nello spirito e ora provvedeva ad un di più, non essendo tenuto a sfamare nessuno: la logica del ragionamento terreno avrebbe concluso che loro, avendo voluto venire fin lì spontaneamente, potevano benissimo tornarsene a casa e mangiare una volta rientrati. Sarebbe quindi stato un loro problema. Invece il nostro verso 42 recita “Tutti mangiarono a sazietà, e dei pezzi di pane portarono via dodici ceste piene e quanto restava dei pesci”.

Quindi ciò che fu di avanzo non era qualcosa di scartato perché non gradito, ma in quanto i presenti erano talmente sazi da non riuscire a finire ciò che era stato loro distribuito: in altri termini i discepoli non diedero a quella gente degli alimenti razionati, che i presenti avrebbero dovuto farsi bastare, ma li misero nella condizione di averne ancora fino a quando la loro fame non sarebbe cessata. È un particolare importante che ci parla del fatto che quando il cristiano esercita la propria fede riceve da Dio davvero oltre ciò che gli serve. Come disse il salmista, “Non manco di nulla”. Certo Nostro Signore avrebbe potuto trasformare quei pani e pesci in qualcosa di squisito (ricordiamo l’acqua in vino alle nozze di Cana), ma in quella circostanza volle far capire ai suoi e a tutti i presenti che l’uomo può ottenere da Dio non ciò che vuole, ma quanto gli è utile. E mi viene sempre il mente la risposta data a Paolo quando, a proposito delle sue preghiere per la “spina nella carne”, gli fu detto “La mia grazia ti basta”. A volte ci dimentichiamo del fatto che non siamo lasciati soli poiché facciamo parte della Chiesa, composta non solo dai vivi nel corpo, ma da tutti coloro che risposano in Cristo in una dimensione diversa e coi quali vivremo in un giorno senza fine. Uomini e donne che hanno affrontato i nostri stessi percorsi quanto a prove, umiliazioni, dolori e gioie. E che lo hanno aspettato.

Dando i pani e i pesci a quella gente certo Gesù non salvò loro la vita perché avrebbero potuto benissimo rientrare ai loro paesi senza morire di fame, ma dimostrò di comprendere la loro realtà e quindi di si occupò di quelle persone senza che glielo chiedessero. E qui Gesù si conferma un tutt’uno con il Padre che “sa ciò di cui avete bisogno prima che glielo chiediate”ed ecco perché, personalmente, per i problemi che possono caratterizzare la mia vita terrena chiedo molto raramente, rendendomi conto della differenza tra le cose materiali di cui teoricamente necessiterei e la quantità enorme di ciò che non conosco e non vedo. E che dovrei-vorrei conoscere e vedere, primi fra tutti quei peccati di cui non mi rendo conto e che eppure commetto. Quando preghiamo, dobbiamo sempre tenere presente che è il Padre, non noi, a sapere ciò che ci serve.

Sappiamo che avanzarono dodici ceste, traduzione che fa riferimento al kòfinos, cesta grande che veniva usata per portare oggetti voluminosi. E il numero di quei recipienti pieni era lì, a testimoniare ai presenti che la perfetta cura di Dio non era preclusa a nessuno perché sicuramente tutti, contandoli, avranno pensato alle altrettante tribù di Israele per le quali il Cristo era giunto dopo tante promesse. Ecco perché troviamo che “In Cristo ho tutto pienamente”e “posso ogni cosa in Colui che mi fortifica”: nel momento in cui si staccano i sensi dalla realtà che ci circonda, umiliante sempre e comunque, si schiudono territori nei quali non entreremmo mai altrimenti.

Qui Matteo precisa che “quelli che avevano mangiato erano circa cinquemila uomini, senza contare le donne e i bambini”(14.21), quindi un numero maggiore. Un miracolo che, come ha osservato qualcuno, “sorpassa di gran lunga in grandezza quelli dell’Antico Testamento. L’unico che possa reggere al paragone è quello della manna nel deserto, che questo miracolo richiamò vivamente alla memoria della moltitudine eccitando il loro entusiasmo di modo che, se Gesù lo avesse permesso, l’avrebbero subito proclamato re”. Sarebbe stata però, appunto, un’azione dettata dall’entusiasmo, fraintendendo quel gesto di pietà e amore che Nostro Signore aveva avuto verso di loro e scambiandolo come una garanzia di assistenza e vittoria sull’invasore romano e non solo. Bernardo di Chiaravalle ha scritto che Gesù si tirò indietro quando gli uomini volevano farlo re, ma si fece avanti quando vollero crocifiggerlo.

C’è ancora un particolare che va sottolineato, fornitoci dall’apostolo Giovanni: “Quando furono saziati, disse ai suoi discepoli: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto»” (6.12): perché? Non si tratta solo di un modo per contrastare lo spreco, cosa che il mondo non fa visto che ogni anno in vengono buttati via 16 milioni di Euro di alimenti non consumati, ma piuttosto il motivo di quell’ordine risiedeva nel fatto che quei pani e quei pesci erano il risultato della carità di Dio verso gli uomini, donne e bambini, e non potevano essere lasciati marcire a terra. Quei pani e pesci erano figura della Parola di Dio che “non torna a me a vuoto senza aver compiuto ciò che io voglio e condotto a buon fine ciò per cui l’ho mandata”(Isaia 11.11). Lasciare là ciò che era avanzato, sarebbe stato un totale controsenso.

C’è poi un altro dettaglio importante, e cioè che non furono raccolti dei semplici avanzi come accade quando riordiniamo una tavola dopo un pranzo, ma quando leggiamo che “portarono via i pezzi avanzati”(Matteo 14.20) o, come scrive Marco, “Dei pezzi di pane portarono via dodici ceste piene”, gli evangelisti si riferiscono a quelli spezzati da Gesù e non da altri.

Il verso 45 conclude l’episodio: “Subito dopo egli costrinse i suoi discepoli a montare sulla barca, verso Bethsaida, mentre egli licenziava la moltitudine. Poi, quando l’ebbe accomiatata, se ne andò sul monte, a pregare”. Viene da pensare che, così come i dodici erano tornati a Lui raccontandogli ciò che avevano fatto e insegnato, allo stesso modo Gesù si comportò col Padre, pregandolo per tutta quella gente che era giunta a lui: vero è che avevano frainteso il senso del miracolo, ma ne avrebbero certamente parlato e in ogni caso ne avrebbero conservato il ricordo, lì dentro di loro, a testimonianza del fatto che Dio e non altri aveva loro provveduto. Stava poi a tutti i presenti in quel giorno trarre le necessarie conclusioni, per la loro salvezza, che fu sicuramente un soggetto di preghiera quella sera, da parte di Nostro Signore, che pensò anche a tutti coloro che il Padre gli avrebbe dato. Amen.

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10.04 – LA PRIMA MOLTIPLICAZIONE DEI PANI E DEI PESCI 1/2 (Marco 6.35-44)

10.4 – La prima moltiplicazione dei pani e dei pesci I (Marco 6.35-44)

 

35Essendosi ormai fatto tardi, gli si avvicinarono i suoi discepoli dicendo: «Il luogo è deserto ed è ormai tardi; 36congedali, in modo che, andando per le campagne e i villaggi dei dintorni, possano comprarsi da mangiare». 37Ma egli rispose loro: «Voi stessi date loro da mangiare». Gli dissero: «Dobbiamo andare a comprare duecento denari di pane e dare loro da mangiare?». 38Ma egli disse loro: «Quanti pani avete? Andate a vedere». Si informarono e dissero: «Cinque, e due pesci». 39E ordinò loro di farli sedere tutti, a gruppi, sull’erba verde. 40E sedettero, a gruppi di cento e di cinquanta. 41Prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò la benedizione, spezzò i pani e li dava ai suoi discepoli perché li distribuissero a loro; e divise i due pesci fra tutti. 42Tutti mangiarono a sazietà, 43e dei pezzi di pane portarono via dodici ceste piene e quanto restava dei pesci. 44Quelli che avevano mangiato i pani erano cinquemila uomini”.

 

Si tratta di un episodio in cui abbiamo ben quattro versioni che, armonizzate tra loro, ci offrono una visione d’insieme molto utile e ricca di applicazioni spirituali. Ciò che avvenne prima di quel “Essendosi ormai fatto tardi”, che Marco usa per significare che “il giorno cominciava a declinare”(Luca 9.12), ci è noto: Gesù, ritiratosi coi dodici su una collina nei pressi di Betsaida, era stato raggiunto dalla folla ed aveva guarito molti malati che gli avevano portato, oltre ad “insegnare loro molte cose”senza fermarsi nel senso che non sentì il tempo che stanca e ci rende soggetti ad orari che rispettiamo quasi senza rendercene conto: la vita ha un ritmo che comporta l’azione, l’attenzione, il mangiare e il dormire, esigenze e ritmi che gli apostoli, al contrario del loro Maestro, avevano ben presente: il primo non ne era vincolato, i secondi sì. Certo anche in questa circostanza seguivano con l’interesse di sempre i Suoi discorsi, ma da persone terrene si rendevano conto che, guardando il sole che iniziava a declinare, quella gente, se non fosse stata licenziata, avrebbe dovuto fare i conti con la realtà della situazione: erano più di cinquemila persone, lontani da casa e da un centro abitato, senza cibo ed infatti Luca riporta le parole “Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne– in realtà agroùs, poderi –  dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo: qui siamo in una zona deserta”(9.12). Fu il loro un intervento inopportuno perché, così facendo, i dodici pensarono di capire meglio del loro Maestro la situazione e di dovergli suggerire qualcosa cui non aveva pensato.

A proposito di “sera”, va ricordato che per gli ebrei ve n’erano due: la prima iniziava alle tre del pomeriggio, la seconda al tramonto o poco dopo. Luca scrive del “giorno(che) cominciava a declinare”(9.12), ma non basta a farci stabilire che si trattasse della seconda, come vedremo.

Aiutandoci con le versioni che i quattro Evangelisti ci hanno lasciato, il dialogo tra Gesù e i suoi avvenne in questo modo: dopo l’invito a congedare la folla, vi fu la risposta che non capirono: “Non occorre che vadano, voi stessi date loro da mangiare”(Matteo 14.16) e poi, rivolto a Filippo per metterlo alla prova, “«Dove andremo a comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?». Gli rispose Filippo: «Duecento denari – che Giuda aveva nella borsa? – di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo». Gli disse allora uno dei suoi discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: «C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci, ma cos’è questo per tanta gente?»(Giovanni 6.5-9). Sappiamo che a questo punto Gesù ordinò ai dodici di far sedere tutti, a gruppi di cento e di cinquanta, sull’erba verde, dettaglio che conferma la Pasqua imminente, che cadeva in primavera, altrimenti l’erba non vi sarebbe stata, oppure sarebbe stata di colore marroncino, arsa dal sole.

Ora, sostando su quanto fin qui accaduto, una prima nota va fatta sul luogo, cioè il territorio di Betsaida, che viene spontaneo identificare nella patria di Andrea, Pietro e Filippo, ma che non trova tutti i commentatori concordi e stabilire se vi fossero, come per Betlehem che aveva quella di Giuda e quella di Efrata, due Betsaida con lo stesso nome. Stabilirlo con certezza è arduo e le teorie sono contrastanti. Il fatto che Giovanni scriva “Filippo era di Betsaida di Galilea”(12.21) sembra essere una precisazione necessaria per distinguerla da un’altra. Da un lato la Betsaida dei tre apostoli tutto poteva essere tranne che un luogo deserto essendo che, rinomata per la pesca e meta di grandi carovane che a lei confluivano proprio per il mercato del pesce che si svolgeva sulla spiaggia, difficilmente avrebbe potuto avere spazi isolati. Il biblista John Lee Thompson sostiene che la città era posta alla foce del Giordano ed era però divisa in due parti, una appartenente alla Galilea, l’altra, restaurata da Erode Filippo cui diede il nome di Julia in onore della figlia di Augusto, nella Gaulonite e fu probabilmente qui che Gesù e i dodici trovarono modo di sostare.

A parte questa indicazione, incerta stante i dubbi anche fra gli archeologi, abbiamo dall’episodio una grande quantità di dati che cercheremo di mettere in ordine a partire dai numeri, che iniziano ad emergere subito dopo la frase“Voi stessi date loro da mangiare”, che se Gesù non fosse stato “La parola fatta carne”e quindi lo stesso Dio che sfamò il popolo d’Israele con la manna nel deserto, sarebbe essere stata pronunciata da una persona fuori dalla realtà, stante la presenza di cinque pani e due pesci, cifre sinonimo di penalizzazione e ambivalenza.

CINQUE

,            È il numero di mesi in cui Elisabetta, futura madre di Giovani Battista, si tenne nascosta (Luca 1.23). Pensiamo poi alle vergini stolte e alle savie dell’omonima parabola, per cui è un riferimento anche alla selezione  e scelte dell’uomo. L’apostolo Paolo, in 1 Corinti 4.18, scrive “…in assemblea preferisco dire cinque parole con la mia intelligenza per istruire anche gli altri, piuttosto che diecimila parole con il dono delle lingue”, per cui il riferimento è anche all’essenzialità nel poco, a ciò che basta. Ancora, il cinque si riferisce a ciò che è minimo e a prima vista trascurabile:“Cinque passeri non si vendono forse per due soldi? Eppure nemmeno uno di essi è dimenticato davanti a Dio”(Luca 12.6).

Se da un lato abbiamo questi riferimenti, il cinque indica qualcosa che può venir moltiplicato, quanto a forza, dalla potenza di Dio: pensiamo a Levitico 26 quando il Signore dice “Se seguirete le mie leggi, se osserverete i miei comandi e li metterete in pratica,(…) io stabilirò la pace sulla terra, e quando vi coricherete, nulla vi turberà– pensiamo alle preoccupazioni e ai pensieri che si accentuano soprattutto di notte –. Farò sparire dalla terra le bestie nocive– che oggi sterminiamo con sostanze inquinanti e di cui tutta l’umanità pagherà il prezzo a suo tempo – e la spada non passerà sui vostri territori. Voi inseguirete i vostri nemici ed essi cadranno dinnanzi a voi colpiti di spada. Cinque di voi ne inseguiranno cento, cento di voi ne inseguiranno diecimila”(3-8). Abbiamo anche i talenti dati a quel servo che ne fruttò altrettanti in Matteo 25. Il “cinque”, allora, rappresenta ciò che possiede l’uomo, ciò che esiste e resterebbe privo di significato senza un intervento diretto di Dio, o qualcosa fatto in suo Nome o per Lui.

 

DUE

Nonostante sia già stato sviluppato più volte, possiamo riferirlo anche all’esercizio del libero arbitrio: pensiamo alla bigamia che Lamek, figlio di Caino, esercitò per primo. Se guardiamo agli animali che entrarono nell’arca e non solo, è un numero che ci parla della sopravvivenza di una specie vista nella presenza del maschio e della femmina. Possiamo connetterlo al numero di volte in cui Mosè percosse la roccia in Kades, azione che gli costò il mancato ingresso nella terra promessa. Ancora il due come numero penalizzante lo vediamo in Geremia 2.13 a proposito dei peccati commessi dal popolo: “Ha abbandonato me, sorgente di acqua viva, e si è scavato delle cisterne, cisterne piene di crepe, che non trattengono l’acqua”.

Ora Gesù, dicendo ai dodici “Date voi loro da mangiare”, li autorizzava a farsi da tramite, veicoli, collaboratori della potenza dell’Iddio Vivente e Vero per poter sfamare la folla presente, figura di chiunque ascolta la Parola di Dio: sta a lui riconoscere il miracolo della moltiplicazione del messaggio e dei concetti, oppure limitarsi a prendere atto che esistono, senza poi ricordarsene. Mi spiego: tra le persone che verranno divise a gruppi di cinquanta e di cento, non tutti erano pronti a credere o erano lì perché desiderosi di diventare dei discepoli. C’erano persone curiose, ma anche avversari, eppure tutti mangeranno, cioè in un modo o in un altro verranno fatti partecipi della persona di Gesù. La maggioranza non capirà il senso di quel miracolo talché Luca ci dice che, una volta sfamata la folla, “Sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, lui da solo”(9.15). La responsabilità quindi dell’essere umano, tanto allora quanto oggi, risiede nel decidere cosa farsene di quel “pane”che i discepoli gli danno. Portare la Parola di Dio al prossimo, oggi, significa renderlo partecipe di eventi di cui abbiamo testimonianza certa e che vediamo per fede non perché abbiamo bisogno di credere in qualcosa, ma in quanto portatori di un miracolo assoluto e totale visto nella nostra salvezza, nell’essere stati “strappati”da quel mondo di cui altrimenti condivideremmo la fine senza alcuna speranza.

Per concludere questa prima parte restano da esaminare i numeri “cinquanta” e “cento”, cioè i componenti dei gruppi in cui fu suddivisa la gente sul posto. La suddivisione in quel modo avvenne per ordine pratico, per evitare il caos che una distribuzione non ordinata avrebbe comportato: code, liti, prevaricazioni dei più forti verso i più deboli, forse accaparramento incontrollato. E sappiamo che “il nostro non è un Dio di confusione, ma di ordine”. Se Matteo scrive che Gesù ordinò alla folla di “sedersi sull’erba verde”, Marco cita i numeri cinquanta e cento, Luca riporta “di cinquanta circa”e in questo caso dovettero formarsi cento nuclei di persone, dieci circa per ogni apostolo che distribuiva i pani e i pesci anche se possiamo pensare che a loro si aggiunsero altri discepoli arrivati lì in con la folla. Possiamo comunque immaginare quanto tempo ci sia voluto non solo per organizzare la gente, ma anche per distribuire i pani e i pesci.

 

CENTO

La prima volta che incontriamo questo numero nella Scrittura è riferito agli anni che ebbe Abrahamo quando generò Isacco, il figlio promesso, a differenza degli ottantasei, cifra insignificante che non verrà più utilizzata, di quando ebbe Ismaele da Agar sua schiava. “Cento”esprime la sufficienza nel senso di quanto basta agli occhi di Dio, mentre per l’uomo è un multiplo che indica soddisfazione, il plenum. Possiamo citare i cento cubiti del recinto della Dimora, i cento uomini inseguiti da cinque del passo di Levitico 26 citato poco sopra, i cento prepuzi dei Filistei uccisi che Davide dovette portare a Saulle. Ricordiamo anche l’enormità del debito del servitore spietato, diecimila talenti, cioè cento per cento. Possiamo ricordare anche il primo risultato della morte del chicco di grano (Matteo 13.8), la pecora perduta che completa il gregge delle novantanove già presenti (Luca 15.1-7).

 

CINQUANTA

È i numero dell’ipotesi e della libertà: ricorda la preghiera di Abrahamo in favore di Lot suo nipote, la Pentecoste avvenuta cinquanta giorni dopo la morte di Gesù e il Giubileo, che si celebrava ogni cinquant’anni che si caratterizzava attraverso la liberazione di tutti coloro che erano soggetti a un vincolo, debitori e schiavi.

Tutti questi elementi, espressi attraverso i numeri, sono quelli sotto certi aspetti “nascosti” in un miracolo che apparirà completamente diverso dagli altri e che meraviglierà tanto la gente quanto gli apostoli e i discepoli. E tutto partì da pani d’orzo e pesci che aveva “un ragazzo” che li aveva portati con sé per mangiarli, o per venderli.

La domanda di Gesù fu “Quanti pani avete? Andate a vedere”: è un invito a verificare le loro possibilità, mettere da parte il dato e attendere ciò che Dio avrebbe fatto di ciò che avrebbero avuto, che era apparentemente un nulla, come disse Andrea: “…ma cos’è questo per sfamare tanta gente?”(Giovanni 6.9). Se allora Eliseo, con la vedova di Sarepta, confermò di essere un profeta del Dio Vivente e Vero, Nostro Signore intervenne sulle molecole dei pani e dei pesci come Dio Creatore facendo in modo non solo che non finissero, ma che si avanzassero dodici ceste.

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10.03 – RIPOSATEVI UN POCO (Marco 6.30-34)

10.3 – Riposatevi un poco (Marco 6.30-34)

 

30Gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato. 31Ed egli disse loro: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo solitario, e riposatevi un poco». Erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare. 32Allora andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte. 33Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero. 34Sceso dalla barca, egli video una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano pecore che non hanno pastore, e si mise ad insegnare loro molte cose”.

 

Giovanni, che ha taciuto gli avvenimenti che abbiamo fin qui esaminato, riannoda il filo cronologico al capitolo sesto collocando storicamente l’episodio con la frase “Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei” (v.4). Sappiamo così che stava per iniziare il secondo periodo della vita di Gesù caratterizzato dal suo salire a Gerusalemme per la seconda volta per quanto attiene alla vita pubblica. È però solo Marco a riferire l’invito a riposarsi “un poco”ai discepoli; Matteo scrive “Avendo udito questo– l’esecuzione di Giovanni Battista -, Gesù si partì di là e si ritirò in un luogo deserto, in disparte”(14.13,14) e Luca “Al loro ritorno, gli apostoli raccontarono a Gesù tutto quello che avevano fatto. Allora li prese con sé e si ritirò in disparte, verso una città chiamata Betsàida”(9.10): sono versi che mettono in risalto la comprensione umana di Nostro Signore nei confronti dei suoi, appena tornati dal viaggio missionario di cui abbiamo esaminato le istruzioni. I dodici si erano comportati così come era stato detto: avevano guarito, predicato e camminato contribuendo di molto alla diffusione del Vangelo, senza fare nulla perché l’attenzione si accentrasse su di loro, ma attribuendo ogni merito a Colui che aveva dato loro quei poteri esattamente come, più avanti, faranno Pietro e Giovanni che, salendo al Tempio, dissero allo storpio “Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho, te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, àlzati e cammina!”(Atti 3.4).

Il verso 30 ci parla del riunirsi degli apostoli attorno al loro Maestro, cui si rivolsero senza nascondere nulla, riportandogli “tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato”, azione che ci riguarda da vicino e sulla quale possiamo fare una considerazione importante: se i dodici avevano quell’appuntamento con Gesù, anche noi ne abbiamo uno identico alla fine di ogni giornata, quando ci presentiamo a Lui in Spirito e siamo chiamati a riferirgli quali sono state le nostre azioni, quanto abbiamo pensato a noi e quanto al nostro prossimo non perché siamo “brave persone”, ma perché a questo siamo chiamati. Ovviamente, nel portare il Vangelo dentro e fuori di noi, pensando alla credibilità che abbiamo prima di tutto di fronte a noi stessi: sappiamo bene che, se la nostra attenzione alla Parola di Dio si ferma all’ascolto e non viene posta in pratica, assomiglieremmo “ad un uomo che guarda il proprio volto allo specchio; appena si è guardato se ne va, e subito dimentica com’era”(Giacomo 1.24). E il marketing spirituale fa magari dei proseliti, ma molto difficilmente salva.

L’Iddio che giudica e giudicherà, di cui è scritto “È cosa terribile cadere nelle mani dell’Iddio vivente”(Ebrei 10.31), è lo stesso che in Isaia 1.18 dice “Su, venite e discutiamo. Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come neve”e “discutere” significa esprimere opinioni differenti su un argomento, dialogare in modo costruttivo e positivo – mi viene da dire – per il bene di entrambi; e il “bene” di Dio, posto che Lui non ne ha bisogno, è visto nella verità espressa in Luca 15.7 a proposito della pecora perduta: “Così, vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore che si converte, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione”. È infatti quel peccatore, quell’ “uno” recuperato, che rende completo quel “novantanove” che, se rimane tale, può solo rappresentare l’imperfezione.

Comunque, là dove il mondo progetta il giorno che verrà, il credente deve soffermarsi su quello che il giorno è stato, esaminare con Gesù Cristo i suoi sbagli, individuare le mancanze e far tesoro di queste esperienze affinché il cammino del giorno a venire – se gli sarà concesso – sia migliore del precedente. Così facendo, scoprirà l’enormità del lavoro che avrà ancora da fare perché il suo “uomo interiore”possa rinnovarsi all’immagine di Colui che l’ha creato. E la vigilanza su noi stessi, tanto raccomandata in tutta la Scrittura, non consiste nella costrizione al “fare” o al “non fare”, ma nel cercare le ragioni dei nostri comportamenti negativi per risolverli serenamente: è questo un metodo diverso, che si distacca profondamente da quello religioso che Nostro Signore descrisse nella parabola dei due figli: “Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: «Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna». Ed egli rispose: «Non ne ho voglia». Ma poi si pentì, e vi andò. Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: «Sì, signore». Ma non vi andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre? Risposero: «Il primo». E Gesù disse: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio»”(Matteo 21.28-31).

Tornando al radunarsi dei dodici presso di Lui, certo Gesù sapeva in anticipo quello che gli avrebbero detto, ma li ascoltò con attenzione data la moltitudine degli argomenti che sarebbero scaturiti dal loro resoconto. Era quello un riunirsi assieme dopo un viaggio missionario che si verificava per la prima volta, che gettò comunque le basi per una predicazione più estesa e che contribuirà a far conoscere il Vangelo ai suoi primi destinatari, cioè gli ebrei.

Alla fine di quel resoconto abbiamo l’invito a riposare “in disparte, voi soli”, dimostrando così comprensione della loro stanchezza in un contesto di servizio particolare e spiritualmente bellissimo perché abbiamo letto che “erano molti quelli che andavano e venivano e non avevano nemmeno il tempo di mangiare”(v.31). Era quella una situazione che abbiamo già trovato prima della definizione di cosa voglia dire essere parenti di Gesù in Marco 3.20: “Entrò in una casa e di nuovo si radunò una gran folla, tanto che non potevano neppure mangiare”.

E qui emerge la dimensione di Nostro Signore uomo, che avrebbe potuto benissimo compiere un miracolo trasportando gli apostoli con sé su un monte, come l’Avversario aveva fatto con Lui al tempo della tentazione nel deserto, ma nulla di questo avvenne. Ricordiamo che, in Samaria, Gesù, stanco, si fermò a riposare al pozzo dove poi incontrò la donna in Giovanni 4: la sua umanità fu sempre presente e a questa doveva essere soggetto, se voleva salvare l’uomo. Nessuno sconto alla sofferenza, alla fatica, alla fame, alla sete.

Stante la situazione, l’unica soluzione per far riposare “un poco”i dodici era quella di prendere la barca, ma sappiamo che “molti però li videro partire e capirono– dove sarebbero andati – e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero”. Notare l’espressione “da tutte le città”, che ci parla dell’accorrere di quella gente a Capernaum da ogni dove. Fu in quella circostanza, dopo un tempo di fatiche, predicazione e miracoli, che i dodici capirono le parole “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”, ma non per questo, una volta scoperto che ciò valeva anche per loro, si allontanarono da lui, né gli dissero “Basta, siamo stanchi” o si chiesero se valesse la pena di vivere così, rimpiangendo il loro mestiere, con le barche e la tranquillità economica. Questo, almeno, per quanti di loro erano pescatori; un lavoro certo duro, ma che comunque un riposo lo garantiva e li ricompensava dal punto di vista della moneta.

Piuttosto gli apostoli si rimisero alla Sua volontà sapendo che “Egli dà la forza allo stanco e moltiplica il vigore allo spossato”(Is. 40.29): quello era un miracolo che Gesù, come Figlio di Dio, poteva fare. Anche Giuseppe Flavio, che stiamo imparando a conoscere per le citazioni dei suoi scritti, parlando di Gesù in un suo passo, lo descrive così “…visse Gesù, uomo saggio, se pure uno lo può chiamare uomo; poiché egli compì opere sorprendenti, e fu maestro di persone che accoglievano con piacere la verità. Egli conquistò molti Giudei e molti Greci. Egli era il Cristo” (A.G. XVIII. 63). “Se pure uno lo può chiamare uomo”, parole di uno storico appartenente ad una nobile famiglia sacerdotale israelita che conclude la sua breve nota con “Egli era il Cristo”.

Mi sono chiesto come fece la folla a precedere Gesù, ma occorre tener presente che la sua barca era a remi oltre che essere pesante (era di quelle da pesca) e che, guardando la cartina della zona, Betsaida come territorio era facilmente raggiungibile anche a piedi con un cammino di circa due ore. Per questo Marco scrive che “li precedettero”dapprima in pochi, poi sempre di più, come possiamo dedurre dal parallelo di Giovanni che così riferisce: “Dopo questi fatti, Gesù passò all’altra riva del mare di Galilea, cioè di Tiberiade, e lo seguiva una grande folla, perché vedeva i segni che compiva sugli infermi. Gesù salì sul monte e si pose a sedere coi suoi discepoli”(6.1,2). Ebbero quindi comunque, nonostante tutto, un po’ di tempo per sostare, il necessario perché il numero di cinquemila persone, che poi verranno sfamate col miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci, si completasse. Alcuni arrivarono subito, gli altri poco a poco, coi malati. Gesù e i suoi approfittarono così di quello spazio temporale, credo non sufficiente a riposare visto che nemmeno Lui, mentre gli altri erano andati a guarire e predicare, rimase inattivo.

A questo punto abbiamo la compassione di Gesù per la folla accorsa: ancora una volta vide quella gente “come pecore che non hanno pastore”. Abbiamo già parlato della pecora, ma meno del pastore, fondamentale per la sussistenza del gregge perché senza di lui si perde, non avendo il senso dell’orientamento. Un pastore può essere buono o cattivo, gli Scribi e i Farisei ostili a Gesù vengono da lui classificati come pecore non sue, ma la gente lì presente non apparteneva a nessuno, vagava senza un dove, una meta che comunque cercava perché, viceversa, sarebbe rimasta a casa propria. Erano lì perché il fatto di vedere Gesù, cosa avrebbe fatto e detto, aveva reso del tutto secondaria la preoccupazione di cosa avrebbero fatto e mangiato. Ebbene, quella gente fu accolta “e prese a parlare loro del regno di Dio e a guarire quanti avevano bisogno di cure”, quelle che altrimenti non avrebbero trovato (Luca 9.11), verso importante perché sottoscritto proprio da Luca, che era medico.

La folla, disordinata, andava dal Pastore penso anche grazie al lavoro svolto fino a poco prima dai dodici. La folla, che non sa in cosa sperare (salvo i malati), cosa aspettarsi, viene, è lì e per questo leggiamo che “si mise a insegnare loro molte cose”: alla carità mostrata verso quelli fisicamente più deboli, i malati, si accompagnò la verità proposta indistintamente a tutti, affinché nessuno potesse dire di essere tornato da quell’incontro a mani vuote. Quando si ha a che fare con Gesù,  è impossibile. Al massimo, possono venire gli uccelli a prendere un seme che, comunque, è gettato. E a conferma che l’intervento di Dio sulla persona è totale, avverrà il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci, soggetto del nostro prossimo capitolo.

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10.02 – MORTE DI GIOVANNI BATTISTA II (Marco 6.14-29)

10.02 – Morte di Giovanni Battista II (Marco 6.14-29)

 

14Il re Erode sentì parlare di Gesù, perché il suo nome era diventato famoso. Si diceva: «Giovanni il Battista è risorto dai morti e per questo ha il potere di fare prodigi». 15Altri invece dicevano: «È Elia». Altri ancora dicevano: «È un profeta, come uno dei profeti». 16Ma Erode, al sentirne parlare, diceva: «Quel Giovanni che io ho fatto decapitare, è risorto!». 17Proprio Erode, infatti, aveva mandato ad arrestare Giovanni e lo aveva messo in prigione a causa di Erodìade, moglie di suo fratello Filippo, perché l’aveva sposata. 18Giovanni infatti diceva a Erode: «Non ti è lecito tenere con te la moglie di tuo fratello». 19Per questo Erodìade lo odiava e voleva farlo uccidere, ma non poteva, 20perché Erode temeva Giovanni, sapendolo uomo giusto e santo, e vigilava su di lui; nell’ascoltarlo restava molto perplesso, tuttavia lo ascoltava volentieri. 21Venne però il giorno propizio, quando Erode, per il suo compleanno, fece un banchetto per i più alti funzionari della sua corte, gli ufficiali dell’esercito e i notabili della Galilea. 22Entrata la figlia della stessa Erodìade, danzò e piacque a Erode e ai commensali. Allora il re disse alla fanciulla: «Chiedimi quello che vuoi e io te lo darò». 23E le giurò più volte: «Qualsiasi cosa mi chiederai, te la darò, fosse anche la metà del mio regno». 24Ella uscì e disse alla madre: «Che cosa devo chiedere?». Quella rispose: «La testa di Giovanni il Battista». 25E subito, entrata di corsa dal re, fece la richiesta, dicendo: «Voglio che tu mi dia adesso, su un vassoio, la testa di Giovanni il Battista». 26Il re, fattosi molto triste, a motivo del giuramento e dei commensali non volle opporle un rifiuto. 27E subito il re mandò una guardia e ordinò che gli fosse portata la testa di Giovanni. La guardia andò, lo decapitò in prigione 28e ne portò la testa su un vassoio, la diede alla fanciulla e la fanciulla la diede a sua madre. 29I discepoli di Giovanni, saputo il fatto, vennero, ne presero il cadavere e lo posero in un sepolcro”.

 

Esaminati nella loro essenzialità i comportamenti di Giovanni Battista e di Erode, possiamo passare ai due personaggi femminili il primo dei quali è

 

Erodiade

A parte i dati che possono essere reperiti nelle Antichità Giudaiche di Giuseppe Flavio, leggiamo al verso 17 che Giovanni Battista era stato “messo in prigione a causa di Erodiade, moglie di suo fratello Filippo, perché l’aveva sposata”: Antipa e lei si erano conosciuti a Roma in un viaggio che Antipa aveva fatto venendo ospitato dal fratello Filippo. Quel “l’aveva sposata”non avvenne dopo il ripudio della prima moglie perché questa, saputo della relazione, si rifugiò presso il padre Areta che mosse guerra al genero, anche per questioni territoriali, sconfiggendolo. Sempre da Giuseppe Flavio possiamo reperire diversi dati sull’ambizione sfrenata di Erodiade, ma leggendo il testo di Marco ricaviamo un dato importante sul perché dell’odio nutrito nei confronti di Giovanni che diceva al marito “Non ti è lecito tenere con te la moglie di tuo fratello”(v.18). Soprattutto, però, era molto preoccupata per l’influenza che il Battista avrebbe potuto avere su Antipa. Ricordiamo le parole “Erode temeva Giovanni, sapendolo uomo giusto e santo, e vigilava su di lui; nell’ascoltarlo restava molto perplesso, tuttavia lo ascoltava volentieri”: ecco, quel “molto perplesso”e “lo ascoltava volentieri”furono per Erodiade dei campanelli d’allarme molto più forti del fastidio che provava nel sentire che, per la Legge, non poteva essere moglie di Erode. Infatti non poteva escludere che, restando “perplesso”alle parole del Battista, non potesse arrivare alla conclusione che effettivamente quel matrimonio non potesse sussistere. Dove infatti sarebbe potuta andare Erodiade, ripudiata dal marito?

Ora la situazione vissuta da quella donna non era certamente facile poiché sapeva benissimo che non avrebbe certo potuto far uccidere Giovanni subissando Antipa di continue richieste in proposito; lo farà anni dopo perché favorisse suo fratello Agrippa, oppure perché si recasse da Caligola per ufficializzare il suo regno (ma fu invece da lui esiliato), tuttavia non sarebbe mai riuscita a spingerlo ad uccidere un uomo da lui temuto e considerato. Un timore che, evidentemente, derivava in parte dalla propria coscienza. Il nostro testo, riguardo ai sentimenti nutriti da Erodiade per Giovanni, recita “lo odiava e voleva farlo uccidere, ma non poteva”anche se la traduzione corretta sarebbe “bramava d’ucciderlo”, quindi un desiderio profondo, costante, che si alimentava vie più che il tempo passava: Erodiade era entrata in un circolo mentalmente vizioso e pericoloso perché quando un desiderio, anziché sfogarsi, si scontra contro il muro dell’impossibilità, torna alla sorgente più forte per ripartire di nuovo contro quel muro, tornare al punto di partenza e così via. Ben Sira infatti scrive “Un cuore ostinato alla fine cadrà nel male. Un cuore ostinato sarà oppresso d’affanni. Il peccatore aggiungerà peccato a peccato”.

C’è poi un altro particolare che può sfuggire in questa vicenda dove si fa più caso allo svolgersi immediato degli eventi che non ai particolari, e cioè che Erode “vigilava su di lui”: perché, visto che nel carcere di Macheronte aveva chi lo sorvegliava? Non resta che concludere che Antipa fosse pienamente consapevole delle intenzioni della moglie e che quindi stava attento affinché non potesse fargli del male in qualche modo. Se poi ciò facesse perché nutriva affetto nei confronti di Giovanni o perché non voleva che in relazione a quella morte scoppiassero dei tumulti da parte del popolo, non sappiamo anche se, essendo la capacità di calcolo la prima “qualità” di un politico o di un regnante, viene da propendere per la seconda ipotesi.

Venne però, come sappiamo, “il giorno propizio”, quello in cui più che in qualunque altro la tanto desiderata morte di Giovanni avrebbe potuto verificarsi: certo Erodiade seppe con un largo anticipo dei festeggiamenti per il compleanno del marito ed ebbe tutto il tempo per organizzarsi nei dettagli, con buona percentuale di riuscita, ma avrebbe avuto bisogno della collaborazione della sua giovane figlia di cui i Vangeli tacciono il nome, ma che sempre Giuseppe Flavio ci dice si chiamasse Salome. Si presume che all’epoca fosse molto giovane, attorno ai dodici anni, e che la danza che fece in quel convito, come si usava anche al tempo, avesse un alto contenuto erotico, come del resto tutte quelle in uso nelle corti non solo orientali del tempo. Non a caso, infatti, le donne di corte appartenenti alla nobiltà non danzavano mai, per lo meno in pubblico, ritenendo la cosa di competenza più delle prostitute che non di persone che conducevano una vita rispettabile.

Erodiade quindi, come purtroppo molte madri ancora oggi, non esitò a sacrificare l’onorabilità della propria figlia per i suoi scopi, evidentemente, molto tempo prima che si trovasse a danzare in quella corte visto che, per eccellere in qualsiasi campo, ci vuole tempo ed assiduità. Il testo di Marco, come quello di Matteo, lascia dei dubbi sulla reale consapevolezza di Salome, salvo che sulla sua vanità, ma non certo su quella della madre che attese gli effetti del vino, mescolato alla concupiscenza, sul marito: Erode finì per fare una promessa che era appunto frutto dei fumi dell’alcool. La dichiarazione che fece davanti a tutti, lo inebriava al pari del resto perché nessun altro avrebbe potuto farla.

E a questo punto c’è un abisso tra l’ingenuità di Salome, che non sapeva cosa chiedere nonostante capisse le parole “fosse anche la metà del mio regno”di cui evidentemente non sapeva che farsene, e la puntualità della risposta della madre, “la testa di Giovanni Battista”: quella di Erodiade fu una strategia che possiamo paragonare a quella di Satana in Eden quando, non potendo arrivare direttamente ad Adamo e neppure ad Eva, utilizzò il serpente che a sua volta sedusse la donna che arrivò al marito. Entrambe furono strategie che mirarono ad un immediato di rovina, ma che poi ricadde, nonostante l’apparenza, sugli autori dell’omicidio più che sulla vittima. Tralasciando il destino finale della persona, quindi dell’anima, anche quello terreno non fu esattamente ciò che i protagonisti si aspettavano: tempo dopo, infatti Giuseppe Flavio scrive: “Acclamato imperatore, Gaio liberò Agrippa e lo nominò re della tetrarchia di Filippo, che era morto. Arrivato nei suoi domini, Agrippa per l’invidia suscitò le ambizioni del tetrarca Erode.  Costui era stimolato al desiderio di diventare re soprattutto da sua moglie Erodiade, che ne biasimava l’inerzia e gli ripeteva che, per non aver voluto recarsi a Roma dall’imperatore, era rimasto privo di più larghi domini: se aveva fatto re Agrippa, un semplice privato, non avrebbe fatto re anche lui, che già era tetrarca?.  Spinto da questi discorsi, Erode si presentò dinanzi a Gaio, il quale però ne punì l’ambizione esiliandolo nella Spagna. Infatti subito dopo di Erode era arrivato ad accusarlo Agrippa, a cui Gaio diede in aggiunta anche la tetrarchia dell’altro. Ed Erode morì nella Spagna, dove l’aveva accompagnato in esilio anche sua moglie”.

S’infransero così i sogni di gloria e di potere esattamente come quelli dell’Avversario quando fu precipitato sulla terra assieme ai suoi angeli, nell’attesa di essere gettato nello “stagno di fuoco e di zolfo”una volta costituito per sempre il regno di Dio.

Ultima interessante considerazione, che però guarda al futuro, la possiamo fare considerando Erodiade come l’antesignana della “donna ebbra del sangue dei santi e del sangue dei martiri di Gesù”dell’Apocalisse, che non versa da sé quel sangue, né ordina nel senso stretto del termine che vengano uccisi, ma che delega alla Bestia, cioè al Potere, che faccia loro guerra, li vinca e li uccida.

 

Salome

È stata qui ipotizzata come vittima inconsapevole della madre, ma fino a un certo punto, poiché se sono ravvisabili dei tratti d’ingenuità nella prima parte, non sapendo cosa chiedere ad Antipa, nulla oppose alla richiesta di Erodiade, anzi la ripeté: “Dammi qui, su un vassoio, la testa di Giovanni il Battista”(Matteo 14.8), per quanto “istigata da sua madre”(ibid.). Non rileviamo poi nessun senso di orrore nelle parole “La sua testa venne portata su un vassoio, fu data alla fanciulla e lei la portò a sua madre”(v.11), quasi come se fosse – come in effetti fu – un tramite impersonale, una sorta di messaggero, a significare che Erodiade aveva chiesto ed a lei andava portata, con una consapevolezza ed un’accettazione del ruolo come fu per Giuda, in cui l’Avversario entrò nel momento in cui accettò il “boccone intinto”che Gesù gli porse.

Il racconto evangelico si presenta, a parte quelli esaminati,

 

Altri personaggi

Sono quelli che non hanno idee precise su Gesù, ma cui bastano quelle frammentarie in loro possesso: “Si diceva: «Giovanni Battista è risorto dai morti e per questo ha il potere di fare prodigi». Altri invece dicevano: «È Elia». Altri ancora dicevano: «È un profeta, come uno dei profeti»”. Ancora oggi, per chi si accontenta del poco che sa senza approfondire, attorno al Cristo esistono le opinioni più disparate. Eppure, basterebbe poco per cercarlo, ma non lo si fa, si preferisce restare in una neutralità, senza mai risolvere da nessuna parte. Ancora Ben Sira scrisse “Se soffi su una scintilla, si accende; se vi sputi sopra, si spegne; eppure ambedue le cose escono dalla tua bocca”. Per chiarire chi sia Gesù, basterebbe poco: sarebbe sufficiente alzarsi e andare a parlargli, o meglio ascoltarlo per poter rispondere come Pietro “Tu sei il Cristo, il Figlio dell’Iddio vivente”.

 

Susanna

Anche se non citata, è l’unica persona che avrebbe potuto riferire a Matteo, Marco e Luca come si svolsero veramente quei fatti, impedendo così loro di scrivere per sentito dire. In quanto moglie di un procuratore di Erode, difficilmente non avrebbe potuto essere presente. Così, la sua scelta di vivere col gruppo di uomini e donne che seguivano Gesù, ci fa capire quanto ritenesse poco importante non solo la vita di corte, ma la sua stessa esistenza, ben sapendo che la scelta di seguire il Cristo avrebbe potuto comportare anche la propria morte. Nulla ci viene detto delle reazioni dei presenti all’evento che, salvo un ripensamento, dovettero aver ritenuto quell’esecuzione come il soddisfacimento alla loro curiosità per vedere se Antipa avesse tenuto fede alla sua promessa.

 

La guardia

Questa persona, ricevuto l’ordine, “Andò, lo decapitò in prigione e ne portò la testa su un vassoio”(v.27): il termine tradotto come “guardia”, o “sergente”da altri, è “speculatore”, cioè un ufficiale addetto ai generali dell’esercito, ma anche agli imperatori, in qualità di aiutante di campo, per recapitare messaggi o altre faccende riservate. Probabilmente ritenne la decapitazione di Giovanni un compito come un altro come fecero i soldati romani che crocifissero Gesù per i quali era uno dei tanti condannati a morte e di cui è scritto “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. In quel contesto, era impensabile che quella “guardia”si opponesse all’ordine ricevuto esattamente come nulla avrebbe potuto, nonostante il grado più alto, Antipa, prigioniero di una promessa assurda. Se quell’ufficiale si fosse opposto, avrebbe subito la stessa sorte di Giovanni senza poterne impedire la morte.

Concludendo, quindi, abbiamo la riuscita di un piano ordito da una persona sola, in grado di porre gli eventi in modo tale che nessuno potesse tirarsi indietro. Certo, questo vale dal punto di vista delle azioni terrene, di una mentalità che influenza e vincola in quanto si assimila col tempo perché, nonostante la vita sia illusoria, alla fine nulla resta se non ciò che si porta davanti al trono del Giudizio o della Grazia e non si fa attenzione. E torniamo così alle parole di Gesù: “Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono coloro che entrano per essa; quanto stretta invece è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e quando pochi sono quelli che la trovano!”. Amen.

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08.10 – LA SECONDA VISITA A NAZARETH (Marco 6.1-6)

8.10 – La seconda visita a Nazareth (Marco 6.1-6)

 

 

1Partì di là e venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono. 2Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? 3Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?». Ed era per loro motivo di scandalo. 4Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». 5E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. 6aE si meravigliava della loro incredulità”.

 

 

È indubbio che il racconto della seconda (o terza, secondo altri) visita a Nazareth contenga degli elementi comuni alla prima, per quanto con più particolari visto che, per questo episodio, abbiamo a disposizione anche la versione di Matteo 13. Comunque sia l’importanza di questo ritorno “nella sua patria” risiede nel fatto che laddove una qualunque persona, rifiutata con le modalità che abbiamo visto, avrebbe definitivamente chiuso con quell’ambiente, Gesù decide di dare una seconda opportunità ai suoi ex concittadini e lo fa dopo un certo tempo. In altri termini Nostro Signore lasciò che a Nazareth giungessero altre notizie sulla sua predicazione e sui miracoli affinché la gente si interrogasse silenziosamente, nel cuore, nelle case. Soprattutto, si confrontassero con le letture e i commenti che ad esse venivano fatte nella Sinagoga.

Teniamo presente che, comunque, molto era stato seminato in quel luogo: pensiamo al passo che Gesù commentò e sul quale ci siamo soffermati, alle parole “Oggi si è compiuta questa scrittura che avete ascoltato”, al fatto che, se ci fosse stato un cuore desideroso di venire purificato, il raccordare i miracoli riferiti e avvenuti altrove con quanto ascoltato avrebbe potuto prepararlo ad un secondo, proficuo incontro, quello con la Parola fatta carne. Succede sempre, alle anime sensibili, di pensare e ripensare a determinati episodi della propria vita, ricordarli non per una questione sentimentale, ma per comprendere meglio certi eventi o le persone con le quali hanno avuto a che fare. O per ricordare i propri errori col fine di non commetterne di analoghi. Nel caso di Nazareth credo che Gesù abbia voluto tornare proprio per non lasciare nulla d’intentato anche solo per recuperare una persona.

E qui possiamo inserire alcune considerazioni proprio sul tempo che Dio dà all’uomo per riflettere, o cambiare il suo modo di considerare il valore della vita che gli è stata data in prestito. Fu sempre così, come rileviamo dal fatto che, dopo il diluvio, alla creatura venne fissato un termine di 120 anni di vita per ravvedersi e salvarsi dalle acque che avrebbero ricoperto la terra. Un Midrash ebraico infatti, interpretando il testo di Genesi 6.5 “Il mio spirito non resterà sempre nell’uomo, perché egli è carne e la sua vita sarà di 120 anni“, afferma che Noè attese 120 anni prima di costruire l’Arca sia per dar modo alle piantine di cedro che aveva messo a dimora per crescere, sia ai suoi conterranei di ravvedersi. In altri termini, il diluvio non fu un fatto improvviso, ma venne dopo un periodo di tempo in cui gli uomini, quei “figli di Dio” che si scelsero fra tutte per mogli le “figlie degli uomini“, videro crescere quei cedri e poi Noè, coi figli, costruire l’Arca. Il testo di Genesi, infatti, pone Noè in età di cinquecento anni quando generò i suoi tre figli, e 600 quando entrò nell’Arca, 1656 anni dopo che Adamo ed Eva vennero estromessi da Eden. Il 120, allora, è il 12 x 10, il numero della pazienza di Dio così come il 40 è quello dell’isolamento. Ed è interessante notare che proprio la data del diluvio, che indubbiamente fu la più grande catastrofe mai avvenuta, abbia proprio questo numero, 1656 in cui sommando  5 e 1 abbiamo 6 6 6 che, evidentemente, è sì un “numero d’uomo” come dice la Scrittura, ma ci parla anche di morte, sterminio, annientamento, il nulla definitivo dopo un presente, più o meno lungo, illusorio.

Anche la seconda visita di Gesù a Nazareth, allora, ci parla di un tempo dato all’uomo per approfittare della grazia di Dio e non solo: arrivava l’Emmanuele, il “Dio con noi”, quel Re mansueto ed umile che voleva portare la Parola di Dio in mezzo a loro dando l’opportunità di far tesoro dei suoi insegnamenti, di immedesimarsi in essi, di cogliere l’opportunità e l’onore di parlare con lui, di accoglierlo e di venire guariti da malattie per le quali non si soffre come con le altre. Chi è cieco, sordo, ha un tumore o altro di invalidante sa di averlo, ma non così come per la presunzione, l’orgoglio, la saccenza, la chiusura mentale.

Il verso 1, “Partì di là e venne nella sua patria e i discepoli lo seguirono” ci fornisce un primo dato nuovo, cioè che Gesù questa volta non arriva a Nazareth da solo, ma con dei testimoni ai quali era necessario non solo mostrare quanto può operare la fede di una persona che ottiene un miracolo liberatorio – lo sapevano già –, ma come può essere limitante vivere senza di essa non ponendosi il problema rimanendo nell’abitudinario quotidiano.

Personalmente, per come narrano Marco e Matteo, non credo che Gesù sia sia presentato un sabato, sia entrato nella Sinagoga e si sia messo a leggere: piuttosto il verso 1 ci dice “venne” e al 2 abbiamo “giunto il sabato”, segno che nella sua città si fermò coi suoi qualche giorno e che non rimasero certo in casa, ma uscirono e stavano nelle strade, magari andando a trovare qualche conoscente visto che in quella città Nostro Signore aveva vissuto fino a circa trent’anni, credo sufficienti per essere conosciuto da tutti.

A differenza della prima visita, poi, ignoriamo il soggetto d’insegnamento di quel sabato, ma certo sappiamo che fu autorevole come gli altri avvenuti in molte Sinagoghe e vediamo che “Molti, ascoltando, rimanevano stupiti”, dove quell’ “ascoltando” ci parla di un uditorio non certo distratto, ma che non fu in grado di effettuare considerazioni pertinenti su quanto veniva loro proposto.

Leggendo l’episodio poi occorre tener presente un errore di lettura che spesso compiono i credenti, che tendono a porsi di fronte al testo biblico affrontandolo come uno dei tanti, con una trama e una successione di eventi da leggere in superficie e, così facendo, ben difficilmente sarà possibile comprendere al di là del narrato. Il lettore spirituale, invece, si pone domande, cerca eventuali, apparenti contraddizioni tra le versioni e scopre le ragioni delle reazioni dei presenti alla luce della realtà, della mentalità del tempo e dell’uomo. Ci dobbiamo sempre chiedere perché, come scritto tempo fa.

La versione di Luca esaminata nei due capitoli precedenti, riguardo a Nostro Signore da parte dei Nazareni, ad esempio, è diversa: per loro Gesù era “Il figlio di Giuseppe” ma qui, secondo Marco, è “il falegname, figlio di Maria, fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone”. Secondo Matteo “il figlio del falegname, sua madre si chiama Maria e i suoi fratelli Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda e le sue sorelle sono fra noi”. Non si tratta di particolari insignificanti, ma al contrario sono elementi che offrono un panorama desolante del contesto perché denotano un esame più approfonditamente incredulo dei presenti nella Sinagoga: la prima volta era “il figlio di Giuseppe”, qui è “il falegname” o suo figlio (Matteo 13) e a conferma che secondo loro era impossibile che Gesù parlasse davvero così chiamano in causa Maria e gli altri suoi figli che conoscevano molto bene. Il rifiuto del messaggio del Figlio di Dio è allora per ancorarlo alla terra, alle loro stesse origini umili e di peccatori: doveva essere uno di loro e, in quanto tale,  era impossibile che insegnasse con una sapienza che gli veniva dall’alto nonostante le testimonianze che arrivavano al villaggio e la presenza dei discepoli, assenti la prima volta. È probabile che Nostro Signore se li portò perché capissero il significato della frase che verrà loro detta quando verranno inviati in missione: “Se in qualche luogo non vi accolgono e non vi ascoltano, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza contro di loro” (Marco 6.12).

Il ragionamento dei nazareni, allora, rivela ancora di più l’ottusità e la difesa allo Spirito di Dio che manifestarono la prima volta. Ottusità perché tali erano per natura, difesa perché per loro era importante che la vita continuasse come prima. Le parole di Gesù, se ascoltate, avrebbero richiesto una sosta, la messa in discussione integrale delle loro azioni e modo di pensare, avrebbero dovuto capire che le loro strade e sentieri erano sbagliati e ciò avrebbe richiesto un abbandono per affrontarne di nuove: “Lasci l’empio la sua via”. E abbandonare le proprie consuetudini significa rinunciare a se stessi lasciando che sia Dio ad occuparsi della propria vita e non noi.

Il fatto che Gesù sia indicato come “il falegname, figlio di Maria” con quel che segue lo vedo come posto in senso spregiativo e mi lascia supporre che, a quel tempo, Giuseppe si fosse già addormentato coi suoi padri. Ricordiamo che alle nozze di Cana non era menzionato come presente.

C’è un particolare che entrambi gli evangelisti riportano, e cioè che il fatto che Gesù parlasse loro avendo quelle origini “era per loro motivo di scandalo”, cioè d’inciampo: facevano di un dettaglio insignificante una questione fondamentale, si trovavano di fronte a un muro che loro stessi avevano costruito che impediva di ascoltare e quindi credere.

Così anche oggi, in tutti i campi, dove non solo per essere ascoltata una persona deve avere un titolo di studio, ma deve anche essere riconosciuta da un’organizzazione, da un ordine, da un collegio di presunti sapienti. Se qualcuno parla usando il solo buon senso raramente è ascoltato e, peggio, viene deriso da incompetenti che vogliono un  imprimatur.

Le giornate di Nazareth, dunque, furono molto tristi non certo per Gesù, che a prescindere dal tipo di ascolto che gli veniva dato era e restava “il figlio dell’Iddio vivente”, ma per i nazareni stessi. “E lì non poteva compiere alcuni prodigi, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì”. “Pochi malati” non sappiamo di cosa, ma viene da pensare che fossero guarigioni private e il senso dominante di una prevenzione nei Suoi confronti impedì quelle grandi manifestazioni procedenti dalla fede di uomini e donne che, altrove, si rivolgevano a Lui.

In un modo o in un altro gli abitanti di Nazareth chiusero intenzionalmente le loro porte all’amore di Dio e poi e ne disinteressarono. Quando l’uomo fa così, anche oggi, di fatto, chiude volontariamente quella porta che poi troverà chiusa quando vorrà entrare nel Regno di Dio e non potrà farlo. E quel “pianto e stridore di denti” allude proprio alla reazione disperata di quelle anime che capiranno di essersi distrutte da sole proprio chiudendo quella porta che Dio voleva aprissero mentre erano in vita. Gesù, proponendosi all’uomo, lo onora del Suo interessamento ma questi, come i nazareni, gli chiude la porta. E la bestemmia contro lo Spirito Santo, è scritto che non sarà perdonata. Amen.

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08.05 – LA FIGLIA DI GIAIRO (Marco 5.21-24, 35-43)

8.05 – La figlia di Giairo (Marco 5.21-24; 35-43)

 

21Essendo Gesù passato di nuovo in barca all’altra riva, gli si radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare. 22E venne uno dei capi della Sinagoga, di nome Giàiro, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi 23e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva». 24Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno. (…) 35Stava ancora parlando, quando dalla casa del capo della Sinagoga vennero a dire: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?». 36Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della Sinagoga: «Non temere. Soltanto, abbi fede». 37E non permise a nessuno di seguirlo, fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo. 38Giunsero alla casa del capo della Sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava forte. 39Entrato, disse loro: «Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme. 40E lo deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della bambina e quelli che erano con lui ed entrò dov’era la bambina. 41Prese la mano della bambina e le disse «Talità kum», che significa “Fanciulla, io ti dico, alzati!» 42E subito la fanciulla si alzò e camminava; aveva infatti dodici anni. Essi furono presi da grande stupore. 43E raccomandò con insistenza che nessuno venisse a saperlo e disse di darle da mangiare”.

 

Fra i tanti che attendevano il ritorno di Gesù che si era allontanato in barca alla riva opposta del lago nel territorio della Decàpoli, i più ansiosi erano senza dubbio Giairo e la donna emorroissa. La figura di Giairo è particolare per il suo ruolo oltre che per carattere: Matteo non lo cita per nome e lo qualifica come “uno dei capi”, Marco “uno dei capi della Sinagoga” e poco dopo “capo della Sinagoga”. E Luca fa lo stesso definendolo “capo”. Non credo ci sia discordanza nel modo in cui quest’uomo è definito, poiché la Sinagoga poteva venir governata, a seconda della sua importanza, tanto da un collegio di rabbini che facevano riferimento a un presidente, quando da uno solo. Poi, gli stessi erano anche magistrati preposti agli affari della comunità giudaica e avevano autorità di infliggere sanzioni di vario genere.

Guardando alla figura di Giairo e come si era posto nei confronti di Gesù, possiamo concludere che, se non lo avesse stimato e ritenuto in grado di guarire la propria figlia, non si sarebbe certamente rivolto a Lui nel senso che non va da Gesù come “ultima spiaggia”, ma per fede. Giairo era stato sicuramente tra quelli che avevano parlato in bene di quel centurione che, tempo prima, Gli aveva chiesto di guarire il suo servo. Ricordando l’episodio, avevamo letto che il centurione “gli mandò alcuni anziani dei Giudei – e Giairo era il più importante – a pregarlo di venire e di salvare il suo servo. Costoro, giunti da Gesù, lo pregavano con insistenza: «Egli merita che tu gli faccia questa grazia – dicevano – perché ama il nostro popolo ed è stato lui a costruirci la sinagoga»” (Luca 7.3-5). Interessatosi quindi assieme ad altri perché Gesù si prendesse carico del caso del centurione, è impossibile che non avesse saputo del miracolo. Ora però Giairo si ritrovava nella stessa condizione, con una figlia dodicenne che stava morendo, non sappiamo se per una malattia o per un incidente occorsole; sta di fatto che l’attesa che il Signore tornasse dal viaggio fu molto penosa e che, non appena lo vide, gli si gettò ai piedi, atteggiamento che esprime tanto la deferenza che nutriva nei Suoi confronti, quando l’estrema gravità dell’occasione.

Sappiamo che in quei momenti si intrecciarono due casi importanti, Giairo e l’anonima emorroissa, ma anche due “dodici” visti negli anni della giovane e in quelli di patimento della donna. Coi primi stava per finire l’infanzia e si entrava nell’età adulta (diversamente dai nostri usi, la figlia di Giairo aveva appena raggiunto o stava per avere età da marito) quindi si trattava di un numero importante che suggeriva speranza anziché morte; i secondi invece, quelli della donna, sappiamo che ci parlano di sofferenza e umiliazione.

Giairo quindi si getta ai piedi di Gesù supplicandolo “con insistenza”, quella che credo solo un padre angosciato per l’imminente perdita di una figlia possa avere. Nessuno se non Lui avrebbe potuto aiutarlo anche perché dalle versioni che abbiamo emerge che Giairo non poteva sapere se la ragazzina fosse viva o meno. Teniamo anche presente che tra le rive del lago e Capernaum intercorrevano circa 4km, che percorsi di buon passo avrebbero richiesto almeno 40 minuti. In più, dopo le parole “Vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva”, ecco frapporsi il caso della donna con la sua confessione di fede, per cui possiamo immaginarci con quanta ansia Giairo avesse atteso la conclusione della vicenda. Quell’uomo voleva che Gesù imponesse le mani alla figlia perché guarisse: quindi Lo considerava un profeta in grado di intervenire là dov’era umanamente impossibile, idea che accomuna entrambi i protagonisti di quei momenti, Giairo e l’emorroissa. Possiamo dire che, quel giorno, Nostro Signore fu riconosciuto tale da due esponenti che rappresentavano il popolo comune da una parte e l’autorità religiosa dall’altra. Giairo non era un dottore della legge venuto da Gerusalemme per condannare a priori, chiuso nel proprio formalismo, ma un responsabile che aveva avuto modo di meditare gli insegnamenti di Gesù e constatarne gli effetti attraverso l’edificazione dei componenti della Sinagoga e i miracoli fatti a Capernaum, per cui sapeva esattamente a chi si stava rivolgendo. Certo, il tutto considerando la limitatezza delle idee che allora si avevano su di Lui perché sappiamo che ci volle molto tempo prima che fosse riconosciuto come “…il Cristo, il Figlio dell’Iddio vivente”.

La reazione di Gesù fu proporzionale alla richiesta, “andò con lui”. A questo punto sappiamo che si inserisce la guarigione della donna con relativa testimonianza e, al termine, l’arrivo di un messaggero che porta la notizia del decesso della giovane. Le sue parole sono di una realtà cruda dalla quale traspare l’inevitabile umano: “Tua figlia è morta, perché disturbi ancora il Maestro?”, oppure, secondo Luca, “non disturbare più il Maestro”. In pratica, secondo quella persona e chi l’aveva mandata era giusto chiedere a Gesù un intervento mentre la giovane era in vita, ma nel momento in cui la morte aveva posto il proprio sigillo scrivendo la parola “fine” alla sua esistenza, ogni preghiera avrebbe cessato di avere senso. Ecco, qui abbiamo già un’anticipazione del miracolo perché le parole “Non temere, soltanto abbi fede”, che provenivano da chi aveva autorità sulla vita e sulla morte fanno da contrasto a ogni idea, mentalità, ragionamento umano.

Da una parte abbiamo l’invito “Non disturbare più il Maestro” sottintendendo “perché tanto non può fare più nulla”, dall’altra, contro ogni logica umana, c’è un appello a Giairo a non temere e ad avere fede. È una chiamata diretta, precisa, individuale, in direzione contraria a tutto ciò che gli altri pensavano, al loro acquisito. “Non temere, soltanto abbi fede” sono le stesse parole che il Signore rivolge ad ogni essere umano anche oggi, invitandolo a staccarsi dal metro valutativo terreno che contiene sempre una conoscenza esclusivamente carnale, dimostrando che è la Sua l’unica logica possibile. significava porgli dei limiti o presumere che li avesse, proprio come avviene ora in cui la conoscenza umana è progredita, certo non dal punto di vista spirituale.

Questo passo, per il modo con cui gli evangelisti sviluppano i personaggi, dimostra che siamo noi non solo a porre dei limiti alla potenza di Dio, ma che corriamo il pericolo di non avere di Lui una corretta opinione se non ci dedichiamo allo studio della Sua parola. Le dinamiche dell’episodio, poi, sottolineano che questo applicarsi serve a ben poco se non si mette lo Spirito Santo nelle condizioni di agire in noi per illuminarci per primi e renderci così utili. Per questo ci vuole molta umiltà e vigilanza, un confronto serio, un giudizio continuo su noi stessi valutando i risultati delle nostre azioni dopo un attento esame. Ricordiamoci dei dodici e della loro missione, quando “Al loro ritorno, gli apostoli raccontarono a Gesù tutto quello che avevano fatto” (Luca 9.10) . La stessa cosa dobbiamo fare noi, quando la giornata concessaci sta per concludersi, per discutere alla Sua presenza di come abbiamo speso il nostro tempo e i risultati ottenuti, come e se abbiamo saputo reagire alle negatività, se abbiamo conseguito successi o fallimenti e probabilmente li avremo riportati entrambi. Ma il fallimento, che indica la nostra umanità e debolezza, dev’essere strumento di crescita per la costituzione di quell’armatura che solo noi possiamo procurarci attivamente. Un risultato mancante trova sempre la sua origine in un difetto della nostra “armatura”.

Andiamo in Efesi 6.10-17: “Per il resto, rafforzatevi nel Signore e nel vigore della sua potenza – quindi il credente, se non agisce così, rimane debole –. Indossate l’armatura di Dio per poter resistere alle insidie del diavolo. La nostra battaglia infatti non è contro la carne e il sangue, ma contro i Principati e le Potenze, contro i dominatori di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti – cioè in territori diversi dai nostri, “cieli” come tutto ciò che non possiamo raggiungere –. Prendete dunque l’armatura di Dio, perché possiate resistere nel giorno cattivo e restare saldi dopo aver superato tutte le prove – e superare è l’opposto della sconfitta –. Siate saldi, dunque: attorno ai fianchi, la verità; indosso, la corazza della giustizia; i piedi, calzati e pronti a propagare il vangelo della pace. Afferrate sempre lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutte le frecce infuocate del Maligno; prendete anche l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito che è la Parola di Dio”.

Bene. A Giairo Gesù, che a quel tempo poneva le basi anche per un edificio spirituale che poi sarà lo Spirito Santo a costruire, chiede fede perché quella freccia che il Maligno aveva scagliato e aveva colpito a morte la figlia potesse essere spenta.

Dalla lettura dei sinottici sappiamo che la gente seguì Gesù fino davanti alla casa in cui tutti facevano il solito cordoglio fuori luogo che si manifestava, anziché tramite un dolore dignitoso e nobile, attraverso musiche e soprattutto l’opera di piangitrici di professione pagate per emettere alte grida e invitare alla commozione generale, vera o finta non importava. Ecco perché abbiamo letto che la gente “piangeva e urlava forte”, traduzione che letteralmente suona con “facevano un grande strepito, gente che piangeva e faceva un grande urlare”. Erano tutti elementi di tradizione pagana che andavano a snaturare la nobiltà e dignità del dolore.

A questo punto ci troviamo di fronte ad una frase illuminante di Gesù sulla quale si è molto discusso, “La bambina non è morta, ma dorme”, abbiamo “bambina”, non “fanciulla” o “ragazza” perché qui il termine usato è neutro, “to paidìon”, adattabile a qualsiasi genere in quanto la figlia di Giairo è vista come creatura al di là del sesso e non aveva ancora raggiunto i 13 anni in cui sarebbe stata dichiarata “figlia del comandamento”. Sul significato del “dormire”, che fu preso dai presenti come un controsenso e quindi motivo di derisione nei confronti di Gesù, molto è stato scritto e detto, ma l’unica lettura possibile è che con la frase “non è morta, ma dorme”, Lui intenda correggere l’opinione che la quasi totalità del genere umano ha del decesso, cioè la fine di tutto, a parte usare una strategia che vedremo a breve.

La “morte” intesa come cessazione del battito cardiaco e la consunzione del corpo certo è un dato di fatto, ma in realtà le persone “si addormentano” perché destinate alla resurrezione e sarà lì che avverrà lo “smistamento” tra la vera vita e la vera morte. È triste constatare che alcune Bibbie, per semplificare, hanno stravolto il senso profondo di questo termine e così, ad esempio in 1 Tessalonicesi 4.15, leggiamo “Non vogliamo, fratelli, lasciarvi nell’ignoranza a proposito di quelli che sono morti”, quando l’originale è “di quelli che dormono”, o “si sono addormentati”. L’uomo infatti non muore mai e se ciò accadrà, sarà per quelli che non avranno accolto il sacrificio di Gesù per essere salvati. Infatti: “Poi la Morte e gli inferi furono gettati nello stagno di fuoco. Questa è la seconda morte, lo stagno di fuoco. E chi non risultò scritto nel libro della vita fu gettato nello stagno di fuoco” (Apocalisse 20.14).

Tornando all’episodio, a questo punto Gesù non ammette che la soglia di casa sia varcata da nessuno salvo un gruppo molto stretto di persone, Pietro, Giacomo e Giovanni (Luca 8.51) oltre a Giairo e sua moglie; parla alla giovane in aramaico, “Talita kum”, cioè “Fanciulla, alzati”, richiamandola in vita e dimostrando di avere potere tanto sulla vita quanto sulla morte. Questo era lo scopo che Nostro Signore si prefiggeva, perché nonostante il dare sollievo a due genitori affranti non fosse certo cosa da poco, riportare in vita una bambina destinata a morire comunque più avanti avrebbe avuto senso solo se inquadrato nel concetto “Io ho le chiavi della morte e degli inferi”, uno dei cardini della dottrina cristiana.

Mi sono chiesto perché Gesù abbia ordinato “che nessuno venisse a saperlo” quando sarebbe stato impossibile: credo che si riferisse alle modalità con la quale aveva operato quella resurrezione in opposizione all’incredulità manifestata dai presenti che lo avevano deriso. Il miracolo non solo era stato operato alla presenza di  cinque testimoni, ma si era manifestato con modalità che agli altri non dovevano interessare. I tre apostoli sono la figura del credente spirituale cui sono affidate responsabilità che altri non hanno, sono la rappresentazione del fatto che l’essere “fratelli” non è cosa che si può generalizzare esistendo credenti vittime della propria carnalità e altri che si sono appartati e hanno ricevuto posizioni e doni diversi. Giairo e la moglie invece rappresentano chi sperimenta su di sé i benefici del Vangelo, potenza che non ha né può avere limiti. Agli altri però, quelli che avevano reagito deridendo Gesù, si sarebbe potuto dire che la bambina era caduta in una sorta di sonno molto profondo che, per quanto spiegabile, era tale. Alla ragazzina, infine, fu dato da mangiare non per recuperare le forze, ma perché fosse dimostrato tramite il prender cibo che era tornata in possesso di tutte le facoltà vitali esattamente come al paralitico, sempre in Capernaum, fu ordinato di prendere la propria barella e tornarsene a casa.

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08.03 – GADARA III/III (Marco 5.1-20)

8.03 – Gadara III/III (Marco 5.1-20)

 

1Giunsero all’altra riva del mare, nel paese dei geraseni. 2Sceso dalla barca, subito dai sepolcri gli venne incontro un uomo posseduto da uno spirito impuro. 3Costui aveva la sua dimora fra le tombe e nessuno riusciva a tenerlo legato, neanche con catene, 4perché più volte era stato legato con ceppi e catene, ma aveva spezzato le catene e spaccato i ceppi, e nessuno riusciva più a domarlo. 5Continuamente, notte e giorno, fra le tombe e sui monti, gridava e si percuoteva con pietre. 6Visto Gesù da lontano, accorse, gli si gettò ai piedi 7e, urlando a gran voce, disse: «Che vuoi da me, Gesù, Figlio del Dio altissimo? Ti scongiuro, in nome di Dio, non tormentarmi!». 8Gli diceva infatti: «Esci, spirito impuro, da quest’uomo!» 9E gli domandò: «Qual è il tuo nome?». «Il mio nome è Legione – gli rispose – perché siamo in molti. 10E lo scongiurava con insistenza perché non li cacciasse fuori dal paese. 11C’era là, sul monte, una numerosa mandria di porci al pascolo. 12E lo scongiurarono: «Mandaci da quei porci, perché entriamo in essi». 13Glielo permise. E gli spiriti impuri, dopo essere usciti, entrarono nei porci e la mandria si precipitò giù dalla rupe nel mare; erano circa duemila e affogarono nel mare. 14I loro mandriani allora fuggirono, portarono la notizia nella città e nelle campagne e la gente venne a vedere che cosa fosse accaduto. 15Giunsero da Gesù, videro l’indemoniato seduto, vestito e sano di mente, lui che era stato posseduto dalla Legione, ed ebbero paura. 16Quelli che avevano visto, spiegarono loro che cosa era accaduto all’indemoniato e il fatto dei porci. 17Ed essi si misero a pregarlo di andarsene dal loro territorio. 18Mentre risaliva nella barca, colui che era stato indemoniato lo supplicava di poter restare con lui. 19Non glielo permise, ma gli disse: «Va’ nella tua casa, dai tuoi, annuncia loro ciò che il Signore ti ha fatto e la misericordia che ha avuto per te». 20Egli se ne andò e si mise a proclamare per la Decàpoli quello che Gesù aveva fatto per lui e tutti erano meravigliati”.

 

I GUARDIANI

Sono spettatori che reagiscono immediatamente quando vedono svanire la loro fonte di guadagno, o meglio quella dei loro padroni, tramite il “suicidio collettivo” dei porci. Mi sono chiesto dove si trovassero queste persone, ma il testo si limita a riportare che “a qualche distanza da loro c’era una numerosa mandria di porci al pascolo” (Matteo); per Marco e Luca quegli animali si trovavano “sul monte”, per cui tutto lascia supporre che i guardiani osservassero la scena a distanza di sicurezza per timore degli indemoniati e che non abbiano realizzato immediatamente la loro guarigione, ma che la scena di duemila maiali che si misero a correre verso il mare all’improvviso finendovi dentro annegando li avesse letteralmente terrorizzati. Dobbiamo pensare che ben difficilmente, vista la barca approdare e sapendo della presenza dei due ossessi, non avessero seguito attentamente ciò che accadeva. A quel punto, dopo la guarigione e il conseguente rovinare dei porci nel lago, “Fuggirono, portarono la notizia nella città e nelle campagne e la gente venne a vedere cosa fosse accaduto”. I guardiani sono allora persone che annunciano un evento inspiegabile, mai avvenuto prima, e questo portò la gente ad andare a verificare di persona. È poi molto probabile che quella mandria fosse composta da capi appartenenti a più proprietari conosciuti in città e nella campagna circostante.

 

LA GENTE E L’UOMO GUARITO

Sappiamo che la notizia portata a Gherghesa si allargò rapidamente a macchia d’olio anche fuori della città e gli abitanti della zona accorsero a vedere. C’erano praticamente tutti, dai capi alla gente comune e la curiosità, oltre che all’apprensione per la sorte della fonte di guadagno rappresentata dai porci, ebbe la meglio sul timore dovuto alla presenza dell’indemoniato, che trovarono guarito, ritratto da Marco con le parole “seduto, vestito e sano di mente, lui che era stato posseduto dalla Legione”. Luca aggiunge “seduto ai piedi di Gesù”, atteggiamento che non avrebbe mai potuto avere se fosse stato nella condizione in cui era prima. La gente “vide”, cioè si rese conto, constatò un cambiamento impossibile. Isaia 49.25 scrive che “Anche il prigioniero sarà strappato al forte, la preda sfuggirà al tiranno”, parole cui si raccorderà l’apostolo Paolo in Romani 16.20: “Il Dio della pace schiaccerà ben presto Satana sotto i vostri piedi”. Ebbene Gesù lo dimostra già qui e il terrore della Legione era dovuto proprio a questo, il presagio della fine che solo Cristo, “venuto per distruggere le opere del diavolo” (1 Giovanni 3.8) poteva determinare, decretare, compiere.

Prestiamo attenzione al verbo “Distruggere” che implica “abbattere, guastare, disfare, per lo più con azione o con mezzi violenti, scomponendo le parti di un oggetto dissolvendolo, riducendo in rovina, in modo che la cosa sia resa definitivamente inutilizzabile o non ne rimangano talora neppure le tracce”. E in effetti, questa distruzione della legione fu tangibile a tutti nel vedere l’ormai ex indemoniato “seduto”, cioè tranquillo, non “sdraiato a terra”, che ci lascerebbe pensare a spossatezza o sfinimento. Non vi era in quell’uomo nessun segno di nervosismo, ogni impulso di autolesionismo era svanito così come erano ormai scomparsi tutti quei comportamenti, estranei alla sua persona normale, che lo spingevano a vagare ed aggredire.

Ma a “seduto” Luca aggiunge “ai piedi di Gesù” e personalmente lo trovo un particolare commovente, così come la sua volontà di seguirlo. Possiamo pensare che quella posizione rifletteva al tempo stesso riconoscenza e deferenza, oltre che essere la stessa postura del discepolo desideroso di apprendere; ricordiamo Paolo che usò la stessa espressione per indicare la sua appartenenza alla scuola di Gamaliele (Atti 22.3). L’ignoto indemoniato non si mise a sedere esausto da qualche parte su un sasso, ma ai piedi di Gesù e probabilmente parlava, perché viceversa i presenti non lo avrebbero potuto classificare come “sano di mente” e Marco avrebbe scritto che se ne stava muto e tranquillo. Invece, l’indemoniato guarito aveva trovato una dimensione nuova, su misura per lui: “Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò” (Matteo 11.28).

Prima di ritenerlo sano, comunque, la gente vide che quell’uomo era vestito, cioè aveva ritrovato la propria dignità senza fare nulla: Gesù lo liberò, poi fu coperto con un abito – ipotizzo – fornito dai discepoli e infine fu sicuramente abitato da un altro Spirito, certo non più immondo. Sono tre azioni importanti. La prima e la terza sono forse le più semplici da capire, mentre si tende a inquadrare la seconda, il dare un abito, nel campo della normalità e così può sembrare; in realtà il vestire un essere umano nudo, o con l’abito strappato o comunque impresentabile agli altri, è indice della carità di Dio che conferisce dignità alla persona. E sappiamo che Dio vestì i nostri progenitori. Senza un vestito non ci si può mostrare al prossimo e molto spesso la sua qualità e fattura si adegua agli eventi cui partecipiamo, ma non si può prescindere dalla presentabilità. Ciò che fecero i discepoli a quell’uomo solo apparentemente è indice di un gesto provvisorio teso a far cessare la sua umiliazione: il realtà è simbolo della totalità delle attenzioni di Dio con gli stessi scopi, ma spirituali, che troviamo nella parabola degli invitati alle nozze che, come in uso a quel tempo, avevano ricevuto il vestito per la festa. E sappiamo cosa successe: “«Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale»? E quello ammutolì. Allora il re ordinò ai servi: «Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà il pianto e lo stridore di denti»” (Matteo 22.12,13).

L’apostolo Paolo, riferendosi all’episodio, scriverà nella sua seconda lettera ai Corinzi “Sappiamo infatti che, quando sarà distrutta la nostra dimora terrena che è come una tenda – il corpo che contiene anima e spirito –, riceveremo da Dio un’abitazione, una dimora non costruita da mani d’uomo, eterna, nei cieli. Perciò, in questa condizione, noi gemiamo e desideriamo rivestirci della nostra abitazione celeste purché siamo trovati vestiti, non nudi” (5.1-3). Gesù, quindi, si occupò di quell’indemoniato integralmente per il suo risollevamento esattamente come Satana per la sua distruzione.

Il testo torna a parlarci dei presenti: vedono quell’uomo nelle condizioni appena descritte e, a differenza di quanto avvenuto in casi precedenti, non si “stupiscono” o provano “meraviglia”, ma provano un sentimento di “paura”. È la prima reazione istintiva di fronte a una manifestazione che non si riesce a spiegare, all’irrazionale perché l’uomo è abituato a far leva sulla ragione che ha una risposta per tutto. La paura è l’unica reazione di fronte a ciò che non si può gestire, controllare, spiegare, difendere proprio come avveniva di fronte all’indemoniato quando era posseduto. E fu allora nuovamente spiegato alla folla, dai guardiani con più particolari per quanto potevano, “che cosa era avvenuto all’indemoniato e il fatto dei porci”: i ghergheseni si trovarono così di fronte a un avvenimento in cui loro stessi erano entrati direttamente vedendo, constatando la guarigione del loro concittadino.

Ebbene, anziché rallegrarsi con lui per questa liberazione, vengono sopraffatti dall’interesse e credo abbiano pensato “non so cos’è successo e non mi riguarda, ma è andata distrutta la mia fonte di guadagno”, nessun pensiero magari ad altri nelle condizioni di quell’uomo, o a malati da portargli che certamente esistevano in città, ma solo una costante preoccupazione per l’economia della zona e che venisse turbata la loro tranquillità quotidiana. Non credo che Gherghesa fosse una città ricca e i suoi abitanti vivessero in condizioni particolarmente agiate, ma dobbiamo tener presente che il “ricco” non è solo chi ha molti beni, ma chi è attaccato alle sue cose e non le vuole condividere con altri. C’è chi è attaccato ai propri beni (case, ville, castelli, fabbriche, auto) esattamente come un povero può considerare allo stesso modo la misera baracca in cui abita o qualsiasi altra cosa. Anche una vita tranquilla costituisce una ricchezza che uno può avere timore di perdere. Nel caso dei ghergheseni, più che un loro simile, un concittadino, valevano i maiali. E oggi, più che questi animali, vale la “libertà” del vivere senza Cristo, per cui si preferisce tenerlo fuori dai propri confini senza il bisogno di pregarlo di andarsene. Così leggiamo in Giobbe 21.12-15 quando, sofferente, si chiedeva il perché del successo dei malvagi: “Cantano al ritmo di tamburelli e cetre, si divertono al suono dei flauti. Finiscono nel benessere i loro giorni e scendono tranquilli nel regno dei morti. Eppure dicevano a Dio «Allontànati da noi, non vogliamo conoscere le tue vie. Chi è l’Onnipotente, perché dobbiamo seguirlo? E a che giova pregarlo?»”. Credo sia un ritratto perfetto di quella gente radunata attorno all’indemoniato e a chi lo aveva guarito.

Nessun testo ci dice che, in relazione all’invito dei ghergheseni ad andarsene, Gesù abbia fatto rimostranze o profezie di distruzione nei loro confronti: la folla stessa aveva scelto così, tranne il guarito che voleva restare con chi lo aveva liberato, ma il Maestro non volle prenderlo con sé perché andava lasciata una testimonianza di ciò che era accaduto: “Va’ nella tua casa, dai tuoi, annuncia loro ciò che il Signore ti ha fatto e la misericordia che ha avuto per te”. Ecco, qui abbiamo la progressione della testimonianza, del seme gettato: i primi a dover conoscere davvero i fatti, supportati da una condotta nuova, avrebbero dovuto essere i famigliari di quell’uomo che meglio di altri, attraverso il contatto quotidiano, avrebbero potuto chiedersi le ragioni di quel cambiamento fino ad allora impossibile.

Marco passa poi ad informarci di cosa successe dopo: “Egli se ne andò e si mise a proclamare per la Decàpoli quello che aveva fatto per lui e tutti erano meravigliati”. Questa volta, meraviglia e non paura. Quell’anonimo, da vittima nelle mani di Satana, si trasformò in strumento nelle mani di Dio e sappiamo che, in quei territori, non proclamava qualcosa di completamente nuovo (salvo a quanti non avevano sentito parlare di Gesù) perché la fama del “Figlio dell’uomo” si stava già spargendo; abbiamo già letto che “Gran folle cominciarono a seguirlo dalla Galilea, dalla Decàpoli, da Gerusalemme, dalla Giudea e da oltre il Giordano” (Matteo 4.25). Chissà se tempo dopo, quando venuto “presso il mare in pieno territorio della Decàpoli, gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano” (Marco 7), ciò avvenne anche in conseguenza della testimonianza dell’indemoniato guarito.

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08.02 – GADARA II/III (Marco 5.1-20)

8.02 – Gadara II (Marco 5.1-20)

 

1Giunsero all’altra riva del mare, nel paese dei geraseni. 2Sceso dalla barca, subito dai sepolcri gli venne incontro un uomo posseduto da uno spirito impuro. 3Costui aveva la sua dimora fra le tombe e nessuno riusciva a tenerlo legato, neanche con catene, 4perché più volte era stato legato con ceppi e catene, ma aveva spezzato le catene e spaccato i ceppi, e nessuno riusciva più a domarlo. 5Continuamente, notte e giorno, fra le tombe e sui monti, gridava e si percuoteva con pietre. 6Visto Gesù da lontano, accorse, gli si gettò ai piedi 7e, urlando a gran voce, disse: «Che vuoi da me, Gesù, Figlio del Dio altissimo? Ti scongiuro, in nome di Dio, non tormentarmi!». 8Gli diceva infatti: «Esci, spirito impuro, da quest’uomo!» 9E gli domandò: «Qual è il tuo nome?». «Il mio nome è Legione – gli rispose – perché siamo in molti. 10E lo scongiurava con insistenza perché non li cacciasse fuori dal paese. 11C’era là, sul monte, una numerosa mandria di porci al pascolo. 12E lo scongiurarono: «Mandaci da quei porci, perché entriamo in essi». 13Glielo permise. E gli spiriti impuri, dopo essere usciti, entrarono nei porci e la mandria si precipitò giù dalla rupe nel mare; erano circa duemila e affogarono nel mare. 14I loro mandriani allora fuggirono, portarono la notizia nella città e nelle campagne e la gente venne a vedere che cosa fosse accaduto. 15Giunsero da Gesù, videro l’indemoniato seduto, vestito e sano di mente, lui che era stato posseduto dalla Legione, ed ebbero paura. 16Quelli che avevano visto, spiegarono loro che cosa era accaduto all’indemoniato e il fatto dei porci. 17Ed essi si misero a pregarlo di andarsene dal loro territorio. 18Mentre risaliva nella barca, colui che era stato indemoniato lo supplicava di poter restare con lui. 19Non glielo permise, ma gli disse: «Va’ nella tua casa, dai tuoi, annuncia loro ciò che il Signore ti ha fatto e la misericordia che ha avuto per te». 20Egli se ne andò e si mise a proclamare per la Decàpoli quello che Gesù aveva fatto per lui e tutti erano meravigliati”.

 

I DEMÒNI

Fatte le necessarie considerazioni sul territorio di Gadara – Gerasa – Gherghesa e sugli indemoniati, passiamo ad affrontare i demòni, argomento estremamente complesso che affronteremo limitatamente ai loro nomi, collegandoli al proprio modo di manifestarsi. Chiedendo “Qual è il tuo nome?” Gesù non dimostra di ignorarlo, ma di costringere lo spirito impuro a dichiararsi, “Il mio nome è Legione, perché siamo in molti”: personalità multipla, sfida? Caos, coacervo di impulsi contrastanti, malvagità poliedrica? Luca riporta “Legione, poiché molti demòni erano entrati in lui”. Una legione romana ammontava a seimila uomini, ma non credo che qualificandosi così lo spirito impuro dominante intendesse dare una cifra; piuttosto si riferiva ad una forza organizzata per distruggere; come faceva notare un fratello, “lo spirito immondo è uno e molti al tempo stesso e può parlare indifferentemente al plurale e al singolare, avendo il male molti volti. Satana infatti è un grande mistificatore e si identifica nelle forme più impensate, come il serpente nel giardino di Eden”. Pensiamo a cosa fa oggi, seducendo anche coloro che avrebbero gli elementi per salvarsi rivolgendosi a Cristo e preferiscono darsi al marianesimo, seguendo presunte apparizioni o miracoli che, secondo la dottrina autentica trasmessaci dagli apostoli, non possono avvenire o, se questo avviene, si tratta di manifestazioni che provengono da Colui che può assumere le sembianze anche di “angelo di luce” (2 Corinti 11.14). Un’imitazione, un tentativo maldestro che seduce chi a Cristo non appartiene.

Legione”, quindi, è la risposta che lo spirito immondo dà a Gesù riguardo al nome che aveva, ma non va inteso come proprio, piuttosto quanto rivelatore di una caratteristica. Ecco allora che questo ci consente di estendere il ragionamento al tipo di spiriti che agiscono sull’uomo (e a suo danno) secondo la Scrittura fermo restando che, per poter operare, queste forze necessitano di un ambiente favorevole e preparato da tempo che ha loro concesso volutamente degli spazi.

Da Numeri 5.14 sappiamo che esiste uno “spirito di gelosia”, che troviamo nel caso di un rapporto coniugale, ma è possibile estenderlo a tutti i quei casi in cui vi sono tradimenti e congiure. Generatore di odio profondo, non si placa neppure di fronte all’evidente innocenza della persona di cui si sospetta. Questo spirito trova tra le sue manifestazioni anche con l’invidia attiva, poiché la gelosia è un sentimento tormentante a molti livelli e quasi sempre pensa di trovare un acquietamento nell’eliminazione, in un modo o in un altro, del soggetto ritenuto avverso. Primo esempio, in questo caso, fu Caino.

1 Samuele 16.14 ci dice “Lo spirito del Signore si era ritirato da Saul e cominciò a turbarlo uno spirito malvagio, venuto dal Signore”. Non che da Dio possa venire il male: solamente il Signore, togliendogli il suo spirito, permise a un altro di entrare in Saul. È una legge fisico-spirituale. In cosa si manifesta questo spirito? Nell’opposto della pietà e carità di Dio vista nel dono dello Spirito Santo. “Malvagio” è chi opera il male compiacendosene o restando indifferenze alle conseguenze che esso provoca, chi tende a delinquere che, ai tempi della Legge, sarebbe stato “estirpato dal popolo” con la condanna a morte e, se presente oggi nella Chiesa, va affrontato per non lasciargli alcuna possibilità di espressione. Per lo spirito malvagio, ma anche per gli altri, vale la regola che può agire se l’uomo glielo consente esattamente come avvenne per Saul, il cui spirito di Dio gli fu tolto perché aveva compiuto scelte autonome in opposizione a quando gli era stato da Lui ordinato (1 Sam. 15.9).

Altro tipo di spirito, subdolo e seduttore, è lo “spirito di divinazione”, o “di pitone” secondo altre traduzioni. Lo troviamo espressamente citato in Atti 16.16: “Mentre andavamo alla preghiera, venne verso di noi una schiava che aveva uno spirito di divinazione: costei, facendo l’indovina, procurava molto guadagno ai suoi padroni”. Qui va prestata attenzione, poiché le Scritture si riferiscono sia ai ciarlatani, sia a quelli che sono in grado di aprire “porte che devono restare chiuse”, come avvenne per Saul e la negromante che consultò perché non otteneva risposte dal Signore (1 Sam. 28.7-9). Lo “spirito di divinazione” è quindi un’alternativa di comodo, che consente a chi non può o non vuole rivolgersi a Dio di avere un risultato apparentemente appagante. Sono molti quelli che vanno in rovina spendendo cifre enormi per ottenere risposte da queste persone attorno al loro futuro e per risolvere problemi di lavoro o di ciò che è falsamente chiamato “amore”. Oggi come in passato, molti governanti e politici vi ricorrono o vi hanno ricorso, per non parlare di attori, scrittori, editori e imprenditori anche molto conosciuti. Purtroppo, anche se si tenta a crederlo, importanti medici. Ricordiamo in opposizione Levitico 19.31 “Non vi rivolgete agli spiriti, né agli indovini; non li consultate per non contaminarvi a causa loro. Io sono il Signore, vostro Dio”. Ancora più dettagliate le parole di Deuteronomio 18.10-12: “Non si trovi in mezzo a te chi fa passare per il fuoco il suo figlio o la sua figlia – sacrifici umani –, né chi esercita la divinazione o il sortilegio o il presagio o la magia, né chi faccia incantesimi, né chi consulti i negromanti o gli indovini, né chi interroghi i morti, perché chiunque fa queste cose è in abominio al Signore”. Per finire si possono ricordare le parole in Isaia 8.19,20: “Quando vi diranno: «Interrogate i negromanti e gli indovini che bisbigliano e mormorano formule. Forse un popolo non deve consultare i suoi dèi? Per i vivi consultare i morti?», attenetevi all’insegnamento e alla testimonianza. Se non faranno un discorso come questo, non ci sarà aurora per loro”.

Al quinto posto troviamo lo “spirito di smarrimento”, tradotto anche con “stordimento” (ma anche quello “di errore”) menzionato in Isaia 19.14 che, per il tempo in cui viviamo, possiamo riconoscere anche nelle dipendenze da sostanze stupefacenti, dall’alcool al gioco d’azzardo al sesso compulsivo, alla ricerca di filosofie alternative a una condotta degna dell’uomo pensante, tutto ciò insomma che rende le persone schiave e incapaci di condurre una vita libera e indipendente da esse.

Il sesto è lo “spirito muto e sordo” citato in Marco 9.25 che un fratello giustamente individua nell’eredità genetica a causa di incesti, rapporti fra consanguinei o privi di profilassi preventiva tanto nel concepimento che in gravidanza.

Infine il settimo, lo “spirito d’infermità” citato in Luca 13.11, connesso con il disfacimento del nostro corpo, definito dall’apostolo Paolo “corpo dell’umiliazione” o con la frase “il nostro uomo esteriore che si va disfacendo” (Filippesi 3.20; 2 Corinti 4.16).

L’opera di Satana dunque, “principe di questo mondo”, si concreta nella disubbidienza o nell’errore che puntualmente si paga e oggi, con i progressi della scienza medica, lo posiamo riconoscere nel momento in cui questa si rivela impotente a porvi rimedio esattamente come, a Gherghesa, quell’uomo “più volte era stato legato con catene e ceppi, ma aveva spezzato le catene e spaccato i ceppi, e nessuno riusciva più a domarlo”, oppure secondo Luca 8.29 “Allora lo tenevano chiuso, legato con catene e ceppi ai piedi, ma egli spezzava i legami e veniva spinto dal demonio in luoghi deserti”. Catene e ceppi nei quali possiamo identificare quei farmaci, o interventi invasivi, che tendono ad annullare la volontà distruttiva della persona ritenuta malata di mente, ma sono impotenti a ristabilirla, a restituirle quella dignità che Satana le ha tolto.

Tornando al nostro episodio: lo spirito immondo sa di dover lasciare quel corpo che ormai di umano aveva solo la forma ma, non volendo abbandonare un territorio a lui non ostile, individua subito nel branco di maiali i suoi nuovi, ideali elementi idonei ad ospitare lui e i suoi simili. Ecco perché i demoni non “chiedono”, ma “scongiurano” Gesù di lasciarli andare da loro, verbo che accomuna tutti e tre i racconti e che ci parla del fatto che Satana, per quanto forte, di fronte alla persona di Gesù gli deve sottostare. In effetti, in una creatura classificata dalla Legge come “impura”, l’Avversario avrebbe potuto trovare una sistemazione, cosa che poi avverrà per un tempo molto breve. Senz’altro indispensabile l’annotazione di Luca che scrive in 8.31 “E lo scongiuravano che non ordinasse loro di andarsene nell’abisso”, l’unico luogo che per loro è dimora ma che evidentemente rifiutano: “Dio infatti non risparmiò gli angeli che avevano peccato, ma li precipitò in abissi tenebrosi, tenendoli prigionieri per il giudizio” (2 Pietro 2.4). Riferimenti sull’abisso li abbiamo in Apocalisse 9.1,2; 11.7; 17.8 e soprattutto 20.1-3: “E vidi un angelo che scendeva dal cielo con in mano la chiave dell’abisso e una grande catena. Afferrò il drago, il serpente antico, che è diavolo e il Satana, e lo incatenò per mille anni; lo gettò nell’abisso, lo rinchiuse e pose il sigillo sopra di lui, perché non seducesse più le nazioni, fino al compimento dei mille anni, dopo i quali deve essere lasciato libero per un po’ di tempo”.

 

I MAIALI

Sappiamo che la Legge ebraica classifica gli animali come “puri” o “impuri” fondamentalmente per uso alimentare. In particolare il maiale ha una carne tossica che si accentua soprattutto nelle zone calde, ma anche in quelle fredde per quanto in misura minore. Il consumo abituale della sua carne causa dipendenza e finisce inevitabilmente per intossicare l’organismo causando calcoli biliari, obesità e inflaccidimento muscolare perché, contenendo molto zolfo, indebolisce i muscoli e li rende facili a subire lesioni. Compatibile con quella umana, si sospetta fortemente che, nei consumatori abituali di questa carne, ci sia una maggiore insorgenza di patologie specifiche come Alzheimer e Parkinson.

Se però andiamo a cercare gli esempi, o i paragoni, in cui il maiale è protagonista nella Scrittura a parte la sua classificazione legale, scopriamo elementi interessanti che lo collegano all’immondizia morale pur essendo, in quanto animale, al di là del bene e del male:

 

  1. Un anello d’oro al naso di un porco, tale è la donna bella priva di senno” (Proverbi 11.22), aforisma che chiama in causa tutte quelle donne, ma oggi anche uomini, giovani o meno, che modellano in loro stile di vita rendendosi strumenti dell’Avversario, sedotte dalla vanità a tal punto, come scrive un fratello, “da penalizzare il proprio corpo sia come immagine che per prestazione”. E i riferimenti possibili sono davvero innumerevoli e sotto gli occhi di tutti.
  2. Non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle ai porci, perché non le calpestino con le zampe e poi si voltino per sbranarvi” (Matteo 7.6), frase in cui, al di là delle numerose riflessioni che abbiamo fatto nell’affrontarla, possiamo individuare la proibizione al proselitismo che spesso genera entusiasmi presuntuosi fuori luogo dai quali germinano ignoranza, estremismo, integralismo e violenza, come purtroppo la storia antica e moderna insegna.
  3. …avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci, ma nessuno gliene dava” (Luca 15.16). È un verso conosciuto appartenente alla parabola del figlio prodigo che lasciò la casa paterna per andare in un paese straniero dove sperperò tutta la sua eredità, morale, spirituale e materiale con le prostitute per poi alla fine ritrovarsi senza avere di che mangiare.
  4. Si è verificato per loro il proverbio: «Il cane è tornato al suo vomito e la scrofa lavata è tornata ad avvoltolarsi nel fango»” (2 Pietro 2.22). Qui bisogna prestare attenzione: Pietro scrive dell’eventualità in cui una persona abbia deliberatamente scelto di abbandonare la fede abbracciata e di cui ha personalmente sperimentato gli effetti: “Se infatti, dopo essere sfuggiti alle corruzioni del mondo per mezzo della conoscenza del nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo, rimangono di nuovo in esse invischiati e vinti – la differenza fra la crisi passeggera e l’abbandono – la loro ultima condizione è divenuta peggiore della prima. Meglio sarebbe stato per loro non aver mai conosciuto la via della giustizia piuttosto che, dopo averla conosciuta, voltare le spalle al santo comandamento che era stato loro tramesso”.

 

Ecco, scongiurando Gesù di mandarli nei porci, gli spiriti immondi, tramite il loro rappresentante, dimostrano di trovare in quegli animali i loro ospiti ideali dal punto di vista morale; una volta entrati in loro però, proprio i maiali, presi dal terrore, li rifiutarono precipitando nel mare, non avendo un senso del pericolo e della morte con il nostro.

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08.01 – GADARA I/III (Marco 5.1-20)

8.01 – Gadara I (Marco 5.1-20)

 

1Giunsero all’altra riva del mare, nel paese dei geraseni. 2Sceso dalla barca, subito dai sepolcri gli venne incontro un uomo posseduto da uno spirito impuro. 3Costui aveva la sua dimora fra le tombe e nessuno riusciva a tenerlo legato, neanche con catene, 4perché più volte era stato legato con ceppi e catene, ma aveva spezzato le catene e spaccato i ceppi, e nessuno riusciva più a domarlo. 5Continuamente, notte e giorno, fra le tombe e sui monti, gridava e si percuoteva con pietre. 6Visto Gesù da lontano, accorse, gli si gettò ai piedi 7e, urlando a gran voce, disse: «Che vuoi da me, Gesù, Figlio del Dio altissimo? Ti scongiuro, in nome di Dio, non tormentarmi!». 8Gli diceva infatti: «Esci, spirito impuro, da quest’uomo!» 9E gli domandò: «Qual è il tuo nome?». «Il mio nome è Legione – gli rispose – perché siamo in molti. 10E lo scongiurava con insistenza perché non li cacciasse fuori dal paese. 11C’era là, sul monte, una numerosa mandria di porci al pascolo. 12E lo scongiurarono: «Mandaci da quei porci, perché entriamo in essi». 13Glielo permise. E gli spiriti impuri, dopo essere usciti, entrarono nei porci e la mandria si precipitò giù dalla rupe nel mare; erano circa duemila e affogarono nel mare. 14I loro mandriani allora fuggirono, portarono la notizia nella città e nelle campagne e la gente venne a vedere che cosa fosse accaduto. 15Giunsero da Gesù, videro l’indemoniato seduto, vestito e sano di mente, lui che era stato posseduto dalla Legione, ed ebbero paura. 16Quelli che avevano visto, spiegarono loro che cosa era accaduto all’indemoniato e il fatto dei porci. 17Ed essi si misero a pregarlo di andarsene dal loro territorio. 18Mentre risaliva nella barca, colui che era stato indemoniato lo supplicava di poter restare con lui. 19Non glielo permise, ma gli disse: «Va’ nella tua casa, dai tuoi, annuncia loro ciò che il Signore ti ha fatto e la misericordia che ha avuto per te». 20Egli se ne andò e si mise a proclamare per la Decàpoli quello che Gesù aveva fatto per lui e tutti erano meravigliati”.

 

Con questo passo ci troviamo di fronte ad un racconto impegnativo per diverse ragioni: è infatti un episodio contestato, quanto a veridicità, per il modo diverso con cui è raccontato dai sinottici, per le indicazioni geografiche apparentemente improbabili e contrastanti, per la zona considerata da molti commentatori territorio pagano e altro. Per quel che ci riguarda, il passo di Marco in particolare ci offre una cronaca estremamente ricca di elementi dottrinali e spirituali, non affrontabile in un unico capitolo, o incontro.

Iniziamo inquadrando il nome del territorio: il testo di Matteo riporta “Xòran ton Gerghesenòn”, cioè “Contrada dei Gergheseni”, mentre Marco e Luca “Gadarenòn”, “Gadareni”, che molti, sulla base di altri testi antichi, hanno voluto sostituire con la parola “Gherasenòn”, “Geraseni”. Potremmo dire che “nella zona”, per quanto distanti una ventina di chilometri circa, c’erano due città, Gerasa e Gadara, la prima troppo lontana dal lago per cui difficilmente avrebbe potuto dare nome a quel distretto mentre la seconda, più vicina, una delle città greche della Decàpoli e capitale della Perea, avrebbe potuto meglio costituire un riferimento geografico, per quanto non corrispondente alla località effettiva in cui avvenne l’episodio. Gerasa non era molto conosciuta, ma Gadara sì e in questo modo chiamare quel luogo “la contrada dei Gadareni” era plausibile. Abbiamo così Gerasa e Gadara, ma anche Gherghesa, la cui esistenza è attestata da Origene ed Eusebio (200 d.C. circa), posta ad Oriente del lago, il cui nome poi fu mutato in Gersa, o Kerza. Gherghesa era posta nelle immediate vicinanze del lido e, sopra di lei, sorge a picco un monte in cui si trovano delle antiche tombe che rendono tecnicamente plausibile il racconto dei sinottici e che quindi fosse quello il paese nei pressi del quale Gesù fosse approdato coi discepoli.

Va ricordato che gli Autori dei Vangeli non scrivono per dare dei resoconti unitari, ma con scopi spirituali, cosa ben diversa rispetto al dare testimonianza – faccio per dire – in un processo in cui ciò che dicono i testi deve coincidere.

Fermiamoci un attimo, leggiamo i passi paralleli e chiediamoci chi degli Apostoli fosse presente: certamente Matteo e Pietro. Il primo scrive autonomamente, il secondo racconta l’episodio a Marco con molti più dettagli, forse spronato con domande e chiarimenti dall’evangelista stesso. Leggendo Matteo 8.28-34 vediamo che l’episodio viene affrontato quasi accennandolo con molti particolari in meno rispetto a Marco e Luca, che scrive dopo aver fatto ricerche accurate e intervistato i testimoni: Matteo parla di due indemoniati tratteggiandoli a grandi linee mentre gli altri si soffermano su uno solo, ma riesce difficile parlare di discordanza proprio per la prospettiva spirituale che tutti loro si prefiggono in quando la questione non è narrare un fatto storico, ma presentarlo in modo unico anziché univoco.

La nostra attenzione, per ora, si deve focalizzare sul nome “Gadara” che, come da radice, apparteneva alla tribù di Gad la quale, assieme a quella di Ruben e alla metà di Manasse, chiese a Mosè di non passare il Giordano e che gli fosse assegnato il paese di Galaad, ricco di pascoli perché possedevano parecchio bestiame (Numeri 32.1). Ricordiamo infatti le loro parole: “Se abbiamo trovato grazia ai tuoi occhi, sia concesso ai tuoi servi il possesso di questa regione: non farci passare il Giordano” (v.5). Fu una richiesta certo dettata da interesse, ma non per questo quelle tribù non rifiutarono di dare il loro contributo militare alla conquista del Paese al di là del fiume. Per questo fu loro risposto: “Se fate questo, se vi armerete davanti al Signore per andare a combattere, se tutti quelli di voi che si armeranno passeranno il Giordano davanti al Signore finché egli abbia scacciato i suoi nemici dalla sua presenza, se non tornerete fin quando la terra sia stata sottomessa davanti al Signore, voi sarete innocenti di fronte al Signore e di fronte a Israele, e questa terra sarà vostra proprietà alla presenza del Signore. Ma se non fate così, voi peccherete contro il Signore; sappiate che il vostro peccato vi raggiungerà. Costruitevi pure città per i vostri fanciulli e recinti per le vostre greggi, ma fate quello che la vostra bocca ha promesso” (vv.20-24). E così avvenne, con Gad, Ruben e Manasse che mantennero la loro parola.

A parte quindi il nome greco di tutta la regione, Decàpoli, il fatto che fosse un territorio più “aperto” ad altre culture e che indubbiamente fosse più forte l’influenza greca rispetto a quella dell’Israele propriamente detto, Gesù, approdando in territorio Gadareno, riconobbe quella zona parte integrante dei confini assegnati da Mosè e Giosuè al popolo ebraico. Viceversa, cioè se la Decàpoli fosse stata un territorio esclusivamente pagano, vi sarebbe una palese contraddizione con le parole dette alla donna Sirofenicia, “Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa di Israele” (Marco 7.24-30). Non era ancora giunto il tempo per cui del Vangelo avrebbero potuto beneficiare tutti i popoli.

Non si può concludere questa introduzione senza notare che il miracolo degli indemoniati gadareni occupa un punto centrale, importante, determinante, essendo il secondo dei tre esorcismi riportati da Marco: il primo fu quello dell’indemoniato nella Sinagoga di Capernaum e il terzo, ancora da trattare, fu “di riparazione” perché i discepoli, tranne Pietro, Giacomo e Giovanni presenti alla trasfigurazione, non erano riusciti a guarirlo (9.14-29). Dopo aver accennato al territorio, passiamo ad esaminare i protagonisti del miracolo, cioè gli indemoniati,  i demòni, i porci, i mandriani e gli abitanti di Gerghésa.

 

GLI INDEMONIATI

La prima questione che si pone, cioè se fossero due o uno, credo di risolva da sola nel senso che Matteo, che non scende nei dettagli, scrive che erano due, entrambi con le stesse manifestazioni: “Due indemoniati, uscendo dai sepolcri, gli andarono incontro; erano tanto furiosi che nessuno poteva passare per quella strada” (8.28). Da qui in poi l’evangelista parla sempre al plurale, ma non li tratteggia come Marco e Luca. A questo punto le supposizioni sono due: o erano entrambi identici nei comportamenti, o uno li aveva più accentuati e si caratterizzava di più per cui gli altri evangelisti si soffermano su uno. Il numero due, poi, indica tanto associazione quanto opposizione per cui già di per sé abbiamo un indice di disordine, divisione, discordia, sconnessione, qualcosa che non può durare nel tempo. Pensiamo a quanto siano drammatici i disturbi della personalità. Alla luce quindi di quanto leggiamo nelle due altre cronache dello stesso episodio, quindi, d’ora in avanti i due indemoniati verranno considerati come uno solo. Luca riporta “Da molto tempo non portava vestiti, né abitava in casa, ma in mezzo alle tombe” (8.27), “sepolcri” o “tombe” diversi da come le conosciamo noi, essendo grotte naturali o scavate nelle rocce. Quegli indemoniati dunque occupavano le tombe ancora libere perché in tal modo potevano ripararsi dalle intemperie, come animali. Abitavano in un luogo impuro, di silenzio e morte cui si aggiungeva la loro disperazione caratterizzata da uno stato mentale profondamente alterato. Parlando al singolare per le ragioni sopra esposte, viene ritratto da Marco e Luca un individuo sconnesso che vive fuori dalla società, caratterizzato da gesti insensati e violenti, indomabile. Il fatto che per proteggere loro stessi i suoi concittadini avessero trovato come unico rimedio quello di legarlo con catene senza successo, poiché “nessuno riusciva a tenerlo legato, neanche con catene, perché più volte era stato legato con ceppi e catene, ma aveva spezzato le catene e spaccato i ceppi, e nessuno riusciva più a domarlo” ci parla dell’impotenza dell’uomo di fronte a un’entità, come quella satanica, a lui superiore.

Presumo che quei “ceppi e catene” utilizzati siano stati sempre più forti man mano che questo personaggio li rompeva eppure, nonostante gli stratagemmi, ogni contenzione era impossibile. Marco ci dice che “continuamente, notte e giorno, fra le tombe e sui monti, si percuoteva con pietre”, quindi gli spiriti che lo possedevano, anziché avere riguardo per lui, lo oltraggiavano ancora di più, facendogli del male. Quell’uomo, o uomini, erano stati privati di qualsiasi forma di dignità e ragione fino all’annullamento del loro istinto di sopravvivenza, avendo raggiunto il più alto livello di dipendenza dall’Avversario che li aveva colpiti nella ragione. La stessa cosa avviene anche oggi, quando uno spirito impuro si impadronisce di una persona indipendentemente dal grado di possessione: dimentichiamo l’immagine che danno i media dell’indemoniato e soffermiamoci sulla mancanza di dignità alla quale porta il continuo rifiuto del messaggio di ravvedimento del Vangelo. Senza di lui siamo abbandonati a noi stessi, preda dei nostri desideri e istinti coi quali ci feriamo non fisicamente ma, come vedremo quando esamineremo i nomi degli spiriti immondi, moralmente. La sofferenza di quell’uomo non conosceva periodi di pausa, ma vagava “notte e giorno”, nemico prima di se stesso e poi dei propri simili che di fronte a lui/loro provavano l’unica reazione possibile: ribrezzo e soprattutto paura, talché “nessuno poteva passare per quella strada” (Matteo 8.28).

Ebbene lo spirto impuro (erano molti, ma ce n’era uno più forte degli altri), vedendo Gesù, prende immediatamente coscienza del fatto che era arrivato chi lo avrebbe sconfitto e subito corre da lui, gli si getta ai piedi e gli dice “Che vuoi da me Gesù, figlio del Dio altissimo? Ti scongiuro in nome di Dio di non tormentarmi!”. Di fronte a un’altra traduzione, “Che hai in comune con me?”, un fratello annota “Tanto Satana che Gesù si identificano nell’uomo, ma con scopi totalmente diversi”. L’uomo è infatti al tempo stesso oggetto dell’odio dell’uno e dell’amore dell’altro, con la differenza che il primo si impone violentemente e l’altro si propone lasciando libera scelta.

Satana riconosce Gesù come “Figlio del Dio altissimo” prima degli uomini, ma lo fa perché sa chi è; ancora di più sa che il suo destino è il tormento nello “stagno di fuoco e zolfo”. Ricordiamo che Matteo riporta “Sei venuto a tormentarci prima del tempo?” (v.29), frase con cui la “Legione” gli ricorda che non era ancora giunto quel momento, per cui avrebbe dovuto lasciarli stare dov’erano. Per quanto forte sull’essere umano che gli ha dato spazio – ricordiamo le parole “fuggite il male, ed egli fuggirà da voi” –, nessuna entità avversa potrà conseguire una vittoria sul Cristo ed è costretta ad ubbidirgli per cui anche in quel caso, pur di non allontanarsi da quel territorio, leggiamo che “lo scongiurava con insistenza perché non li cacciasse fuori dal paese” e “Mandaci da quei porci, perché entriamo in essi”.

Isaia 65.2-5 ci fornisce un interessante e triste ritratto delle condizioni di chi viveva in quel Paese: “Ho teso la mano ogni giorno a un popolo ribelle; essi andavano per una strada non buona, seguendo i loro propositi, un popolo che mi provocava sempre, con sfacciataggine. Essi sacrificavano nei giardini – non nel Tempio –, offrivano incenso sui mattoni – non sull’altare – abitavano nei sepolcri – gli indemoniati? –, passavano la notte in nascondigli, mangiavano carne suina – la mandria custodita – e cibi immondi nei loro piatti. Essi dicono: «Sta’ lontano! Non accostarti a me, che per te sono sacro»”.

Abbiamo qui la forma di ribellione più subdola, peggiore del rifiuto aperto di fronte al tema dell’esistenza di Dio perché qui è riconosciuto, ma a patto che Lui si adatti al volere della creatura che di fatto lo ha abbandonato, pretendendo che si pieghi al suo volere: il sacrificio nei giardini e l’incenso sui mattoni sono un’interpretazione carnale e comoda di fronte a un comandamento chiaro che vedeva nel Tempio il luogo comune in cui si dovevano incontrare YHWH e il suo popolo. Il Tempio era luogo sacro, protetto e permeato di santità che si realizzava nell’incontro tra Lui e il popolo adorante; l’altare, poi, costruito con misure e materiali che prefiguravano la perfezione del sacrificio del Figlio in relazione alle aspettative del Padre, era stato sostituito da un materiale, il mattone, che non aveva alcuna connessione con Lui, estraneo come le menti di chi aveva concepito quel sistema religioso con fini completamente diversi.

Il risultato lo vediamo leggendo l’episodio degli indemoniati: la presenza della mandria di porci e dei guardiani ci dice che era scomparso il concetto di puro e impuro, gli abitanti di Gherghesa pregheranno Gesù di andarsene perché aveva causato loro un danno economico senza considerare i benefici spirituali che avrebbero ottenuto ascoltando la Sua predicazione. È scritto infatti che “…quando arrivarono da Gesù, trovarono l’uomo dal quale erano usciti i demòni, vestito e sano di mente, che sedeva ai piedi di Gesù, ed ebbero paura” (Luca 8.35). Paura e non gioia per quel loro concittadino/i finalmente liberato. Paura di pensare, di prendere in considerazione che poteva esserci una realtà diversa, di abbandonare le loro convinzioni: per loro sarebbe stato meglio che le cose restassero com’erano, era preferibile continuare ad evitare la strada su cui avrebbero potuto trovarsi quegli indemoniati, che non aprire un’altra pagina della loro storia e vita.

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07.17 – CINQUE CANTICI I/V (Marco 4.41 – Isaia 42.1-4)

7.17 – Cinque cantici I/V (Marco 4.41 – Isaia 42.1-4)

41E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?»”.

Abbiamo citato nel capitolo precedente alcuni episodi dell’Antico Patto in cui l’Iddio vivente intervenne di persona in giudizio o per soccorrere e guarire, considerando che la domanda “Chi è costui…” dei discepoli, in realtà, non aveva senso. Poiché non esiste un solo verso della Scrittura che non abbia qualcosa da dire all’uomo indipendentemente del tempo in cui vive, credo a questo punto sia giusto esaminare la persona di Gesù sotto l’aspetto profetico in particolare basandoci sui quattro (o cinque a seconda delle interpretazioni) cantici sul “Servo del Signore” di Isaia il cui compito era fornire degli indizi importanti affinché quelli che lo attendevano potessero riconoscerlo quando fosse venuto in terra.

Riguardo al numero dei cantici se ne considerano quattro se si prende il testo del profeta come libro, rotolo originario in cui non c’era una suddivisione in capitoli. Accademicamente parlando, questo è il loro numero. Considerando però Isaia in quanto testo diviso in capitoli come pervenuto a noi oggi (Stephen Langton, 1214 circa), essendo il quarto spezzato, per pura comodità strutturale se ne possono contare cinque. Entrambi sono numeri importanti: alla stabilità perfetta del numero quattro, si affianca il cinque, che in questo caso rappresenta una sottolineatura del precedente che reca in sé il concetto di chiusura, fine, elemento ciò a cui nulla può essere aggiunto. Non a caso, in un precedente studio, è stato associato al cinque il numero delle pareti di una casa più il tetto.

 

PRIMO CANTICO (Isaia 42.1,4) 

“Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto in cui mi compiaccio. Ho posto il mio spirito su di lui; egli porterà il diritto alle nazioni. Non griderà né alzerà il tono, non farà udire in piazza la sua voce, non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta: proclamerà il diritto con verità. Non verrà meno e non si abbatterà, finché non avrà stabilito il diritto sulla terra, e le isole attendono il suo insegnamento”.

Molti sostengono che il “servo” sia Israele anche perché, nel capitolo 41, di lui si parla utilizzando lo stesso termine: “Ma tu, Israele, mio servo, tu Giacobbe, che ho scelto, discendente di Abramo mio amico, sei tu che io ho preso dall’estremità della terra e ho chiamato dalle regioni più lontane e ti ho detto: «Mio servo tu sei, ti ho scelto, non ti ho rigettato!». Non temere, perché io sono con te; non smarrirti, perché io sono il tuo Dio. Ti rendo forte e ti vengo in aiuto e ti sostengo con la destra della mia giustizia”. Si tratta di un passo molto bello che però non ritrae il servo come uomo, l’eletto di Dio  unico che, nel primo cantico, appare come persona che comparirà in un momento preciso come conseguenza dell’aver scelto Giacobbe e dell’amicizia con Abramo.

Sinceramente, ogni volta che leggo o penso alle parole “Abrahamo mio amico” resto stupito e commosso nel contemplare il Dio Onnipotente chiamare così un uomo, una creatura talmente imperfetta di fronte a Lui. Eppure gli parlava, eppure nel caso della distruzione di Sodoma assistiamo a un dialogo di esseri tra i quali intercorreva una rispettosa confidenza; addirittura leggiamo le parole di JHWH che, prima di agire in giudizio, dice “Dovrò forse nascondere ad Abrahamo quanto sto per fare?” (Genesi 18.17). E così, di fronte a questo scritto, la memoria va a Gesù e all’estensione enorme che diede ai suoi e che a volte dimentico: “Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici perché tutto ciò che io ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi” (Giovanni 15.14,15).

Veniamo al Cantico: lo abbiamo già trattato nel capitolo 3.12 intitolato “Il servo che ho scelto”, ma cercheremo di ampliarlo, affrontarlo in modo differente. Colpisce l’inizio, “Ecco”, che si utilizza quasi unicamente per indicare un momento preciso in cui cambiano le cose oppure per confermare una realtà oggettiva dopo un’attenta verifica: ricordiamo ad esempio quando, alla fine del sesto giorno della creazione, leggiamo “Dio vide quanto aveva fatto ed ecco, era cosa molto buona” (Genesi 1.31) oppure, in negativo, la constatazione prima del giudizio tramite il diluvio: “Iddio guardò la terra ed ecco, essa era corrotta, perché ogni uomo aveva pervertito la sua condotta sulla terra” (6.12). Molto usato in tutta la bibbia, a questo avverbio le concordanze dedicano circa cinque pagine molto fitte, tra le quali spiccano molti riferimenti non solo alla venuta del Cristo, ma anche a momenti particolari come al Suo ingresso in Gerusalemme, “Ecco, viene il tuo re”, alla “Vergine che concepirà e darà alla luce un figlio” e tanti altri.

L’ “Ecco” con cui si apre il primo cantico allude allora a un momento in cui il piano di Dio si raccorda alla storia umana e lo possiamo individuare tanto con la nascita di Gesù rivelata ai pastori, “Ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo” (Luca 2.10), quanto con l’inizio del Suo Ministero pubblico di cui Luca scrive “Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento»” (3.21,22).

Proseguendo nel cantico, il “servo” sarebbe stato sostenuto e l’ “eletto” avrebbe ricevuto il compiacimento del Padre. Ai due termini, “servo” ed “eletto”, viene anteposto il possessivo “mio”, quindi sta a qualificare un’appartenenza precisa, esclusiva, perché proprio quel popolo che avrebbe dovuto rappresentarlo sulla terra di fronte agli altri, testimoniando di Lui con una condotta santa, fallì preferendo portare la quotidianità al centro della propria vita come leggiamo dalle parole “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me” (Isaia 29.13). Certo, la stessa cosa la fanno molti nella Chiesa là dove il Nome di Cristo non è predicato correttamente e vengono a mancare uomini in grado di guidare, insegnare, ricordare che quella Parola “viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio” è la sola che può condurre alla vita eterna.

Così scrisse San Gregorio nel 300 circa: “Cos’è la Scrittura se non la lettera di Dio onnipotente alla Sua creatura? Cerca dunque di meditare ogni giorno la Parola del tuo Creatore. Impara a conoscere il cuore di Dio nelle parole di Dio. Così tu bramerai le realtà celesti con maggior desiderio e il tuo animo sarà preso con più ardore dalle gioie invisibili. Che lo Spirito riempia della Sua presenza la tua anima e riempiendola la renda più libera”. Parole importanti che rivelano, come molti passi, che non avendo la Chiesa nessun potere di salvare, ma solo quello di portare il Vangelo, se al suo interno lascia agire degli usurpatori, non solo fallisce nel proprio mandato, ma può scandalizzare e portare gli altri all’ateismo e all’abbandono. Non è un fatto nuovo, ma una realtà che si verificava già ai tempi antichi: “Per causa vostra, il nome di Dio è bestemmiato fra le genti” (Romani 2.24). Anche Tito 2.6-8 mette in risalto il fatto che la condotta fuori luogo di quanti si definiscono cristiani, causa lo screditamento del Vangelo: “Esorta ancora i più giovani ad essere prudenti– qualità che a loro manca quasi per natura – offrendo te stesso come esempio in opere buone: integrità nella dottrina, dignità, linguaggio sano e irreprensibile, perché il nostro avversario resti svergognato, non avendo da dire nulla di male contro di noi”.

Se la Chiesa non guarda a Cristo, di cui è detto nel passo in esame “Ho posto il mio Spirito su di lui”, fallirà inesorabilmente sostituendo alla carità e all’amore il potere, la tradizione, il rito, il denaro senza alcuna possibilità di poter riconoscere la presenza di Gesù nei suoi membri.

Altra caratteristica del “servo” e dell’ “eletto” è la discrezione con la quale opererà nel corso del Suo ministero terreno: la frase “Non griderà né alzerà il tono, non farà udire in piazza la sua voce” lo distacca immediatamente dalla metodologia dell’arrogante, vuoto e presuntuoso che, allora come oggi, cerca di farsi seguire dal prossimo ricorrendo alla cosiddetta arte oratoria, alla retorica, al convincere gli altri quasi fosse un venditore, tutte attività praticate dai Farisei. La mente umana cerca spesso l’effetto, le grandi manifestazioni, è convinta che la potenza di Dio debba sempre essere accompagnata, in quanto tale, da qualcosa di stupefacente. Ricordiamo che il profeta Elia non usò lo stesso metro valutativo quando, in 1 Re, leggiamo “Ed ecco che il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento, un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto, un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, il sussurro di una brezza leggera. Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna” (19.11-13).

Nel non spezzare “la canna incrinata né la fiamma smorta”, che nel linguaggio simbolico allude alla misericordia, vediamo l’opera di soccorso del Figlio sull’uomo perché, invece di infierire su elementi deboli, al contrario li raddrizza, cura e ravviva. Perché non sono i sani ad avere bisogno del medico. Il “servo” avrebbe allora compiuto la sua missione con modestia e pacatezza, non sferzando il popolo per indurlo a conformarsi a nuove regole, ma trasformando interiormente chi si lascia trasformare. Perché si possono insegnare tante cose, ma non l’amore.

Proclamerà il diritto con verità”, compito riservato ai re, ai sacerdoti e magistrati se inteso da un punto di vista giuridico, ma se interpretiamo “diritto” come dottrina (Torah), allora si tratta di compito riservato ai profeti per cui l’ “eletto” assolverà a queste quattro funzioni. Egli “non verrà meno e non si abbatterà, finché…” cioè esiste un’opera incessante da parte sua, quel non aver “dove posare il capo” per tutto il periodo del ministero terreno. L’opera del Servo vediamo avrà un termine che verrà espresso nelle parole “Tutto è compiuto” con cui Gesù si riferisce tanto al fatto che non aveva trascurato nulla nella Sua opera che si concludeva alla croce, quando al futuro, alle conseguenze che la Sua morte avrebbe portato: Agnello di Dio innocente che toglie il peccato del mondo, ma anche apertura della porta in cielo per quanti avrebbero voluto varcarla credendo in Lui.

Si può quindi citare Colossesi 2.9-14: “È in lui che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità, e voi partecipate della pienezza di lui, che è il capo di ogni Principato e di ogni Potenza.  (…) Con lui Dio ha dato vita anche a voi, che eravate morti a causa delle colpe e della non circoncisione della vostra carne, perdonandoci tutte le colpe e annullando il documento scritto contro di noi che, con le prescrizioni, ci era contrario: lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce”. Eppure gli ebrei, per i quali fondamentalmente il Servo è venuto, ne rifiutano il sacrificio in quanto la Bibbia non ammette il sacrificio umano, confondendo il Gesù uomo con l’Agnello di Dio.

Quindi, tornando a noi: chi crede, ha fatto proprio il Vangelo credendo in Gesù Cristo, è partecipe della Sua pienezza. Con la Sua risurrezione ha dato vita anche a noi, morti per le colpe e la nostra non appartenenza al popolo eletto. “Il documento scritto contro di noi” è la Legge nel suo complesso, annullata quanto a potere di condannare l’uomo privandolo della possibilità di essere vivificato da Dio: “Anche voi eravate morti per le vostre colpe e i vostri peccati, nei quali un tempo viveste alla maniera di questo monto, seguendo il principe delle potenze dell’aria, quello spirito che opera negli uomini ribelli.(…) Ma Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo. Per grazia infatti siete stati salvati” (Efesi 2.1.2; 4,5). Ebbene questo documento scritto è stato “tolto di mezzo, inchiodandolo sulla croce” cioè:  Gesù è stato tolto dalla croce per essere deposto nel sepolcro ed è risuscitato dopo tre giorni, ma la Legge è ancora là, su quel legno, senza più alcun potere. I dieci comandamenti certo restano l’eterna misura del bene e del male, ma non sono più causa di morte come un tempo; se mai di responsabilità perché dal loro rispetto dipenderà la posizione che avremo nel Regno, le “molte” o “poche battiture”, la comunione con Lui nel cammino terreno, l’essere salvati “come attraverso il fuoco” oppure no.

Ecco, anche questo fa parte di quell’ “insegnamento” che le “isole” aspettano: il Vangelo, potenza di Dio per chiunque crede. Amen.

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07.16 – CHI È COSTUI? (Marco 4.41)

7.16 – Chi è costui (Marco 4.41)

 

41E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?»”.

 

In questo capitolo ci occuperemo della domanda riportata nel verso 41. Se ci interrogassimo sui dati che i discepoli potevano avere a disposizione dalle Scritture e dalla loro esperienza personale per rispondere, potremmo circoscriverli all’interno di due gruppi: uno riguarda alcune manifestazioni di Dio prima di quell’episodio, un altro è costituito da cinque cantici presenti nel libro del profeta Isaia che affronteremo nei capitoli successivi. Abbiamo quindi due gruppi di argomenti da affrontare, uno semplice che teoricamente sarebbe stato alla loro portata, un altro più complesso, forse più di competenza di uno scriba o un dottore della Legge.

Abbiamo letto che dopo il miracolo della tempesta sedata i discepoli si chiesero chi Gesù fosse alla luce di ciò che sapevano di lui, ma quali erano gli elementi di cui potevano disporre per darsi una risposta? Teniamo presente che non era stata ancora rivolta a loro la domanda “La gente chi dice che io sia? (…) e voi chi credete che io sia?”, fatta in un momento preciso per verificare l’idea che loro, e non la gente comune, si erano fatti di lui.

Facciamo allora mente locale: quegli uomini si erano trovati di fronte a un personaggio che guariva da ogni infermità, possessioni demoniache comprese. Avevano ascoltato con indubbio interesse le dispute coi farisei e gli scribi sul fatto che gli uni sostenevano che cacciasse i demoni con l’aiuto del loro principe e la confutazione di questa teoria, e ora scoprono di avere a che fare con uno che viene obbedito anche dal vento e dal mare. Nonostante questo si chiedono chi sia. Lasciamo stare il nostro punto di vista al riguardo e andiamo al loro perché il popolo di Israele sapeva che solo Dio poteva dominare gli elementi naturali e usarli come avesse voluto. E teniamo presente che la stessa cosa la può fare Satana, se gli è concesso: ricordiamo che nel caso di Giobbe, prima di intervenire a suo danno, chiese il permesso a YHWH e, cronologicamente, fu il responsabile di questi eventi: come gli comunicarono i suoi servi, “I Sabei hanno fatto irruzione, li hanno portati via e hanno passato a fil di spada i guardiani. Sono scampato soltanto io per raccontarlo” (1.15); poi “Un fuoco divino – perché allora si riteneva che solo Dio potesse agire così – è caduto dal cielo: si è appiccato alle pecore e ai guardiani e li ha divorati. Sono scampato solo io per raccontartelo” (v.16). Infine al verso 18 “I tuoi figli e le tue figlie stavano mangiando e bevendo vino in casa del loro fratello maggiore, quand’ecco un vento impetuoso si è scatenato da oltre il deserto: ha investito i quattro lati della casa, che è rovinata sui giovani e sono morti”.

Le forze ostili che possono riversarsi sui credenti, dalle persecuzioni, alla malattia fino agli elementi naturali, trovano così la loro origine in questo personaggio che può scatenarsi su di loro per combatterli come poi per la cristianità è avvenuto tramite un potere religioso (gli ebrei che aizzarono le persecuzioni della Chiesa nella Roma antica e nell’Asia Minore) o politico (la Roma imperiale). La stessa cosa accade anche oggi in molte parti del mondo, per quanto non (ancora) in Europa.

Se il caso dei discepoli non ha nulla a che vedere con quello di Giobbe, citato per descrivere le possibilità che ha l’Avversario, gli scritti dell’Antico Patto hanno precisi riferimenti agli interventi di Dio sugli elementi naturali: ricordiamo il primo, il diluvio, quando “si ruppero tutte le sorgenti del grande abisso e le cateratte del cielo si aprirono. Cadde la pioggia sulla terra per quaranta giorni e quaranta notti” (Genesi 7.11,12). Abbiamo poi la distruzione delle città di Sodoma e Gomorra in cui “Il Signore – non Satana – fece piovere fece piovere dal cielo fuoco e zolfo proveniente dal Signore” (19.23). Ricordiamo che Dio intervenne nella fisiologia di Sara, Rachele, Anna ed Elisabetta rendendole fertili, la discesa della manna dal cielo per sfamare il popolo di Israele in cammino verso la terra promessa (Esodo 16), prima ancora il giudizio sull’Egitto tramite le dieci piaghe, la divisione delle acque del Mar Rosso per far passare il popolo cui si contrappose l’annientamento dell’esercito del faraone che lo seguiva, l’esaudimento della preghiera di Giosuè quando non tramontò il sole in modo che i Gabaoniti fossero sconfitti.

Per intervento di Elia, profeta che pregò il Signore perché così avvenisse, non piovve sul regno d’Israele per tre anni e sei mesi a causa del comportamento del re Acab, marito di Gesabel, che “…fece ciò che è male agli occhi dell’eterno più di tutti quelli che l’avevano preceduto” (1 Re 16.29-33).

Abbiamo così tre soggetti che possono intervenire sugli elementi naturali: partendo dal basso verso l’altro abbiamo visto Satana, ma deve essergli permesso e soprattutto non si ferma nel suo intento distruttivo per cui non può cacciare se stesso, in altre parole smettere. Per farsi ubbidire dal vento e dal mare, quindi, Gesù non poteva certo utilizzare il “principe dei demoni” come sostenevano i suoi avversari.

Il secondo soggetto è un profeta o un re benedetto dal Signore: ricordiamo i molti miracoli operati da Elia ed Eliseo o, per andare a tempi più remoti, dallo stesso Mosè; ma se Gesù aveva definito Giovanni Battista come il profeta più grande e non miracoli non ne compì, che pensare? Nostro Signore, se fosse stato un profeta, avrebbe potuto intervenire sulla barca in mezzo al lago, come fece. Ma la domanda dei discepoli rimase: chi è costui? Quindi non fecero la connessione tra l’essere profeta e sedare la tempesta.

Restava allora il potere che Dio ha, come abbiamo visto brevemente, di intervenire. E qui non solo avrebbe dovuto entrare in gioco la memoria relativa agli eventi narrati nei rotoli della Bibbia, ma soprattutto quella di ciò che fu udito al battesimo di Gesù: “Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento” (Matteo 3.17). Chi quindi poteva essere, se non il Figlio di Dio, quindi Dio stesso?

Credo si tratti di un’associazione elementare che chiunque oggi può fare se in possesso degli elementi basilari che abbiamo visto, ma loro erano lì, terrorizzati, con le onde che si versavano sulla barca facendola affondare, un evento che forse non avevano mai sperimentato in quel modo e quando, venuta la calma all’improvviso, tutto il loro timore svanì, fu come se si fossero svegliati da un incubo che però tale non era perché erano coscienti di cosa avevano vissuto, per cui non furono in grado di ragionare correttamente. La loro natura li aveva dominati e la paura si impadronì di loro quando capirono che tutta l’esperienza e perizia che avevano acquisito negli anni a pilotare barche facendo fronte a venti e correnti, non sarebbe servita a nulla. In quel momento scoprirono che l’uomo, quando esaurisce le sue competenze a fronte delle difficoltà, senza l’aiuto di Dio non può che cedere con angoscia senza alcuna possibilità di riuscita.

I discepoli avevano con loro sulla barca una persona importante che tante volte li aveva rassicurati: orgogliosi di seguirlo, non avevano dato peso alla fatica del cammino lungo le strade di Israele, del disprezzo delle autorità religiose e dei loro conoscenti osservanti la Legge; avevano visto miracoli, sentito tanti insegnamenti e aggiornamenti sulle Scritture, ma lì il pericolo di morire era quanto mai reale e, compreso che tutta la loro esperienza non li avrebbe portati da nessuna parte, lo svegliarono senza pensare che, se l’Emanuele, il “Dio con noi” dormiva, in realtà di pericolo non ce n’era. Già avere con loro Gesù avrebbe dovuto essere sufficiente.

A questo punto il rimprovero che fu mosso ai discepoli presenti lo vedo appartenente al loro passato – ma allora non potevano saperlo – poiché dalle notizie storiche o dal libro degli Atti in cui compaiono Pietro, Giacomo e altri, sappiamo che la paura incontrollata non rientrò più nelle loro esperienze, anzi. Dall’altra, nella paura, vedo la vera disperazione che si impossesserà degli uomini della “gran tribolazione” quando vedranno sgretolarsi tutte le loro sicurezze all’apertura del sesto sigillo: “Allora i re della terra e i grandi, i capitani, i ricchi e i potenti, e infine ogni uomo, schiavo o libero, si nascosero tutti nelle caverne e fra le rupi dei monti; e dicevano ai monti e alle rupi: «Cadeteci addosso, nascondeteci dalla presenza di colui che siede sul trono e dall’ira dell’Agnello; perché è venuto il giorno della sua ira. Chi può resistere?» (Apocalisse 6.15-17).

Proviamo ad esaminare brevemente questi versi: appartengono ad un tempo in cui vi sarà una distruzione materiale che rientra nei giudizi di Dio che si manifestarono in passato – ma qui sono futuri, vicini al tempo dichiarato della fine – ai quali i credenti, come Noè ai tempi e poi Lot e la sua famiglia, scamparono sempre. Vediamo i profili menzionati degli uomini che cercheranno di nascondersi: saranno “tutti” indipendentemente dal loro ruolo nella società, ma emergono capi di stato, visti nei “re della terra”, i dispensatori di morte e ogni sorta di crimine legalizzato (“i capitani”), i cinici detentori degli imperi finanziari dai quali ogni senso di pietà è assente e tutti coloro che hanno basato la loro prosperità ingannando e facendo soffrire gli altri (“i ricchi e i potenti”). Certo, anche persone comuni, “ogni uomo, schiavo o libero”.

L’apertura del sesto sigillo è descritta così: “…e si fece un gran terremoto; il sole diventò nero come un sacco di crine, e la luna diventò tutta come sangue; le stelle del cielo caddero sulla terra come quando un fico scosso da un forte vento lascia cadere i suoi fichi immaturi. Il cielo si ritirò come una pergamena che si arrotola e ogni montagna e ogni isola furono rimosse dal loro luogo” (v. 12-14). Non ci sarà la presenza di Gesù, addormentato da svegliare; l’unica preghiera possibile sarà quella pagana, rivolta a soggetti che non possono sentire né rispondere: “Cadeteci addosso”. Perché, come leggiamo in Gioele 2.11 “Il giorno del Signore è grande e assai terribile; chi potrà sostenerlo?”.

Ho usato un termine, “preghiera pagana”, qui usata nel suo senso peggiore perché non ci troviamo di fronte ai pagani “storici” che, privi di rivelazione, si inventano un dio, ma a uomini e donne che hanno deliberatamente rifiutato quello vivente e vero. Troviamo infatti altrove: “Il resto dell’umanità che non fu uccisa da questi flagelli, non si convertì dalle opere delle sue mani; non cessò di prestare culto ai demoni e agli idoli d’oro, d’argento, di bronzo, di pietra e di legno, che non possono né vedere, né udire, né camminare; e non si convertì dagli omicidi, né dalle stregonerie, né dalla prostituzione, né dalle ruberie” (9.20).

I discepoli, nella loro pochezza di allora, conobbero la paura in un ambiente che, senza la presenza di Gesù, li avrebbe sopraffatti e gli si rivolgono per avere aiuto usando parole che forse non avrebbero mai impiegato in altre circostanze. Allora il Maestro era presente: riportò la calma non senza averli rimproverati per la loro mancanza di fede, il non aver compreso che non può esservi timore se l’Emmanuele ci è vicino. La stessa cosa non avverrà per gli uomini accecati dal proprio orgoglio al tempo della fine.

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07.15 – LA TEMPESTA SEDATA (MARCO 4.35-41)

7.15 – La tempesta sedata (Marco 4.35-41)

 

 

35In quello stesso giorno, venuta la sera, disse loro: «Passiamo all’altra riva». 36E, congedata la folla, lo presero con sé nella barca. C’erano altre barche con lui. 37Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. 38Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?». 39Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. 40Poi disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?» 41E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?»”.

 

Episodio raccontato a Marco da Pietro che era presente, avviene subito dopo (o quasi) le parole dette al discepolo irrisoluto che voleva, prima di seguire Gesù, andare a salutare quelli di casa sua. Quanto si verificò sulla barca nella traversata può essere affrontato sotto molti aspetti e poiché molti lo hanno già sviluppato sotto quello della fede che i discepoli non riposero sufficientemente sul loro Maestro, sul mare e la tempesta figura delle difficoltà anche apparentemente insormontabili che capitano nella vita (ma non solo), preferisco soffermarmi sulle conoscenze che avevano quanti erano al seguito di Nostro Signore, sulle dinamiche che portarono al rimprovero per la mancanza di fede nei discepoli e sul verso 41 col quale Marco conclude la sua cronaca.

Dalle parole “In quello stesso giorno” e “venuta la sera” possiamo rilevare l’instancabilità di Gesù perché ci obbligano a considerare cosa fosse avvenuto: ricordiamo che al mattino Nostro Signore aveva ricevuto i discepoli di Giovanni Battista e parlato alla folla, poi aveva pranzato a casa di Simone il fariseo, quindi aveva esposto le parabole del regno spiegandole ai discepoli; poi, sentito che la madre e i fratelli lo cercavano, ne aveva approfittato per dichiarare il nuovo stato di parentela che avrebbero avuto con lui tutti coloro che avrebbero fatto la Sua volontà. Stando al racconto di Marco, ricollegandoci all’intervento dei suoi parenti, vi fu anche una discussione con alcuni farisei “scesi da Gerusalemme” che lo accusavano di cacciare i demoni tramite il loro capo e avevano concluso che fosse “posseduto da uno spirito impuro”. Veramente, con quelle azioni, Gesù confermava al discepolo desideroso di seguirlo, salvo prima salutare quelli di casa sua, che il Figlio dell’uomo non aveva “dove posare il capo”. Allo stesso modo possiamo dire che Lui era quello che aveva “messo mani all’aratro” per primo e non poteva distrarsi né voltarsi indietro pensando alle Sue esigenze materiali: nonostante fosse stanco al punto da addormentarsi lungo il tragitto per l’altra riva del lago, volle partire.

Ecco, qui va fatta una prima precisazione sulla sua scelta di attraversare il mare di Galilea recandosi per la prima volta in un territorio che potremmo definire anche pagano abitato da Nabatei, Aramei (ma anche Ebrei), le cui città principali erano centri di cultura greca e romana. Si trattava di un territorio misto, poiché la radice di “Gadara”, come vedremo anche nell’episodio degli indemoniati, richiama la tribù di Gad che, assieme a quella di Ruben e alla metà di quella di Manasse, chiese a Mosè di non fargli passare il fiume Giordano, ma che gli fosse assegnato il paese di Galaad, ricco di pascoli, perché possedevano parecchio bestiame (Numeri 32).

Gesù poi sapeva che aveva un appuntamento con due indemoniati in quel territorio, ma ancora di più era necessario che i suoi discepoli capissero meglio chi Lui fosse. È infatti importante sottolineare che quelli che Lo seguivano, nonostante i Suoi interventi che ascoltavano nella Sinagoga, non sapevano spiegare le guarigioni dei ciechi, degli indemoniati, dei sordi e degli zoppi avendo di Lui una visione limitata dalla loro umanità. Per meglio dire, guardando solo il Vangelo di Marco, precedentemente Gesù aveva operato miracoli di guarigione sull’indemoniato di Capernaum (1.13), guarito la suocera di Pietro (1.29) ed altri ammalati e indemoniati in Betsaida (1.32), del primo lebbroso (1.40) ma, come scrisse un fratello, «tutti quei miracoli non convinsero comunque i suoi discepoli perché, per loro, il Messia doveva ripetere le gesta di Davide, come rileviamo dalle parole che gli dissero i due incamminati per Emmaus, “noi speravamo che fosse lui a liberare Israele”: Gesù doveva liberare il popolo dal dominio romano e diventare il risolutore di tutti i suoi problemi esistenziali, regnare con lui.

Se quindi i discepoli avevano del loro Maestro un’opinione imprecisa, dall’altro erano persone, se non tutti molti di loro, che con l’acqua avevano esperienza essendo pescatori e possiamo supporre che, conoscendo essi il territorio, nulla lasciasse presagire l’avvicinarsi di una tempesta, evento comunque non insolito in quel lago perché non era raro che si sprigionassero delle violente correnti di vento provenienti dai monti circostanti, causando seri problemi ai naviganti. La partenza avvenne così: “Gesù salì su una barca con i suoi discepoli (…) e presero il largo” (Luca 8.22) quindi le barche furono diverse, così come sappiamo molte essere le persone al Suo seguito. È facile dedurre che la barca con Gesù fosse in testa alle altre e che a un certo punto il vento cominciò a soffiare, ma la cosa singolare fu che tutti i sinottici concordano nel riportare che la tempesta si abbatté solo su quella in cui stava Nostro Signore, che dormiva a poppa, e non sulle altre. Scrive un fratello in proposito che “alla tranquillità di Gesù fa contrasto la paura che prende i discepoli, benché fossero abili nuotatori, incontrollati e aggressivi: “Maestro, non t’importa che siamo perduti?”, frase che suona come un rimprovero perché, se Gesù fosse morto, anche il loro sogno di gloria sarebbe svanito”. E tutti i testi dei tre evangelisti concordano su come andò a finire l’episodio; a parte Marco, gli altri scrivono “Minacciò i venti e il mare e ci fu grande bonaccia” (Luca 8,24 praticamente identico in Matteo).

A questo punto occorre considerare più approfonditamente gli elementi che avrebbero avuto i discepoli per capire chi fosse realmente il loro Maestro, e la frase finale, la loro “grande domanda” “Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli ubbidiscono?” (v. 25), tutti compresi nel rimprovero “Dov’è la vostra fede?”.

Per iniziare è bello considerare che il miracolo appena avvenuto fu profetizzato nel Salmo 107.25-29: “Egli parlò e fece levare un vento burrascoso che sollevava flutti – quindi il primo scopo di quel viaggio fu rivelarsi ai discepoli in una forma che non conoscevano –. Salivano fino al cielo, scendevano negli abissi, la loro anima languiva nell’affanno. Ondeggiavano e barcollavano come ubriachi, la loro perizia era svanita. Nell’angoscia gridarono al Signore ed Egli li liberà dalle loro angustie. Ridusse la tempesta alla calma, tacquero i flutti del mare. Si rallegrarono nel vedere la bonaccia ed Egli li condusse al porto sospirato. Ringraziarono il Signore per la sua misericordia e per i suoi prodigi a favore degli uomini”.

Possiamo poi confrontare il comportamento di questi discepoli (mi chiedo se ci fossero tutti i dodici sulla barca) con quello tenuto dall’apostolo Paolo quando, condotto prigioniero a Roma, subì il naufragio della barca che lo trasportava. In Atti 27 leggiamo di una tempesta durata diversi giorni: “Eravamo sbattuti violentemente dalla tempesta e il giorno seguente cominciarono a gettare in mare il carico, il terzo giorno con le proprie mani buttarono via l’attrezzatura della nave. Da vari giorni non comparivano più né sole né stelle e continuava una tempesta violenta, ogni speranza di salvarci era ormai perduta” (vv.18-20). Paolo disse all’equipaggio “…mi è apparso un angelo di Dio al quale appartengo e che servo, dicendomi: «Non temere, Paolo: tu devi comparire davanti a Cesare ed ecco, Dio ti ha fatto grazia di tutti i tuoi compagni di navigazione. Perciò non perdetevi di coraggio, uomini; ho fiducia in Dio che avverrà come mi è stato annunciato. Ma è inevitabile che andiamo a finire su qualche isola. (…) Finché non spuntò il giorno, Paolo esortava tutti a prendere cibo. (…) Ciò detto prese il pane, rese grazie a Dio davanti a tutti, lo spezzò e cominciò a mangiare”.

Prima di esaminare ciò cui i discepoli non avevano pensato, è importante soffermarsi sul vento, figura di dottrine estranee alla Parola che nuocciono gravemente alla salute spirituale del credente: è importante formarsi stabilmente “…affinché non siamo più come fanciulli sballottati dalle onde e portati qua e là da qualsiasi vento di dottrina secondo l’inganno degli uomini con quell’astuzia che tende a trarre nell’errore” (Efesi 4.4).

Giacomo poi aggiunge “Se qualcuno di voi manca in sapienza, la domandi a Dio che dona a tutti generosamente e senza rinfacciare, e gli sarà data. La domandi però con fede, senza esitare, perché chi esita somiglia all’onda del mare mossa e agitata dal vento. Non pensi di ricevere qualcosa dal signore un uomo che ha l’animo oscillante e instabile in tutte le sue azioni” (1.6)

Inevitabile poi il confronto con la parabola delle due case, quella costruita sulla sabbia e sulla roccia: “Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti che si abbatterono su quella casa, ed essa non cadde, perché era fondata sulla roccia. Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica, è simile ad un uomo stolto che ha costruito la sua casa sulla sabbia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa cadde, e la sua rovina fu grande” (Matteo 7.27). Sono due costruzioni identiche, ma su una diverso terreno, fondamento, in una parola: fede. La prima domanda, implicita dalla lettura di questo episodio, è appunto questa: su quale terreno stiamo costruendo e quale sia il nostro destino, rovina o scapato pericolo.

La seconda domanda invece è propria, relativa a quanto abbiamo letto ed è Gesù stesso a porla. C’è chi ha annotato in proposito che “i discepoli, dopo lo scampato pericolo, credevano che tutto fosse tornato come prima, ma non fu così per Gesù che disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?»” oppure, secondo Luca 8.25, “Dov’è la vostra fede?”.

Timore e paura sono emozioni che fanno parte del quadro della vita come sorte naturale che Adamo ed Eva trasmisero a tutti gli uomini, come leggiamo quando Adamo rispose “Ho udito il tuo passo nel giardino e ho avuto paura perché sono nudo e mi sono nascosto”. Avere paura significa essere dominati da ogni situazione, da ogni circostanza incognita, mentre la fede riesce a dominare ogni avvenimento perché non fa affidamento sull’uomo, ma su Dio che lo ha creato. Pensiamo ai problemi che incontriamo ogni giorno, a quelli del lavoro, della malattia, alla morte stessa. Adamo dunque, conobbe questo sentimento a seguito del peccato commesso e mai l’aveva provata prima, parlando con Dio faccia a faccia.

Tornando al nostro episodio, non rileviamo dai sinottici che i discepoli risposero; in compenso emerge uno stupore immenso, fuori luogo: si domandano chi fosse quell’uomo cui obbedivano persino il vento ed il mare. In compenso, dopo quest’episodio, le persone al seguito di Gesù iniziarono a capire e a trattenere nel loro cuore e nella loro mente che Lui era il Figlio dell’Iddio vivente, perché furono concordi con la frase di Pietro “Tu solo hai parole di vita eterna” (Giovanni 6.66).

Restano alcune cose da esaminare, come i paralleli negli scritti dell’Antico Patto sulla figura di Gesù e le volte in cui YHWH si rivelò padrone sugli elementi del creato, che rimandiamo a un prossimo capitolo.

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07.10 – LE PARABOLE DEL REGNO 9: IL SEME (MARCO 4.26-29

7.10 – Le parabole del regno 9 (Il seme, Marco 4.26-29)

 

“26Diceva: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; 27dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non sa. 28Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; 29e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura».

 

            Così come avvenuto per le parabole del granello di senape e del lievito, anche l’ottava e la nona di Marco sono strettamente collegate fra loro perché parlano una dell’opera dello Spirito (la lampada) e la seconda (il seme gettato sul terreno) di come questo agisce, indipendentemente dalla volontà umana, da quando l’uomo riceve il seme della Parola. Anche questa parabola è complessa perché è suscettibile a più interpretazioni anche se dai termini impiegati, seme – terreno – spiga – mietitura, possiamo riferirla prima di tutto al fatto che il Regno è presente e cresce comunque: non sono gli uomini che gli danno forza, né le resistenze che possono opporgli, viste nelle persecuzioni e gli ostacoli, sono in grado di indebolirne lo sviluppo. C’è infatti un percorso stabilito, inevitabile perché la crescita del seme nel terreno avviene a prescindere dal fatto che sia giorno, quando gli uomini si affaccendano, o notte, quando solitamente dormono. Non si ferma mai.

E la chiave della parabola la troviamo nel “Come, egli stesso non sa”, che si riferisce chiaramente ai limiti della conoscenza dell’essere umano e al fatto che la sua vita è comunque circoscritta nei limiti della sua stessa esistenza: possiamo studiare, cercare di capire l’universo, i meccanismi della biologia, della chimica, indagare, clonare, arrivare alla realizzazione di strutture artificialmente intelligenti come nel nostro tempo, ma sempre senza poter oltrepassare, appunto, i limiti che ci sono stati dati. Consideriamo attentamente le parole “L’orgoglio del tuo cuore ti ha ingannato, o tu che abiti nei crepacci delle rocce e stabilisci la tua dimora in alto: tu dici in cuor tuo «Chi potrà farmi precipitare a terra?» Anche se tu ponessi il tuo nido fra le stelle, di lassù ti farei precipitare”. (Abdia 1.3,4).  Certo quello del non sapere come un seme si sviluppa oggi è un dato superato, ma va inquadrato nel tempo in cui quelle parole furono pronunciate.

Nella parabola ci sono due soggetti, l’uomo che getta il seme, ma non sa come cresca, e il seme stesso che si sviluppa da sé fino alla maturazione e mietitura.

Personalmente ritengo che sia sul “non sapere” che debba essere posta la prima sottolineatura, perché, come detto prima, indica un limite. E di limiti l’uomo ne ha tanti. Alcuni sono delle pareti di carta che riesce a sfondare con poco sforzo, altre di materiale più robusto, ma con costanza e gli strumenti adatti possono venire abbattute, ma altri confini sono invalicabili; l’intelligenza umana stessa non può andare oltre un punto stabilito e così la vista, la conoscenza e quant’altro possiamo fare. Se i versi che esamineremo fra breve si rifanno alla limitata conoscenza che avevano gli uomini nel tempo in cui sono stati scritti, bisogna tener presente che al sapere oggi raggiunto non corrisponde una risposta morale soddisfacente, vista ad esempio nel cercare e trovare conferme alle verità contenute nella Scrittura, ma alla presa di un ascensore per l’orgoglio e una spietata volontà di autonomia.

Salomone in Ecclesiaste 11.5 scrive “Come tu non conosci la via del soffio vitale né come si formino le membra nel grembo di una donna incinta, così ignori l’opera di Dio che ha fatto”. Ancora Giovanni 3.8 quando, parlando con Nicodemo, Gesù gli disse “Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene, né dove va”. In Proverbi 27.1 leggiamo “Non vantarti del domani, perché non sai neppure cosa genera l’oggi”.

Tre citazioni, tre ignoranze: se allora non si sapeva come si sviluppava un feto, oggi la scienza non ti può spiegarne il perché ultimo. Se oggi si conoscono le correnti e come si formano i venti, il linguaggio dello Spirito che del vento è figura resta incomprensibile a chi non lo possiede o non si sente attratto da Lui. E per il domani, visto come ciò che avverrà alla persona, nessuno è in grado di prevederlo. Ecco perché mi riferivo al limite che l’uomo non può superare: può solo realizzare, a volte, dei grandi effetti speciali, ma non pervenire all’essenza delle cose, al loro significato spirituale che poi è l’unico in grado di resistere, di far passare dalla dimensione del tempo a quella dell’eternità. E questo è un principio che solo chi crede davvero, chi è “nato di acqua e di spirito” può condividere. E riguardo all’ignoranza umana, credo che il capitolo 38 del libro di Giobbe, che non riporto per ragioni di spazio ma suggerisco di leggere attentamente, sia un monumento al riguardo.

Partendo dagli scritti dell’Antico Patto, vediamo un primo aspetto della conoscenza che Dio ha nei confronti dell’essere umano: “Signore, tu mi scruti e mi conosci, tu sai quando mi siedo e quando mi alzo, intendi da lontano i miei pensieri, osservi il mio cammino e il mio riposo, ti sono note tutte le mie vie” (Salmo 139.1,3). “Scrutare” è il primo verbo impiegato dal salmista; è molto impegnativo perché significa “Guardare, esaminare attentamente per scoprire o comprendere ciò che non si manifesta o non si capisce a uno sguardo o a un esame affrettato o superficiale”, o anche “Indagare, esaminare a fondo per cogliere aspetti difficili da penetrare”. Questa è la cura che Dio ha nei confronti degli uomini per vagliarli e provvedere a loro. “Conoscere”, secondo verbo, equivale ad “Avere una cognizione ampia e approfondita di qualcosa”. Dio quindi scruta e conosce la persona nel proprio intimo, nelle sue profondità, sa le nostre azioni una per una.

Più avanti, verso spiegato con le parole “Dio è luce e in lui non ci sono tenebre” (1 Giovanni 1.5), troveremo “Nemmeno le tenebre per te sono tenebre e la notte è luminosa come il giorno; per te le tenebre sono come luce” (Salmo 139.12).

Infine, da Geremia 15.15 “Tu sai tutto, o Eterno, ricordati di me” a Giovanni 2.25 “Lui stesso conosceva quello che era nell’uomo”, credo che possiamo avere un quadro sufficiente di quello che può essere la risposta al tema di ciò che l’uomo ignora contrapposto alla vera, assoluta scienza di Dio: in lei è la perfezione, la luce, l’assoluto, ma anche una sorprendente apertura a un essere imperfetto, spesso ricco di ombre, minimo come l’uomo che tuttavia, quando passa dallo stato di semplice creatura a quello di figlio di Dio, viene posto in una condizione della quale non può non approfittare: “Chi infatti conosce i segreti dell’uomo se non lo spirito dell’uomo che è in lui? Così i segreti di Dio nessuno li ha mai conosciuti se non lo Spirito di Dio. Ora, noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio per conoscere ciò che Dio ci ha donato” (1 Corinti 2.11,12). Capiamo? Le due realtà contrapposte, quella umana e quella divina, s’incontrano nel momento in cui l’uomo riceve lo Spirito di Dio per “conoscere” ciò che Lui ci ha donato. Qui sta la scienza, l’unica che valga davvero la pena di sviluppare, indagare, “scrutare” secondo il senso che abbiamo visto poc’anzi.

Sapere e non sapere, dunque. Un sapere che non genera orgoglio o presunzione, ma è attento e non si dà pace fino a quando ciò che non si sa non viene alla luce. E a volte ci vogliono anni perché questo avvenga, se in noi vi è l’onestà di chi è veramente semplice e non dà per scontato ciò che impara da letture più o meno buone. Mi viene in mente Socrate e il suo “So di non sapere”; chissà come avrebbe reagito di fronte a Gesù sentendolo parlare, lui che probabilmente era un onesto.

E a proposito di questo, “sapere” e “non sapere” sono aspetti importanti della nostra vita più profonda perché indicano anch’essi il nostro limite umano e spirituale: come credenti, dovremmo conoscerli, dovremmo sapere fino a che punto possiamo spingerci con noi stessi e con gli altri, per non tradire entrambi e fallire assumendo inevitabilmente atteggiamenti non nostri che finirebbero per ingannare e illuderci per primi. Una casa costruita sulla sabbia. E finiremmo per diventare sterili. E tornano i versi che a volte citiamo indirizzati alla Chiesa di Laodicea, convinta di essere ricca: “Non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo” (Apocalisse 3.17). Tra l’altro, a conferma della nostra impotenza assoluta senza la presenza dello Spirito Santo, l’apostolo Paolo dice che non saremmo nemmeno in grado di pregare, cioè parlare con Dio: “Noi – cioè il nostro uomo naturale –non sappiamo pregare come si conviene, ma lo Spirito interviene per noi con sospiri ineffabili” (Romani 8.26).

Sviluppato a grandi linee il tema del “Come, egli stesso non sa”, possiamo fare altrettanto con quello del seme, anch’esso dai molti significati: di base possiamo dire che questo si riferisce, nella dispensazione della Grazia, al Vangelo, alla Parola di Dio che germoglia nel cuore dell’uomo che lo accoglie e in questo caso porta un frutto buono e accettato dal Creatore. Il seme è anche la Parola stessa, che cresce indipendentemente, come detto all’inizio, dalle persecuzioni e dagli ostacoli che forze avverse gli frappongono per impedirne la crescita. In questo seme vediamo prima di tutto, alle origini, Nostro Signore stesso che, poco prima del suo arresto, disse ai suoi “L’ora è giunta che il Figlio dell’uomo dev’essere glorificato. In verità, in verità vi dico che se il granello di frumento, caduto in terra, non muore, rimane solo; ma, se muore, produce molto frutto” (Giovanni 12.24,25).

C’è una stretta, indispensabile relazione fra la morte (e resurrezione) di Cristo e la vita di chi in lui ha creduto: anch’esso prende vita e si sviluppa e la sua crescita non dipende tanto dai suoi sforzi, ma da Dio che lo guida; è un tema che l’apostolo Paolo sviluppa coi credenti della Chiesa di Corinto, afflitta da fazioni e dottrine varie che, in quanto greci, influivano nella loro vita: “Ciò che tu semini non prende vita se prima non muore– cioè cessa di essere una parola, un messaggio astratto per diventare vivo e stimolante –. Quanto a ciò che semini, non semini il corpo che nascerà, ma un semplice chicco di grano o di altro genere, e Dio gli dà un corpo come ha stabilito, e a ciascun seme il proprio corpo” (1 Corinti 15.36,37): la diversità è quindi una caratteristica che hanno i membri di una Chiesa, ciascuno differente. Un amico un giorno mi disse “Dio non ci vuole tutti uguali”, alludendo al fatto che, se fossimo tutti identici nei doni e nel pensare, la Chiesa sarebbe un corpo deforme, fatto di “telecomandati”, che dicono le stesse cose come accade per una setta religiosa che non è in grado di predicare cose diverse dalla propria dottrina, norme di comportamento, “verità” e dogmi. Perché il dio dell’uno è sempre migliore di quello dell’altro. E con la frase “A ciascun seme il proprio corpo” certo si stabilisce l’unitarietà di genere, ma non l’identità uniforme del dettaglio di un credo o di usanze, perché la fedeltà alle istruzioni che Gesù e gli apostoli ci hanno lasciato sono un tesoro di cui ciascuno è responsabile.

Ciò che compete all’uomo è valutare attentamente, pensare a ciò che fa di quel “chicco di grano o di altro genere” che in lui è seminato e cercare in tutti i modi di assecondare la sua crescita. Guardarsi dentro, valutarsi, pregare, constatare cosa avviene.

Quando il frutto è maturo, subito viene la falce”: anche qui per frutto si intende il regno sulla terra, la messe pronta per la mietitura finale più che la chiamata individuale, come altri interpretano pensando che Dio chiami quando abbiamo fatto tutto ciò che potevamo e abbiamo quindi finito il nostro compito: piuttosto ci è stato dato un tempo per agire di cui non conosciamo la durata né tantomeno la fine; sappiamo che “il giorno del Signore viene come un ladro di notte”, quindi che Lui torna quando il servo meno se lo aspetta e ne verifica l’operato.

Possiamo quindi concludere queste riflessioni con il Salmo 126.6: “Chi semina nelle lacrime, mieterà con gioia. Nell’andare se ne va piangendo, portando la semente da gettare, ma nel tornare, viene con gioia, portando i suoi covoni”. Amen.

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07.09 – LE PARABOLE DEL REGNO 8: LA LAMPADA (Marco 4.21-25(

7.08 – Le parabole del regno 8 (La lampada, Marco 4.21-25)

 

“21Diceva loro: «Viene forse la lampada per essere messa sotto il moggio o sotto il letto? O non invece per essere messa sul candelabro? 22Non vi è infatti nulla di segreto che non debba essere manifestato e nulla di nascosto che non debba essere messo in luce. 23Se uno ha orecchi per ascoltare, ascolti!». 24Diceva loro: Fate attenzione a quello che ascoltate. Con la misura con la quale misurate sarà misurato a voi; anzi, vi sarà dato di più.25Perché a chi ha, sarà dato; ma a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha.

 

            Prima di affrontare questa parabola è necessario considerare gli scopi che si prefigge ciascun evangelista: se da Matteo abbiamo saputo che le parabole del regno furono sette, non è detto che fossero in realtà di più e che abbia riportato quelle che, secondo lui, rappresentassero la totalità che poteva interessare i suoi lettori ebrei. Infatti, guardando alle parabole citate da Matteo, vediamo che parlano di tutto ciò che avviene nel cuore umano dal momento in cui viene eventualmente ricevuto il buon seme, diventando figlio di Dio, alle difficoltà e benedizioni che si scoprono fino alla costituzione del regno. Marco, dietro indicazioni di Pietro allora presente con gli altri agli insegnamenti di Gesù, aggiunge questa parabola e quella del seme informandoci che “Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa” (4.33) e sappiamo che più volte è riportato che erano i discepoli stessi a chiedergli spiegazioni in merito, sintomo di un interesse che gli altri uditori non avevano.

Abbiamo così la lampada, figura a noi già famigliare perché presa come esempio nel sermone sul monte quando si legge “…né si accende la lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono in casa” (Matteo 5,15). La lampada illumina, metterla “sotto un vaso o un letto”, come riporta Luca, non avrebbe senso e così è della fede, ma qui la lampada è impiegata con un significato più esteso. Alla luce delle parole del verso 22, vediamo qui la figura dello Spirito Santo e i suoi effetti, facendo luce all’ambiente che lo circonda. Nel buio, se ci pensiamo, è la luce la prima che vediamo per quanto, dando la sua presenza per scontata, ci soffermiamo su ciò che ci circonda. La lampada è necessaria per vedere nell’oscurità indipendentemente dal fatto che conosciamo o meno l’ambiente in cui ci dobbiamo muovere e, senza di lei, sarebbe facile inciampare, urtare, farci male.

Scrivendo ai Filippesi l’apostolo Paolo scrive “Fate tutto senza mormorare e senza esitare, per essere irreprensibili e puri, figli di Dio innocenti in mezzo a una generazione malvagia e perversa” (Filippesi 2.14,15). Il cristiano che quindi è tale non per un atteggiamento assunto allo scopo di darsi un contegno o aderire ad una religione, ma perché sa di avere trovato una ragione per vivere ed amare, si ritrova innocente “in mezzo a una generazione malvagia e perversa” che vive nelle tenebre, priva di luce. L’aggettivo “malvagio”, dal tardo latino “malifatius” cioè “che ha cattivo fato”, è riferito sia alle persone che operano il male compiacendosene, restando indifferenti alle conseguenze che esso provoca, ma anche a individui cattivi, avversi. Il termine “perverso”, poi, è un aggettivo tipico ad indicare chi è intimamente e ostinatamente incline a fare il male, provandone compiacimento, chi è mosso o improntato dalla volontà di farlo.

La lampada, quindi, che illumina gli ambienti bui, è la figura dello Spirito Santo che sarebbe un controsenso mettere sotto il moggio, recipiente che veniva usato come unità di misura per il volume del grano o simili, impedendole di fare luce.

Sempre Paolo, parlando dello Spirito, scrivendo ai Corinti dice che “A ciascuno è stata data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune: a uno infatti, per mezzo dello Spirito, viene dato il linguaggio di sapienza; a un altro invece, dallo stesso Spirito, il linguaggio di conoscenza; a uno, nello stesso Spirito, la fede; a un altro, nell’unico Spirito, il dono delle guarigioni; a uno il potere dei miracoli; a un altro il dono della profezia; a un altro il dono di discernere gli spiriti; a un altro varietà delle lingue; a un altro l’interpretazione delle lingue. Ma tutte queste cose le opera l’unico e medesimo Spirito, distribuendole a ciascuno come vuole” (1 Corinti 12.7,8).

Dalle parole “A ciascuno è stata data” vediamo che non esistono credenti che, se onesti, non abbiano ricevuto un dono di cui l’apostolo elenca i maggiori: di fatto, ognuno di loro ha una lampada, la stessa che ebbero le “dieci vergini” di un’altra parabola, con la quale illuminare il proprio cammino, portare luce e custodirla per l’arrivo dello Sposo; ecco perché nessuno può metterla sotto il moggio, ma deve averne cura e porla sul candelabro. Sarà poi il tempo a dimostrare se alla lampada, considerata la sua insostituibile funzione, verrà data la manutenzione necessaria “…per essere irreprensibili e puri, figli di Dio innocenti in mezzo a una generazione malvagia e perversa. In mezzo a loro voi risplendete come astri nel mondo, tenendo salda la parola della vita” (Filippesi 2.15).

Il fatto poi che la lampada non sia fissa, ma portatile, ci parla del fatto che è in grado di illuminare anche gli angoli che altrimenti resterebbero bui: chiarezza, onestà e trasparenza escludono allora l’ipocrisia, quindi la recitazione, l’assunzione di un ruolo o posizione davanti agli altri che in realtà non si ha, o ciò che viene fatto in segreto, quelle azioni o trame che gli altri non devono sapere. In poche parole, il “lievito dei farisei, che è ipocrisia” perché “non c’è nulla di nascosto che non sarà svelato, né di segreto che non sarà conosciuto” (Luca 12.1,2). Gli “angoli bui” talvolta vengono illuminati da altri che smascherano ciò che secondo le intenzioni dell’ipocrita doveva restare nascosto, altre volte restano tali, ma sono comunque destinati a venire alla luce un giorno, “quando il Signore verrà. Egli metterà in luce i segreti delle tenebre e manifesterà le intenzioni dei cuori; allora ciascuno riceverà da Dio la lode” (1 Corinti 4.5).

Qui l’apostolo scrive ai credenti sinceri, per cui parla di lode, ma sappiamo da varie parabole che non tutti la riceveranno, perché accanto a quel “Bene, servo buono e fedele”, c’è la condanna di quello “malvagio e fannullone” di cui è detto: “Quel servo inutile, gettatelo nelle tenebre di fuori. Lì sarà il pianto e lo stridore dei denti” (Matteo 25.30). Anche la frase finale  di questo episodio, “Chi ha orecchie per ascoltare, ascolti”, è un appello a coloro che, capendo, sarebbero stati ritenuti responsabili se non avessero agito di conseguenza. In questo caso “ascoltare” significa mettere in pratica, preoccuparsi di seguire le parole di grazia e verità che vengono dette per scampare al giudizio a venire.

Vediamo che qui Gesù dice subito “Fate attenzione a quello che ascoltate”: è un appello contro la distrazione, a non dare tutto per scontato come purtroppo avviene quasi sempre; “Fate attenzione” non significa adagiarsi su quei versi che tornano a nostro comodo, ma esaminare il comportamento che abbiamo alla luce delle aspettative di Dio, stare in guardia estendendo questo atteggiamento a tutti i campi della vita, compreso quello della fede: “Non prestate fede ad ogni spirito, ma mettete alla prova gli spiriti, per saggiare se provengono veramente da Dio, perché molti falsi profeti sono venuti nel mondo” (1.Giovanni 4.1).

Il verso 24 del nostro passo aggiunge “Con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi; anzi, vi sarà dato di più”. Qui Gesù va oltre l’ordine di astenersi dal dare giudizi sugli altri perché altrimenti verremo valutati proporzionalmente, ma parla di due destini, di due conseguenze che derivano dal nostro stesso operato: che il fratello non vada giudicato con intransigenza e severità era già stato detto nel sermone sul monte, ma qui la “misura”, pur riferita al principio del “giudizio senza misericordia contro chi non avrà avuto misericordia” (Giacomo 2.13), è connessa ai due comportamenti di “chi semina scarsamente e scarsamente raccoglierà” e “chi semina con larghezza, largamente raccoglierà. Ciascuno dia secondo quanto ha deciso nel suo cuore, non con tristezza né per forza, perché Dio ama chi dona con gioia” (2 Corinti 9.6).

Quel “vi sarà dato di più”, posto in connessione ai versi che abbiamo appena letto, ci consente di stabilire che nulla dev’essere fatto in modo forzato, che quel “scarsamente” e “largamente” non sono riferiti al poco o al tanto che uno riversa nel suo operare, ma vanno direttamente alla fonte, al donare con gioia senza che vi sia costrizione alcuna. Chi dona con gioia e non perché deve, testimonia di aver compreso e di essere in sintonia col Padre, agli antipodi di quegli ipocriti: “ma il cuore di questo popolo è lontano da me”. Porsi volutamente lontano da Dio è una scelta che porta a conseguenze molto tristi per tutti, ma per il credente sono disastrose perché da un lato non è né può essere quello che era prima, e dall’altro non fruttifica, non mette in rendita il talento lui affidato, diventa tiepido cioè assume quella posizione di neutralità e di insapidità che sono inammissibili per un cristiano salvo che non si trovi a vivere un periodo di difficoltà, di adattamento, in poche parole manifestazioni incidentali di “umanità” che possono sempre capitare e, mi viene dire, sono quasi inevitabili soprattutto quando si è giovani.

Ancora, quel “vi sarà dato di più”, si riferisce sicuramente alla vita futura, ma anche a quella presente, quella del cammino, perché “Ogni tralcio che in me non porta frutto(il Padre) lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché poti più frutto” (Giovanni 15.2): questo verso ci ricorda la cura che ha il Padre del tralcio, in cui Gesù con le parole “Io sono la vite, voi i tralci” identifica tutti coloro che hanno creduto in lui, a condizione che si verifichi il rapporto “rimanete in me, e io in voi”. Il tralcio infruttifero viene tagliato per evitare che tolga nutrimento agli altri, quelli utili, di cui il Padre si occupa personalmente perché fruttino di più. Capiamo? È come se ci venisse detto che il tralcio buono non ha alcun merito, ma che viene posto solamente nella condizione di rendere maggiormente.

Gesù conclude il suo insegnamento con un avvertimento: “A chiunque ha, sarà dato; ma a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha”, dove “avere” e “non avere” sono riferiti al vaglio finale che Lui stesso opererà nell’ultimo giorno. “Chiunque”, quindi senza raccomandazioni o distinzioni, sarà trovato in possesso delle opere consone alla propria fede sarà premiato, ma chi “non avrà”, cioè in oltraggio alle possibilità ricevute, avrà dimostrato di essere quello di prima, “gli sarà tolto anche quello che ha”, cioè la vita e verrà escluso dal regno assieme a tutta quella massa di falsi profeti, seminatori di dottrine estranee, di figli spirituali dei farisei, non certo estinti nemmeno oggi. Anche Luca, riportando la parabola, fa una variante interessante, cioè al posto di “quello che ha” scrive “ciò che crede di avere” perché le illusioni destinate a crollare che ci si fa in questa vita sono tante.

Riassumendo: c’è una lampada che fa luce. È, sono, coloro che hanno creduto davvero. L’hanno ereditata, ricevuta come è scritto: “Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo”. Quell’ “ogni” ci parla del fatto che la scelta di non credere è volontaria perché non prendere atto della luce è impossibile. A meno di non rifiutarla, di non essere figli delle tenebre. Amen.

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07.02 – LE PARABOLE DEL REGNO, INTRODUZIONE

7.02 – Le parabole del regno (Introduzione)

 

            Tutti i sinottici, scrivendo del periodo trascorso da Gesù e i suoi lontano da Capernaum “per città e villaggi predicando e annunciando la buona notizia del regno di Dio”, pongono un accento particolare, nella prima parte della loro cronaca, su quello che Lui disse, sui suoi insegnamenti, esattamente come avvenuto sul sermone sul monte che abbiamo analizzato in Matteo 5. Il viaggio missionario di Nostro Signore, sotto l’aspetto della predicazione, partì proprio dalla città in cui viveva in un contesto preciso riferito da Matteo: “Ora in quello stesso giorno Gesù, uscito di casa, si pose a sedere presso il mare. E grandi folle si radunarono intorno a lui, così che egli, salito su una barca, si pose a sedere, e tutta la folla stava in piedi sulla riva” (Matteo 13.1,2).

La nota “In quello stesso giorno” per Matteo è riferito a discorsi che per ragioni narrative e dottrinali raggruppa in un unico contesto, ma che suppongo fosse lo stesso in cui avvenne il pranzo a casa di Simone il fariseo. Prima di esaminare il gruppo cosiddetto delle “parabole del regno”, dobbiamo vedere cosa effettivamente fosse la parabola e perché Gesù l’utilizzò così frequentemente.

Contrariamente a quanto si possa supporre, il metodo della parabole non fu usato solo da Lui, ma era un genere letterario utilizzato per illustrare, con esempi immaginari ma assolutamente veritieri o possibili, una verità morale e religiosa. La parabola può essere confusa con la favola anche se essa ha per protagonisti animali in situazioni inverosimili e ha per lo più lo scopo di intrattenere le persone. Nel mondo antico entrambi i generi abbondavano, ma soprattutto nel giudaismo esisteva il màshàl, il genere parabolico, che troviamo a volte anche nel Talmud e nella Midrash (insegnamento); anche ai tempi di Gesù i Rabbini ne facevano uso per spiegare le Scritture al popolo che le apprezzava e le ricordava con facilità abbinandole al loro corretto significato spiegato dai maestri.

Attraverso le parabole, soprattutto quelle relative al “Regno”, Nostro Signore cercava di proporre delle verità che andavano a cozzare contro l’idea che il popolo aveva di un regno instaurato sulla terra, che come sappiamo si sarebbe dovuto caratterizzare tramite un Messia potente che, alla guida di un esercito invincibile, avrebbe sottomesso tutte le nazioni e le avrebbe governate assieme al suo popolo. Ecco allora che Gesù non dovette solo rifiutarsi di venire proclamato re quando il popolo voleva farlo, ma soprattutto far capire che il regno che avrebbe instaurato un giorno sarebbe stato profondamente diverso da quello che si aspettavano: fu quindi necessario spiegare le verità di quello non dichiarandole apertamente, dando così l’opportunità ai suoi avversari di attaccarlo più di quanto già non facessero, ma velandole, dicendo le stesse cose in maniera diversa. Se ci pensiamo, riguardo alle verità fruibili a pochi, è quello che non solo Gesù, ma tutta la Scrittura fa continuamente presentando simboli, situazioni, verità e descrizioni che possono essere lette solo per la grazia e l’intercessione dello Spirito Santo, deputato alla rivelazione e mettendo da sempre ogni metodo di lettura a lui estraneo nell’errore.

Il discorso che Nostro Signore tenne sulle rive del lago di Galilea, e in privato coi discepoli, è un aggiornamento del sermone sul monte in cui aveva trattato la Legge perché qui, fondamentalmente, parte dai diversi effetti che ha la Parola sulle persone che l’ascoltano (il seminatore) per arrivare alla fine, quando la zizzania verrà legata in fasce per essere bruciata e il grano “riposto nel granaio” o, nella parabola dei pesci, quando “verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà il pianto e lo stridore dei denti”.

In questo nostro studio ci rifaremo alle parabole così come esposte da Matteo che, a differenza di Marco e Luca, le organizza in modo completo: Luca riporta solo quella del seminatore e Marco vi aggiunge quella del granello di senape, specificando “Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro, ma ai discepoli, in privato, spiegava ogni cosa” (Marco 4.33,34).

Questo contesto può generare un falso interrogativo, a parte quanto già detto sulla necessità di un insegnamento prudente da parte di Gesù: la spiegazione del suo insegnamento “simbolico” non era qualcosa di riservato a degli eletti particolari, ma a quanti erano desiderosi di capire. Infatti proprio al termine dell’esposizione della prima parabola, quella del seminatore per noi neppure tanto complicata, leggiamo che “Allora i discepoli gli domandarono che cosa significasse quella parabola” (Luca 8.9): furono i discepoli a chiederlo e non gli altri, che ascoltavano senza capire e nulla dicevano evidentemente perché mancava loro la volontà di approfondire, la sensibilità per recepire, la possibilità di scegliere tra la vita e la morte come aveva fatto da poco l’innominata peccatrice, che arrivò a comprendere di aver bisogno del perdono di Gesù dopo aver assemblato le Sue parole e raggiunta la consapevolezza che avrebbe potuto guarirla dalla condizione di peccato in cui versava.

Al contrario i presenti, certo non tutti perché alla luce dell’esempio della donna che unse i piedi di Gesù i frutti della Parola raramente sono immediati, avevano un interesse che non andava oltre la curiosità e volevano restare ancorati alle loro convinzioni: infatti leggiamo “A voi è dato di conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato.(…) Perché il cuore di questo popolo è divenuto insensibile, essi sono diventati duri d’orecchi e hanno chiuso gli occhi, perché non vedano con gli occhi e non ascoltino con le orecchie, e non intendano col cuore e non si convertano, e io li guarisca” (Matteo 13.11-15).

Si noti che la distinzione “A voi è dato, ma a loro no”, non si riferisce a una scelta arbitraria di Nostro Signore, che in base alle proprie simpatie favorisce alcuni a danno di altri, ma alla condizione spirituale in cui versavano i due gruppi: i discepoli, gli apostoli, chi Lo seguiva e ascoltava dava quotidianamente prova di mettere la propria persona in second’ordine, aveva lasciato ciò che lo legava alla sua quotidianità, rinunciato a ciò che possedeva per seguirlo volendo vivere la vita del Vangelo per capire con le proprie povere forze visto che lo Spirito di Verità non era ancora sceso su di loro. Le altre persone presenti costituivano un grande insieme di estranei al cui interno forse si mescolava qualcuno che sarebbe stato colpito dalle parole di grazia e verità di Gesù e lo avrebbe avvicinato, come effettivamente avvenne. “A loro non è dato” perché non erano “delle sue pecore”.

C’è da precisare che le parole di Nostro Signore sul popolo “diventato insensibile” non sono sue, ma costituiscono un collegamento col profeta Isaia che, in 8.18 e 19.26, scrive le stesse cose. È giusto sottolineare il termine utilizzato, “è diventato insensibile” e “sono diventati duri d’orecchi”, evidentemente riferito a una condizione raggiunta dopo una serie di azioni volontarie, poiché si diventa qualcosa solo con l’esercizio e la pratica, conscia o inconscia. Il fatto che uno divenga insensibile o duro d’orecchi significa che prima non lo era, un po’ quello che avviene con quanti si ammalano dopo una serie di azioni che hanno intossicato il loro organismo. Ecco allora che l’uomo compie sempre, più o meno consapevolmente, un percorso spirituale con azioni che possono giovargli o nuocergli.

Citando poi Giuseppe Ricciotti, a proposito della parabola, scrive “…è chiara, ma anche oscura. È eloquente, ma anche reticente. Per chi la contempli con animo sereno e non preoccupato, è chiara ed eloquente; a chi la scruti con occhio torbido e animo prevenuto, non dice nulla, qualora per lui non dica il contrario di ciò che vuol dire. È dunque non tenebra, ma luce, e luce misericordiosamente adatta per occhi che si trovino in condizioni speciali, cioè puri, non malati”. Occhi che, secondo il testo di Isaia citato, sono stati chiusi deliberatamente, come nel caso dei due sommi sacerdoti che, informati della resurrezione di Lazzaro, anziché aprire gli occhi e voler indagare l’episodio per conoscere i fatti e se necessario riconoscere in Gesù il Figlio di Dio, decisero di far morire entrambi: “Ora i capi dei sacerdoti deliberarono di far morire anche Lazzaro, poiché a motivo di lui molti lasciavano i Giudei e credevano in Gesù” (Giovanni 12.10,11). Il timore di perdere onorabilità e rispetto, che la loro tradizione umana venisse infangata, prevalse sulla verità che avrebbero dovuto ammettere revisionando tutta la loro vita, mettendo in pratica quel “ravvedimento” di cui lo stesso Giovanni Battista aveva predicato, la metànoia.

Il “non udire” di cui parlò Nostro Signore ai discepoli quindi era riferito al fatto che, per la struttura mentale che si era venuta a creare nel popolo a causa del suo rifiuto continuato al messaggio evangelico, questi udivano parole che non andavano oltre al timpano, l’orecchio esteriore, esattamente ciò che avviene nel primo caso offerto dalla parabola del seminatore: “Quando qualcuno ascolta la parola del regno e non la comprende, viene il maligno e rapisce ciò che era stato seminato nel suo cuore” (13.18). Interessante la versione di Marco: “…sono quelli in cui la parola è seminata e, una volta che l’hanno ascoltata, subito viene Satana, e toglie via la parola seminata nei loro cuori” (4.15); qui vediamo che c’è una connessione col non comprendere e l’intervento dell’Avversario che viene “subito” proprio perché la persona la disprezza già a monte, a prescindere. “Subito” perché non fa nessuna fatica: non deve neppure estirpare una piantina, ma semplicemente portar via un seme. La parola non è capita né apprezzata perché il cuore carnale ha già di che soddisfarsi, basta a sé stesso, è già sazio tanto allora quanto oggi. Là dove un cuore basta a se stesso, dove un orecchio non riesce ad udire e dove gli occhi sono chiusi, si ha quindi il verificarsi di quel “…ma a loro non è dato”, che suona come una sentenza.

Ecco allora che tutto torna e, alla fine, è l’uomo stesso che si condanna da solo. Ogni volta che in noi manca una reale volontà di sottomissione allo Spirito di Dio, alla profondità della Sua Parola, subentra la nostra e ci rende incapaci di seguirlo, di essere Suoi strumenti, di vivere pienamente e nella libertà che solo il Vangelo può dare. Amen.

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5.01 – IL SERMONE SUL MONTE: INTRODUZIONE (Luca 6.17-19; Matteo 5.3-7;)

5.1 – Il sermone sul monte: introduzione (Luca 6.17-19; Matteo 5.3-7)

 17Disceso con loro, si fermò in un luogo pianeggiante. C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidone, 18che erano venuti per ascoltarlo ed essere guariti dalle loro malattie; anche quelli che erano tormentati da spiriti impuri venivano guariti. 19Tutta la folla cercava di toccarlo, perché da lui usciva una forza che guariva tutti.

Con il sermone sul monte entriamo nel territorio delle profondità dell’insegnamento di Gesù alla folla e ai discepoli di cui ci cui Matteo e Luca ci hanno lasciato tracce importanti. Numerose sono le differenze tra i due racconti: il primo evangelista lo riporta in 107 versi, il secondo in 30 perché entrambi adattano i contenuti in base agli scopi che si prefiggono nello scrivere e possiamo presumere che includano nel loro scritto anche parte degli insegnamenti che il loro Maestro faceva nella sinagoga. Sappiamo che Gesù aveva appena eletto i dodici, più in alto rispetto a quel “luogo pianeggiante” in cui trovò una folla composta da discepoli e la “gran moltitudine di gente” composta ormai da giudei, e forse qualche pagano, che avevano saputo delle Sue guarigioni e dell’autorità con la quale predicava commentando i contenuti della Legge e dei profeti. Gli apostoli stessi, da lui scelti, avevano fino ad allora ricevuto una formazione rudimentale, basata soprattutto su ciò che potevano sperimentare di persona attraverso un rapporto continuo e privilegiato con Lui: gli rivolsero domande, chiarimenti, pensieri che gli evangelisti non ci hanno trasmesso. Come qualcuno ha osservato, c’era un grosso divario tra i sentimenti che provavano per Gesù e il reale fondamento dottrinale che ancora non possedevano. Era quindi necessario non solo formare i dodici e gli altri discepoli, ma chiarire a tutti coloro che andavano a lui per farsi guarire tanto dalle malattie quanto tagli spiriti immondi che, se si fossero limitati alla risoluzione di un grave problema contingente quale poteva essere la cecità, la paralisi o la possessione, non avrebbero risolto nulla per le loro anime. E a proposito della “forza che usciva da lui che guariva tutti” (v.19) abbiamo un’anticipazione dell’episodio della donna emorraissa narrata in Matteo 9.20-22: “Ed ecco, una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni, gli si avvicinò alle spalle e toccò il lembo del suo mantello. Diceva infatti tra sé: «Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò salvata». Gesù si voltò, la vide e disse: «Coraggio, figlia, la tua fede ti ha salvata». E da quell’istante la donna fu guarita”.

Era quindi necessario che la gente sapesse. I miracoli che faceva alla presenza di tutti e che risolvevano il problema di una vita limitata, potevano trovare la loro ragione e destinazione finale con la soluzione del problema reale, la Vita vera vista nell’incontro con la Verità e la Via, l’unica, da percorrere. Ciò che Gesù faceva guarendo le infermità del corpo erano la figura di quello che avrebbe fatto guarendo l’anima. Per questo Nostro Signore apre il suo discorso, in Matteo, iniziando dalle beatitudini che analizzeremo. Ecco il testo di Matteo che inizia il suo quinto capitolo in modo più breve rispetto a Luca: “Vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo”…

3«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. 4Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. 5Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. 6Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. 7Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. 8Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. 9Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. 10Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. 11Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. 12Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti perseguitarono i profeti che furono prima di voi.”.

Contando le beatitudini non ne abbiamo nove, ma otto più una e quell’una si distacca dalle altre, apre un capitolo nuovo con quel “beati voi” così diverso da “beati i”. Ci soffermeremo pertanto solo sulle prime otto, numero dalle ampie prospettive.

Leggendo ora le categorie di persone nei confronti delle quali sono indirizzate le beatitudini (versione di Matteo) e considerandole da un punto di vista esclusivamente umano, queste non hanno umanamente senso perché per “beato”, dimenticando qualsiasi riferimento cosiddetto “religioso”, si intende una persona felice, pienamente appagata e soddisfatta e, nel mondo in cui viviamo, le caratteristiche che hanno i “beati” di cui Gesù parla sono quanto di più lontano dalla condizione che il termine esprime. Il “povero di spirito” è ritenuto una persona senza qualità intellettuali. Dall’afflitto ci si allontana perché mette tristezza . Chi ha fame e sete di giustizia è un povero essere che non ha ancora capito che deve mettersi alla ricerca di chi lo possa aiutare, raccomandare, di un potente che possa intervenire a suo favore. E così via col misericordioso, da sempre scambiato per debole, col puro di cuore quotidianamente calpestato dal potere che non lo tollera come documentano i tanti processi contro di lui, primi fra tutti quelli contro le mafie.

Il Vangelo però non lo si può leggere con gli occhi del mondo in cui viviamo. Il Vangelo propone realtà agli antipodi tra loro usando la stessa terminologia ma, proprio perché opposti, non hanno nulla in comune e il loro significato è diverso. Guardiamo l’episodio: Gesù ha appena eletto i dodici e scendendo trova la folla composta da discepoli, o da chi tale avrebbe voluto diventare, o da persone provenienti da ogni dove e affette da malattie, come ci ha descritto Luca. Gesù guarisce anche “involontariamente” nel senso che bastava toccarlo perché gli inconvenienti fisici cessassero, ma poi inizia a parlare rivolgendosi a tutti quelli che, tra la folla, si sarebbero riconosciuti nelle categorie che avrebbe elencato. Il suo appello, “Beati i” delle otto beatitudini non è lo stesso della nona, o prima dopo le otto, “Beati voi” in cui si rivolge ai discepoli, ai tanti che affollavano quel luogo. Notiamo un particolare al verso 2 di Matteo 5: “Ed Egli, aperta la bocca, li ammaestrava”, che in diverse traduzioni si abbrevia erroneamente con “Cominciò a parlare”, perché “aprire la bocca” era un formula, secondo l’uso ebraico, usata per indicare l’inizio di un discorso autorevole e solenne.

Ho iniziato queste riflessioni ponendo in contrasto la diversa interpretazione che il mondo dà al termine “beato” e quella opposta che dà l’àmbito spirituale, che si ritrova anche nel termine ebraico e biblico: il testo masoretico, la versione della Bibbia in uso fra gli ebrei, usa la parola ashré e indica lo stato interiore di chi vive nell’integrità perché si lascia guidare dai comandamenti di Dio. In questa parola è racchiusa anche l’idea del movimento, dell’alzarsi, dell’essere in cammino. Nel Salmo 128.1,2 leggiamo “Beato chi teme il Signore e cammina nelle sue vie. Della fatica delle tue mani ti nutrirai, sarai felice e avrai ogni bene”; la benedizione è cioè la conseguenza della beatitudine, non viceversa: in pratica, sei benedetto perché sei beato, hai scelto di temere il Signore e camminare nelle sue vie. Vie distanti, sconosciute, incomprensibili per il mondo in cui vivi. Il greco invece ha machàrios, cioè “felice, beato” con riferimento allo stato di chi è in tale condizione perché propria degli dèi, rappresentati sempre al di là di qualsiasi preoccupazione umana, quindi esenti dalla fatica, dal lavoro e dalla morte. “Makàrios” contemplava le caratteristiche di “lungo, ampio, grande” e “favore, dono, cura amorevole”, intesi come qualcosa di concesso. Nel caso di quanto dichiarato da Gesù, allora, i “Makàrioi” (plurale) sono i “felici, fortunati, favoriti perché curati con le cure di Dio”. La beatitudine, la felicità umana, terrena, era indicata con un altro termine, òlbia.

Allora l’essere “beato” è qualcosa che si ha, una caparra, un conto a giustizia, una condizione che a volte può essere sconosciuta e c’è bisogno di qualcuno che la dichiari, come nel caso di Pietro quando riconobbe in Gesù il Cristo, il Figlio dell’Iddio Vivente. Gli fu detto infatti “Tu sei beato Simone, figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te le hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli” (Matteo 16.17). Nel caso delle beatitudini, quindi, Gesù rivolge ai presenti e a tutti quelli che avrebbero letto le sue parole nei secoli a venire, un’esortazione a pensare al privilegio che hanno nel momento in cui si trovano nelle circostanze che andrà a descrivere, un invito amorevole che rivolgerà spesso ad andare oltre quelle che possono sembrare circostanze o posizioni negative perché nella realtà queste porteranno – o hanno già portato – a un risultato che andrà enormemente oltre. Più avanti, del resto, l’apostolo Paolo in Romani 8.28 scriverà che “tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio, per coloro che sono stati chiamati secondo il suo disegno”. Penso che ogni volta che Gesù sul monte abbia pronunciato quella parola, “beati”, intendesse in subordine anche questo.

Il cristiano quindi è un costruttore beato sia dal punto di vista greco, che suggerisce l’idea di ciò che si possiede già nonostante tutto, ed ebraico, che invece implica un cammino da compiere, è figura di chi è in movimento verso una meta, un progetto che ha garanzia di riuscita come abbiamo letto nella porzione del Salmo 128; la differenza è che, se nell’Antico Testamento la benedizione era tangibile mediante la riscossione di un risultato sulla terra, nel Nuovo è vista nel premio ultraterreno, come provano i verbi usati da Nostro Signore, che sono sempre al futuro.

Sappiamo che le beatitudini sono otto – più una che incorporeremo nella seconda parte del discorso sul monte – e che costituiscono una sorta di cerchio secondo me, ma che indiscutibilmente rappresentano un perimetro all’interno del quale ne sono rinchiuse anche altre, ricorrendo nel Nuovo Testamento la parola “Makàrios” 68 volte al singolare e 50 al plurale. Gesù non poteva dire tutto, ma fornire delle basi ai suoi uditori certamente sì: parlava a discepoli, a malati guariti ed ancor più a una categoria molto particolare rappresentata da quelli che erano tormentati da spiriti impuri, la cui condizione veniva a cessare.

La malattia affligge, lo spirito impuro tormenta perché prende possesso della mente costringendo il posseduto a fare ciò che non vorrebbe, lo umilia davanti a se stesso e spesso anche agli altri quando non si manifesta in modo sommesso, nascosto come nel caso dell’indemoniato guarito nella sinagoga di Capernaum. Ecco, molti dei presenti su quel pianoro avevano avuto una liberazione e si ritenevano beati, ma la vera gioia, il vero favore di Dio, la condizione per poter iniziare e proseguire un cammino vero, quelle persone la avrebbero avuta solo identificandosi nelle categorie di apertura contenute nel discorso che Gesù stava per iniziare. Alla liberazione delle infermità poteva seguire quella vera dal regno della morte e sarebbe avvenuta attraverso la comprensione della necessità di un percorso interiore, il riconoscerlo come il Liberatore Unico e  non, come la maggioranza voleva, vederlo e volerlo come un imperatore, un re terreno invincibile, uno dei tanti condottieri che avrebbero costituito territori politici a prezzo di vite umane, guerre ed oppressioni, per poi finire nel giro di poco tempo. Il Regno di cui parlerà fin dalla prima beatitudine sarebbe stato quello “dei cieli”, non relegato al un tempo che, pensando all’eternità, è poco a prescindere. Il Regno della terra, di cui Gesù non parla mai se non lasciando indizi, è stato dato a Satana che di questo mondo è il principe.

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3.05 – IL LEBBROSO GUARITO (Matteo 8.1-4 e riferimenti)

3.05 – Il lebbroso guarito (Matteo 8.1-4, Marco 1.40-45, Luca 5.12-15)

 

Dalla chiamata di Simone, Andrea, Giacomo e Giovanni, per un certo tempo, stabilire una cronologia di avvenimenti diventa praticamente impossibile ed è probabile che i sinottici mettano i miracoli che Gesù fece in Galilea senza preoccuparsi di indicarne la reale successione stante il fatto che i loro Vangeli sono un libro di testimonianza e non si preoccupano della successione temporale. Se gli Autori avessero dovuto e/o voluto scrivere un trattato storico, si sarebbero comportati diversamente ma, stante il profondo significato che rivestono i miracoli, ce ne presentano alcuni fra quelli compiuti in Galilea. In particolare la guarigione del lebbroso, il primo a venire narrato da Marco e Luca dopo la chiamata dei quattro, avvenne forse dopo il sermone di Gesù detto “della montagna”, stante la precisione con la quale Matteo lo colloca. Leggiamo infatti al suo capitolo ottavo:

1 Scese dal monte e molta folla lo seguì. 2Ed ecco, si avvicinò un lebbroso, si prostrò davanti a lui e disse: «Signore, se vuoi, puoi purificarmi». 3Tese la mano e lo toccò dicendo: «Lo voglio: sii purificato!». E subito la sua lebbra fu guarita. 4Poi Gesù gli disse: «Guàrdati bene dal dirlo a qualcuno; va’ invece a mostrarti al sacerdote e presenta l’offerta prescritta da Mosè come testimonianza per loro»” (Matteo 8.1-4)”.

Leggiamo Marco, che fornisce qualche particolare in più, con Luca che concorda interamente con lui:

“40Venne da lui un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi purificarmi!». 41Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, sii purificato!». 42E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato. 43E, ammonendolo severamente, lo cacciò via subito 44e gli disse: «Guarda di non dire niente a nessuno; va’, invece, a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha prescritto, come testimonianza per loro». 45Ma quello si allontanò e si mise a proclamare e a divulgare il fatto, tanto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti; e venivano a lui da ogni parte”. “ (1.40-45)

Prima di analizzare l’episodio, occorre dare delle indicazioni sulla lebbra, malattia terribile che, nella Bibbia, non indica necessariamente quella oggi conosciuta dalla medicina, ma anche altre irritazioni patologiche infettive della pelle. Alcune traduzioni antiche infatti la chiamano vitiligine (che però non è infettiva e non corrisponde alle caratteristiche riportate nel levitico), Tacito ne parla come “consunzione che contamina i corpi”, altri la paragonano alla tigna. In realtà, nei testi riguardo alla lebbra, è fuor di dubbio che la si citi nelle sue due forme, a macchie o a noduli. C’è anche, come abbiamo fatto per la febbre, da stabilire un preciso distinguo sul significato che aveva per Israele e per gli altri popoli perché, come abbiamo ricordato in un altro episodio, se la malattia per i pagani altro non era che la conseguenza del peccato in Adamo, quindi facente parte degli eventi che rientravano nella esclusione da Eden in cui non esisteva, per Israele era un evento che avrebbe potuto essere evitato con l’osservanza della Legge e dei suoi comandamenti secondo il capitolo 28 del Deuteronomio.

La lebbra così come è stata e viene studiata, quella che flagellò l’Europa medievale, si distingue in tubercoloide o lepromatosa: nel primo caso si presenta con alcune macule o placche ipopigmentate o eritematose, a volte con lesioni papulose raggruppate. Alcune possono diventare ipoanestetiche. La terminazione nervosa appare edematosa e ispessita, con possibile danno neurologico attorno ad esse. La seconda è invece molto più invalidante: dal naso chiuso con epistassi si passa a macchie ipocromiche seguite da lesioni di ogni tipo sui tessuti molli: pustole, noduli, placche, la pelle del volto si ispessisce con lesioni che poi portano alla deformazione o distruzione della cartilagine, del setto e delle ossa nasali. Si modificano le ossa, la pelle delle gambe si ispessisce e viene interessata da ulcere che causano deformazioni, infezioni, necrosi e non di rado si rendono necessarie le amputazioni delle estremità.

Vediamo come è descritta nell’Antico Testamento. Il capitolo 13 del libro del Levitico dà istruzioni minuziose al sacerdote per distinguerla ed in Deuteronomio 24.8, per evitare contagi, leggiamo “In caso di lebbra, bada bene ad osservare diligentemente e fare quanto i sacerdoti leviti vi insegneranno”: spettava infatti solo al sacerdote fare la diagnosi e dichiarare il lebbroso guarito o meno.

Il lebbroso perdeva qualunque tipo di ruolo e di contatto con la società, come fu nel caso del re Ozia, detto anche Azaria, punito con quella malattia perché voleva offrire l’incenso sull’altare al posto dei sacerdoti consacrati a quel compito: “18Questi si opposero al re Ozia, dicendogli: «Non tocca a te, Ozia, offrire l’incenso al Signore, ma ai sacerdoti figli di Aronne, che sono stati consacrati per offrire l’incenso. Esci dal santuario, perché hai prevaricato. Non hai diritto alla gloria che viene dal Signore Dio». 19Ozia, che teneva in mano il braciere per offrire l’incenso, si adirò. Mentre sfogava la sua collera contro i sacerdoti, gli spuntò la lebbra sulla fronte davanti ai sacerdoti nel tempio del Signore, presso l’altare dell’incenso. 20Azaria, sommo sacerdote, e tutti i sacerdoti si voltarono verso di lui, che apparve con la lebbra sulla fronte. Lo fecero uscire in fretta di là; anch’egli si precipitò per uscire, poiché il Signore l’aveva colpito. 21Il re Ozia rimase lebbroso fino al giorno della sua morte. Egli abitò in una casa d’isolamento, come lebbroso, escluso dal tempio del Signore. Suo figlio Iotam era a capo della reggia e governava il popolo della terra.22Le altre gesta di Ozia, dalle prime alle ultime, le ha descritte il profeta Isaia, figlio di Amoz. 23Ozia si addormentò con i suoi padri e lo seppellirono con i suoi padri nel campo presso le tombe dei re, perché si diceva: «È un lebbroso»” (2 Cronache 26.18-23).

Il caso di Azaria è anche raccontato così: “2Quando divenne re aveva sedici anni; regnò a Gerusalemme cinquantadue anni. Sua madre era di Gerusalemme e si chiamava Iecolia. 3Egli fece ciò che è retto agli occhi del Signore, come aveva fatto Amasia, suo padre. 4Ma non scomparvero le alture. Il popolo ancora sacrificava e offriva incenso sulle alture. 5Il Signore colpì il re, che divenne lebbroso fino al giorno della sua morte e abitò in una casa d’isolamento” (2 Re 15.2-5).

Lo stato psicologico dei lebbrosi è descritto in 2 Re 7.3-4, erano persone che non avevano nulla da perdere perché nulla possedevano, neppure la loro vita: “3Ora c’erano quattro lebbrosi sulla soglia della porta. Essi dicevano fra di loro: «Perché stiamo seduti qui ad aspettare la morte? 4Se decidiamo di andare in città, in città c’è la carestia e vi moriremo. Se stiamo qui, moriremo. Ora, su, passiamo all’accampamento degli Aramei: se ci lasceranno in vita, vivremo; se ci faranno morire, moriremo».

Possiamo anche ricordare in opposizione il generale siriano Naaman, lebbroso, che guarì dalla malattia dopo essersi bagnato sette volte nel giordano dietro ordine di Eliseo (2 Re 5.1-14).

Ai tempi di Gesù molti erano i lebbrosi e quando ciò capitava, ricordando la malattia che aveva colpito Maria, sorella di Mosé che lo aveva criticato, dicevano “Il dito di Dio ha colpito ancora”. Allo stesso modo la guarigione di un lebbroso era attribuita ad un intervento benevolo di Dio, ricordando proprio Naaman, oppure l’episodio di Mosé nel suo colloquio con YHWH, per quanto con significato diverso: “6Il Signore gli disse ancora: «Introduci la mano nel seno!». Egli si mise in seno la mano e poi la ritirò: ecco, la sua mano era diventata lebbrosa, bianca come la neve. 7Egli disse: «Rimetti la mano nel seno!». Rimise in seno la mano e la tirò fuori: ecco, era tornata come il resto della sua carne” (Esodo 4.6,7).

I lebbrosi vivevano lontani dal popolo, non potevano avere contatti con nessuno e sopravvivevano con cibo che persone caritatevoli lasciavano loro nei pressi delle loro dimore. Erano vestiti con un sacco o stracci, erano a volte dotati di un campanello che facevano suonare agitandolo o facendo rumore con altri oggetti e dovevano gridare, nel caso si avvicinassero altre persone, “L’immondo! L’immondo!”. Quando lungo il cammino incrociavano una o più persone, dovevano cedere loro il passo, velarsi le labbra e porsi sempre controvento senza mai parlare di fronte a una persona sana. La vita dei lebbrosi era di stenti anche morali, perdendo i loro affetti più cari, di emarginazione e sofferenze: non c’erano cure né gli antibiotici che hanno reso oggi la malattia curabile.

Ora, in questa città o villaggio innominato, un lebbroso arriva, la folla gli fa largo con un sentimento misto a repulsione e curiosità di vedere quale atteggiamento avrebbe tenuto il Maestro, che si trova di fronte a lui quest’uomo che gli si inginocchia davanti, poi gli si stende a terra davanti a lui (“si prostrò”) in segno di sottomissione e adorazione talché alcune traduzioni riportano “lo adorò” riassumendo i due atteggiamenti che assunse. Quel lebbroso non gli chiede di guarirlo come faranno altri supplicandolo, ma gli dice “Signore se tu vuoi, puoi guarirmi”, cioè si rimette alla sua volontà e soprattutto alla sua conoscenza dell’uomo perché un conto è chiedere di essere guariti anteponendo la propria persona, altro è rivolgersi lasciando libero chi può guarire dal farlo o meno. Quel “Signore” col quale si rivolge a Gesù denota la fede che aveva: non sapeva chi fosse, cioè non lo adora come Figlio di Dio come faranno i cristiani in seguito, ma sa che in Lui c’è la Sua potenza. È questo un passo molto delicato e importante, perché sono convinto che in quel “se vuoi” sia compreso il sapere, da parte di quell’uomo, che solo Gesù avrebbe potuto capirlo e valutare se meritasse o no la guarigione alla luce della fede che poneva in lui, che al pari di molti aveva sentito parlare dei miracoli e degli insegnamenti fatti nella regione.

Due quindi erano le convinzioni di quel lebbroso: la prima era che lui fosse qualcuno superiore a tutti, la seconda che avrebbe potuto guarirlo se solo avesse voluto, concetto che altri nel corso della narrazione evangelica esporranno dimostrando umiltà e fede. L’atteggiamento esterno del lebbroso fu assolutamente corrispondente a quello interno, perché altrimenti non sarebbe stato esaudito: non era Gesù ad avere bisogno di quel miracolo, ma quell’uomo che, con quella frase, non solo si pone in secondo piano rispetto a Lui, ma gli rimette ogni decisione conscio di una valutazione divina sull’operare o meno: “Se tu vuoi, puoi”, in altri termini “Io sono nulla per poterti suggerire come operare”. Possiamo dire che quelle parole fossero un modo, da parte del lebbroso, di riconoscersi peccatore. Quelli come lui, inoltre, erano soliti chiedere l’elemosina agli altri, cosa che nel nostro caso non avviene.

Abbiamo letto il risultato di quella preghiera così singolare: il lebbroso guarì, Gesù gli disse “Lo voglio, sii guarito” e tese la mano verso di lui e lo toccò, cosa permessa solo al sacerdote. Chiunque toccava un lebbroso diventava automaticamente impuro, ma Gesù aveva già dimostrato, e lo avrebbe fatto ancora, che “chiunque” proprio non era: se chi, deputato a decretare tanto la presenza della lebbra quanto la sua guarigione non si contaminava, a maggior ragione non poteva infettarsi Colui che la malattia era in grado di guarire. E questo implicava il perdono, la liberazione dal peccato che l’aveva provocata.

Gesù, a guarigione avvenuta, lo ammonisce di non dir niente a nessuno: perché? Non spettava agli uomini comuni ammettere che era avvenuta la guarigione, ma al sacerdote, che gli rilasciava un attestato grazie al quale l’ex lebbroso ricuperava la propria libertà sociale e i diritti che aveva perso. Chi vuole approfondire, può leggere il capitolo 14 del Levitico, che illustra nei dettagli i passi che venivano effettuati dal sacerdote e dal lebbroso per recuperare la propria dignità sociale.

Il sacerdote di quella cittadina in cui si era verificato il miracolo, non solo avrebbe attestato la guarigione di quella persona, ma avrebbe dovuto ammettere che questa era stata procurata da Gesù in persona e, per quel tipo di malattia, era cosa non certo da poco visto che una delle caratteristiche del Messia promesso sarebbe stata quella di guarire i lebbrosi.

Abbiamo già citato Giovanni Battista in prigione che, anche provato dai mesi di prigionia nella fortezza di Erode, gli mandò a chiedere se era Gesù quello che doveva venire oppure dovevano aspettarne un altro: la Sua risposta fu “Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, è annunciato il Vangelo” (Matteo 11.2.5).

L’ammonizione di Gesù a quel lebbroso, che secondo Marco fu particolarmente severa, è probabile che poggiasse le sue ragioni sul fatto che il beneficiario di quell’intervento avesse un carattere particolarmente impulsivo – espansivo: infatti non fece come gli era stato comandato, ma divulgò il fatto a tutti e poi andò dal sacerdote. Il risultato fu un colossale fraintendimento da parte del popolo, che lo prese come guaritore formidabile, cioè risolutore di problemi umanamente invalidanti, senza guardare al reale scopo della Sua presenza in mezzo a loro: portare una dottrina utile allo spirito, in poche parole la “buona notizia” dell’amore di Dio finalmente dato e dichiarato agli uomini, al suo popolo. Leggiamo che Gesù non poteva più entrare in nessuna città, che era costretto a stare in luoghi deserti, ma che anche lì era raggiunto da gente che veniva da ogni parte. Ne approfitterà per insegnare nel suo “sermone sul monte” che esamineremo al termine di questa rassegna di miracoli.

Luca, che fino ad ora non abbiamo mai citato, descrive Gesù con queste parole: “Di lui si parlava sempre di più, e folle numerose venivano per ascoltarlo e farsi guarire dalle loro malattie. Ma Egli si ritirava in luoghi deserti a pregare” (Luca 5.15,16).

Concludo queste riflessioni con una domanda importante alla quale ho cercato di dare una risposta: se è chiaro e vero che Israele – e solo lui – aveva nelle malattie e nelle infermità una prova della riprensione di Dio nei cuoi confronti, come deve interpretare il credente – e solo lui – quanto gli avviene ogni giorno, poiché è scritto che i capelli del suo capo sono tutti contati? Credo che, se sia azzardato sostenere nel nostro caso che la malattia sia il castigo per una disubbidienza, sia anche vero che solo il diretto interessato, che conosce la propria storia e il proprio eventuale peccato, sia in grado di dare una risposta a questa domanda perché generalizzare come purtroppo molti fanno sia un’azione che porti alla superstizione e alla (purtroppo giusta e inevitabile) derisione da parte di quanti non credono. Per noi una malattia può essere un modo che ha il Signore di provare la nostra fede, il nostro comportamento nell’avversità, può essere anche un modo per affinare la nostra sensibilità per farci progredire e imparare perché non può esistere maturazione senza dolore: ricordando le parole di Paolo in Romani 5.3-5 “…ci vantiamo anche nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce pazienza, 4la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. 5La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato”.

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3.04 – PESCATORI DI UOMINI (Luca 5.1-11)

3.04 – Pescatori di uomini (Luca 5.1-11 con riferimenti a Matteo 4.18-22 e Marco 1.16-20)

L’episodio della chiamata dei quattro, Simone e Andrea con Giacomo e Giovanni è riportato dai tre sinottici ed è fondamentale considerarli nella loro unitarietà perché a prima vista, leggendo Matteo e Marco, si può essere indotti a pensare che questa sia avvenuta all’inizio del ministero di Gesù, dopo il suo battesimo e la tentazione nel deserto. La versione di Matteo, più essenziale, dice: “18Mentre camminava lungo il mare di Galilea, vide due fratelli, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello, che gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. 19E disse loro: «Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini». 20Ed essi subito lasciarono le reti e lo seguirono. 21Andando oltre, vide altri due fratelli, Giacomo, figlio di Zebedeo, e Giovanni suo fratello, che nella barca, insieme a Zebedeo loro padre, riparavano le loro reti, e li chiamò. 22Ed essi subito lasciarono la barca e il loro padre e lo seguirono” (Matteo 4.18-22).

            Marco, dalla narrazione molto simile, aggiunge che “lasciarono il loro padre Zebedeo nella barca con i garzoni e andarono dietro a lui” (1.2’), ma Luca, accurato redattore sulla base delle testimonianze che riuscì a raccogliere, colloca con precisione l’episodio ponendolo al termine di un percorso che Gesù compì da solo, dopo aver lasciato che i quattro tornassero al loro mestiere. Leggiamo infatti: “Egli però disse loro «È necessario che io annunci la buona notizia del regno di Dio anche nelle altre città; per questo sono stato mandato. E andava predicando nelle sinagoghe della Galilea” (vv.43, 44). C’è chi ha calcolato che questo sia stato un itinerario di predicazione durato dai tre ai quattro mesi, dopo di che ci fu il ritorno a verso Capernaum, che toccò Bethsaida, che tradotto significa “Casa del pescatore” o le sue immediate vicinanze. Qui comincia il quinto capitolo di Luca.

 

1Mentre la folla gli faceva ressa attorno per ascoltare la parola di Dio, Gesù, stando presso il lago di Gennèsaret, 2vide due barche accostate alla sponda. I pescatori erano scesi e lavavano le reti. 3Salì in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra. Sedette e insegnava alle folle dalla barca. 4Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: «Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca». 5Simone rispose: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti». 6Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano. 7Allora fecero cenno ai compagni dell’altra barca, che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche fino a farle quasi affondare. 8Al vedere questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: «Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore». 9Lo stupore infatti aveva invaso lui e tutti quelli che erano con lui, per la pesca che avevano fatto; 10così pure Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, che erano soci di Simone. Gesù disse a Simone: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini». 11E, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono.”

 

            Ricordiamo che l’itinerario scelto da Gesù per la sua predicazione, come abbiamo già visto nel suo passare per la Samaria, fu sempre compiuto per motivi di ordine spirituale, che non fece mai nulla a caso e che quindi il passare lungo le rive del lago avesse come scopo proprio quello di chiamare i primi quattro discepoli a seguirlo. Veniamo al contesto umano descritto da Luca: Gesù era ormai conosciuto e riconosciuto da molti che lo attorniarono per ascoltarlo. Per quelle persone comportarsi in quel modo non era inusuale essendo costume dei rabbini del tempo insegnare nei luoghi più disparati e chiunque poteva fermarsi ad ascoltarli, quando non erano nelle loro scuole. Le acque del lago di Galilea erano evidentemente molto calme e la scelta di scostarsi un poco da terra fu la soluzione per poter parlare alla gente che avrebbe potuto ascoltarlo meglio.

Anche qui non abbiamo il contenuto del discorso che Gesù fece alla folla, ma lo troveremo in parte nella sua “summa” riportata nel discorso detto “della montagna”: ciò che preme a Luca non è qui riportare gli insegnamenti del Maestro, ma descrivere come e perché Simone, Andrea, Giacomo e Giovanni, che fino ad allora lo avevano seguito nei suoi spostamenti occasionalmente, scelsero di lasciare tutto per far parte dei discepoli, che poi chiamerà “apostoli”, cioè “inviati, rappresentanti”, a tempo pieno. Tra loro esisteva già familiarità, i quattro sapevano chi era Gesù, erano già stati resi edotti su chi Lui fosse prima da Giovanni Battista prima poi e da Lui stesso; avevano visto dei miracoli come la liberazione dell’indemoniato nella sinagoga e la guarigione della suocera di Simone dalla febbre, lo avevano ascoltato – non sappiamo se tutti – nei due giorni passati coi samaritani e ora erano lì, non più a lavare le reti, ma a sentire i suoi insegnamenti con gli altri. Questo ci conferma che fosse mattino presto: i pescatori lavoravano di notte a motivo delle reti che usavano: erano spesse, del tipo a tramaglio cioè costituite da tre reti distinte che, se fossero state usate di giorno, sarebbero state viste dai pesci che le avrebbero potute evitare. Erano reti di corda, pesanti, adatte al fondale roccioso della zona, che andavano poi lavate una volta rientrati pena il loro marcire. E il lavoro dei pescatori era particolarmente duro perché non disponevano di attrezzi meccanici a motore, né di cerate a proteggerli dall’acqua come oggi. E le reti non erano di nylon.

Finito di parlare alle folle, le prime parole furono per Pietro: “Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca”, una richiesta quanto meno curiosa. Simone aveva lavorato tutta la notte, lui e i suoi erano stremati e la risposta “sulla tua parola getterò le reti”, rivela la deferenza e il riguardo verso il suo futuro Maestro più che pensare a una buona riuscita della pesca, che la sua esperienza di esperto pescatore dava per impossibile. Da notare che Simone sapeva che, una volta gettate, quelle reti avrebbero dovuto essere lavate di nuovo con un conseguente, ulteriore dispendio di energie. Pietro sapeva che doveva esservi un motivo per quella richiesta, ma lo ignorava: agì “sulla tua parola”, cioè gli ubbidì senza addurre motivi di stanchezza dovuta alla fatica notturna e alla frustrazione dell’insuccesso che comunque gli fece presente. Oltretutto, era giorno e i pesci quelle reti le avrebbero sicuramente evitate. Simone, obbedendo alle parole di Gesù, fa qualcosa di umanamente e professionalmente irrazionale che può essere spiegato solo col termine con cui gli si rivolge, “Maestro” che, traducibile dal greco Epìstrata anche come “Guida”, “Uno che ha autorità sopra un altro”, che rivela i sentimenti che nutriva nei Suoi confronti. Se poi Pietro era stato presente alle nozze di Cana – nulla ci vieta di ipotizzarlo – implica sicuramente che si ricordasse di quell’ordine “riempite di acqua i recipienti fino all’orlo” apparentemente senza senso al pari di quella richiesta di gettare in acqua le reti. Pietro quindi, obbedendo senza discutere, compie un atto di fede: “Gettate le vostre reti per pescare”.

Fu allora che si rivelò non la conoscenza umana, ma quella di Dio: arrivò un banco di pesci, di quelli di cui hanno parlato scrittori più o meno antichi, tutti concordi nel descrivere il lago di Galilea come estremamente pescoso. Non solo ne parla Giuseppe Flavio, ma anche Henry Baker Tristram, storico naturale e viaggiatore vissuto nel 1800, che scrisse che quel lago era talmente ricco di pesce da avere dei banchi che a volte occupavano una superficie di circa 2,5 kmq. Difficile pensare che Simone e i suoi non lo sapessero; solo che i loro tentativi umani di quella notte non avevano prodotto alcun risultato, mentre bastò obbedire alla voce di Gesù per avere un esito ben oltre le loro aspettative. Questo fu il primo, diretto significato di quel miracolo. Il pesce era lì, c’era già, non fu creato sul momento apposta per loro, ma quei pescatori non potevano saperlo. Questo ci parla della quantità enorme delle cose che spesso non vediamo e continueremmo a non vedere se non ci affidassimo alle parole di Cristo e agli insegnamenti spirituali che abbiamo davanti. Non troviamo scritto che la pesca fu fruttuosa, ma che addirittura si trovarono in difficoltà a gestirla: “Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano. Allora fecero cenni ai compagni dell’altra barca, che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche fino a farle quasi affondare” (vv.6,7).

Possiamo immaginare lo stupore e la meraviglia di Simone e degli altri, che erano professionisti, mentre cercavano di far fronte come potevano a tutta quell’abbondanza e questo portò Pietro a concludere che quanto avvenuto sarebbe stato impossibile senza che Gesù sapesse che avrebbero pescato così tanto. Non gli rimase che ammettere la propria condizione: “Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore”. Conscio della sua inadeguatezza, il futuro apostolo ha una reazione che abbiamo già trovato negli scritti dell’Antico Patto che, dopo la creazione, praticamente si apre con l’incompatibilità dell’uomo con Dio una volta trasgredito il Suo unico comandamento. Adamo ed Eva infatti persero la loro innocenza e avrebbero trasmesso questa loro condizione a tutti quelli che avrebbero generato e così via in una catena. Ricordiamo Mosè, che quando Dio si presentò a lui è scritto che “…si coprì il volto, perché aveva paura di guardare verso Dio” (Esodo 3.6), e Isaia stesso, i cui scritti sono fondamentali per individuare in Gesù il Messia promesso, che descrisse la sua reazione di fronte alla visione del Signore seduto sul trono e di tutta la Corte celeste: “E dissi «Ohimè, io sono perduto, perché sono un uomo dalle labbra impure e abito in mezzo a un popolo dalle labbra impure, eppure i miei occhi hanno visto il re, il Signore degli eserciti” (1.5).

            Pietro era cosciente della propria condizione, di quanto fosse distante e piccolo di fronte alla santità di Gesù. “Signore – non più “Maestro” – allontanati da me – conscio della sua condizione di fronte a lui, ne ha paura e si sente profondamente inadeguato – perché sono un peccatore – quindi non degno della tua presenza”. Simone temeva che, in quanto peccatore, la sua stessa vicinanza al Signore avrebbe potuto offenderlo, era conscio dei mondi, delle dimensioni che li separavano. Simone non alludeva a un peccato specifico commesso, ma alla sua intera natura fatta di peccato cioè di imperfezione, lontananza da Dio e incompatibilità con Lui a meno di una grazia, di un “favore immeritato”, di un’accettazione da parte Sua di cui dubitava fortemente. Certo aveva vissuto con Gesù dei momenti intensi, aveva visto dei miracoli, ma non si era mai forse posto il problema del perché di quelli, più attratto da quegli eventi e dalle reazioni dei beneficiati e dei testimoni, ma su quella barca le cose erano diverse: per la prima volta toccava con mano la realtà in un campo che conosceva benissimo, il suo mestiere. Capì senza saperlo, in una condizione di profondo turbamento emotivo, quello che Gesù dirà apertamente più avanti, “Senza di me non potete far nulla”. Simone e quelli che erano con lui leggiamo che non gioirono per il risultato di quella pesca come se fosse una vincita al lotto o similari, ma ne furono spaventati, capendo che quanto stava avvenendo non rientrava nell’ambito di fatti che, pur eccezionali, potevano sempre accadere in quel lago: era qualcosa di incomprensibile avvenuto dietro l’ottemperanza ad un semplice ordine ricevuto. Ma in Salmo 8.7-10 leggiamo “Gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto ai suoi piedi: tutte le greggi e gli armenti e anche le bestie della campagna, gli uccelli del cielo e i pesci del mare, ogni essere che percorre le vie dei mari. O Signore, Signore nostro, quanto è mirabile il tuo nome su tutta la terra!”.

È molto importante a questo punto precisare una differenza che si riscontra nei sinottici: in Luca Gesù dice a Pietro, spaventato, “Non temere, d’ora innanzi sarai pescatore di uomini”, ma Matteo e Marco scrivono “Seguitemi, e vi farò pescatori di uomini”. Perché? La frase di Luca fu detta a Simone quando erano sulla barca alla presenza, oltre che del futuro apostolo, di Andrea suo fratello e di altri perché su quei mezzi l’equipaggio era solitamente composto da quattro persone. Luca ci riporta quindi una chiamata individuale. “Non temere” sappiamo essere un’esortazione che nella Bibbia compare 365 volte: ogni giorno porta la sua pena, ogni volta abbiamo questa esortazione. Col diventare “pescatore di uomini” poi viene prospettato a Simone il suo futuro che si sarebbe realizzato attraverso la predicazione e il governo della Chiesa in Gerusalemme e poi in Roma, anche se da qui a vederlo come Papa o “Vicario di Cristo in terra” ce ne corre.

Restavano Andrea, Giacomo e Giovanni che non potevano certo essere esclusi dall’invito a seguirlo, che si verificherà una volta arrivati a riva. Con quella chiamata esplicita, Gesù li pose di fronte a una scelta tra l’approfittare del guadagno che avrebbe rappresentato tutto quel pesce o il rinunciarvi per una vita diversa, cosa che avvenne consapevolmente e senza dubbi: “Tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono” (Luca), mentre per Giovanni e Giacomo “soci di Simone” è detto che “Subito lasciarono la barca e il loro padre, e lo seguirono”. Non lasciarono quindi Zebedeo in difficoltà, perché aveva dei dipendenti e avrebbe rimpiazzato i figli con altri, cioè il loro non fu un abbandono irresponsabile.

Si può allora concludere l’episodio con due considerazioni che, per la personale esperienza avuta nella Chiesa, mi sento di fare: la prima è che i quattro accettarono di seguire Gesù e che Lui stesso rivolse a loro l’elezione dopo che ciascuno di essi aveva compiuto un percorso individuale e profondo. Egli dette loro il tempo per vedere, ascoltare, lasciare che sedimentassero i facili entusiasmi, analizzare i sentimenti che provavano e soprattutto, riflettere. Non li assillò, non li costrinse, non fece su di loro alcun lavoro di “marketing psicologico” attivo o passivo perché la scelta di seguire Cristo non può essere condizionata da facili impulsi sopravvalutando le proprie forze, ma da un confronto tra quello che può essere la vita con Lui o senza, tra l’andare avanti a pescare conoscendo i successi e gli insuccessi del mestiere, il condurre una vita benestante destinata un giorno a conoscere il suo termine, o diventare dei “pescatori di uomini”.

Seconda considerazione: cosa vuol dire oggi per il cristiano essere “pescatore di uomini”? In molte Chiese si pensa che sia la predicazione all’esterno il dovere di ogni credente, ma così facendo si rischia di fare dei proseliti, mentre credo che siamo chiamati a “pescare noi stessi” per primi, pur avendo già creduto ed essendo stati già salvati. Non si diventa pescatori senza un lungo tirocinio, senza acquisire conoscenza e soprattutto esperienza. Non esiste persona uguale all’altra, ciascuna ha attitudini precise e soprattutto funzioni diverse, come illustrato dal paragone col corpo e le sue membra: “Come infatti il corpo, pur essendo uno, ha molte membra e tutte le membra, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche Cristo. E in realtà noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti ci siamo abbeverati a un solo Spirito. Ora il corpo non risulta di un membro solo, ma di molte membra. Se il piede dicesse: «Poiché io non sono mano, non appartengo al corpo», non per questo non farebbe più parte del corpo. E se l’orecchio dicesse: «Poiché io non sono occhio, non appartengo al corpo», non per questo non farebbe più parte del corpo. Se il corpo fosse tutto occhio, dove sarebbe l’udito? Se fosse tutto udito, dove l’odorato? Ora, invece, Dio ha disposto le membra in modo distinto nel corpo, come egli ha voluto. Se poi tutto fosse un membro solo, dove sarebbe il corpo? Invece molte sono le membra, ma uno solo è il corpo. Non può l’occhio dire alla mano: «Non ho bisogno di te»; né la testa ai piedi: «Non ho bisogno di voi». Anzi quelle membra del corpo che sembrano più deboli sono più necessarie; e quelle parti del corpo che riteniamo meno onorevoli le circondiamo di maggior rispetto, e quelle indecorose sono trattate con maggior decenza, mentre quelle decenti non ne hanno bisogno. Ma Dio ha composto il corpo, conferendo maggior onore a ciò che ne mancava, perché non vi fosse disunione nel corpo, ma anzi le varie membra avessero cura le une delle altre. Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui. Ora voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte”. (1 Corinzi 12.12-27)

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3.02 – L’INDEMONIATO NELLA SINAGOGA DI CAPERNAUM (Luca 31.37))

3.02 – L’indemoniato nella Sinagoga di Capernaum (Luca 4.31-37)

 

31Poi scese a Cafàrnao, città della Galilea, e in giorno di sabato insegnava alla gente. 32Erano stupiti del suo insegnamento perché la sua parola aveva autorità. 33Nella sinagoga c’era un uomo che era posseduto da un demonio impuro; cominciò a gridare forte: 34«Basta! Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!». 35Gesù gli ordinò severamente: «Taci! Esci da lui!». E il demonio lo gettò a terra in mezzo alla gente e uscì da lui, senza fargli alcun male. 36Tutti furono presi da timore e si dicevano l’un l’altro: «Che parola è mai questa, che comanda con autorità e potenza agli spiriti impuri ed essi se ne vanno?». 37E la sua fama si diffondeva in ogni luogo della regione circostante”.

Di questo episodio parlano Luca e Marco, che integra il racconto con una annotazione: “…erano stupiti dal suo insegnamento: Egli insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi” (1.22). Come abbiamo anticipato nello scorso episodio, la guarigione dell’indemoniato fu il primo dei sette miracoli compiuti da Gesù in giorno di sabato ed avvenne in una Sinagoga a sottolineare la continuità fra Antico e Nuovo Patto. Il contenuto della Sua predicazione fu probabilmente graduale: parlando a tutti, quindi in gran parte al popolo e poi agli eventuali dottori presenti, partiva dalle Scritture che lo riguardavano e le aggiornava, mostrando i veri contenuti della Legge e dei Profeti. Ma soprattutto la Legge, che secondo l’insegnamento dell’apostolo Paolo “possiede soltanto l’ombra dei futuri beni e non la realtà stessa delle cose”, andava esposta, commentata in modo tale da condurre il popolo a Lui.

Nello scorso capitolo ho accennato al fatto che a Capernaum inizia un tempo nuovo, un periodo di insegnamento e di dedizione totale alla creatura e lo vedremo nei miracoli, negli insegnamenti, nei segni di Cristo. Ora Credo che il Suo insegnamento consistesse appunto in questo: ampliare la conoscenza in merito agli avvenimenti e ai precetti che molti, se non tutti, conoscevano in modo limitato e freddamente osservante.

L’obiettivo di Gesù era quindi da un lato quello di portare in luce ciò che era in ombra, dall’altro dimostrare inconfutabilmente che, attraverso i segni che compiva e avrebbe compiuto, aveva un’autorità che procedeva da Dio, ciò per condurre gli uomini a riconoscerlo come il Figlio di Dio nel quale il Padre si era compiaciuto. Non era infatti lontano il tempo in cui, parlando nella Sinagoga di Nazareth e commentando Isaia dirà “Oggi si è compiuto quello che voi avete ascoltato” (Luca 4.21), facendo esplicito riferimento a se stesso. Insegnando nella Sinagoga, già provocava nella gente un senso di rispetto e di edificazione perché si distingueva da chiunque nell’esporre: era la sua consacrazione e la conseguente relazione che aveva con il Padre che produceva quell’insegnamento autorevole così distante da quello degli scribi che si limitavano a discorsi basati su concetti religiosi, osservanti l’estensione della tradizione orale così lontana dall’amare “il Signore Iddio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e tutta la tua mente”; ciò produceva un’esposizione magari accademica, ma certo non in grado di dissetare l’anima perché mancava l’acqua viva che doveva sgorgare. Luca 4.14 ha scritto “Insegnava nello loro sinagoghe e tutti gli rendevano lode”, cosa impossibile senza questa caratteristica. Anche oggi chi insegna il Vangelo dovrebbe essere in grado di presentarlo con l’autorità che deriva dall’esperienza, dall’aver provato prima di tutto i benefici della Grazia su di sé piuttosto che percorrere i sentieri della storia e della tradizione, a meno che non sia strettamente necessario e limitatamente all’inquadramento nel tempo di un determinato personaggio o corrente.

Qual era la destinazione, l’obiettivo a lunga scadenza che Gesù si prefiggeva? Dare la sua vita perché gli uomini credessero in Lui e si salvassero. Così Paolo in Ebrei 10.11-14: “Ogni sacerdote si presenta giorno per giorno a celebrare il culto e a offrire molte volte gli stessi sacrifici, che non possono mai eliminare i peccati. Cristo, invece, avendo offerto un solo sacrificio per il peccato, si è assiso per sempre alla destra di Dio, aspettando ormai che i suoi nemici vengano posti a sgabello dei suoi piedi. Infatti, con un’unica offerta, egli ha reso perfetti per sempre quelli che vengono santificati”.

Salvare l’uomo significa sottrarlo a Satana in vista del giudizio futuro su di lui e questo è uno dei motivi per cui lo spirito immondo, come abbiamo letto, gli si rivolterà contro. E qui abbiamo il primo dato: un vero insegnamento, fosse anche una semplice frase di natura spirituale, non può che generare una reazione in positivo o in negativo. In quella Sinagoga Luca e Marco ci dicono che c’era un uomo posseduto da uno spirito immondo di cui probabilmente nessuno si era mai accorto perché, in caso di comportamento sconnesso, gli sarebbe stato impedito l’accesso: frequentava allora le riunioni in quell’edificio probabilmente con regolarità e non aveva mai dato adito a preoccupazioni o provvedimenti tali da escluderlo dalla comunità. Ecco allora che quell’uomo frequentava l’assemblea sentendosi a suo agio tra le preghiere formali e gli insegnamenti frutto della scienza scritturale umana proposta dagli scribi. Anche oggi sono tanti quelli che frequentano i radunamenti di Chiesa per lavare le loro coscienze, oppure per sentirsi a posto senza pensare al Corpo di Cristo al quale appartengono. La Chiesa non è costituita da membri isolati gli uni dagli altri, ma da persone che interagiscono tra loro per un bene comune. In pratica sono un corpo solo, ciascuno con una funzionalità precisa. Chiamati fuori da un mondo che non riconosce Dio, rischiano di chiudersi dentro loro stessi, attratti più da eventuali riti e atteggiamenti esteriori più che dal vivere assieme in Cristo.

Ma torniamo all’episodio: non resta che concludere che la presenza di Gesù e le sue parole su un brano di scrittura specifico abbiano provocato nel demone che abitava quella persona anonima la reazione che abbiamo letto. Penso che Gesù abbia affrontato un passo impegnativo, come del resto tutti quelli che coinvolgono l’osservanza spirituale di un comandamento, quello che c’è dietro, le sue profonde implicazioni, della Legge o di una profezia sul trionfo del Messia sul peccato, su Satana e i suoi angeli. Prestiamo ora attenzione alle parole di Giacomo, fratello di Gesù nella sua lettera: “Tu credi che c’è un solo Dio? Fai bene, anche i demoni lo credono e tremano” (2.19). I demoni, come ha spiegato Giacomo, hanno due caratteristiche: la prima è che credono – ma per questo non sono salvati – perché lo hanno visto e conosciuto il Suo primo giudizio; la seconda è il tremare, verbo che ha come suo secondo significato l’essere in uno stato di agitazione, di ansia, di paura interiore.

I demoni infatti sanno che un giorno Satana avrà il capo schiacciato dalla progenie della donna e che il loro destino sarà l’essere gettati nello stagno di fuoco e di zolfo con lui, ma non quando. Ecco il perché della frase che quello spirito, che fino a quel momento era rimasto silente accontentandosi di vivere in quell’uomo dominandolo, ha una reazione che si caratterizza con delle frasi che iniziano quasi con un imperativo: “Basta!”, che tuttavia è più corretto tradurre con “Lasciaci” o con un grido, “Ah!”. Marco scrive infatti “diede in grido” (1.23). Quel demone non tollerava prima di tutto di ascoltare un insegnamento di vera dottrina perché, se lo Spirito convince di peccato, quella predicazione generava in lui un cortocircuito. La presenza e le parole di Gesù erano diventate letteralmente intollerabili.

Se l’intento di Satana è tenere l’uomo all’oscuro della verità in modo che l’uomo non giunga alla salvezza e di compromettere nella maniera più grave possibile il rapporto dei credenti, non poteva tollerare quelle parole di vita che, per lui, erano di morte. L’apostolo Giovanni, nella sua prima lettera in 3,8, scrive che “Gesù è venuto per distruggere le opere del diavolo“.

Lo spirito impuro, inoltre, si considerava un tutt’uno con la persona che occupava, la considerava già una sua proprietà e, infatti, parla al plurale, “Che vuoi da noi (…) sei venuto a rovinarci?”. Da qui possiamo fare un’altra riflessione: per possedere quella persona, vale a dire la sua anima e il suo spirito, voleva dire che la stessa glielo aveva permesso con un comportamento non consono alla Scrittura, in particolare nei confronti della Legge, con una ribellione sistematica a uno o più comandamenti, quel decalogo dato agli uomini per evitare che offendessero Dio. Dei dieci, diversi da quello che è insegnato nel catechismo della Chiesa di Roma, ne abbiamo quattro che riguardano la relazione con Dio (1. Non avere altri dèi oltre a me – 2. Non farti scultura, né immagine alcuna delle cose che sono lassù nel cielo o quaggiù sulla terra o nelle acque sotto la terra, non ti prostrare davanti a loro e non li servire – 3. Non pronunciare il nome del Signore, tuo Dio, invano – 4. Ricordati del giorno di riposo per santificarlo) e sei sono norme comportamentali tra simili che vanno a danneggiare uno o più soggetti in modo tale da rendere impossibile un contatto con Lui: “5. Onora tuo padre e tua madre – 6. Non uccidere – 7. Non commettere adulterio – 8. Non rubare – 9. Non attestare il falso contro il tuo prossimo – 10. Non desiderare la casa del tuo prossimo, non desiderarne la moglie né il suo servo, né la sua serva, né il suo bue né il suo asino, né cosa alcuna del tuo prossimo”.

Ora va fatta molta attenzione: i punti in cui quella persona era mancante alla luce del decalogo poteva riguardare il settimo comandamento “Non commettere adulterio” o l’ottavo “Non rubare”, azioni che possono diventare continuative, abitudinarie perché suscettibili, soddisfacendo la carne, ad essere continuate nel tempo e a coperte da una coscienza di per sé impura. Entrambe le infrazioni, poi, sono la conseguenza della coltivazione del decimo comandamento relativo al non desiderare ciò che è di altri, azione che non implica la semplice, bonaria invidia che porta ad esempio un uomo che manca di certe cose accessorie a considerare un suo simile fortunato perché invece le possiede e lì si ferma.

La pratica abituale del trascurare i comandamenti di Dio, soprattutto quelli che possono essere difficilmente scoperti, porta l’uomo a porsi in contrapposizione con Lui, ad adagiarsi su un sistema religioso fatto da uomini: “tanto nessuno mi vede”. Frequentando la Sinagoga, quell’uomo aveva trovato un compromesso e da un lato il recarsi alle riunioni soddisfaceva il suo senso religioso, quindi carnale. Era una situazione da sdoppiamento della persona, che si comportava ora in un modo ora in un altro senza alcun problema.

A questo punto occorre precisare che lo spirito impuro aveva trovato un terreno quanto mai fertile in quella persona per potersi stabilire al suo interno: l’innominato indemoniato aveva finito per diventare una vittima delle proprie concupiscenze materiali e paradossalmente aveva trovato un equilibrio nella sua incontinenza. Solo di fronte alla responsabilizzazione vista nella predicazione di Nostro Signore fu possibile una reazione perché l’impurità non può reggere di fronte alla santità di Dio che la giudica e condanna.

Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei, il Santo di Dio!” (v.34): vediamo che prima lo chiama “Nazareno”, in tono evidentemente spregiativo per denigrarlo davanti ai presenti che sapevano quanto fossero rozzi gli abitanti di quella città; poi abbiamo la domanda “Sei venuto a rovinarci?”, che in un altro episodio altri demoni aggiungeranno “prima del tempo?”.

Ecco, qui intervenire Giuda nella sua lettera ai versetti 5 e 6 che scrive “A voi che conoscete tutte queste cose, voglio ricordare che il Signore, dopo aver liberato il popolo dalla terra d’Egitto, fece poi morire quelli che non vollero credere e tiene in catene eterne, nelle tenebre, per il giudizio del grande giorno, gli angeli che non conservarono il loro grado ma abbandonarono la propria dimora”: sono catene che non li bloccano nella loro attività, ma non consentono loro di andare oltre a un certo punto, non hanno piena autonomia. Ecco perché possono agire solo in quei contesti in cui viene loro dato uno spazio.

E questo episodio ci insegna una realtà sulla persona indemoniata: il problema non è se indemoniato sia il malato mentale o chi ha problemi psichici che a volte la psicoterapia o le cure farmacologiche sono in grado di aiutare, ma l’uomo che, col suo comportamento, consente di lasciarsi dominare da istinti e forme di ragionamento che a lungo andare consentono a uno spirito immondo di abitarlo. Non tutti quelli che si comportano come l’indemoniato di Capernaum a livello di infrazioni ai comandamenti sono effettivamente tali, ma l’episodio ci insegna che questo è possibile. Non è un ragionamento superstizioso, anzi è un’estensione delle parole di Gesù a proposito di due realtà, entrambe attinenti al nostro caso.

In Luca 16.13 leggiamo che “Nessuno può servire a due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro”. Da questo importante passo rileviamo che l’uomo, che si ritiene autonomo e si proclama libero, in realtà è e rimane un servo; è l’entità con la quale si relaziona che determina il suo carattere e l’a chi sono rivolti i suoi pensieri.

La seconda ci è data per descrivere lo stato di una persona liberata dallo spirito immondo, che non può rimanere da sola, ma iniziare un cammino che abbia Cristo come fondamento: “Quando lo spirito impuro esce dall’uomo, si aggira per luoghi aridi cercando sollievo, ma non ne trova. Allora dice «Ritornerò da dove sono uscito». E, venuto, la trova vuota, spazzata e adorna. Allora va, prende con sé altri sette spiriti peggiori di lui, vi entrano e vi prendono dimora e l’ultima condizione di quell’uomo diventa peggiore della prima” (Matteo 12.43-45).

 

C’è una terza frase che lo spirito impuro pronuncia pubblicamente: “Io lo so chi sei, il Santo di Dio!”: non riconosce Gesù come profeta generico, ma gli dà quel titolo conosciuto dal popolo come Colui che doveva arrivare, era un titolo non morale, ma ufficiale e preciso che quello spirito non poteva pronunciare: se lo fece, era solo per evidenziare che il tempo per la sua fine non era ancora giunto e voleva essere lasciato stare, libero di occupare quell’uomo.

Satana conosce il suo destino, ma sa anche che prima della sua definitiva sconfitta avrà modo di sedurre “perfettamente” gli uomini degli ultimi tempi, quando si manifesterà tramite un sistema politico (la Bestia) e con un suo rappresentante – un presidente? – chiamato “falso profeta”: “Nessuno vi inganni in alcun modo! Prima infatti verrà l’apostasia e si rivelerà l’uomo della perdizione, l’avversario, colui che si innalza sopra ogni essere chiamato e adorato come Dio, fino a insediarsi nel tempio di Dio, pretendendo di essere Dio” (2 Tessalonicesi 2.3). Riconoscere in Gesù “Il Santo di Dio”, che costituisce per l’uomo salvezza, qui ha per conseguenza la proibizione di parlare e l’ordine di uscire da quell’uomo.

A questo punto il resoconto di Luca e di Marco sono diversi: Luca scrive “E il demonio lo gettò a terra in mezzo alla gente e uscì da lui, senza fargli alcun male”, mentre Marco “E lo spirito immondo, straziandolo e gridando forte, uscì da lui” (1.26). Mi sono chiesto il perché di questi punti di vista, apparentemente contraddittori perché tra lo straziare fortemente e il non fare alcun male esiste differenza. Luca esamina il fatto dal punto di vista medico e, considerato il fatto che quell’uomo ritornò in sé, pone l’accento sulla sua guarigione: non riportò fratture, sanguinamenti, tornò in sé. Marco, che ebbe Pietro come fonte primaria sicuramente presente nella Sinagoga, mette invece l’accento sulla sofferenza spirituale di quell’uomo. “Straziandolo forte” si riferisce probabilmente alla sofferenza che lo spirito impuro gli provocò, sofferenza psichica e morale: lo gettò a terra e con convulsioni. Un tentativo di rivalsa di fronte all’abbandono che gli era stato ordinato.

Sono senz’altro da citare le parole che un caro fratello scrisse un giorno: “Ecco un’importante verità alla quale tutti i credenti devono prestare la massima attenzione: quando noi consegniamo a Satana parte della nostra mente o del nostro corpo, ricordiamoci che, pur se aiutati, protetti e salvati da Gesù, prima di lasciarci il male cercherà di umiliare la nostra vita senza pietà come fece proprio con l’anonimo posseduto”. “Senza pietà”, sentimento che non appartiene né a Satana, né ai suoi angeli, siano essi spiriti immondi o esseri definiti “umani”.

L’episodio si conclude col timore che si impossessò dei presenti, abituati ad assemblee regolate da un susseguirsi di eventi senza che nulla le turbasse: non poteva essere altrimenti. Tuttavia il fatto generò delle domande importanti perché all’insegnamento con autorità di Gesù era subentrata la dimostrazione del suo dominio sugli spiriti a Lui contrari: “Che parola è mai questa, che comanda con autorità agli spiriti impuri, ed essi se ne vanno?”.

Marco scrive invece “Che è mai questo? Un insegnamento nuovo, dato con autorità – notare il termine “nuovo” –. Comanda persino agli spiriti impuri, ed essi gli obbediscono” (1.27). Con quest’ultima frase, i presenti confessano di non aver mai visto niente di simile, soprattutto gli anziani che probabilmente avevano anche visto spiriti impuri all’opera senza che nessuno avesse potuto far niente per scacciarli e farsi ubbidire da loro. Solo Gesù c’era riuscito, a conferma di essere l’unico liberatore possibile.

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3.01 – UN TEMPO NUOVO (Vari autori)

3.01 – Un tempo nuovo (vari).

 

Con la venuta di Gesù in Galilea ci raccordiamo a Marco 1.14,15 che dice “Ora, dopo che Giovanni fu messo in prigione, Gesù venne in Galilea predicando il Vangelo del Regno di Dio e dicendo «Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino. Ravvedetevi e credete al Vangelo”».

Matteo 4.13,17 scrive “Poi lasciò Nazareth e venne ad abitare a Capernaum, città posta sulla riva del mare, ai confini di Zabulon e Neftali. Affinché si adempisse ciò che fu detto dal profeta Isaia quando scrisse «Il paese di Zabulon, il paese di Neftali, sulla riva del mare, in regione al di là del Giordano, la Galilea dei Gentili, il popolo che giaceva nelle tenebre ha visto una gran luce, e su coloro che giacevano nella regione e nell’ombra della morte si è levata una gran luce». Da quel tempo Gesù cominciò a predicare e a dire: «Ravvedetevi, perché il regno dei cieli è vicino»”.

            Luca conferma l’attività di Gesù scrivendo che “…Gesù, nella potenza dello Spirito, se ne tornò in Galilea e la sua fama si sparse per tutta la regione circostante. Ed Egli insegnava nelle loro sinagoghe, essendo onorato da tutti” (4.14,15).

 

Entriamo in un nuovo periodo dell’attività di Gesù, un tempo nuovo che, almeno secondo la visione che ho avuto del Vangelo, inizia quando Gesù venne ad abitare a Capernaum, città posta sulle rive del lago, o mare di Galilea, detto anche di Tiberiade prendendo il nome dalla città costruita da Erode Antipa in onore di Tiberio Claudio Nerone nell’anno 20 circa. Capernaum era posta sulla riva del lago e da lei passavano le vie principali che dall’Egitto portavano in Siria e da Gerusalemme a Damasco. Gesù poteva così non solo incontrarsi con persone con cui non avrebbe mai potuto avere a che fare restando nella lontana Nazareth, ma da lì potevano essere diffuse nelle regioni circostanti le notizie dei suoi miracoli e i contenuti, seppur a grandi linee, della sua predicazione. Se nessuno poteva fare i segni che faceva se Dio non era con lui, come riconobbe Nicodemo, va da sé che alle notizie dei miracoli non si accompagnassero resoconti più o meno particolareggiati delle sue parole e dei suoi commenti alle Scritture esposti nelle Sinagoghe.

Da Capernaum, inoltre, Gesù poteva visitare più facilmente le città della Galilea senza contare che, usando una barca, poteva avere accesso alle città che si affacciavano sul lago e raggiungere così la Traconitide, la Perea e la Decapoli. Matteo, coprendo uno spazio temporale rilevante, ci dice “La Sua fama si diffuse per tutta la Siria e conducevano a lui tutti i malati tormentati da varie malattie e dolori, indemoniati, epilettici e paralitici, ed Egli li guarì. Grandi folle cominciarono a seguirlo dalla Galilea, dalla Decàpoli, da Gerusalemme, dalla Giudea e da oltre il Giordano” (4.24,25).

Matteo collega l’abitare di Gesù a Capernaum con l’adempimento della profezia di Isaia in 8.23 e 9.1,2 che quanti conoscevano non potevano non collegare al suo seguito, che l’evangelista non riporta: “Perché un bambino ci è nato, un figlio ci è stato dato. Sulle sue spalle è il potere e il suo nome sarà: Consigliere mirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace. Grande è il suo potere e la pace non avrà fine sul trono di Davide e sul suo regno, che egli viene a consolidare e rafforzare con il diritto e la giustizia, ora e per sempre” (Isaia 9.5,6). Notiamo i verbi, “nato” e “dato” che riassumono il periodo della vita di Gesù, “nato”, venuto al mondo come tutti gli altri uomini, e offerto, “dato”, in sacrificio per loro. Ai lettori ebrei che non ignoravano il libro di Isaia, Matteo offre un’altra possibilità di connessione, vale a dire con 11.2-4: “Su di lui si poserà lo Spirito del Signore – in forma di colomba e non solo – Spirito di sapienza e di intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e timore del Signore. Si compiacerà nel timore del Signore. Non giudicherà secondo le apparenze e non prenderà decisioni per sentito dire, ma giudicherà con giustizia i poveri e prenderà decisioni eque per gli oppressi del paese”.

 

Ho intitolato queste riflessioni “Un tempo nuovo”, preferendo “tempo” a “periodo”, parola forse più immediata ma che avrebbe definito in misura minore le implicazioni del prendere residenza in quella città. La profezia di Isaia riportata da Matteo che abbiamo letto è la settima usata in quel Vangelo, a sottolineare la pienezza dell’opera di Dio e a sottindendere che tutto quanto fatto da Gesù prima di allora era stato compiuto in maniera perfetta. Sappiamo che il settimo giorno, di riposo per quell’entità perfetta riassunta nel tetragramma YHWH, avvenne dopo la constatazione che “tutto era molto buono”. “Tempo nuovo” perché da Capernaum inizierà una predicazione pressoché ininterrotta consistente in insegnamenti, dottrina, miracoli e guarigioni.

Ricordiamo le profezie precedenti di Matteo:

 

  1. La nascita da una vergine, fatto tecnicamente impossibile senza l’opera dello Spirito Santo. Gesù non poteva avere un DNA unicamente umano, essere figlio carnale di Maria e Giuseppe, perché altrimenti non avrebbe potuto essere al tempo stesso Figlio dell’uomo e Figlio di Dio, vero Dio e vero uomo. Fu quello, oltre alla vittoria sul peccato, che lo fece risorgere. Il numero uno, come prima profezia, ci parla di un’esistenza autonoma, santa, non competente all’uomo che, piuttosto, trova la sua dimensione nei numeri pari. L’uno è l’esistere pieno, il tutto, l’autosufficienza, in poche parole l’“io sono colui che sono”;
  2. La nascita di Gesù a Betlehem, l’unica che avrebbe potuto dare i natali al “Capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele”. Non a caso abbiamo questo annuncio al secondo posto: è l’uomo Gesù che viene al mondo, perfetto connubio di due nature, umana e divina. Il due è condivisione e soccorso (“se uno cade l’altro lo rialza”), ma anche separazione vista nell’appartenere a Cristo oppure no, di scelta.
  3. Il ritorno in Israele dalla fuga in Egitto perché Erode il Grande voleva ucciderlo, “Dall’Egitto ho chiamato mio Figlio”. Terza profezia, tre come numero proprio di Dio e che ci questo caso ci parla di quanto sia inutile, oltre che controproducente, ostacolare i suoi piani che si realizzano e realizzeranno comunque;
  4. Il grido udito in Rama, la strage degli innocenti in cui Satana, cui Erode il Grande esattamente come col Faraone molti secoli prima aveva dato spazio nella sua persona, commise uno dei tanti suoi crimini. Il quattro è un numero che ha sempre riferimento alla materia e, in questo caso, a quanto avvenuto ad opera dell’avversario e quindi del peccato.
  5. L’abitare per circa 30 anni a Nazareth perché “Sarà chiamato Nazareno” con l’evidente riferimento, più che alla città dalla quale non poteva venire nulla di buono secondo le parole di Natanaele – Bartolomeo, al Germoglio che sarebbe uscito dal tronco di Jesse, padre di Davide da cui Gesù discendeva sia da parte di padre che di madre. Il cinque, numero intermedio, ci parla di uno stato che porta ad una progressione, ad uno sviluppo nelle mani di Dio e alla sua Grazia. Cinque è 4+1, cioè un dono di Dio aggiunto alla realtà dell’uomo.
  6. La persona e l’opera di Giovanni Battista, visto nella “Voce d’uno che grida nel deserto”. Da notare anche qui il numero sei, che sottintende l’uomo nella sua imperfezione e incompletezza se rimane da solo, dell’uomo che ha bisogno dell’”Uno” di Dio per completarsi. Solo se Giovanni avesse annunciato Gesù secondo l’insegnamento ricevuto nel deserto, come fece, avrebbe davvero assolto al compito lui affidatogli. Ricordiamo, a proposito della completezza, quel giovane ricco che voleva seguire Gesù che si sentì dire “Una cosa sola ti manca: va’, vendi ciò che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro nei cieli; poi vieni e seguimi” (Marco 10.21): al suo “6” mancava un “1” per essere perfetto.
  7. Terra di Zabulon e terra di Neftali, il popolo che giaceva nelle tenebre ha visto una gran luce”. Settimo passo citato, punto di arrivo e di partenza verso altre destinazioni spirituali. Arrivando a Capernaum Gesù conclude e inizia un periodo della sua vita, che fin qui ho cercato di sviluppare a grandi linee, per iniziarne uno nuovo e lo farà predicando nelle Sinagoghe e chiamando ufficialmente a sé coloro che diventeranno i suoi primi quattro apostoli (Natanaele in un certo senso era già stato chiamato nel breve dialogo riportato da Giovanni, “Vedrai cose più grandi di queste”).

 

Come tutta la creazione, l’universo, iniziò con la luce, allo stesso modo l’universo spirituale e nuovo iniziava con la “gran luce” vista dal popolo che abitava quelle terre, toccate in sorte alle due tribù di Zabulon e Neftali, rispettivamente la nona e la decima. Parte di questo territorio, quella settentrionale, era chiamato “La Galilea dei gentili” a motivo della sua prossimità con la Siria e la Fenicia e al fatto che pare che la popolazione fosse in parte un misto di ebrei e gentili. Ma in quali tenebre giaceva il popolo, a parte l’ovvio, inevitabile riferimento alla sua lontananza da Dio? Leggiamo due elementi negativi, “tenebre” e, da traduzione più corretta “nella regione e nell’ombra della morte”, riferita non alla Giudea, ma alla Galilea con particolare riguardo alle terre di Zabulon e Neftali. Le tenebre sono nella Scrittura una figura familiare per rappresentare non solo l’ignoranza e l’errore, ma la depravazione e la miseria morale e intellettiva di cui sono il frutto, la conseguenza: non possono esservi le une senza le altre. Ricordiamo le parole dell’apostolo Paolo che, con grande umiltà e verità, descrisse il suo passato: 12Rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me, 13che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento. Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo per ignoranza, lontano dalla fede, 14e così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù”. (1 Timoteo 1.12-14).

La luce si è levata su quel paese che, paradossalmente, avrebbe dovuto avere molte più difficoltà rispetto ai giudei nel riconoscerla, perché era lì che si era sviluppato lo studio della Legge, in Gerusalemme si esercitava il sacerdozio e si offrivano i sacrifici nel Tempio. I galilei erano considerati più corrotti e ignoranti dei giudei. “Una luce si è levata”, quella del Cristo, il solo a potere rivelare l’amore e la volontà del Padre e a compierla.

Proseguendo nella lettura di Matteo, questi riporta il senso della predicazione di Gesù, che sintetizza con parole familiari: “Ravvedetevi, perché il Regno dei cieli è vicino”, le stesse che diceva Giovanni Battista. Marco, invece, scrive “Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino: convertitevi e credete nel Vangelo”, frase che merita un breve approfondimento perché non può esservi conversione senza credere nel Vangelo nel suo senso etimologico di “buona notizia”, la sola di cui l’uomo ha bisogno. E la buona notizia era proprio che finalmente Dio recuperava ciò che altrimenti sarebbe stato perduto, la sua creatura. “Il tempo è compiuto” cioè “Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò suo Figlio, nato di donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli” (Galati 4.4). E “Il Regno di Dio è vicino” significa che sarebbe stato imminente, sarebbe stato prima “dentro di voi” e in futuro si sarebbe caratterizzato con la sconfitta di Satana, gettato nello stagno di fuoco coi suoi angeli, termine che ha riferimento sia con gli esseri spirituali che lo seguirono, ma anche con tutti quegli uomini che gli dettero spazio perché si potesse servire di loro. Ecco perché chi sentiva le parole di Gesù avrebbe dovuto credere nel Vangelo, quindi in Lui. Credere nel Vangelo implica un profondo ravvedimento, il sapere che così come si è, si agisce, si pensa, può condurre solo alla morte. Di qui il collegamento con le tenebre e la scelta di rimanere in loro fatta dalla maggior parte degli uomini: “Ma gli uomini hanno amato le tenebre più della luce”, verso su cui ci siamo già soffermati in breve.

Tornando ai versi che descrivono l’attività di Gesù in Galilea, che Matteo e Marco sintetizzano con l’accennare alla predicazione della necessità del ravvedersi e nel credere al Vangelo, Luca aggiunge un altro particolare: “Insegnava nelle loro sinagoghe, essendo onorato da tutti” (4.15). Perché è un particolare non marginale? Innanzitutto per la Sinagoga, parola che etimologicamente è formata da syn, insieme, e aghèin, condurre, portare. È un termine che quindi allude a un cammino comunitario e il verbo synàgo significa “radunare”. La sinagoga era ed è tuttora un luogo di preghiera e di istruzione religiosa; le sue adunanze si tenevano ogni sabato mattina e pomeriggio, ma anche in altri giorni; era proibito agli ebrei risiedere in luoghi ove la sinagoga non vi fosse e la sua esistenza era condizionata dalla presenza di non meno di dieci persone, al contrario della Chiesa che ne prevede dalle due o tre. Infatti “Dove due o tre sono radunati nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Matteo 18.20). Se la sinagoga era un luogo di preghiera e di lettura, la Chiesa radunata ha la presenza del Signore Gesù: è “in mezzo”, “tra” di loro come un familiare visto nella frase “Ecco, io sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Apocalisse 3.20). Si tratta di una frase particolare, detta all’Angelo della Chiesa di Laodicea sulla quale, se ci soffermassimo, andremmo fuori tema; tuttavia è interessante notare l’atteggiamento così diverso del Dio giudice inflessibile e tremendo dell’Antico Patto e quello aperto alla comprensione e al perdono del Nuovo: si tratta infatti di parole rivolte a quei credenti che hanno bisogno di ravvedersi ancora perché hanno contristato lo Spirito con una condotta non consona alla loro fede e vivono una condizione per cui sono definiti “tiepidi”.

Ma torniamo alla Sinagoga. La dinamica delle riunioni al suo interno era la seguente: prima vi era lo “Shemà”, (“Ascolta”) che si caratterizzava con la lettura di tre passi del Pentateuco, al quale seguivano una serie di diciotto brevi preghiere che esprimevano adorazione, sudditanza e speranza verso il Dio d’Israele, dopo di che si procedeva alla lettura e spiegazione dei testi sacri, vale a dire la Torà (il Pentateuco) suddivisa in 154 sezioni di modo che veniva letta integralmente in tre anni, e poi i Profeti, cioè i libri da Giosuè in poi. Terminata la lettura, in ebraico e nella lingua di allora che era l’aramaico, seguiva un commento istruttivo che poteva essere tenuto da chiunque tra i presenti giudicati più adatti dal responsabile locale.

Nella pratica chi svolgeva tale ufficio, visto che era richiesta una conoscenza dei testi, era uno scriba o un fariseo, ma Luca ci dice che era Nostro Signore a prendere la parola, o chiamato dal responsabile della Sinagoga o di sua iniziativa visto che ciò era consentito. L’adunanza terminava poi con la benedizione sacerdotale, che recitava il testo di Numeri 6.24-26: “Ti benedica il Signore e ti custodisca. Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia. Il Signore rivolga verso di te il suo volto e ti conceda pace”. I presenti rispondevano “Amen”. Proprio nella sinagoga di Capernaum Gesù compirà il suo primo miracolo dei sette in giorno di sabato, oggetto della nostra prossima riflessione.

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02.01 – INTRODUZIONE A GIOVANNI BATTISTA (Marco 1.1-8)

Introduzione a Giovanni Battista (Marco 1.1-8)

Della persona e opera di Giovanni Battista parlano tutti e quattro gli Evangelisti che, in base base al loro carattere e agli scopi che si prefiggono, forniscono un quadro esauriente del profeta che segna lo spartiacque tra l’Antico e il Nuovo Testamento. Gesù infatti disse, in Matteo 11.13, “…tutti i profeti e la legge hanno profetizzato fino a Giovanni, e se lo volete accettare, egli è l’Elia che doveva venire”. Si trattava di quell’Elia che gli israeliti attendevano quale profeta che avrebbe preceduto il Messia secondo Malachia 4.5: “Ecco, io vi mando Elia il profeta prima che venga il giorno dell’Eterno, giorno grande e spaventevole”; si tratta di un verso che riassume quel periodo iniziato con la venuta del Cristo e terminerà con il giudizio di Dio sul mondo. I riferimenti a Giovanni Battista, che secondo l’annuncio angelico avrebbe camminato “davanti a lui con lo spirito e la potenza di Elia” sono tanti; il significato del suo messaggio è semplice, ma al tempo stesso ha molte sfaccettature, difficili da affrontare esaurientemente anche in più incontri. Per presentarlo, è possibile iniziare dal racconto di Marco 1.1-8.

1 Inizio del vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio. 2Come sta scritto nel profeta Isaia:Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero: egli preparerà la tua via. 3Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri.4Vi fu Giovanni, che battezzava nel deserto e proclamava un battesimo di conversione per il perdono dei peccati. 5Accorrevano a lui tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme. E si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati. 6Giovanni era vestito di peli di cammello, con una cintura di pelle attorno ai fianchi, e mangiava cavallette e miele selvatico. 7E proclamava: «Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. 8Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo».

Marco è una persona che ebbe un’esperienza particolare: come Luca, non faceva parte dei 12 apostoli anche se, rispetto a lui, abbiamo più dati biografici. Non sappiamo se conobbe Gesù direttamente quando predicava, ma sicuramente era presente nell’orto degli ulivi quando fu arrestato ed è opinione consolidata che lui stesso si citi in un episodio che gli altri evangelisti omettono quando, 14.50-51, scrive “Allora tutti lo abbandonarono e fuggirono. Lo seguiva però un ragazzo, che aveva addosso soltanto un lenzuolo, e lo afferrarono. Ma egli, lasciato cadere il lenzuolo, fuggì via nudo”. Secondo l’uso degli ebrei che erano in contatto con romani e greci, è quel “Giovanni detto Marco” che Barnaba voleva prendere con sé prima di partire con Paolo verso la Macedonia (Atti 15.37). Sua madre Maria ospitava la Chiesa di Gerusalemme che aveva in Pietro uno degli uomini più autorevoli (leggere Atti 12.1-18).

Marco aveva già allora un rapporto molto diretto con Pietro, che lo definisce “figlio mio”, a tal punto da seguirlo a Roma, indicata dall’apostolo come “Babilonia” nella sua prima lettera in 5.13: “Vi saluta la comunità che vive in Babilonia e anche Marco, figlio mio”. Pietro, quindi, stante il rapporto con questo giovane, gli raccontò gli episodi di cui fu testimone spiegandogli i loro significati dottrinali, mettendolo in condizione di scrivere un Vangelo molto spontaneo e colorito che è il più breve dei quattro. San Girolamo, vissuto nella seconda metà del 300, padre e dottore della Chiesa che tradusse per primo la Bibbia in latino, scrive in proposito “Evangelium, Petro narrante et illo scribente, compositum est”.

Papia, vissuto tra il 70 e il 130, così scrive di Marco: “Marco, divenuto interprete di Pietro, scrisse accuratamente, ma non in ordine, tutto ciò che ricordava delle cose dette o fatte dal Signore. Non era lui, infatti, che Marco aveva visto o seguito, ma come ho già detto fu Pietro. E quest’ultimo impartiva i suoi insegnamenti secondo le necessità del momento, senza dare una raccolta ordinata dei detti del Signore, di modo che non fu Marco a sbagliare scrivendone alcuni così come li ricordava. Di una sola cosa infatti si dava pensiero nei suoi scritti: non tralasciare niente di ciò che aveva udito e non dire niente di falso”.

Marco scrive per far conoscere il Vangelo ai pagani: pochi i riferimenti profetici, poche le parabole e i discorsi, ma fatti circostanziati spesso non in ordine cronologico, con ritratti e particolari vivaci dei personaggi e degli avvenimenti in modo tale che possano essere ricordati facilmente. Marco è anche quello che più di tutti usa il termine “subito” o “prontamente” per descrivere le reazioni della gente che ebbe a che fare con Gesù. L’essenzialità dei suoi racconti, allora, appare adatta per presentare anche Giovanni Battista, introdotta con un verso che è sia di Malachia (3.1) che di Isaia (40.8).

“Ecco, dinnanzi a te mando il mio messaggero: egli preparerà la tua via” è un verso che si richiama all’uso orientale di inviare dei messaggeri: quando una persona importante stava per mettersi in viaggio, li inviava ad avvisare i villaggi del suo passaggio per provvedere agli approvvigionamenti della scorta e per allestire la tenda per la sosta. La seconda parte, di Isaia, indica il luogo in cui la voce si sarebbe fatta sentire: il deserto, luogo in cui ci vuole un motivo per recarvisi e ancor più per viverci, come aveva fatto Giovanni Battista. “Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri”, è invece più particolare: lo abbiamo già incontrato tempo fa e allora lo avevamo messo in connessione col cammino del popolo che, di ritorno dall’esilio, aveva bisogno di chi spianasse la strada per rientrare nella propria terra, ma qui, per le parole di Giovanni che esamineremo, ha riferimento a un percorso interiore che ciascun uditore era chiamato a fare per ricevere Colui che stava per arrivare.

Quando si muoveva una personalità eminente, l’arrivo del messaggero in un villaggio provocava sempre scompiglio, turbava la sua quiete fatta di tutta una serie di eventi abituali: occorreva allora fare dei preparativi, cercare materiali, allestire cose. Allo stesso modo “Giovanni, che battezzava nel deserto e proclamava un battesimo di conversione per il perdono dei peccati”, provocava inevitabilmente una profonda riflessione e sconvolgimento in coloro che lo ascoltavano e sceglievano volontariamente di farsi battezzare: confessavano i loro peccati non privatamente, ma pubblicamente.

Prima di esaminare il battesimo praticato da Giovanni, bisogna analizzare alcuni elementi suoi caratteristici. Sul vestito avevamo già accennato in precedenza; in particolare va rilevato che Elia vestiva allo stesso modo: “…domandò loro: «Qual era l’aspetto dell’uomo che è salito incontro a voi e vi ha detto simili parole?» Risposero: «Era un uomo ricoperto di peli; una cintura di cuoio gli cingeva i fianchi». Egli disse «Quello è Elia, il Tisbita»” (2 Re 1.7,8).

Ricordiamo che Elia non morì come tutti gli altri uomini, ma scomparve dalla vista del profeta Eliseo nel corso di un avvenimento che troviamo in 2 Re 2.11: “Mentre continuavano a camminare conversando, ecco un carro di fuoco e cavalli di fuoco si interposero tra loro due. Elia salì nel turbine verso il cielo” (2.11). Basandosi sulla profezia di Malachia era così opinione diffusa che quel profeta, assunto in cielo, sarebbe ritornato poco prima di quel giorno “grande e spaventevole” profetizzato. In realtà, quel giorno deve ancora venire e i suoi tempi sono descritti nel libro dell’Apocalisse 11.1-13. Ecco perché Giovanni, a quanti lo interrogavano chiedendogli se fosse Elia, rispose negativamente.

Giovanni vestiva in un modo che lo qualificava quanto ad abbigliamento, ma questo non dava teoricamente alcuna garanzia che fosse un profeta, poiché prima di lui erano giunti diversi personaggi che avevano preteso di essere Elia, se non addirittura il Messia. Testimonianza di ciò la dà lo stesso Gamaliele, maestro di Paolo, quando prese la parola davanti al Sinedrio di Gerusalemme che voleva processare gli apostoli:Tempo fa sorse Tèuda, infatti, che pretendeva di essere qualcuno, e a lui si aggregarono circa quattrocento uomini. Ma fu ucciso, e quelli che si erano lasciati persuadere da lui furono dissolti e finirono nel nulla. Dopo di lui sorse Giuda il Galileo, al tempo del censimento, e indusse molta gente a seguirlo, ma anche lui finì male, e quelli che si erano lasciati persuadere da lui si dispersero. Ora perciò io vi dico: non occupatevi di questi uomini e lasciateli andare. Se infatti questo piano o quest’opera fosse di origine umana, verrebbe distrutta; ma, se viene da Dio, non riuscirete a distruggerli. Non vi accada di trovarvi addirittura a combattere contro Dio!” (Atti 5.36,39).

Gamaliele in quell’occasione riassunse personaggi noti perché già falsi predicatori messianici erano sorti, sfruttando le attese del popolo per ottenerne vantaggi personali o fomentare ribellioni di cui a pagare non fossero loro, ma quelli che li seguivano. I predicatori messianici parlavano partendo dal presupposto che gli ebrei erano il primo popolo della terra, che avrebbero ottenuto la vittoria contro i romani e, raccolta gente attorno a loro, saccheggiavano quando potevano depositi di armi, si proclamavano re, si davano ai saccheggi, pretendevano di aver fatto miracoli o li promettevano, cercavano in tutti i modi di fare proseliti e tutto, presto o tardi, veniva represso nel sangue o si estingueva quando i loro seguaci capivano di trovarsi di fronte a battaglie perse in partenza.

C’è però un dato da considerare: nonostante tutti quei precedenti Elia era aspettato da tempo in Israele e, quando Giovanni iniziò a predicare, il popolo non rimase indifferente alla notizia, ma accorreva per vedere e sentire da vicino le sue parole, sperando che non fosse uno dei tanti impostori che lo avevano preceduto. Giovanni era cresciuto nel deserto rinunciando alla vita sociale, a un lavoro e quindi alla possibilità di mangiare in modo umanamente decente anziché le locuste e il miele selvatico che riusciva a recuperare, quello che le api producevano nelle cavità degli alberi o delle rocce. Era il suo uno stile di vita che manifestava l’intenzione di vivere alla completa dipendenza da Dio senza preoccuparsi di ciò che avrebbe portato il domani avendo la certezza che Lui avrebbe provveduto; atteggiamento ben diverso da quello del popolo ebraico antico che, liberato dalla schiavitù dell’Egitto, proprio nel deserto mormorava continuamente perché non riusciva a capire come avrebbe potuto trovare acqua e cibo, per non parlare di tutte le volte in cui rimpianse la vita che conduceva in quel Paese.

Giovanni inizia a predicare. Cosa? Vi è un annuncio base visto nelle parole “Ravvedetevi, perché il regno dei cieli è vicino” (Matteo 3.2) e leggiamo da Matteo “Allora Gerusalemme, tutta la Giudea e tutta la zona lungo il Giordano accorrevano a lui e si facevano battezzare nel fiume Giordano, confessando i loro peccati” (3.5). L’imperativo è “metanoièite”, cioè un invito a considerare non solo il proprio stile di vita, ma il pensiero e i sentimenti presenti nella persona di ciascuno per cambiarli. Tra i significati possiamo includere anche il “cambiare modo di pensare”. Il corrispettivo ebraico allude anche al ritornare indietro da una falsa strada per rimettersi su quella buona. La necessità del ravvedimento predicata dal Battista trovava il suo perché nella vicinanza del “regno dei cieli”, termine che usa solo Matteo (gli altri scrivono “regno di Dio”). “Regno” sta ad indicare un territorio, un insieme di cittadini che vivono tutti sotto una precisa autorità.

Giovanni Battista quindi, rinunciando a qualsiasi egocentrismo nel quale si erano crogiolati i suoi predecessori che agivano spinti dai loro interessi, predica la necessità del ravvedimento non come atteggiamento religioso, ma come esame profondo della propria vita e delle proprie opere per essere pronti, quando sarebbe venuto, ad accogliere quel “Re dei giudei che è nato” che i magi d’oriente erano venuti ad adorare. Chi fra quelli che andavano a lui erano disposti ad operare questo severo inventario della loro vita, lo facevano e “si facevano battezzare da lui nel Giordano, confessando i loro peccati” (Marco 1.5), cioè: la fede nelle parole di Giovanni, la certezza acquisita che il regno dei cieli fosse prossimo, li spingevano a dichiarare il proprio stato di peccatori attraverso una confessione pubblica e questo significava spesso rinunciare a quell’alone di rispettabilità che molti avevano costruito attorno a sé per essere considerati dal loro prossimo. I rispettabili tra il popolo, vale a dire scribi, farisei, sadducei e dottori della Legge, salvo eccezioni che non possiamo escludere, non andavano da lui, ma inviavano delle loro spie nei luoghi in cui predicava.

Alla confessione seguiva il battesimo, l’immersione nelle acque che stava a significare la purificazione del cuore, dichiarava la volontà di cambiare, di acquisire la cittadinanza di quel regno di Dio che stava per arrivare ed era così distante da quello degli uomini peccatori che appartenevano ad un regno diverso, un regno che non fa altro che opprimere e umiliare la persona da un lato e glorificare il monarca, un uomo peccatore al pari dei suoi sudditi.

“Regno dei cieli”, “Regno di Dio” in opposizione soprattutto a quello di Satana, che nel mondo domina e ha tutto l’interesse a che l’uomo si perda, illuso da quella realtà tangibile ai suoi sensi e che gli fa credere di essere immortale o comunque possessore di qualcosa. L’uomo illuso da Satana si rifugia in se stesso, nei suoi averi, nella sua “fede”, nel suo quotidiano convinto di poter disporre liberamente del proprio tempo escludendo la presenza di Dio nella sua vita né più né meno di quel ricco della parabola che Gesù espose in Luca 12.13-21.

In questa parabola, al di là di tutte le riflessioni sull’io di quell’uomo, colpisce il fatto che Dio pone chi si ritiene padrone di sé e delle sue cose di fronte a un termine: “Questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita”, il cui testo letterale dice “richiedono da te la tua anima”, temine che sta ad indicare tutto il suo essere, le sue intenzioni, i suoi progetti perché siano pesati, misurati, vagliati. Chi spiegherà molto bene con figure questo principio sarà più avanti l’apostolo Paolo in 1 Corinti 3.11-15: “Infatti nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo. E se, sopra questo fondamento, si costruisce con oro, argento, pietre preziose, legno, fieno, paglia, l’opera di ciascuno sarà ben visibile: infatti quel giorno la farà conoscere, perché con il fuoco si manifesterà, e il fuoco proverà la qualità dell’opera di ciascuno. Se l’opera, che uno costruì sul fondamento, resisterà, costui ne riceverà una ricompensa. Ma se l’opera di qualcuno finirà bruciata, quello sarà punito; tuttavia egli si salverà, però quasi passando attraverso il fuoco”. Viviamo in un periodo storico in cui, purtroppo, il cristianesimo predica un Dio amorevole, ma spesso omette di dire le Sue esigenze.

Altra parabola importante è quella della casa costruita sulla roccia (Matteo 7.24-29): tanto in questa che nella precedente è utilizzato il termine “stolto”, che indica chi ha poca intelligenza e si comporta in modo insensato.

Giovanni, con la sua predicazione, preparava il terreno con lo scopo di mettere in grado quanti lo ascoltavano di recepire il messaggio che sarebbe stato rivolto a loro da Gesù e di riconoscerlo.

Per ora abbiamo visto solo il senso generale del significato di quel “ravvedetevi”, che Marco ci ha riportato quale base di tutto un messaggio più profondo, rivolto a diverse categorie di persone, che esamineremo nel prossimo capitolo.

“Ravvedetevi perché il Regno dei cieli è vicino” va bene, ma c’è anche l’annuncio dell’imminente arrivo di una persona ben precisa:“Viene dopo di me Colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzato con acqua, ma Egli vi battezzerà con lo Spirito Santo” (v.8). È un verso che si divide in due periodi ben distinti e il primo riguarda il sciogliere e lacci dei sandali: si tratta di un’usanza molto antica che veniva praticata in pubblico quando una persona rinunciava a un proprio diritto per darlo ad un altro. È probabile che Giovanni si riferisse all’opera di Gesù, che consegnò con il suo sacrificio un popolo nuovo al Padre. Con questa espressione Giovanni spiega ai presenti che non era lui il Messia atteso, ma solo un suo messaggero, quello che l’autorità inviava nei paesi per avvisare del suo transito. Addirittura Giovanni, con l’immagine del sciogliere i lacci dei sandali, arriva quasi ad estraniarsi, annullarsi di fronte alla santità di chi sarebbe venuto dopo di lui, evidenziando la differenza dei ruoli: “Io vi ho battezzato con acqua, ma Egli vi battezzerà con lo Spirito Santo”, parole che si compirono nel giorno della Pentecoste quando lo Spirito Santo scenderà sui membri della primitiva Chiesa di Gerusalemme in Atti 2.1-13.

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