19.39 – IL SERMONE PROFETICO 12: IL LADRO E IL PADONE DI CASA (Matteo 24.42-44)

16.39 – Il sermone profetico 12: Il ladro e il padrone di casa (Matteo 24.42-44)

42Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. 43Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. 44Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo.

            Gli interessati alla successione cronologica del testo, avranno notato che ho omesso di affrontare i versi da 33 a 41 perché già affrontati nel quindicesimo volume. Dal verso 42 Gesù inizia a parlare di una necessità direi vitale per il credente, e cioè la veglia, cui abbiamo accennato a volte in queste riflessioni, ma che non abbiamo mai sviluppato. Leggiamo, per dovere di raccordo, ciò che precede, anche perché è scritto “Vegliate dunque”, cioè “alla luce di quanto vi ho detto”, ovvero “Come furono i giorni di Noè, così sarà alla venuta del Figlio dell’uomo. Infatti, come nei giorno che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche alla venuta del Figlio dell’uomo. Allora due uomini saranno nel campo: uno verrò portato via e l’altro lasciato. Due donne macineranno alla mola: una verrà portata via e l’altra lasciata” (vv.37-41). Come sempre, sono parole suscettibili a una plurilettura temporale.

            Il “dunque”, rimanda anche a quelle situazioni che avevano portato alla decisione, da parte del Creatore, di distruggere l’umanità che aveva finito per staccarsi da Lui, salvo Noè e la sua famiglia. Ricordiamo che i suoi contemporanei “non si accorsero di nulla” non perché non videro quel profeta costruire l’arca e non gli chiesero spiegazioni di cosa stesse facendo, ma semplicemente in quanto, impegnati a vivere il loro attimo, furono impermeabili alla sua testimonianza. Infatti, nella sua seconda lettera, l’apostolo Pietro descrive Noè come “messaggero” (o “predicatore”) di giustizia (2.5), sia in parole ma soprattutto in opere, eppure “non si accorsero di nulla”.

            Anche oggi l’umanità corre verso un futuro di totale abbandono, insensibile a qualunque impostazione di vita e metodi anche solo ordinati e armonici, intenta ad ascoltare unicamente le proprie pulsioni. Questo non solo moltiplica l’insensibilità interiore, ma genera il sonno di qualsiasi ragione, priva della possibilità di ascoltare anche solo un debole richiamo di ordine morale. Se un tempo i regimi cercavano di inculcare nelle persone un’ideologia, per quanto enormemente distante dall’etica e pratica cristiane, oggi assistiamo a un allevare le nuove generazioni (e possibilmente a portare le vecchie) verso una acultura totale e ad ogni livello, concentrandola su bisogni che tali non sono, distraendoli ed indirizzandoli esclusivamente verso il futile, spostando l’asse della coscienza, che si forma col tempo e l’esempio, verso una zona neutra, areattiva, quella preferita dall’Avversario.

            L’invito di Gesù ai discepoli, “Vegliate dunque”, riguarda non il condurre un’esistenza senza sonno, ma fondamentalmente a gestire la propria vita con sobrietà e attenzione. A fronte del gran numero dei discepoli, dobbiamo tener presente che pochi sono quelli ricordati per nome, uomini e donne, e che la maggioranza di loro, pur conosciuta da Gesù nel profondo del loro essere, condusse una vita semplice, senza compiere miracoli o grandi predicazioni, ma portando dentro di sé, facendolo germogliare, il seme della Parola. E questo bastò loro per avere quel “posto” che il loro Signore andò a preparare nel Regno dei cieli.

La veglia, quindi, consiste nel non consentire agli elementi del mondo di prevalere sull’impegno spirituale, ciò che faranno i personaggi che, a parte il “padrone di casa” di cui abbiamo letto, verranno da Nostro Signore citati con parabole in questo sermone, e cioè i due servi (il prudente e il malvagio), le dieci vergini e quelli che operarono facendo fruttare i talenti loro affidati.

            Così l’apostolo Pietro sintetizza il concetto: “Siate sobri, vegliate. Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro cercando chi divorare” (Ia, 5.8). Ora il “divorare” dell’avversario non consiste in altro se non nell’inglobare la persona nello stesso destino di morte e perdizione che ha lui; per farlo procede a un suo lento, inesorabile controllo, come ha sempre fatto da Eva in avanti.

L’Avversario non si pone mai di fronte al proprio bersaglio in tutta la sua pericolosità esattamente come un predatore si muove in silenzio facendo attenzione a non produrre rumori, intervenendo al momento propizio, come fece Erodiade che meditava da tempo il modo perché Giovanni Battista fosse ucciso: “Venne però il momento propizio, quando Erode, per il suo compleanno, fece un banchetto per i più alti funzionari della sua corte, gli ufficiali dell’esercito e i notabili della Galilea” (Marco 6.21). L’Avversario si mimetizza, tanto lui quanto la tentazione che presenta, a prescindere dal genere, proponendola sempre come qualcosa di naturale, appetibile e legittimo, prima sminuendone e poi annullandone la portata e le conseguenze agli occhi di chi è da lui sedotto. E ancora una volta, se andassimo al testo di Genesi della tentazione, troveremmo descritta tutta la strategia di questo personaggio che, come ci ha illustrato Pietro, “va in giro cercando”, cioè studiando chi tra i suoi bersagli può essere una preda facile. I forti non subiscono le sue attenzioni quando sono tali, ma solo quando eventualmente, per i motivi più svariati, scoprono i loro punti deboli ed ecco perché sobrietà e veglia sono sistemi importanti per venire da lui evitati. Leggiamo infatti “Sottomettetevi dunque a Dio; resistete al diavolo, ed egli fuggirà da voi” (Giacomo 4.7).

            Vediamo come l’apostolo Paolo affronta il tema: “Siete tutti figli della luce e figli del giorno; noi non apparteniamo alla notte, né alle tenebre. Non dormiamo dunque come gli altri, ma vigiliamo e siamo sobri. Quelli che dormono, infatti, dormono di notte, e quelli che si ubriacano, di notte si ubriacano. Noi invece, che apparteniamo al giorno, siamo sobri, vestiti con la corazza della fede e della carità, e avendo come elmo la speranza della salvezza. Dio infatti non ci ha destinati alla sua ira, ma ad ottenere la salvezza per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo. Egli è morto per noi perché, sia che vegliamo sia che dormiamo, viviamo insieme con lui. Perciò confortatevi a vicenda e siate di aiuto gli uni agli altri, come già fate” (1 Tessalonicesi 5.5-11).

Sono parole che meritano un breve approfondimento, poste proprio a commento della necessità della vigilanza nell’attesa. Infatti abbiamo: “Riguardo poi ai tempi e ai momenti, fratelli, non avete bisogno che ve ne scriva; infatti sapete bene che il giorno del Signore verrò come un ladro di notte. E quando la gente dirà: «C’è pace e sicurezza!», allora d’improvviso la rovina li colpirà, come le doglie di una donna incinta, e non potranno sfuggire. Ma voi, fratelli, non siete nelle tenebre, cosicché quel giorno possa sorprendervi come un ladro” (vv.1-5).

Poi, riguardo ai versi che abbiamo letto, vediamo l’identità cristiana che si riassume nell’appartenenza al giorno, dove ogni cosa è illuminata, ma il vigilare e lo stare sobri è parte integrante della vita. Quanto alla pericope “sia che vegliamo, sia che dormiamo”, è riferita a chi sarà in vita, o si sarà addormentato nel Signore con la morte del corpo e verrà chiamato ad unirsi a Lui con la risurrezione.

Ancora in Romani 13.11-14 “…è ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché adesso la vostra salvezza è più vicina di quando diventammo credenti. La notte è avanzata, il giorno è vicino. (…) Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo e non lasciatevi prendere dai desideri della carne”. E in Apocalisse 16.15 è Gesù stesso a dire “Ecco, io vengo come un ladro. Beato è chi è vigilante e custodisce le sue vesti per non andare nudo e lasciar vedere le sue vergogne”. Quest’ultimo passo ci consente di ampliare il concetto della nudità, rimandandola a quella di Adamo ed Eva, che la scoprirono solo dopo aver trasgredito e quindi perduto la loro originaria dignità spirituale: chi non sarà trovato “vestito” – ricordiamo “rivestiti di Cristo” di Galati 3.27 – non avrà più Dio Padre come sarto, che “fece all’uomo e sua moglie delle tuniche di pelli e li vestì” (Genesi 3.21), ma conoscerà solo una nudità senza rimedio, con le proprie “vergogne”, cioè tutte le sue azioni negative, irrimediabilmente scoperte.

Tornando al testo, ecco la prima delle quattro parabole che Gesù esporrà per far capire l’inopportunità del sonno a fronte del Suo ritorno: “Se il padrone di casa sapesse a quale ora viene il ladro, non si lascerebbe scassinare la casa”. È interessante il verbo usato per “scassinare”, che se tradotto letteralmente non sarebbe capito da nessuno perché è in realtà “perforare” in quanto in Palestina, essendo le case di terra, era facile entrare facendo un buco nel muro, con poco rumore. Una persona abile, quindi, poteva riuscire ad entrare in casa altrui senza svegliare il proprietario. La veglia, invece, con l’orecchio attento ai più piccoli rumori nel silenzio della notte, avrebbe consentito di reagire e la Legge di allora dava la non punibilità a chi avesse ucciso il ladro, a condizione che il tutto avvenisse col buio: “Se un ladro viene sorpreso mentre sta facendo una breccia in un muro e viene colpito e muore, non vi è per lui vendetta di sangue. Ma se il sole si era già alzato su di lui, vi è per lui vendetta di sangue” (Esodo 22.1,2).

Nel paragone con il padrone di casa, che altre versioni traducono con “padre di famiglia”, emerge allora tutta la necessità dell’attenzione a che il ladro non entri: ci sono beni e persone da difendere, a qualunque costo, anche quello della vita del ladro, per il quale la Legge eliminava “la vendetta di sangue”, vale a dire il diritto dei parenti a vendicare la morte dell’ucciso secondo il principio de “Il tuo occhio non avrà compassione: vita per vita, occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede” (Deuteronomio 19.21).

Se quindi consideriamo il personaggio della parabola come un “padrone di casa”, abbiamo un uomo che difende unicamente la sua proprietà, ma se lo vediamo come “padre di famiglia”, ecco la responsabilità sulla propria moglie e, presumiamo, i figli, vale a dire: se quella persona non presta attenzione e non prende le contromisure del caso, a soffrirne le conseguenze non sarà solo lui, ma anche tutte le persone che si trovano sotto la sua responsabilità. Ci pensino bene coloro che sono stati chiamati a pascere il gregge di Cristo, o che se ne assumono le vesti e poi conducono una vita non conforme, come nella parabola che esamineremo nelle prossime riflessioni.

Ora, per la nuova economia della Grazia, ogni credente è “padrone di casa” o “padre di famiglia” perché il legame che si è venuto a creare dopo il battesimo (responsabile) è doppio, vale a dire tra lui e Gesù Cristo (e quindi col Padre) e con i fratelli e le sorelle, per cui non esiste cristiano che sia responsabile prima di tutto verso se stesso e poi, con la stessa importanza, nei confronti degli altri nel senso che la benedizione che ottiene da Dio si riversa sui suoi confratelli e, allo stesso modo, il procedere stentatamente nella fede, con scelte inopportune, non ponderate e superficiali, impedisce il progresso di quanti sono a lui collegati, perché non vedono un esempio e si trovano limitati nelle loro azioni e scelte.

Ecco allora che lo stare “sobri” implica il fare attenzione, andare oltre a una semplice condizione, soprattutto il non fraintendere, come ad esempio in Luca 12.15, “Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che possiede”.

Abbiamo anche Colossesi 2.8, “Fate attenzione che nessuno faccia di voi sua preda con la filosofia e con vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo”, altro punto fermo della vigilanza cristiana che richiama sempre le tattiche dell’Avversario, che traveste e si traveste, inquinando con discorsi apparentemente spirituali la verità e la Parola.

L’apostolo Giovanni, infine, scrive “Fate attenzione a voi stessi – non agli altri – per non rovinare quello che abbiamo costruito e per ricevere una ricompensa piena”: piena, non parziale, non ridotta. E qui la veglia e la sobrietà si trasformano in operatività, in esame del nostro passato per vedere se esistono modi per rimediare ad errori oppure se, nel nostro vivere, abbiamo degli elementi di biasimo che ci potremmo portare dietro nel mondo a venire, quando certamente, se non rimossi, emergeranno e suoneranno a nostra condanna.

È una pratica di fede. È una pratica di vita. “Perché, nell’ora che non immaginate, verrà il Figlio dell’uomo”. Amen.

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19.38 – IL SERMONE PROFETICO 11: INDICATORI (Matteo 24.32-36)

16.38 – Il sermone profetico 11: INDICATORI (Matteo 24.32-36)

 

32Dalla pianta di fico imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina. 33Così anche voi: quando vedrete tutte queste cose, sappiate che egli è vicino, è alle porte. 34In verità io vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga. 35Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno.36Quanto a quel giorno e a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli del cielo né il Figlio, ma solo il Padre.

 

La lettura del verso 32 è un invito a riconoscere il tempo della venuta del Figlio dell’uomo e ci ricorda il rimprovero dato alle folle, sempre a proposito del riconoscere i segni dei tempi: “Quando vedete una nuvola salire da Ponente, subito dite: «Arriva la pioggia», e così accade. E quando soffia lo scirocco, dite: «Farà caldo», e così accade. Ipocriti! Sapete valutare l’aspetto della terra e del cielo; come mai questo tempo non sapete valutarlo?” (Luca 12.54-56).

La differenza fondamentale tra i due passi è che in Luca i Giudei venivano rimproverati perché avevano tutti gli elementi, nelle Scritture, per poter accogliere Gesù, mentre nel nostro caso è Lui stesso a dare indicazioni per riconoscere i segni del Suo ritorno. E il metodo per individuare l’avvenimento è concettualmente lo stesso, perché in entrambi i casi viene preso esempio da fenomeni naturali, la nuvola da Ponente e lo scirocco da un lato, e il fico dall’altro.

È la terza volta in cui compare il fico: la prima fu in una parabola (Luca 13.6) in cui il padrone della vigna ordinò al suo dipendente di tagliarne uno sterile, ma questi gli propose di dargli ancora un anno di tempo sotto le sue cure prima di procedere; la seconda la abbiamo con l’albero che Gesù seccò perché non dava frutti.

Nel caso in esame invece abbiamo una pianta che si presume sana, che con il suo risveglio annuncia l’estate, stagione particolare che nella Scrittura rappresenta il tempo del raccolto, quando la terra dà i frutti migliori. È una stagione che parla di previdenza e lavoro (“Va’ alla formica, o pigro, guarda le sue abitudini e diventa saggio. Essa non ha né capo, né sorvegliante, né padrone, eppure d’estate si procura il vitto, al tempo della mietitura accumula il cibo”, Proverbi 6.6-8, “Chi raccoglie d’estate è previdente e chi dorme al tempo della mietitura è uno svergognato”, 10.5).

L’estate ha poi riferimento anche con il rinfrancamento, come in 2 Samuele 16.2, “i pani e i frutti d’estate sono per sfamare i giovani, il vino per dissetare quelli che saranno stanchi nel deserto” e comunque, il tempo del raccolto è indicativo anche alla luce di Geremia 8.20, “È passata la stagione della messe, è finita l’estate e noi non siamo stati salvati”, che è anche un tema trasversale del nostro studio.

Ora, considerando il verso 33, “Così anche voi, quando vedrete tutte queste cose, sappiate che è vicino, alle porte”, Luca scrive “Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina” (21.28): liberazione, quindi la fine del “combattimento della fede”, dell’umiliazione, della convivenza forzata con l’ignoranza, il paganesimo (anche quello che ci portiamo dentro come bagaglio storico), la ribellione dell’uomo alle regole più elementari circa la conduzione di una vita ordinata. Credo sia a questo che l’apostolo Paolo allude in Romani 8.23, “…anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo”. Adozione che già abbiamo, ma che sarà perfetta quando potremo essere riuniti a Lui.

Resta da considerare, circa il verso 33, cosa significhi in concreto l’essere “vicino, alle porte”, che sono convinto sia riferito non a un avvenimento preciso, ma a tre, perché ricordiamo che dovevano ancora verificarsi la presa di Gerusalemme e poi, per noi, il rapimento della Chiesa, il Millennio e il ritorno di Gesù in giudizio ed è per questo che Giacomo, “fratello del Signore”, scrivendo la sua lettera “alle dodici tribù di Israele”, afferma “non lamentatevi, fratelli, gli uni degli altri, per non essere giudicati; ecco, il giudice è alle porte”: si tratta di un tempo sempre propizio per il Ritorno, perché si tratta di un “giorno e di un’ora” conosciuta solo dal Padre, elemento questo che non può che acuire nel credente la vigilanza.

Certo, questa dev’essere spirituale, non influenzata da fatalismo come avveniva nella Chiesa di Tessalonica di cui abbiamo più volte accennato: la veglia è concreta e organizzata, accettata come qualcosa di inevitabile e di lei Gesù stesso parlerà in questo sermone con vari esempi ai versi da 42 a 51 e, subito dopo, con le parabole delle dieci vergini e dei talenti (cap. 25) per concludere col Giudizio finale.

 

Arriviamo così al verso 34, fonte per molti di grossi problemi interpretativi, “In verità vi dico – quindi “Amen” di Dio –: non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga”: sono parole dalle quali si potrebbe pensare che la “fine” debba avvenire in uno spazio temporale fra i trenta e i cento anni perché tale approssimativamente è la durata di una generazione. Ancora una volta torna il problema della traduzione e del fatto che una lingua diversa dalla nostra ha sostantivi che non possono rendere sufficientemente, tradotti, l’idea di ciò che rappresentano. Ciò che è reso con “generazione” è “ghenéa” che esprime anche il tempo che intercorre tra la nascita e la morte e l’idea della durata in vita di un complesso di uomini, quindi il senso viene notevolmente ampliato e reso quasi indefinito, assolutamente indicativo.

Ecco perché Giovanni Diodati impiega, al posto di “generazione”, “età” e Mons. Antonio Martini, nella sua Bibbia del 1778, pur mantenendo il termine, annota “Non finirà la generazione degli uomini, non finirà il mondo prima che queste cose da me predette abbiano il loro adempimento”. La “generazione”, o “età” è quindi “il tempo presente”, quello che non muta mai, in cui l’uomo vive provando gli stessi sentimenti e istinti primitivi nonostante il passare dei secoli e il mutare della tecnologia e della morale.

Sotto questo aspetto nulla importa, da quando Gesù disse queste parole, che siano passate un gran numero di generazioni, mentre rileva che l’essere umano si sia caratterizzato come una creatura sempre più infestante e deleteria per la terra che, alle origini, gli era stata affidata in custodia con tutti gli esseri viventi che la popolavano; poi, con il suo comportamento fisicamente e moralmente violento e omicida, l’uomo finirà per esasperare quelle situazioni che sono sempre esistite (la violenza in qualsiasi sua forma) portandole a un punto di non ritorno, tale per cui l’intervento di Dio per porre fine a tutto sarà l’unica soluzione possibile. Credo che questa lettura, per quanto molto superficiale, sia sufficiente a dare l’idea; praticamente nulla è cambiato né potrà cambiare dalla Torre di Babele all’impero mondiale prossimo venturo.

Dobbiamo tenere presente comunque quanto già detto da Gesù in altre occasioni sul che, comunque, il primo rendiconto sarebbe avvenuto a Gerusalemme: in 16.28 abbiamo “In verità io vi dico: vi sono alcuni tra i presenti che non moriranno prima di aver visto venire il Figlio dell’uomo con il suo Regno” e in 23.36 “In verità vi dico, tutte queste cose ricadranno su questa generazione”, ancora “ghenéa”, questa volta con significato letterale. Sempre su questo stesso tema c’è poi Luca 11.50: “…perché a questa generazione sia chiesto del sangue di tutti i profeti, versato fin dall’inizio del mondo: dal sangue di Abele fino al sangue di Zaccaria, che fu ucciso tra l’altare e il santuario. Sì, io vi dico, ne sarà chiesto conto a questa generazione”.

Proseguendo sempre sul nostro verso 34, soffermandoci sulla traduzione di “ghenéa” con “età”, non possono non venire alla mente le parole che Gesù disse ai Suoi: “Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”, che altre bibbie riportano con “fino alla fine dell’età presente”, a conferma che l’ ”età” è un ambito, una regione di tempo precisa, assegnata dal Dio Progettista e Creatore dell’Universo.

Anche qui, circa i termini “età” e “mondo” emergono le differenti visioni dei traduttori, perché “Áion” significa “tempo, durata, vita, età, lungo tempo, secolo, era”, addirittura “eternità”, “mondo, secolo presente”. Questo per dire quante sfumature necessarie ci perdiamo leggendo una versione italiana perché, mettendo insieme tutti questi significati, possiamo vedere che anche in queste parole Gesù rinnova la Sua promessa di eternità, dice “sono con voi tutti i giorni fino alla fine del tempo per unirvi a me una volta che questo sarà finito”.

“Con voi tutti i giorni”, quindi nel bene e nel male: era presente, ad esempio, quando Giacomo (l’autore della lettera) fu lapidato. Era presente quando i cristiani venivano crocifissi e bruciati vivi a Roma sotto Nerone e così in tutte le altre persecuzioni, dai tempi più antichi ai giorni nostri. È presente tanto in ogni nostra sofferenza che in ogni nostra gioia ed è per questo che ancora Giacomo scrive “Chi tra di voi è nel dolore, preghi; chi è nella gioia, canti inni di lode” (5.13).

 

Tornando al nostro testo, con le parole “il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno”, Gesù non solo annuncia la fine imminente del mondo che conosciamo, ma prende quegli elementi che a noi sembrano immutabili, come il “cielo” (con il sole, la luna e le stelle) e la “terra”, per farci capire che l’unica a sopravvivere al tempo potrà essere soltanto tutto ciò che ha detto. Cielo e terra sono l’ambiente che ci circonda, quello senza cui non potremmo vivere.

Ricordiamo Salmo 102. 26-29: “In principio tu hai fondato la terra, i cieli sono opera delle tue mani. Essi periranno, tu rimani; si logorano tutti come un vestito, come un abito tu li muterai ed essi svaniranno. Ma tu sei sempre lo stesso e i tuoi anni non hanno fine. I figli dei tuoi servi avranno una dimora, la loro stirpe vivrà sicura alla tua presenza”, tutto questo perché non si disprezzino anche gli elementi più deboli del creato, “Secca l’erba, appassisce il fiore quando soffia su di essi il vento del Signore. Veramente il popolo è come l’erba, appassisce il fiore, ma la parola del nostro Dio dura per sempre” (Isaia 40.7-8).

Ecco allora che, se per l’uomo antico era naturale considerare immutabili “il cielo e la terra”, quello di oggi va oltre, ingannato dall’Avversario, perché vede nella tecnologia la soluzione a tutti i suoi problemi. Sarà quando la cosiddetta intelligenza artificiale avrà preso il sopravvento sulle vite di tutti che, forse, qualcuno inizierà ad avere dei dubbi sulla legittimità di tutte quelle azioni che avranno portato alla sua instaurazione.

Eppure, in tutto questo percorso umano così delirante in cui è in atto una totale sovversione delle più elementari regole anche solo semplicemente morali, esiste ancora la Parola di Dio che chiama: “Alzate al cielo i vostri occhi, e guardate la terra di sotto, poiché i cieli si dissolveranno come fumo, la terra si logorerà come un vestito e i suoi abitanti moriranno come larve. Ma la mia salvezza durerà per sempre, la mia giustizia non verrà distrutta”.

Possiamo allora concludere con le parole di Pietro nella sua seconda lettera: “Una cosa però non dovete perdere di vista, carissimi: davanti al signore un giorno è come mille anni e mille anni come un solo giorno. Il Signore non ritarda nel compiere la sua promessa, anche se alcuni parlano di lentezza. Egli invece è magnanimo con voi, perché non vuole che alcuno si perda, ma che tutti abbiano modo di pentirsi. Il giorno del Signore verrà come un ladro; allora i cieli spariranno in un grande boato, gli elementi, consumati dal calore, si dissolveranno e la terra, con tutte le sue opere, sarà distrutta” (3.7-9). Amen.

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16.37 – IL SERMONE PROFETICO 10: LA VENUTA DEL FIGLIO DELL’UOMO II (Matteo 24.29-31)

16.37 – Il sermone profetico 10: la venuta del figlio dell’uomo II (Matteo 24.29-31)

 

29Subito dopo la tribolazione di quei giorni, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce,
le stelle cadranno dal cielo e le potenze dei cieli saranno sconvolte.
30Allora comparirà in cielo il segno del Figlio dell’uomo e allora si batteranno il petto tutte le tribù della terra, e vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi del cielo con grande potenza e gloria.31Egli manderà i suoi angeli, con una grande tromba, ed essi raduneranno i suoi eletti dai quattro venti, da un estremo all’altro dei cieli.

 

Credo che con questi versi ci troviamo di fronte al punto più complesso di tutto il sermone profetico di Gesù, che comunque dà delle importanti chiavi di lettura nei successivi, che devono essere necessariamente tenuti presenti. Il primo è già stato ricordato, il 34, “In verità io vi dico, non passerà questa generazione – ghenéa, non così tradotta da tutti – prima che tutto questo avvenga”. Il secondo è quello successivo, “Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno”, il terzo è il 36, “Quanto a quel giorno e a quell’ora, nessuno lo sa: né gli angeli del cielo, né il Figlio, ma solo il Padre”.

Come leggere dunque il passo in esame, venendo spontaneo applicarlo al Ritorno che tutti i veri cristiani attendono da circa duemila anni? “Vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi del cielo con grande potenza e gloria”, non può forse essere collegato a 1 Tessalonicesi 4,17, “…quindi noi, che vivremo e che saremo ancora in vita, verremo rapiti insieme con loro – i morti in Cristo – nelle nubi, per andare incontro al Signore in alto, e così per sempre saremo con il Signore”? È una domanda importante, che può trovare risposta solo nella purivalenza contenuta nelle parole di Gesù che hanno un substrato tanto di imminenza temporale, che di distanza dal punto di vista umano. Ed ecco perché non sono da tutti interpretate nello stesso modo.

 

Venendo ora al testo è naturale che la nostra attenzione si focalizzi sulle parole “Subito dopo” che suggeriscono un’immediata successione. L’avverbio “Euzéos” significa “subito, presto, subitaneamente” e lo troviamo come reazione pronta e immediata: così fu con Pietro quando rischiava di affogare nel lago di Gennezaret, dove leggiamo che “Subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?»” (14.31). Ancora, ricordiamo quando Simone e Andrea “…subito lasciarono le reti e lo seguirono” (Marco 1.18) o il paralitico di Capernaum che, guarito, “…si alzò e subito prese la sua barella e sotto gli occhi di tutti se ne andò” (2.12) e molti altri casi. Abbiamo però un “subito” in un certo senso più dilatato, come ad esempio nella parabola dei terreni in cui, relativamente al secondo, è detto che “Un’altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c’era molta terra: germogliò subito, perché il terreno non era profondo” (Matteo 13.5); in quest’ultimo caso, abbiamo un processo non immediato, ma che si caratterizza comunque con velocità rispetto al germogliare degli altri semi.

Può allora rientrare quel “subito dopo” nell’ambito del concetto secondo il quale “davanti al Signore un giorno è come mille anni e mille anni sono come un giorno”, come scrive l’apostolo Pietro nella sua seconda lettera citando il Salmo 90? Credo che la risposta possa essere affermativa e che qui Gesù parli allargando il concetto di tempo e non a caso i versi in esame hanno fatto sì che i commentatori si dividessero fra chi li legge in un futuro immediato, dopo la distruzione di Gerusalemme, e chi li pone agli ultimi tempi, quando si manifesterà pienamente quanto descritto. La stessa dilatazione temporale, concettualmente, la leggiamo in Malachia 3.1-3: “Ecco, io manderò un mio messaggero – Giovanni Battista – a preparare la via davanti a me e subito entrerà nel suo tempio il Signore che voi cercate, e l’angelo dell’alleanza, che voi sospirate, eccolo venire, dice il Signore degli eserciti”. Da qui, ecco un altro salto di oltre duemila anni: “Chi sopporterà il giorno della sua venuta? Chi resisterà al suo apparire? Egli è come il fuoco del fonditore e come la lisciva dei lavandai. Siederà per fondere e purificare l’argento”.

Il nostro testo riporta “Dopo la tribolazione di quei giorni”: quali? Anche qui non c’è una risposta esatta perché non dobbiamo aspettarci fenomeni nel sole, nella luna e nelle stelle, (per lo meno non nell’immediato), ma la perdita di punti di riferimento, come già accennato in altre riflessioni. Ricordiamoci che Marco, nel suo parallelo, scrive “In quei giorni, dopo quella tribolazione”, cioè dopo “quei giorni abbreviati grazie agli eletti che si è scelto” (13.24) che riguardano sì la tribolazione di Gerusalemme, ma anche tutte quelle che verranno dopo. Ricordiamo le parole di Daniele 9.26, “…il popolo di un principe che verrà distruggerà la città e il santuario, la sua fine sarà un’inondazione e guerra e desolazioni sono decretate fino all’ultimo”, cioè dalla caduta della città a quella del mondo, che deve ancora verificarsi.

Riguardo al verso 29, il parallelo di Luca riporta: “Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte. Vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con grande potenza e gloria. Quando cominceranno ad accadere queste cose – cioè i primi segni – , risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina” (21.25-28).

Credo che la nostra attenzione debba, più che focalizzarsi sui cataclismi cosmici, tenere presente il linguaggio profetico, che ritengo un importante aiuto per la comprensione del discorso di Nostro Signore: ad esempio così Isaia profetizza la rovina di Babilonia in 13.10: “Ecco, il giorno del Signore arriva implacabile, con sdegno, ira e furore, per fare della terra un deserto, per sterminare i peccatori. Poiché le stelle del cielo e le loro costellazioni non daranno più la loro luce, il sole si oscurerà al suo sorgere e la luna non diffonderà più la sua luce. Io punirò nel mondo la malvagità e negli empi la loro iniquità. Farò cessare la superbia dei protervi e umilierò l’orgoglio dei tiranni”.

Ezechiele 32.7,8 così parla della distruzione dell’Egitto: “Quando cadrai estinto, coprirò il cielo e oscurerò le tue stelle, velerò il sole di nubi e la luna non brillerà. Oscurerò tutti gli astri del cielo su di te e stenderò sulla tua terra le tenebre”. Gioele 2.30,31 descrive la fine con queste parole: “Farò prodigi nei cieli e sulla terra: sangue, fuoco e colonne di fumo. Il sole sarà mutato in tenebre e la luna in sangue, prima che venga il grande e terribile giorno del Signore”. Credo siano passi da meditare, seguendo il loro significato letterale raccordandolo a quello spirituale e sforzandoci di assorbire il senso di gravità e di immanenza che trasuda da essi: in tal modo si potrebbe capire che quanto contenuto in questi versi non può essere spiegato con parole umane, ma va compreso e sigillato. Mai mi era capitato di trovarmi in difficoltà a spiegare un brano a parole come un questo caso e posso dire che, dopo essermi posto all’ascolto, ho sentito veramente “il suono di molte acque” nel senso che, al posto di una soluzione, ce ne sono migliaia, tutte su frequenze diverse, tutte ugualmente esatte.

E se è possibile descrivere un dolore, uno stato di angoscia di cui si conosce la localizzazione e la causa, così non si può fare – tanto per citare il primo che mi viene in mente – per un attacco di panico o, come nel caso dei passi profetici riportati, quando si ha la perdita totale dell’omeostasi, psichica e fisica. L’uomo può definirsi vivo non solo in presenza del battito cardiaco, ma quando è in grado di progettare, scegliere, spostarsi, fare qualsiasi azione anche banale, soprattutto porsi degli obiettivi da raggiungere, ma che lo caratterizza come essere autonomo, in grado di prendere decisioni, giuste e sbagliate che siano. E i versi citati escludono tutte queste cose. Credo che sia da qui che dobbiamo partire per capire le parole di Gesù; il resto sono ipotesi che potranno venire annullate, confermate e sviluppate col tempo. Credo che qui Gesù dimostri di tenere sempre presente il Suo ritorno, e infatti ben presto inizierà ad illustrare ai Suoi alcune parabole proprio sulla vigilanza, concetto ancora più importante della chiusura finale del tempo dato per vivere (o morire) alla Sua luce.

Un fratello ha osservato che “il sole, la luna etc. sono i simboli del Sommo Sacerdote, del Sinedrio, degli Anziani; in una parola, di tutti i rettori della nazione giudaica, ed il loro oscuramento indica la distruzione del sistema di cui erano i custodi e rappresentanti, e la finale dispersione della nazione. È possibile che questa predizione si riferisca anche alla rovina dei dieci re di cui parla l’Apocalisse, la quale succederà prima del Millennio, e che essa debba avere un terzo adempimento nella distruzione finale del mondo”.

Infatti: “Le dieci corna che hai visto sono dieci re, i quali non hanno ancora ricevuto un regno, ma riceveranno potere regale per un’ora soltanto, insieme con la bestia. Questi hanno un unico intento: consegnare la loro forza e il loro potere alla bestia. Essi combatteranno contro l’Agnello, ma l’Agnello li vincerà, perché è il Signore dei signori e il Re dei re. Quelli che stanno con lui sono i chiamati, gli eletti e i fedeli” (17.12-14). Notare il tempo concesso, un’ora, cioè quanto basta per fare, ma molto poco, a fronte della presunzione di durata e potenza della quale si saranno nutriti. Se la vita di un uomo, che possiamo stimare oggi attorno agli 80 anni, è vista come un soffio, cos’è un’ora? Un minuto vissuto sessanta volte, non si fa comunque tempo a iniziare che il tempo a disposizione è scaduto. L’ora è così come qualcosa di profondamente umiliante se confrontata con le aspettative di quei re, dieci, asserviti alla divinità asportata del numero.

“Allora comparirà in cielo il segno del Figlio dell’uomo”, cioè Lui stesso, “segno” fin dall’inizio secondo Isaia 7.14 e per come fu visto dai profeti, ad esempio in Daniele 7.13: “Io guardavo, nelle visioni notturne, ed ecco venire sulle nuvole del cielo uno simile a un figlio d’uomo…”. La dinamica, per come è rappresentata da Matteo, indica il ritorno dei Figlio in giudizio più che per il rapimento della Sua Chiesa, che comunque darà inizio a una storia umana completamente diversa; il “battere il petto di tutte le tribù – nazioni – della terra” indica un’autoaccusa, l’acquisizione del fatto secondo cui la condanna è inevitabile e soprattutto avverrà unicamente per colpa di tutti coloro che non avranno voluto approfittare del tempo di Grazia loro concesso prima dell’alt di Dio alla loro tanto cercata indipendenza da Lui.

Il battersi il petto sarà l’unico modo che avranno i popoli che non si saranno convertiti per esprimere il proprio dolore perché vedranno dal vero, in tempo reale, Colui di cui avranno negato o disprezzato opere, esistenza, morte e risurrezione per cui comprenderanno la loro impossibilità a sussisterGli davanti.

Infine, l’ultimo verso credo sia particolarmente caro a tutti i cristiani perché parla di raccolta: “Ecco, io vi annuncio un mistero: noi tutti non moriremo, ma tutti saremo trasformati, in un istante, in un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba – ultima perché definitiva –. Essa infatti suonerà e i morti risorgeranno incorruttibili e noi saremo trasformati” (1 Corinti 15.51-52).

Anche qui credo che vi sia comprensione dei periodi relativi al rapimento e dell’ultimo tempo, quello del giudizio finale, perché vi sarà da raccogliere tutti coloro che avranno creduto nella Gran Tribolazione, quando “Il mare restituì i morti che esso custodiva e la morte e gli inferi resero i morti da loro custoditi e ciascuno venne giudicato secondo le loro opere. Poi la morte e gli inferi furono gettati nello stagno di fuoco. Questa è la seconda morte, lo stagno di fuoco” (Apocalisse 20.13-14).

In conclusione, la “lunga” storia umana troverà lì contemporaneamente la propria fine e il proprio oblio, a differenza dei salvati che vedranno così adempiute le parole di Gesù ai mietitori a conclusione della parabola della zizzania in Matteo 13.39: “Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano, invece, riponetelo nel mio granaio”. Amen.

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16.36 – IL SERMONE PROFETICO IX: LA VENUTA DEL FIGLIO DELL’UOMO I (Matteo 24.26-28)

16.36 – Il sermone profetico 9: LA VENUTA DEL FIGLIO DELL’UOMO I (Matteo 24.26,28)

 

26Se dunque vi diranno: «Ecco, è nel deserto», non andateci; «Ecco, è in casa», non credeteci. 27Infatti, come la folgore viene da oriente e brilla fino a occidente, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. 28Dovunque sia il cadavere, lì si raduneranno gli avvoltoi.

 

Due versi fondamentali, intimamente connessi fra loro eppure così distanti: il primo (26) è un richiamo a concetti precedentemente esposti, il secondo (27) è una precisazione alla domanda originariamente posta, “Quale sarà il segno della tua venuta e della fine del mondo?”. Ancora, il primo verso, che esamineremo fra breve, comprende alcuni dei precedenti, e cioè il 5, “Molti verranno nel mio nome dicendo: «Io sono il Cristo» e trarranno molti in inganno”, l’ 11, “Sorgeranno molti falsi profeti e inganneranno molti”, il 23, apparentemente simile a questo, “Se qualcuno vi dirà: «Ecco il Cristo è qui» oppure «È là», non credeteci, perché sorgeranno falsi cristi e falsi profeti e faranno grandi segni e miracoli, così da ingannare, se possibile, anche gli eletti”.

Ragionando brevemente su questi versi, sul quinto in particolare, dobbiamo uscire dalla nostra forma mentis pagana che tende a farci considerare il “Cristo” e il “Figlio di Dio” come la medesima persona. È certo così, ma non per gli ebrei per i quali “Cristo”, che significa “Unto” e “Messia” sono la stessa cosa, ma stanno ad indicare il condottiero invincibile, mandato da Dio, che li guiderà alla vittoria sulla schiavitù dai popoli pagani e col dominio su di essi. Ecco allora che Gerusalemme, parlando nel periodo prima dell’anno 70, ne ebbe di condottieri che attirarono molta gente a sé: pensiamo a un certo Gesù, che aveva una banda armata di circa 800 persone, Giusto di Tiberiade, Giovanni di Giscala, condottiero zelota, quelli che vinsero le armate di Cestio Gallo in ritirata e tentarono l’assedio di Ascalona, a Nord di Gaza, rimanendone sconfitti. Per inciso, anche qui vediamo le “guerre e voci di guerre”. Il senso delle parole di Gesù è quindi, parafrasato, “Il Messia che il popolo attendeva è già venuto, gli altri sono impostori perché non potranno mai guidarli verso il mio Regno, che non è di questo mondo”.

A questo punto, affrontando il verso 26, vanno esaminate le due parole tradotte con “deserto” e (molto sbrigativamente) “casa”. Questi due termini, più che un luogo, credo esprimano un concetto perché “éremon” sta a indicare un “luogo solitario, deserto, abbandonato, vuoto” mentre “tamérion” è più complesso ed è utilizzato per indicare una dispensa, un granaio, un tesoro, una stanza interna privata. Questo sostantivo genera un verbo che significa “amministrare, mettere in serbo, riporre, conservare”. “Tamérion” è usato da Gesù in Matteo 6.6 quando leggiamo “Invece, quando tu preghi, entri nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà”. “In casa”, quindi, indica un luogo appartato, raccolto, nascosto per cui non viene qui applicato agli impostori che, ritirandosi, vogliono dare sfoggio di chissà quale ruolo spirituale. È una forma di travestimento.

Il verso 26 esprime anche un concetto molto importante e cioè quello dell’assoluta diversità con la realtà proposta dal 27 che ci parla della venuta di Gesù non solo relativa all’assedio e presa di Gerusalemme; è quindi un invito a restare saldi nella persecuzione, nei tempi in cui abbonderanno eresie e rinunce alla fede, attendendo il glorioso ritorno del Signore. La “venuta” è sempre possibile, sempre in atto, coinvolge una molteplicità di eventi e significati. Tendiamo poi, con riguardo alla persecuzione, riferirci all’oppressione ostinata ed esasperata di una o più persone contro altre, ma non consideriamo il fatto che il primo persecutore del cristiano è l’Avversario che rivolge le sue attenzioni ad ogni individuo che vorrebbe, o ha voluto, staccarsi da lui. E Satana fece la stessa cosa nei riguardi di Nostro Signore, perseguitandolo prima con Erode, poi con le tentazioni nel deserto e via via con tutte le persone che lo ostacolarono fino ad ucciderlo.

È il diavolo che “porta via la parola dal loro cuore perché, credendo, non siano salvati” (Luca 8.12), che “…aveva già messo in cuore a Giuda, figlio di Simone Iscariota, di tradirlo” (Giovanni 13.2), che “li tiene prigionieri affinché facciano la sua volontà” (2 Timoteo 2.26); “Come leone ruggente, va in giro cercando chi possa divorare” (1 Pietro 5.8), ma sarà “gettato nello stagno di fuoco e zolfo, dove sono anche la bestia e il falso profeta: saranno tormentati giorno e notte per i secoli dei secoli” (Apocalisse 20.10). Ricordiamoci anche le parole di Gesù a Pietro quando gli disse; “Simone, Simone, ecco, Satana ha chiesto di vagliarvi come si vaglia il grano, ma io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno” (Luca 22.31,32). Ma l’accanimento contro gli undici, fondamentali per la predicazione del Vangelo, è lo stesso per qualunque anima che intende affrontare un percorso spirituale.

Analizziamo brevemente questo passo: “ha richiesto”, come avvenuto secoli prima con Giobbe, e la sua istanza è stata accolta. La vagliatura del grano, poi, avveniva gettandolo con una pala in direzione opposta a quella del vento per far sì che portasse via la pula, cioè l’involucro dei chicchi. Lo si faceva poi passare attraverso un setaccio per separarlo da pezzetti di terra o altro materiale col quale si era mescolato eventualmente restando nell’aia. Ecco perché “…ciascuno è attratto dalla sua concupiscenza, che lo attrae e lo seduce; poi le passioni concepiscono e generano il peccato e il peccato, una volta commesso, produce la morte” (Giacomo 2.14). E questo vale per tutti gli uomini; la “morte” è l’interruzione della comunione con Dio.

Le parole del verso 27 da un lato stabiliscono che “il Figlio dell’uomo verrà”, dall’altro che questo non sarà un fatto segreto, (nel deserto o in una camera), ma verrà visto da tutti. Il problema è capire cosa si intenda per “Quando il Figlio dell’uomo verrà” anche perché si tratta di una frase connessa a quella del 28, “Dovunque sia il cadavere, lì si aduneranno gli avvoltoi” e, soprattutto, andando al 34 che contiene l’amen di Gesù, “In verità io vi dico, non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga”, si può escludere che qui si parli del Ritorno che tutti aspettiamo. Il Figlio dell’uomo “viene” ogni qualvolta viene posta la parola fine alle iniziative, ai progetti e all’esistenza dell’essere umano. Anche con la torre di Babele vi fu una Sua venuta. Nostro Signore “viene” quando dà luogo ai Suoi giudizi, chiama le persone attraverso la morte oppure, come alla fine dei tempi, per rapire la sua Chiesa, per legare Satana e i suoi angeli nel Millennio e per il giudizio finale, tutti eventi a fronte dei quali l’uomo non può porre alcun rimedio.

Nonostante le parole del verso 27 possano apparire assolutamente pertinenti al Ritorno, quando “Ogni occhio lo vedrà, anche quelli che lo trafissero, e per lui tutte le tribù della terra si batteranno il petto” (Apocalisse 1.7), in realtà il fenomeno della “folgore” che “brilla da oriente ad occidente” ha riferimento con un fenomeno improvviso, con una luce che si vede da ogni parte e che qui va identificata con l’arrivo dell’esercito romano, che aveva nell’aquila il proprio emblema, che si radunerà da ogni parte dove sarà “il cadavere”. In altre traduzioni infatti abbiamo “carname” e “aquile”. E se ne radunarono davvero tante, non solo a Gerusalemme, ma per tutta la Giudea, le cui città furono tutte conquistate: Tito Flavio Vespasiano scelse la X legione Fretensis, la V Macedonica, la XV Apollinaris. Oltre alle legioni, vi furono diciotto Coorti ausiliarie (10.800 uomini) e cinque ali di cavalleria, senza contare il supporto dato da Antioco, Agrippa II e Soemo, re alleati, che fornirono in tutto 6mila arcieri e 3mila cavalieri. La forza romana raggiunse così un numero complessivo di 60mila uomini senza contare le macchine da guerra (160 catapulte) e tutto il personale di supporto che entrarono nella Giudea ed assediarono, prima di Gerusalemme, praticamente tutte le città fortificate, la prima delle quali fu Iotapata nel 67.

Quello che personalmente noto, però, è che Gesù stupisce sempre: quando arriva, in un modo o nell’altro, trova nella quasi totalità dei casi l’uomo impreparato ed ecco perché ci dice: “Vegliate”. Anche la nostra stessa chiamata ad essere dei Suoi è arrivata all’improvviso e così sarà anche al Suo ritorno di cui possiamo leggere, ad esempio, nella seconda lettera ai Tessalonicesi. Gesù irrompe, in un modo o in un altro, nella vita di ognuno: lo fa con la Sua Parola, con un invito a credere per salvarsi. Oppure, a seguito di rifiuti costanti, di inutili rivendicazioni da parte della creatura a costruire la propria vita senza di Lui, con la Sua venuta in giudizio, come fu nel caso della caduta di Gerusalemme, cogliendo quanti si ritenevano al sicuro e confidavano nell’aiuto di YHWH, disperatamente soli, deserti e atrocemente sconfitti. C’è una continuità nonostante il tempo, fra “Quando vedrete Gerusalemme circondata da eserciti nemici, allora ricordatevi che è vicina la sua rovina” (Luca 21.20) e “Quando diranno: «Pace e sicurezza», allora subito un’improvvisa rovina verrà loro addosso, come le doglie alla donna incinta, e non potranno sfuggire Ma voi, fratelli, non siete nelle tenebre, cosicché quel giorno possa sorprendervi come un ladro.” (1 Tessalonicesi 5,3).

Il verso 28, “Dovunque sia il cadavere, là si raduneranno gli avvoltoi”, “aquile” nella traduzione più corretta, rimanda a Deuteronomio 28, anche qui riferito al giudizio su Israele e, penso, per la prima volta alle deportazioni babilonesi del 597, 586 e 582, ma attuali anche per le successive: Poiché non avrai servito il Signore, tuo Dio, con gioia e di buon cuore in mezzo all’abbondanza di ogni cosa, servirai i tuoi nemici, che il Signore manderà contro di te, in mezzo alla fame, alla sete, alla nudità e alla mancanza di ogni cosa. Essi ti metteranno un giogo di ferro sul collo, finché non ti abbiano distrutto. Il Signore solleverà contro di te da lontano, dalle estremità della terra, una nazione che si slancia a volo come l’aquila: una nazione della quale non capirai la lingua, una nazione dall’aspetto feroce, che non avrà riguardo per il vecchio né avrà compassione del fanciullo. Mangerà il frutto del tuo bestiame e il frutto del tuo suolo, finché tu sia distrutto, e non ti lascerà alcun residuo di frumento, di mosto, di olio, dei parti delle tue vacche e dei nati delle tue pecore, finché ti avrà fatto perire. Ti assedierà in tutte le tue città, finché in tutta la tua terra cadano le mura alte e fortificate, nelle quali avrai riposto la fiducia. Ti assedierà in tutte le tue città, in tutta la terra che il Signore, tuo Dio, ti avrà dato. Durante l’assedio e l’angoscia alla quale ti ridurrà il tuo nemico, mangerai il frutto delle tue viscere, le carni dei tuoi figli e delle tue figlie che il Signore, tuo Dio, ti avrà dato. L’uomo più raffinato e più delicato tra voi guarderà di malocchio il suo fratello e la donna del suo seno e il resto dei suoi figli che ancora sopravvivono, per non dare ad alcuno di loro le carni dei suoi figli, delle quali si ciberà, perché non gli sarà rimasto più nulla durante l’assedio e l’angoscia alla quale i nemici ti avranno ridotto entro tutte le tue città. La donna più raffinata e delicata tra voi, che per delicatezza e raffinatezza non avrebbe mai provato a posare in terra la pianta del piede, guarderà di malocchio l’uomo del suo seno, il figlio e la figlia, e si ciberà di nascosto di quanto esce dai suoi fianchi e dei bambini che partorirà, mancando di tutto durante l’assedio e l’angoscia alla quale i nemici ti avranno ridotto entro tutte le tue città” (vv. 47-57).

La parola “cadaveri”, più opportunamente il “carname”, è un modo per definire ciò che resta dell’uomo senza lo Spirito, già così definito in Genesi 6. 3, “L’uomo, nel suo traviamento, non è altro che carne”. Queste ultime parole di Gesù, quindi, si riferiscono nella visione che dà ai discepoli, a tutti gli uomini che lo avranno rifiutato, diventando, così da creature, “carne” che servirà da cibo per animali predatori, che del corpo lasceranno solo ossa. E da qui possiamo comprendere quanto vasta sia la realtà che Nostro Signore dà con queste parole, per cui non è possibile identificarla in un momento storico inequivocabilmente definibile; viceversa, avrebbe specificato il fatto che il Suo ritorno sarebbe stato riferibile ad un unico avvenimento.

Tornando molto brevemente sul concetto di “carne”, sappiamo che l’uomo è paragonato ad una casa, inevitabilmente destinata ad essere abitata da Gesù o dall’Avversario. Chi non lascia entrare Colui che lo vorrebbe salvare, consente automaticamente l’ingresso al proprio assassino. Amen.

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16.35 – IL SERMONE PROFETICO VIII: PORTENTI E MIRACOLI (Matteo 24.23-25)

16.35 – Il sermone profetico 8: PORTENTI E MIRACOLI (Matteo 24.23-25)

 

23Allora se qualcuno vi dirà: «Ecco, il Cristo è qui», o: «È là», non ci credete. 24Sorgeranno infatti falsi cristi e falsi profeti e faranno grandi portenti e miracoli, così da indurre in errore, se possibile, anche gli eletti. 25Ecco, io ve l’ho predetto.

 

Anche queste sono parole già affrontate, ma la vastità dei contenuti che sottintendono ci consente comunque altri approfondimenti. Sono convinto che qui Gesù, come confermato dal verso 27, “Come la folgore viene da Oriente e brilla fino a Occidente, così sarà la venuta del figlio dell’uomo”, dia uno sguardo panoramico sui tempi a venire. Teniamo presente che aveva appena detto, con specifico riguardo a Gerusalemme, che “…vi sarà una tribolazione grande, quale non vi è stata dall’inizio del mondo fino ad ora, né mai più vi sarà”: questo è un riferimento a tutte le sofferenze patite prima, durante e dopo l’assedio, con l’apparire di falsi messia e profeti ma, non risultando che questi abbiano compiuto “grandi e potenti miracoli” pur avendoli promessi, credo che dobbiamo per forza pensare che qui il panorama vada oltre l’anno 70.

Quanto letto “(se) qualcuno vi dirà: «Ecco, il Cristo è qui o: È là»”, mi viene in mente quanto questo parlare sia simile all’annuncio, certo veritiero, di Andrea a suo fratello Simone quando gli disse “Noi abbiamo trovato il Messia” (Giovanni 1.41) o a Filippo, che così parlò a Natanaele: “Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i profeti, Gesù, figlio di Giuseppe, di Nazareth” (1.45). Certo questa frase, presumo ripetuta tante altre volte a quanti incontravano soprattutto quando furono inviati in missione, si fondava su solide basi, ma la stessa sarà proposta in maniera fuorviante, e con modalità dettate dall’Avversario, agli uomini i cui nomi non sono scritti nel libro della vita che a quella crederanno.

I “falsi cristi” e i “falsi profeti” è scritto che “sorgeranno”, che dal verbo “eghéiro” potremmo tradurre anche con “si desteranno”, “si innalzeranno”, “saranno suscitati”: dal loro nulla, senza una genealogia come quella di Gesù, senza alcuna credenziale da parte di Dio compiranno comunque “grandi e potenti miracoli”, ma dobbiamo crederci quali. Sono restio a pensare che si tratti di guarigioni di ciechi e zoppi, guarigioni da démoni e simili, ma piuttosto conquiste e grandi risultati a livello politico e sociale, quelli che Israele si attendeva allora come oggi, che gli diano motivo per credere nel Messia che attendono ancora. E qui la mia mente va al terzo Tempio, ancora a venire.

Leggo in una pubblicazione ebraica: “Uno tra i principali compiti del Messia sarà la ricostruzione del Bet Hamikdàsh a Gerusalemme. Si tratta del terzo santuario che rimarrà edificato in eterno, secondo la profezia di Ezechiele 37.26-28. La ricostruzione del terzo santuario dimostrerà che il Messia è il Messia definitivo e solo quando vedremo che tutto si verificherà e sarà compiuto lo considereremo come il vero Redentore”. Qui si tratta credo di uno dei segni più grandi che caratterizzeranno quello stadio importante, il terzultimo in cui opererà la triade satanica, 666, in cui verrà ricostruito il terzo Tempio là dove attualmente sorge la moschea di Al-Aqsa, ma quante persone hanno creduto nei vari imperi che si sono succeduti da quello Romano all’Unione Europea? Quanti inganni si nascondono dietro tutte quelle istituzioni mondiali che attualmente agiscono apparentemente nell’interesse dell’umanità, ma che preparano in realtà il suo totale asservilimento a un Governo Mondiale, che esiste già in embrione a livello economico? Abbiamo recentemente affrontato il discorso terremoti, ma non di quelli che si dice vengano provocati.

William Cohen, segretario del Ministero della Difesa americano, in una conferenza stampa nel 1997 ha dichiarato che “anche gli altri sono impegnati in un tipo di eco-terrorismo basato sull’alterare il clima, e sul provocare terremoti ed eruzioni vulcaniche a distanza attraverso l’uso di onde elettromagnetiche”. Entriamo in un campo assolutamente incerto anche perché, come iniziato ad accadere quando Internet è stato sempre più controllato e diretto dai Governi, si è nell’impossibilità di verificare compiutamente le notizie: ciò che viene presentato come plausibile, può essere falso, chi denuncia un fatto particolare viene tacciato di complottismo e ciò può essere vero oppure no perché comunque sia il risultato è raggiunto, vale a dire la destabilizzazione del normale orientamento della persona, che non sa se credere a determinate notizie (si vedano ad esempio le scie chimiche, di cui si parla a ondate) o a rifugiarsi nei più tranquillizzanti programmi di intrattenimento offerti dalle televisioni che non fanno altro che promuovere l’ignoranza e diffondere il non ragionamento, la non cultura. In proposito, l’Italia è all’ultimo posto in Europa nella capacità di lettura di un testo scritto, la gente usa sempre meno vocaboli, ha perso la ricchezza del linguaggio e con essa dei concetti e la capacità di un pensiero ricco e autonomo, con la complicità dei social, delle e-mail, della messaggistica sempre più veloce e meno ricca di contenuti. L’obiettivo, direi raggiunto, è che la maggioranza delle persone cerchi solo ed esclusivamente l’immediato, che il pensiero critico sia assente, o al limite pilotato.

Le parole di Gesù “…così da indurre, se possibile, anche gli eletti” sono in questo contesto estremamente consolatorie: da un lato ci sono “gli eletti”, persone che non hanno alcun merito salvo quello – se può definirsi tale – di avere creduto in Lui. Questi sono protetti, la loro funzione non è quella di fare miracoli, ma di agire secondo la Grazia che gli è loro stata fatta, ma siccome è scritto che sono pecore che “non andranno mai perdute e nessuno le rapirà dalla mia mano” (Giovanni 10.28), sarà impossibile che credano a quei falsi cristi e profeti. E poiché sono convinto che per “eletti” si intendano tanto coloro che credono quanto quelli che crederanno, è possibile che il discorso di Gesù in questo contesto sia rivolto a quanti, in Israele, accetteranno il Nome di Gesù nella “Gran tribolazione”, alla luce della frase sul lampo da Oriente a Occidente che esamineremo.

I “falsi cristi” e i “falsi profeti” possiamo vederli come dei precursori, così come Giovanni Battista lo fu per Nostro Signore, dell’empio per eccellenza, quello di cui parla l’apostolo Paolo nella sua seconda lettera ai Tessalonicesi: “Allora l’empio sarà rivelato e il Signore Gesù lo distruggerà con il soffio della sua bocca e lo annienterà con lo splendore della sua venuta. La venuta dell’empio avverrà nella potenza di Satana, con ogni specie di miracoli e segni e prodigi menzogneri e con tutte le seduzioni dell’iniquità, a danno di quelli che vanno in rovina perché non accolsero l’amore della verità per essere salvati. Dio perciò manda loro una forza di seduzione, perché essi credano alla menzogna e siano condannati tutti quelli che, invece di credere alla verità, si sono dati all’iniquità” ( 2. 7-12).

Penso a quanto oscure possono essere sembrare queste parole ai cristiani di Tessalonica, e a quanto possano risultare per noi sempre più nitide, alla luce degli eventi di cui siamo testimoni come credenti degli anni 2000: abbiamo letto di “ogni specie di miracoli e segni e prodigi menzogneri”, quindi tutto il repertorio possibile. Già un caro fratello, nel 1979, mi spiegava che il verso relativo alla Bestia in Apocalisse 13.3, “Una delle sue teste sembrò ferita a morte, ma la sua piaga mortale fu guarita” era riferito al muro di Berlino che un giorno sarebbe caduto, cosa che avvenne il 9 novembre 1989, questo per dire che quel giorno avvenne l’impensabile, fu un evento che ebbe una risonanza enorme, mondiale, salutato come un immenso passo avanti nella strada verso un’Europa finalmente unita. Difficile pensare ad un miracolo più grande, in termini politici, ma ne seguiranno altri. In scala enormemente minore, mi vengono in mente i festeggiamenti che vi sono stati in Svizzera quando fu inaugurato nel 2016 il nuovo traforo ferroviario del Gottardo, attualmente il più lungo e più profondo del mondo, in cui venne messo in scena uno spettacolo con simboli chiaramente esoterico-satanici. E chi vuole, può cercare in Internet il filmato, analizzarlo nei suoi simboli e rendersi conto di persona di quanto scritto. Anche questo credo rientri nei “miracoli” e così tanti altri sui quali non mi pare sia il caso di dilungarsi, stante il carattere spirituale di questo scritto.

 

Proseguendo nella lettura della seconda lettera ai Tessalonicesi, vediamo che tutte queste iniziative dell’Avversario e dei Governi, che poi altro non sono che una Sua emanazione, sono rivolte a una precisa categoria di persone, quella “di coloro che vanno in rovina” cioè seguono una via che paragono a quella di un nastro trasportatore: lì in piedi, immobili, senza reazione alcuna, sono ricettivi a “una forza di seduzione” che Dio ha mandato loro non perché sia malvagio e abbia voluto deliberatamente condannarli, ma semplicemente perché il tempo a disposizione per ravvedersi è scaduto, perché si può essere morti anche vivendo. Abbiamo letto infatti “invece di credere alla verità, si sono dati all’iniquità” cioè, banalmente, a ciò che non è giusto. Non a caso c’è una Bestia che sale “dal mare”, figura dei popoli in tumulto, e un’altra che sale “dalla terra”, cioè dal basso, provenienza che ci parla di istinto, di elementi non nobili, di pesantezza, di assenza di qualsiasi contrassegno nobile. Mare e Terra che sono gli unici due elementi che formalo la superficie del nostro pianeta, non vi è nulla che venga dal cielo.

Altro passo degno di nota, a conferma del fatto che tutto è intimamente legato e connesso, che nel tempo si dipana, si srotola come una bobina che gira lentamente, ma senza mai fermarsi, lo troviamo nella seconda lettera di Pietro, personaggio che più degli altri Undici fu trasformato radicalmente dalla Grazia e dallo Spirito, che in soli tre versi sembra tracciare una storia del cristianesimo da punto di vista spirituale: “Ci sono stati anche falsi profeti tra il popolo, come pure ci saranno in mezzo a voi falsi maestri, i quali introdurranno fazioni che portano alla rovina, rinnegando il Signore che li ha riscattati. Attirando su se stessi una rapida rovina, molti seguiranno la loro condotta immorale e per colpa loro la via della verità sarà coperta di disprezzo. Nella loro cupidigia vi sfrutteranno con parole false, ma per loro la condanna ormai è in atto da tempo e la loro rovina non si fa attendere” (2.1-3).

C’è un particolare, in queste parole, che forse passa inosservato e cioè che Pietro parla di due categorie di persone, “falsi profeti” e “falsi maestri”: non sono la stesa cosa perché il “profeta” è una figura che appartiene più all’Antico Patto, ma il “maestro”, pur essendo una categoria presente anche nell’antico Israele, ha più attinenza con la Chiesa. Il Profeta à colui che parla dietro espresso ordine di Dio nel senso che porta un messaggio specifico, ma il maestro è chi insegna, sviluppa la dottrina. I profeti sono citati nell’elenco dei doni nella Chiesa (Efesi 4.11), ma i maestri sono quanti, con la loro condotta, sviluppano temi già presenti, li raccordano, li connettono, li espongono. Il maestro si sviluppa col tempo, la rivelazione, la sofferenza, la ricerca prima di tutto nello Spirito, un fine che esclude il vanto, l’orgoglio e soprattutto il tornaconto personale perché leggiamo “Fratelli miei, non siate in molti a fare da maestri, sapendo che riceveremo un giudizio più severo” (Giacomo 3.1).

Il “falso maestro” è tale in primo luogo di fronte agli occhi di Dio, cui nulla sfugge. La qualifica che ha assunto è alla base della propria condanna sulla quale cresce e si sviluppa. Se messo alla prova da chi mette in pratica l’invito di “provare gli spiriti per vedere se sono da Dio”, soccombe. Non porta in sé alcuno dei frutti dello spirito menzionati in Galati 5.22,23 agendo per distogliere i semplici dal loro cammino, guidandoli verso posizioni sbagliate, metodi devianti che possono compromettere seriamente il rapporto con Cristo. E di questo porteranno una responsabilità enorme e un castigo proporzionato al male fatto.

Concludendo, le parole del verso 25, “Ecco, ve l’ho predetto”, costituiscono la firma di Gesù a quanto finora esposto, stanno a indicare il fatto che in quel momento sta dando ai discepoli le chiavi per comprendere e riconoscere i tempi a venire, che si tratti dell’imminente rovina della città simbolo dell’ebraismo o di tutti gli altri, bui se non illuminati dalla Sua presenza. Amen.

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16.34 – IL SERMONE PROFETICO VII: L’ABOMINIO DELLA DESOLAZIONE (Matteo24.15-12)

16.34 – Il sermone profetico 7: l’abominio della desolazione (Matteo 24.15-22)

 

15Quando dunque vedrete l’abominio della desolazione, di cui parlò il profeta Daniele, stare nel luogo santo – chi legge comprenda -, 16allora quelli che sono in Giudea fuggano ai monti, 17chi si trova sulla terrazza non scenda a prendere la roba di casa, 18e chi si trova nel campo non torni indietro a prendersi il mantello. 19Guai alle donne incinte e a quelle che allatteranno in quei giorni. 20Pregate perché la vostra fuga non accada d’inverno o di sabato. 21Poiché vi sarà allora una tribolazione grande, quale mai avvenne dall’inizio del mondo fino a ora, né mai più ci sarà. 22E se quei giorni non fossero abbreviati, nessun vivente si salverebbe; ma a causa degli eletti quei giorni saranno abbreviati.

 

Ci siamo occupati di una buona parte di questi versi quando, nel nostro quindicesimo blocco, abbiamo affrontato il tema “Quando verrà il regno di Dio”, ripartito in quattro capitoli. Allora era Luca il narratore e riferì che tutta l’esposizione di Gesù fu originata dall’analoga domanda dei farisei. Ecco allora che cercheremo di affrontare l’argomento tenendo sempre presente quanto già esposto, ma cercando di offrire nuovi spunti, primo fra tutti la citazione del profeta Daniele, che nell’episodio di Luca manca.

Trovandoci di fronte ad un campo immenso, per il cui sviluppo non basterebbe una vita, dobbiamo affrontarlo nella sua essenzialità più stringente. In Daniele troviamo l’espressione “abominio devastante” in tre passi, ciascuno riferito ad altrettanti momenti storici ben distinti e cioè l’esercito romano, che nel 70 operò la distruzione del tempio, Antioco Epifane (o Mitridate), che dal 167 al 164 a.C. abolì qualsiasi sacrificio a YHWH, ed infine all’ultimo tempo, quando opereranno la Bestia e il falso profeta.

Vediamo il primo caso, reperibile nella profezia delle settanta settimane in cui alla seconda metà del verso 27 leggiamo “…farà cessare il sacrificio e l’offerta; sull’ala del tempio porrà l’abominio devastante, finché un decreto di rovina non si riversi sul devastatore”. Si tratta con ogni probabilità delle insegne romane, idolatrate dai legionari, che svetteranno sulle rovine del Tempio.

La seconda citazione si trova in 11.31 ed è riferita ad Antioco Epifane (Mitridate) che abbiamo già citato: “Forze da lui armate si muoveranno a profanare il santuario della cittadella, aboliranno il sacrificio quotidiano e vi metteranno l’abominio devastante”.

Terzo caso, in 12.11, ci parla, come anticipato, “del tempo della fine”; disse infatti l’Angelo a Daniele: “«Va’, Daniele, perché queste parole sono nascoste e sigillate fino al tempo della fine, Molti saranno purificati, resi candidi, integri, ma gli empi agiranno empiamente: nessuno degli empi intenderà queste cose, ma i saggi le intenderanno. Ora, dal tempo in cui sarà abolito il sacrificio quotidiano e sarà eretto l’abominio devastante, passeranno milleduecentonovanta giorni. Beato chi aspetterà con pazienza e giungerà a milletrecentotrentacinque giorni. Tu, va’ pure alla tua fine e riposa: ti alzerai per la tua sorte alla fine dei giorni»” (12.8-13).

Guardando a questi tre passi è chiaro che “l’abominio devastante” è da inquadrarsi sempre nell’idolatria, in un sistema di culto che pretenderà di sostituirsi in toto a quello a Dio e, per farlo compiutamente, dovrà avvenire nell’unico luogo legittimo per il popolo di Israele, cioè nel Tempio. L’Avversario infatti, essere comunque già sconfitto avendo rigettato la santità, non può accontentarsi di vie secondarie, ma cercherà sempre di riprodurre l’originale da cui proviene ed ecco perché le sue attenzioni saranno sempre rivolte al Tempio. “L’abominio della desolazione” è quindi l’orrore del culto idolatrico degli dèi pagani, che fu organizzato sotto Antioco sulle rovine del Tempio di Gerusalemme dal 15 dicembre del 167 al 25 del 164 (1105 giorni). La stessa cosa, per quanto in modalità differenti e con forza ancora maggiore perché interesserà tutto il mondo, avverrà “al tempo della fine” per il quale, come abbiamo letto, vengono impiegati termini analoghi, “sarà eretto l’abominio devastante”. “Eretto”, non “installato”, quindi ciò avverrà dopo un lungo lavoro, più che di costruzione in senso stretto, di convincimento e di studio. Questo abominio, l’ultimo, sarà il capolavoro dell’Avversario. E credo che un ruolo determinante in tutto questo lo assumerà la cosiddetta “intelligenza artificiale”.

Ai tempi di Antioco, sopra quello che fu l’altare degli olocausti, ne venne posto uno dedicato a Giove e dopo dieci giorni venne imposto il culto in cui i Giudei dovevano sacrificare, sotto pena di morte in caso di disubbidienza, dei maiali che, una volta offerti, andavano mangiati. Questo stato di cose durò, come scritto, fino al 25 dicembre – data di nascita del dio Sole e non di Gesù – 164, quando il Tempio fu riconsacrato da Giuda Maccabeo.

 

A questo punto però sorge un problema, e cioè se prendessimo alla lettera le parole di Gesù “Quando vedrete l’abominio della desolazione (…) posta nel luogo santo”, implicherebbe un riconoscimento tardivo, cioè una Gerusalemme già presa e occupata dai Romani dopo l’assedio e tutti gli assalti perpetrati. Né, sotto questo aspetto, aiuterebbe Luca 21.20 che scrive “Quando vedrete Gerusalemme circondata da eserciti, allora sappiate che la sua distruzione è vicina”. Fuggire da una città circondata è infatti impossibile. Devono esservi quindi altri particolari, altri eventi, che vanno cercati. Ricordo un episodio particolare avvenuto sotto Pilato, che fu procuratore dal 26 al 36: quando si insediò, ordinò alla guarnigione di Gerusalemme di entrare in città con le loro insegne decorate con l’immagine dell’imperatore. Conscio del carattere dei Giudei e della loro suscettibilità religiosa, non fece entrare le truppe di giorno, ma di notte e con le immagini coperte. Le truppe si erano però insediate vicine al Tempio (nella fortezza Antonia) e la loro vicinanza a quel luogo sacro diede il via a manifestazioni durate cinque giorni e relative notti per chiedere a Pilato di rimuoverle. Vivaci proteste avvennero anche quando, tempo dopo, Pilato volle far appendere dei semplici scudi in onore di Tiberio nel palazzo: immediate proteste e lettere all’imperatore. Abbiamo già citato l’episodio di Caligola nel 40 che intendeva inserire nel Tempio una sua statua, cosa non avvenuta a causa della sua morte, ma possiamo aggiungere che proprio lì era stato imposto un sacrificio giornaliero (di intercessione) per l’imperatore con un bue e due agnelli offerti alternativamente dal Governo di Roma e dal popolo ebraico.

Credo che, assieme alla presenza romana con le loro insegne da loro venerate, sia stato questo il segno, per coloro che credettero nelle parole di Gesù, assieme alle “guerre e voci di guerre”, di abbandonare precipitosamente Gerusalemme: infatti, poco dopo, Eleazaro, figlio dell’ex sommo sacerdote Anania, ordinò che il sacrificio ordinato dai Romani fosse interrotto e mai più ripreso perché YHWH poteva essere solo il Dio di Israele. Ciò avvenne nel 68 circa. Da lì alle prime battaglie all’interno della città il passo fu breve: nel volgere di poco tempo (un mese) fu dato alle fiamme il palazzo di Erode e proseguirono i massacri, da ambo le parti. In seguito, vi furono molte azioni di guerriglia che videro i Giudei vittoriosi in molti episodi.

C’è poi l’inspiegabile episodio di Cestio Gallo che, raccordandoci all’episodio al citato passo di Luca “Quando vedrete Gerusalemme circondata da eserciti…”, dopo essere riuscito ad entrare in città con le sue truppe ed aver occupato il quartiere di Betesda e averlo dato alle fiamme, raggiunto il palazzo reale accampandovisi – altro richiamo a “l’abominio della desolazione” –, avendo combattuto duramente contro gli zeloti per cinque giorni e avendoli praticamente sconfitti, improvvisamente ordinò all’esercito di ritirarsi (le ragioni di questa decisione sono ancora oggi motivo di dibattito fra gli storici). Cestio, così facendo, offrì praticamente il fianco ai nemici che inseguirono l’esercito in marcia infliggendogli pesanti perdite fino alla rovinosa disfatta di Beth Horon che costò ai Romani più di cinquemila morti e la perdita dell’aquila. Ecco allora, credo, risolto il problema relativo ai due passi di Matteo e di Luca: dati questi due segnali, “l’abominio devastante” e “Gerusalemme circondata da eserciti”, inequivocabili per i credenti, viene posta in rilievo l’urgenza di scappare per evitare un assedio dal quale sarebbe stato impossibile uscire vivi. Dovrei aver già citato Eusebio di Cesarea (265-340) il quale afferma che i cristiani, obbedendo a un ordine profetico, fuggirono tutti a Pella, a Nord della Perea, evitando così “le calamità che sommersero la nazione”.

 

Riprendendo Luca 21, abbiamo importanti integrazioni al passo di Matteo: “Coloro che si trovano nella Giudea, fuggano ai monti, coloro che sono dentro la città, si allontanino, e quelli che stanno in campagna non tornino in città; quelli infatti saranno giorni di vendetta, affinché tutto ciò che è stato scritto si compia” (vv. 21,22). Le parole “non torni indietro a prendersi il mantello” in Matteo sono del traduttore che ha ritenuto di interpretare così ciò letteralmente è “non torni verso ciò che è rimasto indietro” (poi citando il mantello), passo che non indica solo qualcosa che si è lasciato magari appeso al ramo di un albero: è una frase che ci parla dell’urgenza della chiamata, il fatto che così come si è si viene presi, il tempo che manca, il “ricordatevi della moglie di Lot” (Luca 17.32). Quello che si cela dietro questo verso è proprio il fatto che ciò che abbiamo su questa terra, da noi conquistato a fatica o che ci sia stato donato non importa, non è mai un traguardo, ma qualcosa che abbiamo in prestito, non nostro, che presto o tardi saremo chiamati a restituire o a lasciare.

Non tornare “verso ciò che è rimasto indietro” è allora un modo per dire: siate proiettati sempre verso il vostro futuro spirituale, fate attenzione a ciò che può rallentarvi”. Certo, fatte le proporzioni del caso, perché c’è sempre il rischio che uno si spogli di molte cose e che poi non sappia cosa fare, tornando ad essere quello di prima. Credo che, una volta raggiunto interiormente lo stadio della disponibilità all’abbandono, sia il Signore stesso a organizzare l’impiego del cristiano che vuole essere operativo, mai il contrario. Troppe volte ho visto persone fallire perché, figurativamente parlando, hanno voluto percorrere strade lungo le quali non erano state chiamate, oppure in preda all’entusiasmo si sono messi a costruire “case e torri” senza avere materiali per realizzarle. Al contrario, il Vangelo ci dice che nessuno spazio dev’essere dato all’improvvisazione e che la fede non è mai un atto temerario, ma sempre, fortemente, responsabile. Fermarsi a pensare, calcolare, fare bilanci tenendo comunque presente la domanda di Gesù ai Suoi, “Quanti pani avete?”.

Il verso 21, “Poiché vi sarà allora una tribolazione grande, quale mai avvenne dall’inizio del mondo fino ad ora né mai più ci sarà”, è chiaramente riferito alla città e ai suoi abitanti. Potremmo leggere i libri di storia, alcuni dei quali molto dettagliati sull’argomento scritti anche in tempi recenti, cercare in Rete ogni tipo di notizie, ma credo che a commento bastino le parole di Deuteronomio 28.53-57: “Durante l’assedio e l’angoscia alla quale ti ridurrà il tuo nemico, mangerai il frutto delle tue viscere, le carni dei tuoi figli e delle tue figlie che il Signore, tuo Dio, ti avrà dato. L’uomo più raffinato e più delicato tra voi guarderà di malocchio il suo fratello e la donna del suo seno e il resto dei suoi figli che ancora sopravvivono, per non dare ad alcuno di loro le carni dei suoi digli, delle quali si ciberà, perché non gli sarà rimasto più nulla durante l’assedio e l’angoscia alla quale i nemici ti avranno ridotto entro tutte le tue città. La donna più raffinata e delicata tra coi, che per delicatezza e raffinatezza non avrebbe mai provato a posare in terra la pianta del piede, guarderà di malocchio l’uomo del suo seno, il figlio e la figlia, e si ciberà di nascosto di quanto esce dai suoi fianchi e dei bambini che partorirà, mancando di tutto durante l’assedio e l’angoscia alla quale i nemici ti avranno ridotto entro tutte le tue città”.

Infine, il verso 22, anche qui non perfettamente tradotto perché al posto di “vivente” andrebbe messo “carne”, che pone molto più del primo l’accento su cosa è l’uomo senza la presenza in lui di Gesù. È un termine che ci rimanda a Genesi 6.3, “Lo Spirito mio non contenderà per sempre con l’uomo poiché, nel suo traviamento, egli non è altro che carne” (versione Diodati). È stato calcolato che, su tre milioni di persone, all’assedio ne sopravvissero quarantamila. C’è poi uno sguardo importante, una panoramica sui tempi a venire che riporta Luca in 21.24: “Cadranno a fil di spada e saranno condotti prigionieri in tutte le nazioni; Gerusalemme sarà calpestata dal pagani finché i tempi dei pagani non saranno compiuti”.

“Ma a causa degli eletti quei giorni saranno abbreviati”: questi non possono essere i credenti che si trovavano in città, perché erano già fuggiti proprio ascoltando le parole di Gesù che stiamo esaminando. Piuttosto, credo si tratti di coloro che lo sarebbero diventati un giorno, loro o i loro figli, per i quali la misericordia di Dio agisce e agirà sempre, fino alla fine. Amen.

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16.32 – IL SERMONE PROFETICO V: TERREMOTI (Matteo 24.7,8)

16.32 – Il sermone profetico 5: Terremoti (Matteo 24.7-8)

 

7Si solleverà infatti nazione contro nazione e regno contro regno; vi saranno carestie e terremoti in vari luoghi: 8ma tutto questo è solo l’inizio dei dolori.

 

I terremoti sono il secondo, o terzo in base alla traduzione scelta, elemento destinato a caratterizzare il tempo della fine secondo quanto abbiamo sviluppato finora. Va sottolineato che “in vari luoghi” è una versione addolcita dell’originale “in ogni luogo” a significare che nessuna parte della terra verrà risparmiata da essi. Come già fatto in precedenza, guardiamo al periodo prima degli anni 70: Terremoti avvennero in Creti (Toscana) nel 41, nel 51 in Roma, l’anno seguente ad Apamea (Siria), nel 60 a Laodicea e l’ultimo nel 67 in Palestina.

Un terremoto è causato da improvvisi movimenti di masse rocciose più o meno grandi all’interno della crosta terrestre. Si tratta degli eventi distruttivi più potenti che possano avvenire e possono liberare un’energia superiore a migliaia di bombe atomiche. Un terremoto può spostare in pochi secondi volumi di roccia di centinaia di chilometri quadrati anche se ovviamente non sempre è così. Purtroppo, trattandosi di un argomento molto complesso, siamo costretti a mantenerci su questo livello essenziale tralasciando, ad esempio, le relazioni fra questo tipo di fenomeno e i vulcani, alcuni dei quali realmente pericolosi anche se inattivi (ma non spenti) da molto tempo quali ad esempio il nostro Vesuvio che tornerà ad eruttare in modo devastante anche se non è possibile prevedere quando.

Ciò che ci interessa, comunque, è sempre la visione spirituale del fenomeno che incontriamo per la prima volta, per quanto non espressamente citato, quale uno degli elementi determinanti alla rovina del diluvio: leggiamo infatti che “eruppero tutte le sorgenti del grande abisso e le cateratte del cielo si aprirono” (Genesi 6.11), a conferma che non consisté solo in una pioggia straordinariamente continua e forte che finì per sommergere ogni cosa. In quel caso il terremoto costituì uno strumento di Dio per dar luogo a un Suo giudizio, con le modalità descritte dal verso citato, ma non sempre è visto in questo modo; addirittura, in 1 Re 19.11-12, episodio relativo alla chiamata di Elia, gli fu detto “«Esci e férmati sul monte alla presenza del Signore». Ed ecco che il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento, un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo un terremoto, un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, un sussurro di una brezza leggera. Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna”.

Il terremoto era più visto come un evento naturale, salvo casi in cui Dio se ne serviva come avvenne alla morte di Gesù e alla sua risurrezione (Matteo 27.24 e 28.2) oppure in Atti 16.26 quando, grazie a questo fenomeno, furono liberati Paolo e Sila: “All’improvviso venne un terremoto così forte che furono scosse le fondamenta della prigione; subito si aprirono tutte le porte e caddero le catene di tutti”.

Va anche considerato che Nostro Signore parla di “carestie e terremoti in ogni luogo” che si verificheranno fino alla “fine”, che in gran parte saranno conseguenze naturali delle nefaste attività umane (le prime) e dei movimenti interni della terra (i secondi), ma che poi saranno strumento del Giudizio di Dio. Inoltre vediamo che questi eventi vengono ritenuti “solo l’inizio dei dolori”, quindi un’introduzione a ciò che verrà, ma il termine impiegato per qualificarli, óinon, cioè le doglie, ci chiarisce che saranno dei segnali importanti, come avviene per la rottura delle acque e soprattutto alle contrazioni della donna gravida, che si presentano a intervalli regolari, prima ogni venti minuti, poi ogni quarto d’ora e di lì ogni dieci e cinque minuti. Quindi, secondo questo paragone, carestie e terremoti sono destinati a diventare sempre più frequenti fino al tempo della fine e costituiscono “solo l’inizio dei dolori” alla luce di quanto avverrà nella “gran tribolazione” in cui la sopravvivenza fisica e psicologica delle persone sarà praticamente impossibile a meno di donarsi ciecamente al sistema politico religioso messo in atto dalla Bestia e dal falso profeta; è in pratica ciò di cui parlano (anche) il verso 9 e 10, “Allora vi abbandoneranno alla tribolazione e vi uccideranno, e sarete odiati da tutti i popoli a causa del mio nome. Molti ne resteranno scandalizzati e si tradiranno e odieranno a vicenda”, che analizzeremo prossimamente.

Per trovare il terremoto più importante della storia occorre ancora una volta recarsi alla visione dei sigilli in Apocalisse 6, in particolare il quinto e il sesto, assolutamente connessi fra loro. Leggiamo: “Quando l’Agnello aprì il quinto sigillo, vidi sotto l’altare le anime di coloro che furono immolati a causa della parola di Dio e della testimonianza che avevano reso. E gridarono a gran voce: «Fino a quando, Sovrano, tu che sei santo e veritiero, non farai giustizia e non vendicherai il nostro sangue contro gli abitanti della terra?». Allora venne data a ciascuno di loro una veste candida e fu detto loro di pazientare ancora un poco, finché fosse completo il numero dei loro compagni di servizio e dei loro fratelli, che dovevano essere uccisi come loro”. (6.9-11).

Qui non si parla di terremoti, ma il quinto sigillo, che citiamo spesso, è la premessa che porta al sesto. Il quinto sigillo descrive “le anime” dei giusti e santi che, vissuti in epoche diverse, hanno subìto il martirio a causa della loro fede, nelle innumerevoli persecuzioni che i cristiani hanno avuto, molte delle quali taciute e sminuite soprattutto quando avvengono nella nostra epoca. Ebbene, questi a un certo punto chiedono giustizia non per spirito di vendetta, ma proprio perché, così come loro sono stati ricompensati essendo alla presenza di Dio, anche quelli che li hanno uccisi abbiano la propria retribuzione. È però una richiesta non destinata ad un immediato accoglimento perché esso sarebbe stato possibile solo quando fosse stato completato “…il numero dei loro compagni di servizio e dei loro fratelli, che dovevano essere uccisi come loro”. Chi sono, se la Chiesa è già stata rapita? Sono quanti non si saranno convertiti per la predicazione di essa, ma dopo, poiché la Bibbia come libro rimarrà a testimoniare e vi sarà ancora chi potrà accettare il Vangelo, ma passando attraverso la “gran tribolazione” di cui Gesù dà un cenno ai versi 9 e 10 di Matteo 24, “Allora vi abbandoneranno alla tribolazione e vi uccideranno, e sarete odiati da tutti i popoli a causa del mio nome. Molti ne saranno scandalizzati, e si tradiranno e odieranno a vicenda”. Sembra, tolto il significato spirituale, quanto avveniva nel regime della DDR, per citare il primo che mi viene in mente, in cui non era tollerata una adesione non totale al regime di Erich Honecker. Lo stesso sta avvenendo con la NATO e l’Europa, anch’essa intenta a schiavizzare qualunque Paese non si allinei ai deliri del suo Parlamento.

Il terremoto finale verrà col sesto sigillo: “E vidi, quando l’Agnello aprì il sesto sigillo, e vi fu un violento terremoto. Il sole divenne nero come un sacco di crine, la luna diventò tutta simile a sangue, le stelle del cielo si abbatterono sopra la terra, come un albero di fichi, sbattuto dalla bufera, lascia cadere i frutti non ancora maturi. Il cielo si ritirò come un rotolo che si avvolge, e tutti i monti e le isole furono smossi dal loro posto. Allora i re della terra e i grandi e i comandanti, i ricchi e potenti, e infine ogni uomo, schiavo o libero, si nascosero tutti nelle caverne e fra le rupi dei monti, e dicevano ai monti e alle rupi: «Cadete sopra di noi e nascondeteci dalla faccia di Colui che siede sul trono e dall’ora dell’Agnello, perché è venuto il grande giorno della loro ira, e chi può resistervi?» ( vv. 12-17).

Ora questo sigillo rappresenta un punto molto importante perché è chiaramente di non ritorno, ma se lo prendessimo esclusivamente in forma letterale commetteremmo un errore, per quanto si tratti di fenomeni destinati a verificarsi, ma non subito. L’apostolo Pietro scrive infatti “Il giorno del Signore verrà come un ladro: in quel giorno i cieli passeranno stridendo, gli elementi infiammati si dissolveranno, la terra e le opere che sono in essa saranno bruciate” (2 Pietro 3.10).

Il sesto sigillo presenta un arco di tempo molto lungo che parte dal momento in cui tutti gli equilibri morali su cui si è sempre fondata la società civile saranno rimossi e credo sia questo un primo significato del “violento terremoto”, del sole che diventa “nero come un sacco di crine” e della perdita di tutti gli altri punti di riferimento, come la luna, le stelle, il cielo, i monti e le isole “smossi dal loro posto”.

È questa un’interpretazione su ciò che avverrà prima rispetto al terremoto finale e gli elementi ad esso collegati descritti nell’Apocalisse si verificheranno, dove per “stelle” dobbiamo intendere probabilmente dei meteoriti. Lì, l’affermazione di Gesù “I cieli e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno”, troveranno finalmente il loro presente assoluto.

Vale comunque la realtà incrollabile descritta dall’autore della lettera agli Ebrei in 12.25-29: “Guardatevi bene dal rifiutare Colui che parla, perché se questi – gli israeliti che non seguirono i comandamenti di Dio dati loro da Mosè – non trovarono scampo per aver rifiutato colui che proferiva oracoli sulla terra, a maggior ragione non troveremo scampo noi, se volteremo le spalle a colui che parla dai cieli. La sua voce un giorno scosse la terra, adesso invece ha fatto questa promessa: Ancora una volta scuoterò non solo la terra, ma anche il cielo. Quando dice ancora una volta, vuole indicare che le cose scosse, in quanto create, sono destinate a passare, mentre rimarranno intatte quelle che non subiscono scosse. Perciò noi, che possediamo un regno incrollabile, conserviamo questa grazia, mediante la quale rendiamo culto in maniera gradita a Dio con riverenza e timore; perché il nostro Dio è un fuoco divorante”.

“Le cose scosse” è un riferimento al monte sul quale Mosè fu chiamato a salire, quando leggiamo che “Il monte Sinai era tutto fumante, perché su di esso era sceso il Signore nel fuoco, e ne saliva il fumo come il fumo di una fornace: tutto il monte tremava molto” (Esodo 19.18).

Concludendo questa quinta parte del sermone profetico, Gesù fornisce agli apostoli, e a tutti i credenti che avrebbero operato dopo di loro indipendentemente dal dono ricevuto e del posto occupato nella Chiesa, gli elementi per poter discernere i segni della Sua venuta. Non possiamo interpretare in senso univoco le queste Sue parole, ma discernere in essa una progressione fino a quando non verrà posta fine all’Universo perfetto da Lui creato, ma irrimediabilmente compromesso dal peccato dell’uomo.

Possiamo infine citare la visione di Giovanni: “E vidi un cielo nuovo e una terra nuova: il cielo e la terra infatti erano scomparsi e il mare non c’era più. E vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo” (Apocalisse 21. 1,2). Amen.

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16.31 – IL SERMONE PROFETICO IV: CARESTIE (Matteo 24.7-8)

16.31 – Il sermone profetico 4: Carestie (Matteo 24. 7-8)

 

7Si solleverà infatti nazione contro nazione e regno contro regno; vi saranno carestie e terremoti in vari luoghi: 8ma tutto questo è solo l’inizio dei dolori.
Carestie e terremoti sono altri indicatori del tempo della fine. Non credo sia un compito affidatomi quello di lanciare facili segnali di allarme a mo’ dei predicatori pentecostali dei film americani, ma ritengo che i credenti siano chiamati a vagliare i dati di cui vengono in possesso con la stessa attenzione che un dirigente esamina un bilancio aziendale, se intendono farsi trovare preparati quando il loro Signore verrà. Troppo facile interpretare la parola “fine” in senso univoco, riferendola esclusivamente a quella del mondo perché è una parola che cela in sé un senso ben più ampio, come quello della fine vita del singolo o di una collettività, di una società, di un periodo e tanto altro. Per intenderci, “Fine”, per il ricco stolto della parabola, fu la sua morte che proseguì negli inferi, mentre per Lazzaro la stessa rappresentò l’inizio di una vita nuova nel seno di Abrahamo, per cui possiamo dire che il termine è relativo in quanto, per alcuni, avrà un valore terminale mentre per altri l’esatto opposto. Stando così le cose, va da sé che dobbiamo preoccuparci dei segnali che ci vengono dati attraverso lo scorrere degli eventi perché da essi possiamo essere spronati a vegliare e non a caso al sermone profetico appartengono due parabole fondamentali, quella delle dieci vergini e dei talenti.

 

Carestie

Costituiscono il primo indicatore e possono essere connesse alle guerre, perché con esse la gente che coltiva e alleva fugge dalle campagne lasciandole deserte, o al cambiamento climatico. Con la carestia si ha una mancanza di derrate alimentari che va sempre più aggravandosi per cui la popolazione si affama e muore, non senza prima essere ricorsa a qualunque mezzo pur di sopravvivere: violenze e rapine per procurarsi il cibo per poi ricorrere al cannibalismo e all’infanticidio come atto estremo. Poiché il discorso di Gesù ha carattere universale, possiamo esaminare brevemente la carestia nel passato, nel presente e nel futuro, sottolineando che, come detto all’inizio, è un primo indicatore nel senso che non è un singolo evento che può far pensare alla fine, ma l’intensificarsi del fenomeno esattamente come non è una febbre occasionale a denunciare una condizione di salute precaria, ma il perdurare di essa.

Abbiamo citato nello scorso capitolo le fami avvenute prima del 70; considerando quelle avvenute dall’antichità ai giorni nostri, abbiamo quella del 974/5 in cui un inverno molto rigido e una primavera tardiva ne provocarono una che uccise un terzo della popolazione franca e la metà degli abitanti di Parigi. Nel XIVo secolo ne abbiamo due, una dal 1315 al 17 in Europa che, assieme alla peste nera, provocò milioni di morti, poi dal 1333 al 37 ve ne fu una in Cina.

Il 1500 ne vide tre, una in Etiopia, un’altra colpì Milano nel 1570 e un’altra l’Europa vent’anni dopo. Il 1600 si tiene sulle tre, poi ne abbiamo quattro nel 1700, dodici nel 1800 e diciassette nel 1900.

Per il tempo presente, se nel 2019 erano a rischio di carestia 27 milioni di persone, per il 2023 il calcolo è di 50, ma se nell’antichità il problema del fenomeno era unico nel senso che mancava il cibo per una causa precisa, attualmente abbiamo una serie di fattori negativi che non potranno che portare all’impossibilità della sopravvivenza: dati allarmanti sull’inquinamento, ma ancora di più la spaventosa crescita demografica che porta all’assoluta mancanza di spazio non perché gli uomini saranno costretti a vivere gomito a gomito gli uni gli altri, ma perché l’energia, i rifiuti, le superfici necessarie alla coltivazione e all’allevamento saranno assolutamente insufficienti. Il cambiamento climatico è ormai irreversibile e porterà conseguenze drammatiche e i suoi effetti li constatiamo senza possibilità di errore. I dati che possiamo raccogliere in proposito lasciamo ben poco spazio alla speranza che non tanto noi, ma i nostri figli o i figli dei nostri figli possano vivere in un mondo, se non a misura di essere umano perché non lo è mai stato, almeno decente.

Abbiamo poi una visione del futuro che non ci è offerta dalla scienza, ma dalla Parola di Dio che da un lato ci lascia gli elementi per valutare l’avvicinarsi degli ultimi tempi e dall’altro ci dà una speranza di salvezza dalla cosiddetta “gran tribolazione” perché il rapimento della Chiesa si verificherà prima degli eventi catastrofici e assolutamente dolorosi che la caratterizzeranno. Infatti lo scopo della vita cristiana è quella di “…servire il Dio vivo e vero e attendere dai cieli suo Figlio, che egli ha risuscitato dai morti, Gesù, il quale ci libera dall’ira che viene” (1 Tessalonicesi 1. 9,10). Ancora, “Dio non ci ha destinati alla sua ira, ma ad ottenere la salvezza per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo” (Ibid. 5.9).

È ai Tessalonicesi, prima e seconda lettera, che Paolo parla degli ultimi tempi anche perché i membri di quella Chiesa erano convinti che il Signore dovesse tornare da un momento all’altro loro viventi e quindi in molti avevano smesso di lavorare e vivere normalmente. Così scrive nella sua seconda lettera: “Riguardo alla venuta del Signore nostro Gesù Cristo e al nostro radunarci con lui, vi preghiamo, fratelli, di non lasciarvi troppo presto confondere la mente e allarmare né da ispirazioni né da discorsi, né da qualche lettera fatta passare come nostra, quasi che il giorno del Signore sia già presente. Nessuno vi inganni in alcun modo! Prima infatti verrà l’apostasia e si rivelerà l’uomo dell’iniquità, il figlio della perdizione, l’avversario, colui che s’innalza sopra ogni essere chiamato e adorato come Dio, fino a insediarsi nel tempio di Dio, pretendendo di essere Dio. Non ricordate che, quando ancora ero tra voi, io vi dicevo queste cose? E ora voi sapete che cosa lo trattiene perché non si manifesti se non nel suo tempo. Il mistero dell’iniquità è già in atto, ma è necessario che sia tolto di mezzo colui che lo trattiene. Allora l’empio sarà rivelato e il Signore Gesù lo distruggerà col soffio della sua bocca e lo annienterà con lo splendore della sua venuta. La venuta dell’empio avverrà nella potenza di Satana, con ogni specie di miracoli e segni e prodigi menzogneri e con tutte le seduzioni dell’iniquità a danno di quelli che vanno in rovina perché non accolsero l’amore della verità per essere salvati. Dio perciò manda loro una forza di seduzione, perché essi credano alla menzogna e siano condannati tutti quelli che, invece di credere alla verità, si sono compiaciuti nell’iniquità” (2.1-12).

Conscio del fatto che a questi versi dovrebbero essere dedicati molti capitoli, suddividiamoli comunque nei loro punti essenziali. Primo, come sappiamo, il credente vive da sempre negli ultimi tempi, ma deve fare attenzione a non confondere il principio dell’ultimo tempo con il suo manifestarsi perché deve venire prima l’apostasia e dev’essere rivelato colui che è comunemente chiamato Anticristo, che sarà ebreo perché altrimenti non potrebbe “insediarsi nel tempio di Dio pretendendo – a differenza di Gesù che lo era – di essere Dio”. Se lo spirito dell’Anticristo è già nel mondo (1 Giovanni 4.3), è trattenuto dall’agire se non nel tempo a lui concesso: poi, se deve insediarsi nei “Tempio di Dio”, il terzo ancora da costruirsi dopo aver raso al suolo la moschea di Al-aqsa, abbiamo un ulteriore indicatore.

Particolarmente interessante e edificante o il verso 7, “Il mistero dell’iniquità è in atto, ma prima è necessario che sia tolto di mezzo colui che lo trattiene” e questo è lo Spirito Santo che agisce attraverso la Chiesa; via Lei, non avrà più ragione di restare operativo nel mondo per cui il diretto rappresentante di Satana avrà campo assolutamente libero. Anche da qui abbiamo un’ulteriore conferma che quella parte dell’umanità che avrà voluto perseguire la propria autonomia e indipendenza da Dio, la troverà finalmente e sarà abbandonata a se stessa e all’anti-Dio che farà di lei ciò che vorrà, non più frenato da alcunché, salvo venire poi incatenato per mille anni.

Ma si parlava di carestie. Abbiamo visto il passato, il presente con relative previsioni della ragione e della scienza; resta da vedere ciò che verrà nel futuro, quello dopo il rapimento della Chiesa e notizie in merito le reperiamo nel libro dell’Apocalisse al capitolo sesto. Anche qui mi rendo conto che si apre una visione a dir poco immensa, ma che va purtroppo contenuta allo stretto necessario.

Giovanni ha qui la visione dei sette sigilli e l’apertura dei primi quattro. Il sigillo è un marchio che ha la funzione di garantire l’autenticità/integrità di un documento che può essere aperto solo per compiere atti di estrema importanza. Non può essere sciolto prima, non dopo, quindi questo strumento ci parla anche della fine di un tempo di attesa, di un momento assolutamente solenne. A seguito dell’apertura di ciascuno dei quattro sigilli, entra sulla scena un cavallo, con cavaliere, di colore diverso. Il cavallo, animale da guerra qui simbolo anche di vittoria o comunque successo di una missione, dalla corsa veloce, maestoso, che nei tempi antichi quando le macchine da guerra erano molto pesanti e usate per lo più negli assedi incuteva timore e formava un tutt’uno col proprio cavaliere, compare a raffigurare l’ineluttabilità dei giudizi che porta.

Ebbene, leggiamo: “Quando l’Agnello aprì il terso sigillo, udii il terzo essere vivente che diceva: «Vieni». E vidi, ecco, un cavallo nero. Colui che lo cavalcava aveva una bilancia in mano. E udii come una voce in mezzo ai quattro esseri viventi, che diceva: «Una misura di grano per un denaro, e tre misure d’orzo per un denaro! Olio e vino non siano toccati»” (vv.5,6). Il nero: un non colore, detto anche “colore acromatico”, con luminosità nulla e simboleggia la totale assenza di speranza, le tenebre intese come assenza di Dio, la morte anche se si è in vita. Il cavaliere ha in mano una bilancia, fatto apparentemente anomalo perché solitamente chi cavalca ha in mano un’arma. Qui la bilancia è l’arma e infatti la voce che parla si riferisce a un razionamento, o meglio ancora a una vendita a prezzi proibitivi perché “una misura di grano”, originale “chénice”, circa 60 grammi, avrebbe avuto il prezzo di una giornata lavorativa di un operaio. La frase “olio e vino non siano toccati” è di interpretazione più complessa: tradotta letteralmente risulta “l’olio e il vino non danneggerai” quindi, se il cavaliere raffigura la carestia pesando grano e orzo simbolo di nutrimento, ma non il vino e l’olio, significa che sarà possibile ricorrere all’illusione di sfamarsi tramite questi due elementi. In altri termini l’uomo che avrà rifiutato il pane della vita, avrà il vino e l’olio della morte e dell’illusione.

Abbiamo poi la visione del quarto sigillo: “Quando l’Agnello aprì il quarto sigillo, udii la voce del quarto essere vivente che diceva: «Vieni». E vidi: ecco, un cavallo verde. Colui che lo cavalcava si chiamava Morte e gli inferi lo seguivano. Fu dato loto potere sopra un quarto della terra, per sterminare con la spada, con la fame, con la peste e con le fiere della terra”.

Il cavallo, più che verde, sarebbe “verdastro”, o “giallastro”, quindi un colore sgradevole, come quello di un morto o di un livido a un certo stadio e infatti il nome del cavaliere è Morte ed è seguito dagli inferi, quindi da ciò a cui la Morte porta. Sembra quasi che venga descritta una sorta di pesca a strascico, in cui la rete sono gli inferi che raccolgono indistintamente tutto ciò che vi cade dentro, ma abbiamo anche la morte del corpo (la Morte) associata a quella dell’anima e dello spirito (gli inferi).

Notare di cosa morirà la “quarta parte della terra”: spada, quindi armi, quindi guerra, fame (carestia o comunque impossibilità di nutrirsi), peste (epidemie o pandemie, evidentemente peggiori rispetto a quella del COVID-19 recentemente avvenuta), e con “le fiere della terra”, greco férion cioè “belva, animale feroce, selvaggio”, ma anche “animale malefico, rettile, serpente”, o ancora può indicare qualunque animale fino agli insetti. Se quindi, stante il fatto che “le fiere della terra” che conosciamo quali i grandi predatori come ad esempio tigri e leoni (per citare i primi che vengono in mente) sono in estinzione e quindi pare improbabile che siano in grado di portare sterminio, non così per generici esseri viventi, rettili o insetti che siano, sui quali credo sia prudente restare sul generico nel senso che, nel momento in cui si manifesteranno questi eventi, sarà chiaro a cosa e chi il verso si riferisce.

Abbiamo così esaminato in breve cosa racchiude il termine “carestie” e “fami” non tutte usate nelle traduzioni in circolazione. Lo sguardo dato al passato, presente e futuro può aiutarci a comprendere quegli eventi che il Padre ha riservato per i tempi a venire. Certo, per attenderlo nel modo migliore, per essere da Lui trovati svegli e non addormentati. Amen.

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16.30 – IL SERMONE PROFETICO III: GUERRE E RUMORI DI GUERRE (Matteo 24.4-8)

16.30 – Il sermone profetico 3: Guerre e voci di guerre (Matteo 24.4-8)

6E sentirete di guerre e di rumori di guerre. Guardate di non allarmarvi, perché deve avvenire, ma non è ancora la fine. 7Si solleverà infatti nazione contro nazione e regno contro regno; vi saranno carestie e terremoti in vari luoghi: 8ma tutto questo è solo l’inizio dei dolori.

Incontriamo per la prima volta (v.6) la parola “fine” che per bocca di Gesù leggeremo per tre nel corso di questa prima parte che potremmo definire “l’inizio dei dolori”. Anche qui, per quanto la “fine” sia un chiaro riferimento alla domanda dei discepoli sulla “fine del mondo”, estenderei il concetto anche su quella di Gerusalemme nell’anno 70, dando prevalenza comunque a ciò che è “fine” secondo il greco “télos” cioè “compimento, termine”, ma anche “morte”, quindi qualcosa di definitivo dal quale è impossibile tornare indietro. Fine quindi del mondo che conosciamo con l’avvento di quello nuovo, e della città che tanto rappresentava per il popolo di Israele che però, avendo rifiutato l’Emanuele, il “Dio con noi”, non aveva più senso di esistere; per lo meno, godendo delle benedizioni di Dio che aveva avuto.

Veniamo al verso 6, “E sentirete di guerre e rumori di guerre”, che andrebbe tradotto con “Siete sul punto di sentire di guerre e voci di guerre”, quindi conflitti in atto o in fase di preparazione che minacciano di accadere. Per la doppia valenza che diamo alle parole contenute nel sermone profetico, vediamo brevemente il periodo degli anni precedenti il 70 d.C. in cui l’impero romano era in preda a grandi agitazioni: quattro imperatori, Nerone, Galba, Otone e Vitellio, muoiono di morte violenta nello spazio di un anno e mezzo. Nerone si suicida nel 68, gli altri vengono uccisi dai pretoriani (Galba), dai soldati di Vespasiano (Vitellio), un altro ancora si suicida (Otone), questi ultimi tre tutti nel 69. Giuseppe Flavio parla di molti conflitti causati dall’odio nazionale fra i Giudei di Persia e i loro vicini nei territori pagani, oltre a quelli tra gli abitanti di Cesarea e i Giudei. A Babilonia ne morirono uccisi 50mila ed altrettanti in varie città assire e “voci di guerre” giunsero alle orecchie dei Giudei quando gli imperatori Caligola, Claudio e Nerone minacciarono di spedire contro di loro i loro eserciti, cosa che poi non fecero. Caligola, addirittura, intendeva far porre una propria statua nel Tempio ed essere venerato come un Dio; ciò avvenne nel 40 ma, lui morendo nel 41, il progetto non ebbe seguito.

L’anno 66, poi, fu particolarmente significativo sia per una violenta repressione romana ad Alessandria d’Egitto a causa di conflitti fra Greci ed Ebrei in cui morirono altre 50mila persone, senza contare lo scoppiare di più rivolte a Gerusalemme che sfociarono in vere e proprie battaglie che causarono seimila morti.

Quanto alla trasposizione delle parole del verso 6 ai nostri tempi, credo che vi sia poco da rilevare salvo che l’esistenza di “guerre e voci di guerre” sia sempre esistita e gli ultimi due conflitti mondiali testimonino, a parte la follia dell’uomo, il fatto che non sia per forza il caso di gridare agli “ultimi tempi” non perché non li siano in senso letterale, ma in quanto la cristianità è in essi da sempre e questo stato di cose è uno degli innumerevoli messaggi contenuti nel Vangelo. I cristiani non si devono spaventare o pensare a una fine imminente che obbedisca ai loro orologi, ma meditare sul fatto che “deve avvenire (tutto questo), ma non è ancora la fine” che avverrà solamente quando “Questo Vangelo del Regno sarà annunciato in tutto il mondo, perché ne sia data testimonianza a tutti i popoli; e allora verrà la fine” (v. 14), che ritengo sia un altro indicatore importante.

Al momento in cui scrivo queste riflessioni, a parte la conosciuta guerra fra Russia e Ukraina, che sarebbe terminata da tempo se non ci fossero interferenze e aiuti interessati da Stati Uniti ed Europa, i conflitti in atto sono 59, per non parlare di quelli minacciati o taciuti.

Abbiamo letto che “deve avvenire (tutto questo)” – le parole tra parentesi non sono tradotte nel testo –, quindi si tratta di eventi inevitabili perché l’uomo senza Cristo non può che cercare di prevalere sul proprio simile, tramare ai suoi danni, depredarlo. La carne è sempre pronta a portare rovina ovunque e lo vediamo anche nella Chiesa che ha conosciuto e conosce da sempre periodi terribili in cui l’amore non è stato predicato né praticato. Spesso ho sentito dire, e mi sono trovato anche d’accordo, che Gesù Cristo ha vinto, ma il Cristianesimo – quello “ufficiale” – ha fallito e sotto certi aspetti è un’affermazione che non è possibile contestare. Ora anche questo rientra nel “tutto questo deve avvenire” perché lo spirito dell’uomo è inevitabile che si manifesti, in un modo o in un altro.

Il verso 7 va invece diviso in due parti, la cui prima solo apparentemente è un richiamo alle guerre, perché “si solleverà nazione contro nazione e regno contro regno” suggerisce più l’idea di un complottare generale di un popolo a danno dell’altro quasi in momenti di isteria collettiva, cosa che a mio parere può essere vista nelle coalizioni degli Stati, e penso alla NATO, all’UE, in cui solo apparentemente esiste unità d’intenti, ma covano sotto traccia tutta una serie di risentimenti e rivendicazioni che, per ora, non sfociano in conflitti aperti solo perché ci sono interessi più grandi da difendere. Il sollevarsi di “una gente contro l’altra ed un regno contro l’altro” (secondo una traduzione diversa) è una frase che testimonia ancora una volta l’impossibilità di avere pace duratura al di fuori dell’amore di Dio. Anzi, tanto più l’uomo si allontana da Lui, tanto più si avvicina alla rovina.

Seguono a questo punto due “flagelli” visti nelle “carestie e terremoti in vari luoghi”, tre secondo altri che traducono “pestilenze, fami e terremoti”, questo sia come conseguenza delle guerre (le carestie e la fame) che come fatti autonomi.

Anche qui abbiamo un riferimento all’antichità: Tacito, Svetonio, Eusebio e Flavio parlano del fatto che una grande carestia afflisse Roma, l’Egitto, la Grecia e la Palestina sotto il regno di Claudio nel 48 circa, tra l’altro profetizzata da Agabo in Atti 11.28: “In quei giorni alcuni profeti scesero da Gerusalemme ad Antiochia. Uno di loro, di nome Agabo, si alzò in piedi e annunciò, per impulso dello Spirito, che sarebbe scoppiata una grande carestia su tutta la terra”. Tacito narra che, nell’anno 65, a Roma morirono 30mila persone di peste e, riguardo ai terremoti, abbiamo quello di Creti (Toscana) nel 46, a Roma nel 51, in Apamea (Siria) nel 53, in Campania nel 58, poi a Laodicea nel 60 e l’ultimo in Palestina nel 67.

Se poi andiamo a Luca 21.11 abbiamo altri riferimenti, cioè “vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandiosi dal cielo”, altro riferimento che richiede due distinte collocazioni, la prima delle quali, come sempre, nell’epoca anteriore alla presa di Gerusalemme: leggiamo Giuseppe Flavio che, mentre descrive quanto avvenuto in città a quel tempo, descrive dei fenomeni molto particolari: “A causare la loro morte (di molti ebrei radunatisi al piazzale esterno del Tempio) fu un falso profeta che in quel giorno aveva proclamato agli abitanti della città che il Dio comandava loro di salire al Tempio per ricevere i segni della salvezza. E in verità allora, istigati dai capi ribelli, si aggiravano tra il popolo numerosi profeti che andavano predicando di aspettare l’aiuto del Dio, e ciò per distogliere la gente dalla diserzione e per far coraggio a chi non aveva nulla da temere da loro e sfuggiva al loro controllo. Nella disgrazia l’uomo è pronto a credere, e quando l’ingannatore fa intravedere la fine dei mali incombenti, allora il misero s’abbandona tutto alla speranza. Così il popolo fu allora abbindolato da ciarlatani e da falsi profeti, senza più badare né prestar fede ai segni manifesti che preannunziavano l’imminente rovina. Quasi fossero stati frastornati dal tuono e accecati negli occhi e nella mente, non compresero gli ammonimenti di Dio. Come quando sulla città apparvero un astro a forma di spada e una cometa che durò un anno. O come quando, prima che scoppiassero la ribellione o la guerra, essendosi il popolo radunato per la festa degli Azzimi nell’ottavo giorno del mese di Xanthico, all’ora nona della notte l’altare e il Tempio furono circonfusi d’un tale splendore, che sembrava di essere in pieno giorno, e il fenomeno durò mezzora: agli inesperti sembrò di buon augurio, ma dai sacri scribi fu subito interpretato in conformità di ciò che accadde dopo. Durante la stessa festa, una vacca che un tale menava al sacrificio partorì un agnello in mezzo al sacro recinto; inoltre, la porta orientale del Tempio, quella che era di bronzo e assai massiccia, sì che la sera a fatica venti uomini riuscivano a chiuderla, e veniva sprangata con sbarre legate in ferro e aveva dei paletti che si conficcavano assai profondamente nella soglia costituita da un blocco tutto d’un pezzo, all’ora sesta della notte fu vista aprirsi da sola. Le guardie del santuario corsero a informare il comandante, che salì al Tempio e a stento riuscì a farla richiudere. Ancora una volta questo parve agli ignari un sicurissimo segno di buon augurio, come se il Dio avesse spalancato a loro la porta delle sue grazie; ma gli intenditori compresero che la sicurezza del santuario era finita di per sé e che l’aprirsi della porta rappresentava un dono per i nemici, e pertanto interpretarono in cuor loro il prodigio come preannunzio di rovina. Non molti giorni dopo la festa, il ventuno del mese di Artemisio, apparve una visione miracolosa cui si stenterebbe a prestar fede; e in realtà, io credo che ciò che sto per raccontare potrebbe apparire una favola, se non avesse da una parte il sostegno dei testimoni oculari, dall’altra la conferma delle sventure che seguirono. Prima che il sole tramontasse, si videro in cielo su tutta la regione carri da guerra e schiere di armati che sbucavano dalle nuvole e circondavano le città. Inoltre, alla festa che si chiama la Pentecoste, i sacerdoti che erano entrati di notte nel tempio interno per celebrarvi i soliti riti riferirono di aver prima sentito una scossa e un colpo, e poi un insieme di voci che dicevano: «Da questo luogo noi ce ne andiamo». Ma ancora più tremendo fu quest’altro prodigio. Quattro anni prima che scoppiasse la guerra, quando la città era al culmine della pace e della prosperità, un tale Gesù figlio di Anania, un rozzo contadino, si recò alla festa in cui è uso che tutti costruiscano tabernacoli per il Dio e all’improvviso cominciò a gridare nel tempio: «Una voce da oriente, una voce da occidente, una voce dai quattro venti, una voce contro Gerusalemme e il tempio, una voce contro sposi e spose, una voce contro il popolo intero». Giorno e notte si aggirava per tutti i vicoli gridando queste parole, e alla fine alcuni dei capi della cittadinanza, tediati di quel malaugurio, lo fecero prendere e gli inflissero molte battiture. Ma quello, senza né aprir bocca in sua difesa né muovere una specifica accusa contro chi lo aveva flagellato, continuò a ripetere il suo ritornello. Allora i capi, ritenendo – com’era in realtà – che quell’uomo agisse per effetto di una forza sovrumana, lo trascinarono dinanzi al governatore romano. Quivi, sebbene fosse flagellato fino a mettere allo scoperto le ossa, non ebbe un’implorazione né un gemito, ma dando alla sua voce il tono più lugubre che poteva, a ogni battitura rispondeva: «Povera Gerusalemme!». Quando Albino, che era il governatore, gli fece domandare chi fosse, donde provenisse e perché lanciasse quella lamentazione, egli non rispose, ma continuò a compiangere il destino della città finché Albino sentenziò che si trattava di pazzia e lo lasciò andare. Fino allo scoppio della guerra egli non si avvicinò ad alcun cittadino né fu visto parlare con alcuno, ma ogni giorno, come uno che si esercitasse a pregare, ripeteva il suo lugubre ritornello: «Povera Gerusalemme!». Né imprecava contro quelli che, un giorno l’uno un giorno l’altro, lo percuotevano, né benediceva chi gli dava qualcosa da mangiare; l’unica risposta per tutti era quel grido di malaugurio, che egli lanciava soprattutto nelle feste. Per sette anni e cinque mesi lo andò ripetendo senza che la sua voce si affievolisse e senza provar stanchezza, e smise solo all’inizio dell’assedio, quando ormai vedeva avverarsi il suo triste presagio. Infatti un giorno che andava in giro sulle mura gridando a piena gola: «Ancora una volta, povera la città, e povero il popolo, e povero il tempio!», come alla fine aggiunse: «E poveretto anche me!», una pietra scagliata da un lanciamissili lo colpì uccidendolo all’istante, ed egli spirò ripetendo ancora quelle parole” (Guerra Giudaica, Libro VI, 298-309).

La storiografia moderna, alla luce di alcuni dati raccolti, tende a sminuire le cronache di Giuseppe Flavio, indubbiamente esagerate quando parla del numero dei morti soprattutto nell’assedio e presa di Gerusalemme del 70, per cui anche il racconto che abbiamo letto non è escluso possa essere arricchito di particolari suggestivi, ma certo è che soprattutto la presenza dei falsi profeti e dei fenomeni nel cielo sono indizi particolarmente importanti.

Concludendo, anche questo verso ci parla della visione storica perfetta di Gesù e di quanto sia limitata la nostra: non siamo in grado di tener conto del passato per farne tesoro, ma vogliamo sempre vivere il presente, con la presunzione (o sperando) che il futuro sia uguale a lui. L’uomo, più o meno consciamente, ragiona così, fa così. Ma si troverà a fare i conti con l’orologio di Dio, che dalla Sua perfetta eternità vuole liberare chi crede nel Suo amato Figlio. Amen.

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16.29 – IL SERMONE PROFETICO II: L’INGANNO (MAtteo 24.4-8)

16.29 – Il sermone profetico II: L’inganno (Matteo 24.4-8)

 

4Gesù rispose loro: «Badate che nessuno vi inganni! 5Molti infatti verranno nel mio nome, dicendo: «Io sono il Cristo», e trarranno molti in inganno. 

 

È indubbio che l’analisi del sermone profetico di Gesù ai Suoi sia uno dei compiti più ardui di tutto il Vangelo stante i motivi accennati nello scorso capitolo e che la stessa difficoltà si riscontri anche nell’organizzarne l’esposizione perché, se la si affronta considerando verso per verso, si rischia di non avere la visione dell’insieme che credo sia la più importante. Essendo però lo scopo di queste riflessioni sul Vangelo quello di fornire degli stimoli di riflessione e approfondimento individuale e non quello di stabilire verità assolute, ciascuno potrà sviluppare con appunti personali e raggruppare i temi trattati da Nostro Signore secondo le sue necessità.

Affrontare i capitoli 24 e 25 del Vangelo di Matteo, tra l’altro, non può essere fatto senza riferimenti a quelli di Marco 13 e di Luca 21, indispensabili per completare il testo del primo evangelista, che come sappiamo scrive fondamentalmente per lettori ebrei. Dobbiamo anche tenere presente che, a differenza degli ascoltatori o lettori che ci hanno preceduto per una ventina di secoli circa, la nostra posizione è avvantaggiata proprio perché abbiamo un patrimonio di dati storici che ci consentono di risolvere alcuni punti che, per gli antichi cristiani, erano molto più difficili da interpretare. Leggendo alcuni commentari ho notato che gli autori tendono a considerare quanto profetizzato da Gesù in senso unilaterale: ad esempio ho notato che vi è chi confina le Sue parole unicamente alla distruzione di Gerusalemme o proietta le sue considerazioni contestualizzandole in un futuro ancora a venire, a mio parere sbagliando perché i riferimenti che il Figlio di Dio riguardano, come vedremo, entrambi i periodi.

 

Delle sette parti in cui si divide il sermone profetico la prima riguarda la “fine”, vale a dire quel punto fermo che Dio metterà (come da sempre) per porre termine alle pretese di autonomia dell’uomo che si vuole svincolare da Lui come avvenne, appunto, “ai giorni di Noè”. Al tempo stesso abbiamo anche una valenza molto più immediata, vale a dire la “fine” di quel sistema religioso che aveva in Gerusalemme e nel Tempio il suo massimo punto di riferimento. I credenti al tempo degli Apostoli, quindi, avrebbero avuto in queste parole di Gesù una guida atta a porli nella condizione di riconoscere i tempi esattamente come lo abbiamo noi oggi per quanto riguarda le analoghe manifestazioni da Lui descritte.

Ciò a cui dobbiamo fare caso, per ora, è che Gesù inizia il suo discorso non con un elenco di segni o eventi come i discepoli Gli avevano chiesto, ma con un avvertimento: “Badate che nessuno vi inganni”, o “vi seduca”, proponendo così due temi, l’attenzione estrema che loro – e quindi per relazione i cristiani – avrebbero dovuto porre verso chi li avrebbe voluti “ingannare”, cioè portarli deliberatamente a una falsa opinione, a un errore di valutazione, a un’illusione. E quando si parla di “inganno” non può che venire alla mente quello più grande, subito dai nostri progenitori, quando Eva fu indotta a prendere il frutto proibito in Eden e a darlo al marito. Se l’inganno è perpetrabile solo con la menzogna, ecco che l’Avversario è definito suo padre (Giovanni 8.44) quindi se ne serve e lo utilizzerà, proprio riguardo all’argomento che esporrà Gesù, in modo estremamente mirato: “Sorgeranno falsi cristi e falsi profeti e faranno segni e prodigi da sedurre, se fosse possibile, anche gli eletti” (Marco 13. 22). Prima della Sua “venuta” e della “fine”, dovrà trascorrere allora un periodo pieno di travisamenti e frodi spirituali, oltre che caratterizzato da eventi terribili per l’umanità di cui Gesù parlerà nei versi successivi. Se poi, come hanno scelto altri traduttori, all’inganno si pone la seduzione, il senso è ancora più forte, perché sedurre significa “portare a sé”, quindi a una persona che ha fini diversi dal modo di essere del proprio bersaglio: suo scopo è quello di utilizzarlo per i propri fini e poi abbandonarlo.

Riguardo al fuorviare, si può dire sia un’attività cui l’Avversario si dedica con ostinazione ed estrema cura da sempre: Così dice il Signore degli eserciti, Dio d’Israele: Non vi traggano in errore i profeti che sono in mezzo a voi e i vostri indovini; non date retta ai sogni che essi sognano, perché falsamente profetizzano nel mio nome: io non li ho inviati” (Geremia 29.8,9). Se un profeta non è inviato da Dio, va da sé che agisca anche nella Chiesa in nome e per conto dell’Avversario.

Da qui, verso non certo unico nel panorama dell’Antico Patto, andiamo al Nuovo che è molto più dettagliato in cui vediamo che il terreno prediletto dell’inganno è proprio la Chiesa in cui opereranno lupi che si fingeranno agnelli, quindi spiriti distruttori simulanti una volontà di costruire. E già qui si sottolinea l’inganno perché, se costoro agissero con fini e modi chiaramente perversi, nessuno si lascerebbe sedurre: “Questi tali sono falsi apostoli, lavoratori fraudolenti, che si mascherano da apostoli di Cristo. Ciò non fa meraviglia, perché anche Satana si maschera da angelo di luce. Non è perciò gran cosa se anche i suoi ministri si mascherano da ministri di giustizia; ma la loro fine sarà secondo le loro opere” (2 Corinti 11. 12-15). L’avvertimento quindi è “Nessuno vi inganni con argomenti seducenti” (Colossesi 2.4) e non è un caso se tutte le dottrine estranee al Vangelo e le sette che si pretendono cristiane (penso ai Testimoni di G. o ai Mormoni) partono proprio dalla fede in un unico Dio: prendono versi dalla Scrittura e ne distorcono il senso, ma sempre con argomenti apparentemente logici sui quali poi costruiscono teorie e dogmi atroci e che le menti non formate accolgono. Non esiste setta che non si ritenga depositaria di una verità rivelata esclusivamente ai suoi membri e di pratiche che altri non hanno, che non li faccia sentire come dei privilegiati e degli illuminati non dal Vangelo, ma dalle dottrine professate che hanno un fondamento solo apparente.

Pietro stesso, che ascoltò proprio le parole del suo Maestro, scrisse: “Ci sono stati anche falsi profeti tra il popolo, come pure ci saranno in mezzo a voi falsi maestri, i quali introdurranno fazioni che portano alla rovina, rinnegando il Signore che li ha riscattati. Attirando su se stessi una rapida rovina, molti seguiranno la loro condotta immorale e per colpa loro la via della verità sarà coperta di disprezzo. Nella loro cupidigia vi sfrutteranno con parole false; ma per loro la condanna è in atto ormai da tempo e la loro rovina non si fa attendere” (2 Pietro 2.1-3).

L’antidoto a tutto questo è la Chiesa che, attraverso la presenza di apostoli, pastori, maestri ed evangelisti, ha lo scopo di condurre “tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la pienezza di Cristo – questa è la nostra destinazione –. Così non saremo più fanciulli in balìa delle onde. Trasportati qua e là da qualsiasi vento di dottrina, ingannati dagli uomini con quell’astuzia che trascina all’errore” (Efesi 4.11-14). È quindi la maturità e la conoscenza che vanno cercate una volta avuto il dono della salvezza, iniziando quel cammino fatto di scelte e studio, cercando la dottrina, la sola che possa evitare di essere “in balìa delle onde”, quindi faticare e affannarsi restando fermi col pericolo di annegare, e “trasportati qua e là”, cioè senza arrivare a un dove preciso, ovunque tranne che dove dovremmo essere, “da qualsiasi vento” – di cui sconosciamo l’origine – “di dottrina”, quindi qualcosa che si maschera di certezza, di autorevolezza.

 

Ora affrontiamo quello che è il primo tema, cioè “Molti verranno nel mio nome dicendo: «Io sono il Cristo» e trarranno molti in inganno”. Abbiamo due letture possibili, entrambe esatte, che si riferiscono sia al tempo di Gesù che a quello futuro. Certo nella nostra storia non abbiamo chi ha preteso di essere il Figlio di Dio, ma molte persone, rivestitesi di autorità, che hanno dato origine a movimenti che di cristiano hanno solo l’aggettivo. Nella frase “Io sono il Cristo” però non dobbiamo vedere solo chi si spaccia per Messia, ma soprattutto come guida, come riferimento, mette in atto strategie per distogliere dalla fede o impedire di pervenire ad essa, e allora gli esempi sono veramente tanti: movimenti politici di opinione, organizzazioni che vorrebbero instaurare una morale “nuova” che porti l’uomo ad essere “libero” da leggi morali, classificate come pregiudizi.

 

Con le Sue parole, comunque, Gesù si riferisce in particolare a quegli eventi che si sarebbero verificati prima della distruzione di Gerusalemme perché sappiamo che proprio nel periodo, sia precedente che posteriore alla Sua nascita, c’era la convinzione che sarebbe arrivato il Messia e, non avendo accolto Israele Gesù di Nazareth, seguì altri, anche se non come popolo intero.

Ora vanno tenute presente le parole ai farisei “Io sono venuto nel nome del Padre mio e voi non mi accogliete; se un altro venisse nel mio nome, lo accogliereste. E come potete credere, voi che ricevete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene dall’unico Dio?” (Giovanni 5.43,44) che in un certo senso anticipa di duemila anni l’accoglienza che Israele darà al “falso profeta” destinato a sedurre lui e le nazioni al tempo della fine.

Qui comunque, in primo luogo, Gesù fa riferimento a tutti coloro che avrebbero sedotto il popolo attraverso prodigi o promesse che non avrebbero potuto realizzare e mantenere. Sotto questo aspetto, ad esempio, possiamo includere il mago Simone, operante in una città della Samaria che “praticava la magia e faceva strabiliare gli abitanti della Samaria, spacciandosi per un grande personaggio. A lui prestavano attenzione tutti, piccoli e grandi, e dicevano: «Costui è la grande potenza di Dio, quella che è chiamata grande»!” (Atti 8.9).

Poi, interessante è ciò che avvenne nel 44 circa, quando operò un certo Teuda, non quello menzionato da Gamaliele in Atti 5.36, di cui Giuseppe Flavio scrive nelle sue Antichità Giudaiche: “Durante il periodo in cui Fado era procuratore della Giudea, un certo sobillatore di nome Teuda persuase la maggior parte della folla a prendere le proprie sostanze e a seguirlo fino al fiume Giordano. Affermava di essere un profeta al cui comando il fiume si sarebbe diviso aprendo loro un facile transito. Con questa affermazione ingannò molti. Fado però non permise loro di raccogliere il frutto della loro follia e inviò contro di essi uno squadrone di cavalleria che piombò inaspettatamente contro di essi uccidendone molti e facendone altri prigionieri; lo stesso Teuda fu catturato, gli mozzarono la testa e la portarono a Gerusalemme. Questi furono gli eventi che accaddero ai Giudei nel periodo in cui era procuratore Cuspio Fado” (XX. 97. V.1 e segg.)

C’è un particolare interessante in Atti 21.38 quando Paolo si rivolse al comandante delle guardie parlando in greco. Questi, stupito, gli rispose: “Allora non sei tu quell’egiziano che in questi ultimi tempi ha sobillato e condotto nel deserto i quattromila ribelli?”; se non avessimo il testo di Guerre Giudaiche II:258 – 13, 4 e oltre, non potremmo inquadrare le sue parole, per noi utili anche per il tema che stiamo trattando: “…oltre a questi, si formò un’altra banda di delinquenti: le loro mani erano meno lorde di sangue ma le loro intenzioni non erano meno empie, sì che il danno da essi inferto al benessere della città non restò inferiore a quello arrecato dai sicari. Individui falsi e bugiardi, fingendo di essere ispirati da Dio e macchinando disordini e rivoluzioni, spingevano il popolo al fanatismo religioso e lo conducevano nel deserto promettendo che ivi Dio avrebbe mostrato loro segni premonitori della liberazione. Contro costoro Felice, considerandoli come istigatori alla ribellione, mandò truppe a cavallo e a piedi e ne fece gran strage. Ma guai ancor maggiori attirò sui giudei il falso profeta egiziano. Arrivò infatti nel paese un ciarlatano che, guadagnatasi la fama di profeta, raccolse una turba di circa trentamila individui che s’erano lasciati abbindolare da lui, li guidò dal deserto al monte detto degli ulivi e di lì si preparava a piombare in forze su Gerusalemme, a battere la guarnigione romana e a farsi signore del popolo con l’aiuto dei suoi seguaci in armi. Felice prevenne il suo attacco affrontandolo con i soldati romani, e tutto il popolo collaborò alla difesa sì che, avvenuto lo scontro, l’egizio riuscì a scampare con alcuni pochi, la maggior parte dei suoi seguaci furono catturati o uccisi mentre tutti gli altri si dispersero rintanandosi ognuno nel suo paese. Ma dopo che anche questi furono domati, si verificò di nuovo un’infiammazione da un’altra parte, come in un corpo malato. Infatti i ciarlatani e i briganti, riunitisi insieme, istigavano molti a ribellarsi e li incitavano alla libertà, minacciando di morte chi si sottometteva al dominio dei romani e promettendo che avrebbero fatto fuori con la violenza chi volontariamente si piegava alla schiavitù. Distribuitisi in squadre per il paese, saccheggiavano le case dei signori, che poi uccidevano, e davano alle fiamme i villaggi, sì che tutta la Giudea fu piena delle loro gesta efferate. La gravità di questa guerra andava crescendo di giorno in giorno”.

 

Concludendo le riflessioni su questo verso, se è vero che è adattabile a qualunque epoca, va data preponderanza al fatto che i primi cristiani avrebbero dovuto essere risparmiati dalle atrocità dell’assedio di Gerusalemme e avrebbero dovuto interpretare correttamente i tempi proprio a partire dai falsi Cristi, quindi dai presunti Messia, che sarebbero sorti. Allo stesso modo i credenti venuti dopo hanno avuto modo di vedere molti “condottieri del popolo”, conquistatori, imperatori e duci di ogni nazione operare presentando modelli di società, sostenere e creare religioni poi miseramente crollate una volta raggiunto il loro apice. Per quanto mi riguarda, non ci rimane che attendere l’ultimo, quello più terribile, dal quale la Chiesa sarà però risparmiata. Amen.

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16.28 – IL SERMONE PROFETICO, INTRODUZIONE (Matteo 24.1-3)

16.28 – Il sermone profetico 1: Introduzione (Matteo 24.1-3)

1 Mentre Gesù, uscito dal tempio, se ne andava, gli si avvicinarono i suoi discepoli per fargli osservare le costruzioni del tempio. 2Egli disse loro: «Non vedete tutte queste cose? In verità io vi dico: non sarà lasciata qui pietra su pietra che non sarà distrutta».3Al monte degli Ulivi poi, sedutosi, i discepoli gli si avvicinarono e, in disparte, gli dissero: «Di’ a noi quando accadranno queste cose e quale sarà il segno della tua venuta e della fine del mondo».

Il sermone profetico di Gesù, altrimenti conosciuto come “discorso escatologico”, è una monumentale descrizione degli eventi futuri che riguardano la cristianità, tanto antica che presente e futura, riportato dai Sinottici in base alle sottolineature che si prefiggono. Non abbiamo, nella trattazione di Gesù, una chiara divisione per argomenti, cioè una distinzione precisa di quanto avverrà nel tempo, un “da” “a” in circa venti secoli di storia, ma continue incursioni ora in un momento ora in un altro, parallelismi ambivalenti in risposta alla domanda che “i discepoli”, cioè “Pietro, Giacomo, Giovanni e Andrea” (Marco 13.3) gli rivolsero “in disparte”: “Di’ a noi quando accadranno queste cose e quale sarà il segno della tua venuta e della fine del mondo”. Sono tre fatti ben precisi, secondo il nostro avvertire il tempo che scorre, molto lontani tra loro. Ecco allora che Gesù, potremmo dire “confidò” a quattro persone a Lui vicine i segni indicativi dei tempi, lasciando a loro il compito di rivelarli ad altri, come poi fecero.

I versi che ci accingiamo ad analizzare, parte dei quali già affrontati quando abbiamo riflettuto su Luca 17, costituiscono una sorta di prefazione agli effettivi contenuti anticipatori di eventi, ma sono ugualmente importanti per capire cosa mosse i discepoli a quella triplice domanda e soprattutto cosa videro prima di porla e quali raccordi fecero nella loro mente.

Gesù, commentato il gesto della vedova povera, decise che era tempo di far ritorno a Betania e uscì dal Tempio coi Suoi. Qui è d’obbligo una precisazione e cioè: secondo Marco, la sera del mercoledì, avvenne il famoso convito in casa di Simone il Lebbroso in cui Maria, sorella di Marta, unse col proprio olio Gesù: il suo gesto assumerebbe un’enorme valenza profetica rispetto alla collocazione da me fatta dopo la resurrezione di Lazzaro. L’unzione di Gesù, con tutti i suoi significati, secondo Marco avrebbe preceduto di pochissimo il Suo arresto e Passione.

Va riconosciuto che l’episodio dell’unzione è collocato da Marco il mercoledì sera della settimana della Passione, da Giovanni “Sei giorni prima della Pasqua”, con Matteo che pare concordare col primo, pur non suddividendo i giorni.

 

Cosa avvenne all’uscita dal Tempio? Il gruppo prese subito la via verso il monte degli Ulivi, che prima costeggiava tutta quella enorme costruzione per poi salire, mostrandola in tutta la sua magnificenza. Lungo questa parte del percorso era impossibile non notare quanto il Tempio fosse imponente. Notizie in merito le abbiamo da Giuseppe Flavio sia nelle Antichità che nelle Guerre Giudaiche: “Il tempio inferiore, nella parte più bassa, fu dovuto tener su con muri di 300 cubiti (circa 160 m) e in certi posti anche di più: tuttavia l’intera profondità delle fondamenta non appariva perché i costruttori colmarono buona parte dei burroni volendo livellare le stradicciole della città. Nella costruzione delle fondamenta furono impiegate pietre di 40 cubiti di grandezza (20 m). Di tali fondamenta erano degne anche le fabbriche sovrastanti. Doppi erano infatti i portici, e sostenuti da colonne di 25 cubiti di altezza (12,50 m) che erano monoliti di marmo bianchissimo ricoperti con impalcature di cedro; la loro magnificenza naturale, la levigatura e l’aggiustamento offrivano uno spettacolo ammirevole” (Guerre, V. 188-191). Alla costruzione avevano lavorato 10mila uomini, dopo essere stati addestrati a fare i muratori e i carpentieri.

Impossibile quindi che il Tempio, al di là del significato religioso che aveva, non destasse sentimenti di profonda ammirazione, gli stessi che si possono provare di fronte alle nostre grandi cattedrali con tutta la simbologia che racchiudono, il linguaggio dei gesti raffigurato soprattutto nei portali, i labirinti, ecc.

Ebbene Marco ci riferisce che, lungo il cammino, “Uno dei suoi discepoli gli disse: «Maestro, guarda che pietre e che costruzioni!»” (13.1). Sono convinto che, se ci chiedessimo cosa provasse quel discepolo (forse Pietro?) dentro di sé, fosse proprio ciò di cui è stato riferito e la sua frase parafrasata possa essere “Guarda cosa è stato capace di fare l’uomo!”. Ricordiamo che Erode il Grande lo aveva costruito per motivi politici nonostante il suo discorso per convincere il popolo a sostenere quella costruzione.

 

Riporto il passo di Giuseppe Flavio perché dalla loro lettura ciascuno potrà trarre le proprie conclusioni sull’ipocrisia di Erode (ricordiamo che non era Giudeo) e quella della politica attuale: “Fu in questo tempo, nel diciottesimo anno del suo regno, dopo gli eventi sopra menzionato, che Erode diede inizio a un lavoro straordinario, la ricostruzione del tempio di Dio a sue proprie spese, allargandone i recinti ed elevandolo a una altezza più imponente. Riteneva che l’adempimento di questa impresa sarebbe stata l’opera più insigne di quelle finora compiute e sufficiente ad assicurargli una memoria immortale. Ma siccome era conscio che la folla non era disposta né facile a intraprendere un’impresa così grande, pensò che fosse opportuno predisporre tutti a lavorare all’intero progetto facendo un discorso al popolo. Perciò lo convocò e parlò come segue: «Per quanto mi riguarda tutte le altre opere portate a termine durante il mio regno, miei concittadini, non ritenni necessario parlarne, sebbene fossero tali che il prestigio che da esse mi viene è inferiore alla sicurezza che hanno portato a voi, poiché nelle maggiori difficoltà non trascurai quanto vi poteva essere di aiuto nei vostri bisogni, e nelle mie costruzioni, ho tenuto d’occhio sia la mia invulnerabilità che quella di tutti voi, e, per volere di Dio, ritengo di avere condotto la nazione giudaica a uno stato di prosperità, mai conosciuto finora. Ora mi pare che non ci sia alcun bisogno di parlarvi delle varie costruzioni che abbiamo erette nella nostra regione, nelle città della nostra terra e in quelle dei territori conquistati, come dei più bei ornamenti con i quali abbiamo abbellito la nostra nazione, avendo coscienza che voi tutti le conoscete benissimo. Non così è dell’impresa che ora vi proporrò; è l’impresa più pia e bella del nostro tempo, quella che ora vi illustrerò. Così era, infatti, il tempio che i nostri padri hanno innalzato al Dio Altissimo dopo il loro ritorno da Babilonia; ma alla sua altezza mancavano sessanta cubiti, per raggiungere quella del primo tempio edificato da Salomone. Nessuno condanna i nostri padri di negligenza nel loro pio lavoro, poiché non fu mancanza loro se il tempio è più piccolo; furono Ciro e Dario, figlio di Istarpe, che prescrissero tali dimensioni per l’edificio, e dato che i nostri padri erano soggetti a loro e ai loro discendenti e dopo di essi ai Macedoni, non ebbero alcuna opportunità di restaurare questo primo pio archetipo alle sue primitive misure. Siccome ora, per volere di Dio, governo io e continuerà a esservi un lungo periodo di pace, abbondanza di ricchezze e raccolti buoni e, ciò che più conta, i Romani sono, per così dire, i padroni del mondo e amici leali, cercherò di rimediare alla svista causata dalla necessità e sudditanza dei tempi passati, e per mezzo di questo atto di pietà ottenere un totale ritorno a Dio per il dono di questo regno”. Erode parlò così e il suo discorso fece stupire la maggioranza degli ascoltatori, poiché fu qualcosa di totalmente inaspettato. Mentre una parte non era disturbata dalla inverosimiglianza delle sue promesse, erano sgomenti al pensiero che egli buttasse giù l’intero edificio e poi non avesse i mezzi sufficienti per realizzare il suo progetto. E tale pericolo pareva loro molto grande, e l’ampiezza dell’impresa sembrava di difficile realizzazione. Mentre essi la pensavano così, il re parlò incoraggiandoli; diceva che non avrebbe tirato giù il tempio prima di avere pronto tutto il materiale necessario per la fine dell’impresa. E queste assicurazioni non le smentì”.

 

Ecco, “Guarda che edifici e che costruzioni!” era una frase che conteneva tutto lo stupore di quel discepolo, che forse pensava anche a quell’enorme vite d’oro con grappoli d’uva, sempre di oro puro, sopra gli architravi all’ingresso, o alla porta che conduceva alla parte interna del Tempio dello stesso materiale, e alla muraglia che reggeva i portici, “la più grande edificata dall’uomo di cui si sia mai sentito parlare” (A.G. XV.396).

Ebbene Gesù dà a quel discepolo una risposta che avrebbe spento i suoi entusiasmi a tal punto che la riferì agli altri: “Vedi queste grandi costruzioni? Non sarà lasciata qui pietra su pietra, che non sarà distrutta”. Sappiamo a cosa si riferiscono queste parole, ma qui vorrei sottolineare lo stupore che sicuramente si impadronì di questo anonimo perché tutti sono in grado, a volte nemmeno tanto, di leggere il presente. Ciò che vediamo e conosciamo, come i palazzi, le strade, le persone, ci sembrano lì da sempre e istintivamente pensiamo che per sempre possano durare, in particolare in una bella giornata di sole in cui il calore e la quiete che avvertiamo ci fanno sentire al centro del nostro piccolo mondo fatto di consuetudini, di riferimenti ai quali diamo, senza accorgercene, importanza. Omeostasi. Le giornate di sole, però, ci furono anche quando Gerusalemme era sotto assedio e quando furono sterminati i suoi abitanti e il Tempio distrutto. Solo nel cinema queste azioni avvengono nel grigio o comunque nel cupo.

Mi vengono in mente le parole di Gesù su quello che definisco “il grande inganno”, che appartengono proprio a questo capitolo di Matteo: “Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti, così sarà anche la venuta del Figlio dell’uomo” (37-40).

Ancora: “…sapete che il giorno del Signore verrà all’improvviso, come un ladro di notte. E quando la gente dirà: «C’è pace e sicurezza», allora d’improvviso la rovina li colpirà, come le doglie di una donna incinta e non potranno sfuggire” (1 Tessalonicesi 5.1-3).

L’uomo naturale confida sempre in se stesso. Se si ammala ha sempre dentro di sé l’idea di non avere nulla di grave, di poter vivere per sempre che poi non è che un “ancora un poco” perennemente allungato, procrastinato. Come diceva un primario, “Non ho mai visto un paziente che, in punto di morte, chiedeva di poter vivere anche solo un minuto in più”.

Del resto, i costruttori della torre di Babilonia erano convinti di arrivare fino al cielo, di procurarsi fama e una stabilità politica unica e non turbabile dai pochi che non avrebbero aderito al loro progetto.

 

Eppure, tornando al nostro testo, Gesù con le Sue parole non dice qualcosa di nuovo, per lo meno scritturalmente, né vuole dirlo, ma dà un’indicazione sul tempo della fine della città, dice che la distruzione sta per arrivare, cosa già profetizzata per la prima volta in 1 Re 9.7 con le parole “Eliminerò Israele dalla terra che ho dato loro, rigetterò da me il tempio che ho consacrato al mio nome; Israele diventerà la favola e lo zimbello di tutti i popoli”; “Sion sarà arata come un campo e Gerusalemme diventerà un cumulo di rovine, il monte del tempio un’altura boscosa!” (Geremia 26.18), “…li darò in preda agli stranieri e saranno bottino per i malvagi della terra che li profaneranno. Distoglierò da loro la mia faccia, sarà profanato il mio tesoro, vi entreranno i ladri e lo profaneranno” (Ezechiele 7. 20-22) e infine, dettagliato e inequivocabile, Daniele 9.26,27: “Dopo sessantadue settimane, un consacrato sarà soppresso senza colpa in lui. Il popolo di un principe che verrà distruggerà la città e il santuario; la sua fine sarà un’inondazione – di popolo straniero e di sangue – e guerra e desolazioni decretate fino all’ultimo”.

 

Il gruppo di Gesù e dei discepoli raggiunse così il monte degli Ulivi, la cui strada per Betania lo valicava poco più sotto la sua cima. Da lì si aveva una bellissima visione del Tempio della città e si sedettero nuovamente; fu a quel punto che Pietro, Andrea, Giacomo e Giovanni gli si avvicinarono perché avevano saputo della Sua risposta al discepolo innominato e gli chiesero “quando accadranno queste cose”, cioè il fatto che non sarà lasciata “pietra su pietra”, ma anche, ricordandosi dei Suoi insegnamenti passati, “quale sarà il segno della tua venuta e della fine del mondo?”.

Si tratta di una domanda chiara per noi, che sappiamo che, molto sinteticamente,  il ritorno di Gesù sarà per rapire la Sua Chiesa prima della “Gran Tribolazione”, e la “fine del mondo” sarà la sua distruzione per far posto ai “nuovi cieli e nuova terra”, ma per loro non era così perché credevano che tutto fosse da identificarsi in un unico evento, anche se non capivano in che ordine il tutto si sarebbe verificato. La domanda dei discepoli si collegava anche all’affermazione che troviamo alla fine del capitolo 23, “Ecco, la vostra casa è lasciata deserta! Vi dico infatti che non mi vedrete più, fino a quando non direte: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore!»”. Certi di avere delucidazioni, si rivolsero al loro Maestro che gliele fornì. La Sua esposizione, però, era destinata a venire accolta e interpretata solo con lo Spirito che sarebbe disceso e prima di quell’evento il “turbolento” Pietro diede prova di averla compresa perfettamente nelle sue lettere. Amen.

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16.26 – CONTRO I FARISEI III/III (Matteo 23.23-27)

16.26 – Contro i farisei III (Matteo 23.23-27)

 

23Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pagate la decima sulla menta, sull’anéto e sul cumìno, e trasgredite le prescrizioni più gravi della Legge: la giustizia, la misericordia e la fedeltà. Queste invece erano le cose da fare, senza tralasciare quelle. 24Guide cieche, che filtrate il moscerino e ingoiate il cammello!25Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pulite l’esterno del bicchiere e del piatto, ma all’interno sono pieni di avidità e d’intemperanza. 26Fariseo cieco, pulisci prima l’interno del bicchiere, perché anche l’esterno diventi pulito!27Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che assomigliate a sepolcri imbiancati: all’esterno appaiono belli, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni marciume. 28Così anche voi: all’esterno apparite giusti davanti alla gente, ma dentro siete pieni di ipocrisia e di iniquità.29Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che costruite le tombe dei profeti e adornate i sepolcri dei giusti, 30e dite: «Se fossimo vissuti al tempo dei nostri padri, non saremmo stati loro complici nel versare il sangue dei profeti». 31Così testimoniate, contro voi stessi, di essere figli di chi uccise i profeti. 32Ebbene, voi colmate la misura dei vostri padri. 33Serpenti, razza di vipere, come potrete sfuggire alla condanna della Geènna? 34Perciò ecco, io mando a voi profeti, sapienti e scribi: di questi, alcuni li ucciderete e crocifiggerete, altri li flagellerete nelle vostre sinagoghe e li perseguiterete di città in città; 35perché ricada su di voi tutto il sangue innocente versato sulla terra, dal sangue di Abele il giusto fino al sangue di Zaccaria, figlio di Barachia, che avete ucciso tra il santuario e l’altare. 36In verità io vi dico: tutte queste cose ricadranno su questa generazione.

 

 

Prima di iniziare quest’ultima parte, va ricordato che diverse frasi sono già state analizzate in altre riflessioni per cui verranno solo accennate, aggiungendo qualche particolare. Dalla lettura di questi versi abbiamo un completamento delle qualifiche date agli oppositori di Gesù nello scorso capitolo: qui “ipocriti” è ripetuto quattro volte per un totale di sei (o sette considerando il verso 14 come proprio di Matteo); poi ancora “guide cieche”, qui una per un totale di due, “fariseo cieco”, “Serpenti, razza di vipere”, stessa definizione data loro da Giovanni Battista.

Si tratta di ruoli o posizioni interconnessi potremmo dire “a cascata” nel senso che l’ipocrisia è un modo di essere che, portando subito alla distanza da Dio, genera tutte le altre, cioè la cecità, vale a dire l’impossibilità di arrivare a un qualsiasi risultato spirituale; è la pericolosità vista nel veleno mortale che gli ipocriti si portano dentro, quello di Caino e della sua discendenza. Essi infatti usarono lo stesso metodo, il primo simulando atteggiamenti spirituali fino all’omicidio del fratello, gli altri sostituendosi a Dio prima e inventando una religione dopo.

Esaminiamo quindi, con l’aggiornamento che la nostra lettura ci ha dato, l’ipocrisia, che si manifesta nei metodi descritti ai versi 23, 25, 27 e 29: abbiamo prima il pagare le decime sulle erbe (commestibili) secondo l’interpretazione farisaica di Levitico 27.30, “Ogni decima della terra, cioè delle granaglie del suolo e dei frutti degli alberi, appartiene al Signore: è cosa consacrata al Signore. Se uno vuol riscattare una parte della sua decima, vi aggiungerà un quinto”. L’istituzione della decima risale a prima ancora che venisse comandata, profeticamente data da Abramo a Melchisedek quando leggiamo che “gli diede la decima di tutto” (Genesi 24.20) e da Giacobbe con le parole “Di quanto mi darai, io ti offrirò la decima”.

Quando fu codificata, questa era un modo per ricordare all’uomo che era sempre e comunque debitore nei confronti di Dio che provvedeva al suo sostentamento coi frutti della terra e col moltiplicarsi del bestiame, segno della Sua benevolenza e soprattutto benedizione che contemplava comunque una condotta retta davanti a Lui, come ricordato tante volte. La decima poi non era solo un dieci per cento dovuto, ma conteneva in sé le esigenze di YHWH come morale e comportamento.

L’agire degli scribi e farisei però si discostava enormemente da questo sistema perché avevano finito col ridurre tutto, ancora una volta, a un atto del tutto formale, senza alcuna connessione col mondo interiore: ben poca cosa era dare la decima, privandosene, a fronte del praticare “la giustizia, la misericordia e la fedeltà”, quando esse avrebbero dovuto costituire, come Gesù stesso dice, un tutt’uno. Anche oggi si registra lo stesso comportamento in tutti coloro che magari frequentano le riunioni di Chiesa una volta alla settimana, magari pregano o fanno “opere buone”, ma poi si guardano bene dal praticare una vita alla luce delle tre pratiche indicate, cioè la “giustizia”, primo principio della quale è non avere “doppi pesi e doppie misure”, cioè praticare il favoritismo e giudicare in base alle proprie simpatie e antipatie o all’importanza delle persone nella società, la “misericordia”, cioè l’immedesimarsi nel prossimo, capirlo, praticare il perdóno, e la “fedeltà”, vale a dire la continuità, l’osservare la parola data, il rispetto di quei princìpi che la Parola di Dio insegna e indica. Fedeltà è coerenza.

Gesù non dà qui un insegnamento nuovo, ma ricorda quanto lo spirito ipocrita degli scribi e farisei aveva loro fatto dimenticare: “Uomo, ti è stato insegnato ciò che è buono e ciò che il Signore richiede da te: praticare la giustizia, amare la bontà, camminare umilmente con il tuo Dio” (Michea 6.8).

Al verso 25 abbiamo la pulizia “del bicchiere e del piatto” che veniva praticata non tanto come norma di igiene, ma per evitare l’impurità cerimoniale; ricordiamo che i discepoli furono criticati per questo in Marco 7.5, “Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?”: infatti “i farisei e tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavati accuratamente le mani, attenendosi alla tradizione degli antichi e, tornando dal mercato, non mangiano senza aver fatto le abluzioni e osservano molte altre cose per tradizione, come lavature di bicchieri, di stoviglie, di oggetti di rame e di letti” (vv. 3,4).

Ora qui il discorso non è di igiene e profilassi, ma riguarda il sistema contro l’impurità, che veniva rigidamente osservato per quanto riguardava gli oggetti, ma senza considerare il fatto che, prima di pulirli “religiosamente”, occorreva guardarsi dentro, visto che anche l’uomo è un contenitore in cui si possono annidare impurità ben peggiori ed è a questo che Nostro Signore allude: certo scribi e farisei non pulivano solo l’esterno di piatti e bicchieri, ma non pensavano a rimuovere quanto di negativo era in loro. Anche qui rileviamo l’assoluta inutilità del simbolo che, invece di aiutare la comprensione, allontana l’uomo dalla pratica: se le stoviglie mi rappresentano, va da sé che se pulisco accuratamente loro, ma non altrettanto me, metto la mia relazione con Dio fuori gioco, non so se riesco a rendere l’idea.

Quegli utensili non potevano essere certo “pieni di avidità e intemperanza”, ma scribi e farisei, per lo meno quelli cui si rivolge Gesù, certamente sì. Pulire “prima” il loro interno, cioè ammettere ciò che erano, constatare il fatto della loro impurità a meno di un intervento di Dio, li avrebbe certo portati a Lui e al Figlio che era in mezzo a loro. Questa è l’unica forma di igiene possibile anche oggi, e mi vengono in mente le parole di un Monsignore che disse “Ogni individuo dev’essere prima onesto e poi cristiano”, che se lette correttamente aiutano a comprendere il rapporto tra Colui che è perfetto e l’essere umano che, se si accosta a Lui, non può certo farlo con uno spirito ipocrita. Se la semplice onestà non può salvare, certo mette Dio in condizione di agire, come quello scriba che si sentì dire “Tu non sei lontano dal regno di Dio”. Certo di “non lontani” teorici ne conosco tanti, ma quanti di loro avranno il coraggio e la disponibilità di fare quel passo decisivo verso Cristo per essere salvati?

Il verso 27 riguarda i “sepolcri imbiancati”, riferimento all’uso, al 15 del mese di Adar corrispondente al nostro febbraio – marzo, di imbiancare non solo le tombe, ma spesso anche l’area che le conteneva. Ciò non avveniva per motivi decorativi, ma per segnalare un terreno dove le persone avrebbero potuto contrarre impurità. Luca 11.44 aiuta a comprendere meglio ciò che vuol dire Gesù con le parole “Guai a voi, perché siete come quei sepolcri che non si vedono e la gente vi passa sopra senza saperlo”, di qui la necessità del bianco.

Quindi scribi e farisei, con le loro vesti e i loro atteggiamenti ostentati, nascondevano ciò che realmente avevano dentro cioè non solo un cuore non rigenerato, ma anche contaminato e contaminante, in grado di non fare entrare nel regno di Dio quelli che avrebbero voluto. Poi, riguardo a Luca, così come una persona si contamina passando sopra un sepolcro che non si vede, la stessa impurità la si contrae avendo a che fare con loro.

Il verso 29, “costruite le tombe dei profeti e adornate i sepolcri dei giusti” rappresenta l’ultima forma di ipocrisia qui denunciata, ancora più pesante in Luca 11.47,48, “Guai a voi, che costruite i sepolcri dei profeti, e i vostri padri li hanno uccisi. Così voi testimoniate e approvate le opere dei vostri padri: essi li uccisero e voi costruite”: apparentemente quindi quella gente onorava la memoria dei profeti, ma di fatto conservava in sé lo stesso sentimento omicida detenuto dai loro padri verso quanti che dei “profeti” erano i successori, per non parlare dello stesso Gesù. Adornando i sepolcri dei profeti, il popolo li reputava degni di onore e quella era “la loro ricompensa”. Tutto, quindi, era ipocrisia, azione senza una destinazione spirituale vera.

Al verso 33 scribi e farisei vengono indicati con le parole “Serpenti” e “razza – o “progenie”di vipere”: la prima, “Serpenti”, è usata per indicarne l’astuzia secondo Genesi 3.1 dove leggiamo che “Il serpente era il più astuto di tutti gli animali selvatici che Dio aveva fatto” e al tempo stesso richiama la sentenza contro di lui al verso 15, “Io porrò inimicizia fra te e la donna, fra la sua stirpe e la tua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno”. Inevitabile quindi che scribi e farisei tramassero contro Gesù e riuscissero alla fine a ferirlo, ma trovando così la loro fine.

“Progenie di vipere” fa proprio riferimento al fatto che discendessero, moralmente e spiritualmente, proprio dall’Avversario: la vipera attacca solo se si sente minacciata – e i farisei fecero proprio così – e il suo morso, pur essendo letale per l’uomo in rari casi, provoca alterazione nella coagulazione del sangue con emorragie e possibili trombi, con rischio di embolia polmonare e danno renale; poi, contenendo il suo veleno neurotossine, causa paralisi dei muscoli.

Il danno che il “morso” degli scribi e farisei provoca, quindi, consiste nell’alterare, intossicandolo profondamente, la capacità dell’uomo di agire, quindi per relazione il suo rapporto con Dio. Nel “morso” vediamo anche trasmissione di atteggiamento e di mentalità perché l’aderire a una religione consente di avere una parvenza di rispettabilità continuando a fare le stesse cose di prima. La qualifica di “vipere”, quindi, non allude alla perfidia e alla malignità come comunemente intesa dalla tradizione popolare, ma al veleno posseduto, alla tossicità delle dottrine e dei comportamenti.

Infine occorre ragionare sul significato del “Perciò io vi mando”, da connettere ai versi 29 e 30: si tratta di una predizione di Gesù che, parafrasata, suona così: “A conferma del fatto che, nonostante il vostro apparente rispetto per i profeti che i vostri padri hanno ucciso, siete uguali a loro, quando ve ne manderò altri li tratterete allo stesso modo”. Si noti che questo plurale non si riferisce alle persone presenti, ma a tutti coloro che hanno lo stesso sistema di ragionamento. È chiaro che il “li perseguiterete di città in città” è un riferimento a quanto subìto dall’apostolo Paolo che, parlando nelle sinagoghe di varie città – ecco l’ “Io vi mando” –, si attirò l’ostilità dei Giudei che lo perseguitarono (Atti 14.5) e a Listra “Giunsero da Antiochia e da Iconio alcuni Giudei, i quali persuasero la folla. Essi lapidarono Paolo e lo trascinarono fuori dalla città, credendolo morto” (v.19). Pensiamo in che condizioni lasciarono quest’uomo, ferito e lacero, oltre al tempo che abbia impiegato per guarire, oltre che al dolore fisico da lui provato.

Infine, abbiamo il verso 36, “Tutte queste cose ricadranno su questa generazione”, che sappiamo riferirsi a ciò che avvenne nell’anno 70. L’applicazione spirituale però non è tanto porre l’accento sul giudizio che si abbatté su Gerusalemme e i suoi abitanti, ma sul fatto che l’intervento di Dio giunge sempre quando il comportamento dell’umanità arriva a colmare la misura della Sua pazienza: infatti Gerusalemme, come ci aspetteremmo, non fu distrutta in occasione del suo crimine più grande, l’uccisione di Gesù, ma dopo quarant’anni (numero molto eloquente) per dar modo al popolo di ravvedersi ed evitare quanto poi avvenuto.

Così succederà al tempo della fine della pazienza di Dio per – credo – questo nostro tempo, quando la “Grande Babilonia” sarà distrutta “…perché i tuoi mercanti erano i grandi della terra e tutte le nazioni dalle tue droghe furono sedotte. In essa fu trovato il sangue di profeti e di santi e di quanti furono uccisi sulla terra” (Apocalisse 18. 23,24). I “grandi della terra” di cui sentiamo sempre parlare. Le “droghe” coi quali le nazioni furono “sedotte”: l’economia, la pace senza Cristo, il benessere come un diritto, il corporativismo, il mercato globale e tanti altri. Ebbene in questo mondo oramai ai termine, in cui anche la più pallida idea di Dio è messa alla porta, si conoscerà la più amara delle solitudini quando non sarà più possibile porvi rimedio. Amen.

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16.25 – CONTRO I FARISEI II (Matteo 23.13-22)

16.25 – Contro i farisei II (Matteo 23.13-22)

 

13Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che chiudete il regno dei cieli davanti alla gente; di fatto non entrate voi, e non lasciate entrare nemmeno quelli che vogliono entrare. [ 14]15Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che percorrete il mare e la terra per fare un solo proselito e, quando lo è divenuto, lo rendete degno della Geenna due volte più di voi.16Guai a voi, guide cieche, che dite: «Se uno giura per il tempio, non conta nulla; se invece uno giura per l’oro del tempio, resta obbligato». 17Stolti e ciechi! Che cosa è più grande: l’oro o il tempio che rende sacro l’oro? 18E dite ancora: «Se uno giura per l’altare, non conta nulla; se invece uno giura per l’offerta che vi sta sopra, resta obbligato». 19Ciechi! Che cosa è più grande: l’offerta o l’altare che rende sacra l’offerta? 20Ebbene, chi giura per l’altare, giura per l’altare e per quanto vi sta sopra; 21e chi giura per il tempio, giura per il tempio e per Colui che lo abita. 22E chi giura per il cielo, giura per il trono di Dio e per Colui che vi è assiso.

 

Non sarà sfuggita, leggendo il testo, la mancanza del verso 14. Ciò è dovuto al fatto che in alcuni testi antichi è omesso, mentre in altri è anteposto al 13; e si è supposto che sia stato preso da Marco 12.40 (“Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere”) o da Luca 20.47 che impiega parole analoghe.

Sottolineando i termini coi quali vengono definiti gli scribi e farisei in questo passo, “Ipocriti” (due volte), “guide cieche”, “stolti e ciechi” e infine “ciechi”, cerchiamo di svilupparli.

 

IPOCRITI

Il primo, “ipocriti”, in italiano definisce coloro che fingono virtù, qualità o sentimenti che non hanno dissimulando le proprie qualità negative, quei sentimenti di avversione e di malanimo che li animano col fine di ingannare gli altri o di guadagnarsene il favore. “Ipocrita”, in origine dal greco, sappiamo che indicava semplicemente l’attore, cioè chi recita una parte, entra in un personaggio che non corrisponde alla sua persona e quindi a chi è veramente, recita un ruolo che cerca di rappresentare nel modo più efficace possibile. Se quindi questo modo di essere può valere nello spettacolo, essere un attore nella vita reale è qualcosa di negativo perché chi agisce in tal modo lo fa simulando i propri veri scopi. L’ipocrisia dei farisei è l’origine di tutto il negativo che avevano e le conseguenze sono descritte nei versi da 12 a 15. Fra l’altro, quando il termine “ipocriti” appare, nel Vangelo è sempre riferito a un comportamento religioso dove l’esempio più lampante è reperibile in Marco 7.6 in cui leggiamo “Ed egli rispose loro – scribi e farisei –: «Bene ha profetizzato Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto: Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi rendono il culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini»”.

L’ipocrisia quindi, in questo caso, non è solo finzione, ma deviazione verso l’Avversario visto nelle parole “lontano da me” e “invano”: nel momento in cui si scopre che il prossimo può essere ingannato con atteggiamenti esterni, quindi religiosi, che simulino la fede autentica, ecco che si realizza un ruolo perverso che non può che portare a risultati disastrosi il primo dei quali è “chiudete il regno dei cieli davanti alla gente; di fatto non entrate voi, e non lasciate entrare nemmeno quelli che vogliono entrare”.

“Chiudere” invece di aprire, che sarebbe stato teoricamente il ruolo degli scribi e dei farisei che, se non avessero avuto il cuore lontano e non fossero stati ipocriti, avrebbero condotto il popolo verso il Cristo. Luca, in 11.52, fa dire a Gesù in che modo queste persone avrebbero potuto chiudere il regno dei cieli al loro prossimo: “Guai a voi, dottori della Legge, che avete portato via la chiave della conoscenza; voi non siete entrati, e a quelli che volevano entrare lo avete impedito”. E qual è la “chiave”? L’unica possibile è contenuta negli scritti dell’Antico Patto, che tutti loro conoscevano materialmente alla perfezione, ma non spiritualmente. “Portar via la chiave” significa proprio fare in modo che Gesù non fosse riconosciuto come “figlio di Davide”, con tutto quello che segue, così annullando di fatto tutta la Legge che, come sappiamo, è “un pedagogo che porta verso Cristo, perché fossimo giustificati per la fede” (Galati 3.24).

Ricordiamo infatti le parole di Filippo a Natanaele, “Noi abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti”, e dell’apostolo Pietro nella sua prima lettera: “Su questa salvezza indagarono e scrutarono i profeti, che preannunciarono la grazia a voi destinata” (1a 1.10). Quindi Legge e Profeti contenevano una chiave che avrebbe aperto il regno dei cieli, ma le guide religiose del popolo, ancorate alla loro tradizione e non della Parola di Dio, di fatto ne impedivano il possesso. Non resta che concludere che la stessa cosa la fa oggi, come in passato, chiunque introduce dottrine e comportamenti estranei al Vangelo di Gesù Cristo nella Chiesa distogliendo le anime da Lui.

Inseriamo il verso 14, “Guai a voi, scribi e farisei, ipocriti, perché divorate le case delle vedove e ciò, fingendo di far lunghe orazioni; per questo riceverete una maggiore condanna”: abbiamo qui un altro metodo distruttivo in oltraggio a tutti i passi della Legge che proteggeva l’orfano e la vedova, che con la morte del marito si trovava priva di un mezzo di sostentamento, maledicendo in modo particolare i loro oppressori e addirittura chi li maltrattava. Ricordiamo Esodo 22. 21.22, “Non maltratterai la vedova e l’orfano. Se tu lo maltratti, quando invocherà da me l’aiuto, io darò ascolto al suo grido, la mia ira si accenderà e vi farò morire di spada: le vostre mogli saranno vedove e i vostri figli orfani” e altri (Deuteronomio 10.18; 24.17; 27.19) che, in quanto ripetuti come concetto, danno l’idea dell’importanza del tema.

Ebbene, se la Legge proibiva addirittura di prendere “in pegno la veste della vedova”, queste persone le sfruttavano in modo ignobile, inducendole a dar loro una parte del loro reddito (qualora lo avessero, ma di certo era molto misero) con la scusa dell’avanzamento del regno di Dio mentre si servivano di quel denaro per sé, oppure si facevano concedere l’amministrazione dei loro eventuali beni, che naturalmente corrodevano fino a quanto non se ne impadronivano completamente o li esaurivano. Le preghiere di questa gente, che sappiamo sempre ostentate pubblicamente, erano l’arma di cui si servivano contro quelle donne, fatto non nuovo perché già Isaia in 1.15,17 lo denunciava: “Quando stendete le mani – per pregare, mani che avrebbero dovuto essere pure – io distolgo gli occhi da voi. Anche se moltiplicaste le preghiere, io non ascolterei: le vostre mani grondano sangue, Lavatevi, purificatevi, allontanate dai miei occhi il male delle vostre azioni. Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, cercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano – cosa che non facevano –, difendete la causa della vedova – anziché opprimerla –”.

Abbiamo letto che, a seguito di queste azioni, scribi e farisei riceveranno una “condanna maggiore” proprio perché al reato contro le vedove aggiungevano il pretesto della preghiera e del loro poter progredire dietro offerta.

Il verso 15 riguarda la cura e la metodologia farisaica per fare proseliti: percorrere “il mare e la terra per fare un solo proselito” è un’espressione proverbiale per indicare l’impegno che mettevano nel cercare chi potesse un giorno diventare come loro non tra i connazionali, ma paradossalmente tra i pagani, gli unici che potevano essere chiamati “proseliti”, come abbiamo visto con i Greci che volevano vedere Gesù. Ora, trascinando questi dal paganesimo a un ebraismo vuoto, scribi e farisei li ponevano in una condizione ancora peggiore della prima perché li spostavano da uno stato di ignoranza semplice a una in cui la Verità era a portata di mano, ma la nascondevano e sostituivano con le loro pratiche e precetti.

 

GUIDE CIECHE

Questa seconda definizione ci presenta l’assurdità della situazione e ci fa venire in mente subito la frase “Lasciateli, sono ciechi, guide di ciechi. Se un cieco guida un altro cieco, entrambi cadranno nella fossa” (Matteo15.14; Luca 6.39). L’unico antidoto a questa rovina è in Galati 5. 18 che sostiene la necessità di camminare “secondo lo Spirito” e, guardando l’Antico Patto, nella preghiera di Salomone quando chiese “Ora concedimi saggezza e scienza, perché io possa guidare questo popolo” (2 Cronache 1.10). Ricordiamo che, a seguito di quella richiesta, “Iddio disse a Salomone: «Poiché tu hai avuto in cuore questo, e non mi hai chiesto ricchezze né potere o gloria, né la vita dei tuoi nemici e nemmeno lunga vita, anzi hai chiesto saggezza e scienza per poter guidare il mio popolo sopra il quale ti ho costituito re, saggezza e scienza ti sono date, e anche ti donerò ricchezze, potere e gloria che nessun re ha avuto prima di te, né avranno quelli che verranno dopo»”.

La condizione di “guide cieche” degli oppositori di Gesù, quindi, era mancante già dalle origini nel senso che si affidavano a un sapere umano senza mai confrontarsi con il Solo che avrebbe potuto dar loro la capacità di intendere. E si badi che non è la cecità ad essere vista come un peccato, ma la presunzione e la valutazione positiva che scribi e farisei davano di loro stessi: “Se voi foste ciechi, non avreste alcun peccato, ma siccome dite: «Noi vediamo», il vostro peccato rimane” (Giovanni 9.41).

Ma cosa vedevano, o credevano di vedere, queste persone? Nostro Signore cita due esempi, fra i tanti che poteva portare, tutti riferiti al giuramento, tema da Lui affrontato nel sermone sul monte quando lo proibì dichiarando di attenersi a un “sì” o a un “no”. Scribi e farisei, infatti, dividevano il giuramento in due categorie,  una vincolante e l’altra no, procurandosi quindi un alibi per ingannare il prossimo talché i pagani, conoscendo quest’uso, costringevano gli Ebrei a giurare sul nome di YHWH con la formula “Am hai Elohim”, “Come Dio vive”.

La frase “Se uno giura per l’oro del tempio resta obbligato” trova la sua origine in Esodo 30.28 quando leggiamo “…le loro offerte – del popolo – apparterranno al Signore”, ma questa frase fu interpretata in senso assoluto, dimenticando, penso volutamente, che quelle si trovavano nel Tempio, allora dimora dell’Iddio Vivente e Vero per cui andava da sé che quanto donato veniva santificato in quel luogo.

Questa incapacità di inquadrare correttamente i principi scritturali di cui quelli relativi al giuramento sono solo un esempio, producono la qualifica di

 

STOLTI E CIECHI

Lo stolto è chi ha poca intelligenza e si comporta in modo insensato; qui Gesù fa riferimento a due condizioni, la prima umana e la seconda, la cecità, spirituale. Infatti la stoltezza allude all’incapacità di ragionare e agire in modo sensato, mentre la cecità al non vedere anche le cose macroscopiche: se l’altare veniva consacrato e “tutto ciò che toccherà l’altare sarà sacro” (Esodo 29.37), andava da sé che ciò che quelle persone insegnavano alla gente (vv 18-22) era una cosa assurda a tal punto che Nostro Signore ripete ancora una volta “Ciechi!”, facendo seguire un discorso teso a incentrare la responsabilità che si assume colui che giura, non certo approvandolo.

 

Concludendo questa seconda parte, se considerassimo le parole del passo in esame come storiche o limitate al tempo di Gesù, sbaglieremmo perché altrimenti Matteo le avrebbe riportate in minima parte. Purtroppo, il metodo farisaico è vivo ancora oggi, solo i personaggi sono cambiati e sta alla persona individuarli, visto che l’uomo è sempre lo stesso e soprattutto l’Avversario non può che continuare a ripetersi. E il Figlio Eterno di Dio che ha parlato, non ha mai espresso opinioni, ma solo verità. Amen.

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16.24 – CONTRO I FARISEI I (Matteo 23.1-12)

16.24 – Contro i farisei I (Matteo 23.1-12)

 

1 Allora Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli 2dicendo: «Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. 3Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno. 4Legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito. 5Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente: allargano i loro filattèri e allungano le frange; 6si compiacciono dei posti d’onore nei banchetti, dei primi seggi nelle sinagoghe, 7dei saluti nelle piazze, come anche di essere chiamati «rabbì» dalla gente. 8Ma voi non fatevi chiamare «rabbì», perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. 9E non chiamate «padre» nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste. 10E non fatevi chiamare «guide», perché uno solo è la vostra Guida, il Cristo. 11Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo; 12chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato.

 

Il testo di Matteo, rispetto a quello di Marco (12-38-40) e Luca (20.45-47) è molto più dettagliato quanto a interventi ed è certo che comprenda discorsi contro queste persone pronunciati da Gesù anche in altre occasioni. La situazione e il luogo in cui avvenne sono gli stessi degli episodi precedenti e vedono cioè la presenza dei farisei, dei discepoli e della folla; Luca scrive che questo discorso fu pronunciato “Mentre tutto il popolo ascoltava”, quindi tutti udirono sia le parabole che le questioni sorte con tutte le fazioni che costituivano il Sinedrio. Gli scribi e i farisei, infine, ricordiamo che avevano ammesso la loro ignoranza in merito al perché Davide chiamasse “Signore” un suo discendente, quindi “figlio”.

Il verso secondo inizia con la denuncia di un’usurpazione, cioè la “cattedra”, meglio traducibile con “sedia” di Mosè, vale a dire che pretendevano di legiferare come lui, ritenendosi tramiti della volontà di Dio da comunicare al popolo. È questo un evidente riferimento alla legge orale, che i farisei e gli scribi mettevano sullo stesso piano, in totale contrasto con le parole di Deuteronomio 4.2 “Non aggiungerete nulla a ciò che io vi comando e non ne toglierete nulla, ma osserverete i comandi del Signore, vostro Dio, che io vi prescrivo”.

Si può ricordare anche 30.11-14: “Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né troppo lontano da te. Non è nel cielo perché tu dica: «Chi salirà per noi in cielo, per prendercelo e farcelo udire, affinché possiamo eseguirlo?». Non è al di là dal mare, perché tu dica: «Chi attraverserà per noi il mare, per prendercelo e farcelo udire, affinché possiamo eseguirlo?». Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica”.

Scribi e Farisei sedevano sulla sedia dei maestri, nella sinagoga, per spiegare la Legge secondo le loro interpretazioni, nel sinedrio e nei tribunali inferiori per applicarla, ma non avevano il diritto di promulgarne di nuove proprio perché avrebbero irrimediabilmente turbato l’equilibrio che Dio aveva istituito. Aggiungendo o togliendo qualsiasi elemento, tutto quanto originariamente promulgato avrebbe perso la sua forza.

Ora, poiché gli insegnamenti di queste persone riguardavano sia la Legge che le sue interpretazioni, con la frase “Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono”, è chiaro che Gesù si riferisca alle prescrizioni ordinate da Dio e non da loro, perché altrimenti vi sarebbe contraddizione con quanto esposto dopo, perché altrimenti approverebbe il legare i “fardelli pesanti e difficili da portare ponendoli sulle spalle della gente”. È, in pratica un invito simile a quello che l’apostolo Paolo rivolge ai Tessalonicesi, cioè “Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono” (1°, 5.21).

Nel dire e non fare degli scribi e farisei – si parla della maggioranza e non dei singoli – null’altro emerge se non la religione nel senso più deleterio del termine, quello che porta la coscienza a cauterizzarsi e in Romani 2, parlando dei Giudei, troviamo descritto molto bene questo atteggiamento: “Ma se tu ti chiami Giudeo e ti riposi sicuro sulla Legge e metti il tuo vanto in Dio, ne conosci la volontà e, istruito dalla Legge, sai discernere ciò che è meglio, e sei convinto di essere guida dei ciechi, luce di coloro che sono nelle tenebre, educatore degli ignoranti, maestro dei semplici, perché nella Legge possiedi l’espressione della conoscenza e della verità… Ebbene, come mai tu, che insegni agli altri, non insegni a te stesso? Tu che predichi di non rubare, rubi? Tu che dici di non commettere adulterio, commetti adulterio? Tu che detesti gli idoli, ne derubi i templi? Tu che ti vanti della Legge, offendi Dio trasgredendola! Infatti sta scritto: Il nome di Dio è bestemmiato per causa vostra tra le genti” (17-24).

Nei versi riportati abbiamo un ritratto ampliato di questi personaggi che certo non andavano a rubare materialmente, ma frodavano gli altri autogiustificandosi, che non commettevano materialmente adulterio, ma concupivano e desideravano talché nessuno di loro, nell’episodio della donna adultera, osò scagliare la pietra per primo. Quel “Tu” che abbiamo letto è rivolto a coscienze non rigenerate dal Vangelo, per cui vale quel “Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei”.

Quello che Gesù vuol dire è che, senza lo Spirito Santo, non è possibile spiegare degnamente la Scrittura e infatti, chi non porta il Vangelo della libertà dentro di sé, non può fare altro che legare agli altri pesi importabili, paragone questo con gli animali da soma, come disse l’apostolo Pietro: “Ora dunque perché tentate Dio, imponendo sul collo dei discepoli un giogo che né i nostri padri né noi siamo stati in grado di portare?” (Atti 15.10). Non avendo la Verità dello Spirito, non resta che insegnare l’osservanza della forma, dell’apparenza, ma nel privato tutto questo scompare.

Senza commentare ciò che nel nostro testo è chiaro, vanno citate le filatterie, cioè i tefillin, strisce di pergamena sulle quali erano scritti dei passi della scrittura che venivano piegate e messe in una scatoletta legata sulla fronte, o sul fianco, o sul braccio sinistro, vicino al cuore, durante la preghiera, perché chi le portava si ricordasse di adempiere alla Legge col cuore, con la mente e con il corpo. Fu una pratica utilizzata dopo la cattività di Babilonia interpretando Deuteronomio 6.4-9 “Questi precetti che oggi ti do, ti siano fissi nel cuore. Li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando ti troverai in casa tua. Te li legherai alla mano come un segno, ti saranno come un pendaglio tra gli occhi e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle porte”. Filatteria, inoltre, deriva dal greco “filaktéria” che significa “salvaguardia, protezione”.

È interessante notare allora che le filatterie certamente racchiudono un significato importante, ma essendo un segno esteriore hanno un valore relativo, che si annulla nel momento in cui, badando esclusivamente ad esse, non si hanno più i “precetti fissi nel cuore” e tutto il resto. Ecco perché leggiamo che “I veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità” (Giovanni 4.23), senza tutte quelle interferenze fuorvianti che sono i simboli paragonabili agli oggetti citati da Nostro Signore come paramenti, statue e oggetti di vario tipo che oggi una parte della cristianità utilizza anteponendoli, purtroppo, alla vera adorazione. E come sempre la critica non è agli oggetti, ma all’utilizzo che se ne fa e al pericolo che rappresentano. I filatteri venivano allargati da scribi e farisei per renderli più visibili e tangibili, ma erano dei sostituti di tutte quelle azioni e pensieri verso Dio di cui erano mancanti.

Abbiamo poi “le frange”, la cui istituzione la troviamo in Numeri 15.37-41: Il Signore parlò a Mosè dicendo così: Parla ai figli di Israele e dì loro che si facciano delle frange agli angoli delle loro vesti in tutte le loro generazioni e mettano sulla frangia dell’angolo un filo di lana azzurra. Esse saranno per voi delle frange, e, quando voi le vedrete, ricorderete tutti i precetti del Signore e li eseguirete e non devierete seguendo il vostro cuore e i vostri occhi perché seguendoli voi diverrete infedeli. Affinché vi ricordiate ed eseguiate tutti i miei precetti e siate santi al vostro Dio. Io, il Signore Dio vostro, che vi feci uscire dalla terra d’Egitto per esservi Iddio, Io, il Signore, sono Dio vostro”.

Le “frange” erano un segno di distinzione rispetto agli altri popoli, una prescrizione ordinata per ricordare ancora una volta che era il comandamento al quale guardare costantemente, al contrario del “cuore” e degli “occhi” che, se seguiti, avrebbero portato all’infedeltà. Il comandamento è ripetuto anche in Deuteronomio 22.12, “Metterai fiocchi alle quattro estremità del mantello con cui ti copri”, quelli che toccò la donna emorroissa dimostrando così di credere in Gesù come Puro e Figlio di Dio, ed è probabile che sia per questo motivo che gli evangelisti distinguano fra “vestiti” (Marco 5.27) e “lembo della veste”, quindi la frangia (Matteo 9.20; Luca 8.44).

Ora nel nostro passo è detto che scribi e farisei “allungano le frange”, cioè le portavano più lunghe di quelle del popolo per apparire più religiosi degli altri. Ancora una volta quindi il simbolo, concepito originariamente per responsabilizzare (come le filatterie), era stato degradato a usanza e alibi perché esso si trasforma facilmente in metodo per apparire che, in quanto tale, sostituisce l’essere, come il proverbio popolare “l’abito non fa il monaco” insegna.

Allo stesso risultato si perviene esaminando le parole “Rabbi”, “Padre” (spirituale) e “guida”, anche questi titoli onorifici particolarmente ricercati dagli scribi e farisei. Dicendo ai Suoi “Non fatevi chiamare «rabbi» perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate «Padre» nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste. E non fatevi chiamare «guide» perché uno solo è la vostra Guida, il Cristo”, Gesù ricorda di essere il Solo ad avere il primato su ogni cosa e a non poter essere quindi sostituito, nemmeno in parte, da nessuno.

Ci può essere chi è particolarmente versato nelle Scritture, chi parla per lo Spirito, chi è in grado di spiegare passi complessi e portare messaggi edificanti, ma questo non può essere mai scambiato per chi non può essere, cioè un perfetto, trasformandosi in uno che pretende onori, fama e di essere seguìto in tutto ciò che dice di fare. E se volessimo stilare un elenco, gli scribi e i farisei di oggi li rinveniamo in tutti coloro che, invece di svolgere il loro ufficio di pastori, dottori o evangelisti nella Chiesa, fanno in modo di essere al centro dell’attenzione incentrando su di sé ciò che andrebbe rivolto a Dio.

È un tema molto complesso, ma che si può sintetizzare nel fatto che l’orgoglio umano, in campo cristiano, porta inevitabilmente a comportamenti devianti (gli stessi del mondo) per i quali non esiste che un solo antidoto, la rinuncia a se stessi che si cela nell’ultimo verso in esame, “Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo”, che ribalta completamente il concetto e l’uso che il mondo ha della persona; anche in quel campo, molti sono coloro che hanno titoli e ricoprono Uffici che non sono affatto consoni alla loro persona. Eppure, nonostante siano degli usurpatori, si cullano in essi e pretendono un onore che non gli spetta. E purtroppo lo stesso avviene nella Chiesa, o nelle Chiese, perché questa è la mentalità dell’uomo attaccato alla terra. La persona spirituale, infatti, cercherà solo l’approvazione di Dio e in questo suo desiderio non potrà altro che vedersi mancante. E prostrarsi dinnanzi a chi, nonostante tutto, lo ha amato e liberato. Amen.

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16.23 – FIGLIO DI DAVIDE E SIGNORE (Matteo 22-41-46)

16.23 – Figlio di Davide e Signore (Matteo 22.41-46)

 

41Mentre i farisei erano riuniti insieme, Gesù chiese loro 42«Che cosa pensate del Cristo? Di chi è figlio?». Gli risposero: «Di Davide».43Disse loro: «Come mai allora Davide, mosso dallo Spirito, lo chiama Signore, dicendo: 44Disse il Signore al mio Signore: Siedi alla mia destra, finché io ponga i tuoi nemici sotto i tuoi piedi.45Se dunque Davide lo chiama Signore, come può essere suo figlio?». 46Nessuno era in grado di risponderli e, da quel giorno, nessuno osò più interrogarlo.

 

Secondo la cronologia di Matteo riguardo al martedì della settimana della Passione, troviamo i farisei riuniti assieme per tre volte, due chiaramente per attaccare Gesù, ma non è detto il motivo della terza, quella che abbiamo letto al verso 41. Pensavano di nuovo al modo migliore per eliminarLo oppure, per evitare di ammettere la loro sconfitta, erano intenti in altre questioni? Non ci è detto da nessuno dei Sinottici, fatto sta che Gesù li raggiunge ed è Lui a interrogarli affrontandoli sul loro terreno dialettico, vale a dire con un quesito alla cui soluzione ne fanno seguito altri, sempre sullo stesso tema, ma costringendo l’interlocutore ad un approfondimento.

Solitamente le discussioni farisaiche e rabbiniche consistevano proprio in questo, cioè partivano da un passo di Scrittura per poi procedere a un suo sviluppo: una domanda sul testo generava una risposta che costituiva il nuovo punto di partenza per una discussione e così via, proprio come in questo caso, anche se la questione viene presto interrotta per manifesta incapacità a rispondere da parte dei farisei, persone certamente avvezze al testo sacro e a sviluppare dottrinalmente un concetto. Da Marco 12.35 che riporta lo stesso episodio dicendo “Insegnando nel tempio Gesù prese a dire: «Come dicono gli scribi che il Cristo è figlio di Davide?»”, è evidente che la breve discussione avvenne in un luogo aperto, quindi ancora una volta nel cortile dei Gentili.

Ora credo che affrontare il tema Davide sotto il profilo biografico o quello di uomo di Dio richiederebbe molto tempo, mentre può essere interessante esaminarlo, in piccola parte, nel suo ruolo di profeta riguardo a Gesù tenendo presente le sue ultime parole in 2 Samuele 23.2, “Lo Spirito del Signore è sopra di me, la sua parola è sulla mia lingua”, che lo qualificano come tale. Nei suoi Salmi molto parlò del Cristo arrivando a descrivere non solo le Sue sofferenze, ma accennando anche del traditore fra i Dodici e parte di quanto da lui detto fu utilizzata dall’apostolo Pietro, illuminato dallo Spirito, ad esempio, in Atti 1.16 “Fratelli, era necessario che si compisse ciò che nella Scrittura fu predetto dallo Spirito Santo per bocca di Davide riguardo a Giuda, diventato la guida di quelli che arrestarono Gesù”.

In proposito abbiamo il Salmo 69.26-29, riguardo ai persecutori del Cristo, “Il loro accampamento sia desolato, senza abitanti la loro tenda; perché inseguono colui che hai percosso, aggiungono dolore a chi tu hai ferito. Aggiungi per loro colpa su colpa e non possano appellarsi alla tua giustizia. Dal libro dei viventi siano cancellati e non siano iscritti tra i giusti”. Ancora riguardo a Giuda, Davide riporta tutta una serie di dati che aiutano molto a comprenderlo quando a personalità e destino: “Mi rendono male per bene e odio in cambio del mio amore. Suscita un malvagio contro di lui e un accusatore stia alla sua destra! Citato in giudizio, ne esca colpevole e la sua preghiera si trasformi in peccato. Pochi siamo i suoi giorni e il suo posto lo occupi un altro. I suoi figli rimangano orfani e vedova sua moglie. Vadano raminghi i suoi figli, mendicando, rovistino fra le loro rovine. L’usuraio divori tutti i suoi averi e gli estranei saccheggino il frutto delle sue fatiche. Nessuno gli dimostri clemenza, nessuno abbia pietà dei suoi orfani. La sua discendenza sia votata allo sterminio, nella generazione che segue sia cancellato il suo nome. (…) Si è avvolto di maledizione come di una veste: è penetrata come acqua nel suo intimo e come olio nelle sue ossa. Sia per lui come vestito che lo avvolge, come cintura che sempre lo cinge”.

La correlazione fra Davide e Gesù è sviluppata in alcuni passi del Nuovo testamento, ad esempio Atti 2.30,31 in cui è Pietro a parlare: “Ma poiché – Davide – era profeta e sapeva che Dio gli aveva giurato solennemente di far sedere sul suo trono un suo discendente, previde la risurrezione di Cristo e ne parlò: questi non fu abbandonato negli inferi, né la sua carne subì la corruzione”. “Sapeva che gli aveva giurato solennemente” perché in Salmo 132.11 si legge “Il Signore ha giurato a Davide, promessa da cui non torna indietro: «Il frutto delle tue viscere io metterò sul tuo trono!”, “perché non abbandonerai la mia vita negli inferi, né lascerai che il tuo fedele veda la fossa” (Salmo 16.10). E Pietro, ormai trasformato dallo Spirito e dalla Grazia, con una mente rinnovata, specificò che “Non da volontà umana è mai venuta nessuna profezia, ma mossi dallo Spirito Santo parlarono alcuni uomini da parte di Dio” (2° 1.21).

 

Ora, tornando all’episodio dopo avere aperto una finestra che credo necessaria su un aspetto di Davide come profeta, Gesù inizia il Suo intervento con una domanda molto semplice, alla quale scribi e farisei rispondono senza alcuna esitazione e, viene da pensare, coralmente: “«Che cosa pensate del Cristo? Di chi è figlio?». Gli risposero: «Di Davide»”. E infatti “Figlio di Davide” era il titolo che per l’ebraismo spettava al Messia; fu riconosciuto come tale nei Vangeli da tutti coloro che lo chiamarono in quel modo, come la donna Sirofenicia, i due mendicanti ciechi di Capernaum, Bartimeo a Gerico, la folla che due giorni prima a Gerusalemme Lo aveva acclamato come tale, e i bambini quando giunse nel tempio.

Il Messia però, per l’ebraismo, doveva essere solo e semplicemente un uomo come dalla frase “Noi tutti pensiamo che il Cristo sarà un uomo nato da genitori umani” che troviamo nei “dialoghi con Trifone” di Giustino (II sec.). Uomo come gli altri certo nell’aspetto esteriore, ma non per tutto quello che disse e fece fino alla Sua risurrezione e ascensione al cielo.

 

La seconda parte della domanda di Gesù ai farisei ci riporta a Davide che questa volta, nel suo Samo 110 che già allora si riteneva messianico, inizia con “Oracolo del Signore al mio Signore: «Siedi alla mia destra finché io ponga i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi»”, andando oltre la descrizione del Messia sofferente data in altri Salmi, per presentarlo chiaramente vittorioso. Quindi la domanda, precisamente impostata sul ragionamento farisaico direi col preciso scopo di generare un corto circuito, era posta affinché quelle persone riunite chiarissero come Davide potesse chiamare “Signore” uno che era suo discendente e che i profeti e non solo chiamavano suo “figlio”.

Ora Davide, nell’apertura del suo Salmo profetico, vede e quindi scrive che dalla propria discendenza, quindi “figlio” secondo la carne, uscirà Uno che sarà anche “Signore” nel senso di Dio. Certo il Gesù uomo era “figlio di Davide” quanto a genealogia, ma per la parte divina certamente no, essendo Davide semplicemente un uomo, come vedremo citando la lettera agli Ebrei.

Scrivendo “Disse il Signore al mio Signore” abbiamo soggetto e complemento diversi, ma identici nel nome. “Il Signore” è chiaramente Dio Padre, l’Assoluto, il Creatore, mentre “al mio Signore” è un riferimento a Colui che è più vicino, col quale si instaura una relazione reciproca, con cui il profeta parlava e vedeva in Spirito a tal punto di scrivere di Lui nei suoi Salmi. È il possessivo “mio” ad aprire le porte della salvezza, l’identificazione, il riferimento.

Ciò che quindi il Padre dice al Figlio, “Siedi alla mia destra…”, rimarrà un’iscrizione misteriosa, per quanto all’interno di un Salmo riconosciuto messianico, fino a quando non avremo la rivelazione di Gesù e di chi, nel Nuovo Testamento, provvederà a spiegarla, ancora una volta l’apostolo Pietro nel giorno di Pentecoste in Atti 2.29-35: “Fratelli, mi sia lecito dirvi francamente, riguardo al patriarca Davide, che egli morì e fu sepolto e il suo sepolcro è ancora oggi fra noi. Ma poiché era profeta e sapeva che Dio gli aveva giurato solennemente di far sedere al trono un suo discendente, previde la resurrezione di Cristo e ne parlò: questi non fu abbandonato negli inferi, né la sua carne subì la corruzione. Questo Gesù, Dio lo ha resuscitato e noi tutti ne siamo testimoni – altrimenti se ne sarebbero tornati alla loro quieta vita di un tempo –. Innalzato dunque alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire. Davide infatti non salì al cielo, tuttavia egli dice: «Disse il Signore al mio Signore: siedi alla mia destra, finché io ponga i tuoi nemici come sgabello dei tuoi piedi». Sappia dunque con certezza tutta la casa d’Israele che dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso”.

Proseguiamo nella lettura dei testi in merito, l’apostolo Paolo nella sua prima lettera ai Corinti scrive: “È necessario che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi” (15.27-25), dove il “…regni finché” è riferito all’attesa, al fatto che il Cristo vive e regna nel mondo spirituale nell’attesa che possa appropriarsi definitivamente del nuovo, in cui la morte sarà l’ultimo nemico annientato perché Satana non avrà più alcuna possibilità di vita e quindi non esisterà più il suo strumento prediletto, morte del corpo, ma soprattutto dell’anima.

Vediamo infine la risposta teologica alla domanda di Gesù alla quale i Suoi avversari non seppero rispondere: Egli è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza, e tutto sostiene con la sua parola potente. Dopo aver compiuto la purificazione dei peccati, sedette alla destra della maestà nell’alto dei cieli, divenuto tanto superiore agli angeli quanto più eccellente del loro è il nome che ha ereditato. Infatti, a quale degli angeli Dio ha mai detto: Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato? E ancora: Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio? Quando invece introduce il primogenito nel mondo, dice: Lo adorino tutti gli angeli di Dio. Mentre degli angeli dice: Egli fa i suoi angeli simili al vento, e i suoi ministri come fiamma di fuoco, al Figlio invece dice: Il tuo trono, Dio, sta nei secoli dei secoli; e: Lo scettro del tuo regno è scettro di equità; hai amato la giustizia e odiato l’iniquità,
perciò Dio, il tuo Dio, ti ha consacrato con olio di esultanza, a preferenza dei tuoi compagni.
E ancora:
In principio tu, Signore, hai fondato la terra e i cieli sono opera delle tue mani.
Essi periranno, ma tu rimani; tutti si logoreranno come un vestito. Come un mantello li avvolgerai, come un vestito anch’essi saranno cambiati; ma tu rimani lo stesso e i tuoi anni non avranno fine.
E a quale degli angeli poi ha mai detto:
Siedi alla mia destra, finché io non abbia messo i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi?” (Ebrei 1.3.13).

Infine, sempre Ebrei 10.11-14 “Ogni sacerdote si presenta giorno per giorno a celebrare il culto e a offrire molte volte gli stessi sacrifici, che non possono mai eliminare i peccati. Cristo, invece, avendo offerto un solo sacrificio per i peccati, si è assiso per sempre alla destra di Dio, aspettando ormai che i suoi nemici vengano posti a sgabello dei suoi piedi. Infatti, con un’unica offerta egli ha reso perfetti per sempre quelli che vengono santificati”.

I “nemici”: chi sono? Secondo il dizionario, come sostantivo, così è “chi si atteggia o si comporta in modo da provocare il danno e la sconfitta altrui”, ma come aggettivo “avversione decisa e assoluta incompatibilità, come anche generica o nociva ostilità”; secondo la Parola di Dio, però, per quello che ci riguarda sono tutti quelli che rientrano in Colossesi 1.21-23: “Un tempo anche voi eravate stranieri e nemici, con la mente intenta alle opere cattive; ora egli vi ha riconciliati nel corpo della sua carne mediante la morte, per presentarvi santi, immacolati e irreprensibili dinanzi a lui; purché restiate fondati e fermi nella fede, irremovibili nella speranza del Vangelo che avete ascoltato, il quale è stato annunciato in tutta la creazione che è sotto il cielo, e del quale io, Paolo, sono diventato ministro”. Amen.

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16.19 – LA PARABOLA DELLE NOZZE REGALI II/II (Matteo 22.8-14)

16.19 – La parabola delle nozze regali II (Matteo 22. 8-14)

 

8Poi disse ai suoi servi: «La festa di nozze è pronta, ma gli invitati non erano degni; 9andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze». 10Usciti per le strade, quei servi radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali. 11Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l’abito nuziale. 12Gli disse: «Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?». Quello ammutolì. 13Allora il re ordinò ai servi: «Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti». 14Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti».

 

“La festa di nozze è pronta, ma gli invitati non erano degni” ci parla del progetto di Dio per il Suo popolo che, come sappiamo, non volle capire, comprendere l’importanza della chiamata totale realizzatasi con la venuta di Suo Figlio sulla terra. Il non essere “degni” è una pietra tombale che si chiude definitivamente su Israele come popolo, non certo sui singoli appartenenti che si sarebbero convertiti, quello che, a partire dall’epoca di Gesù in poi, lo ha costantemente rifiutato nonostante la scienza profonda nella Scrittura posseduta che però si disperdeva (e disperde) in un’infinità di rivoli che, anziché illuminare, portano il buio: “Guide cieche, che filtrate il moscerino e inghiottite il cammello!” (Matteo 23.24)

A proposito della constatazione sull’indegnità degli invitati, in base alla quale potremmo ipotizzare che Dio si fosse sbagliato a convocarli, si tratta di una constatazione in termini antropomorfi come in Genesi 6.6, “E il Signore di pentì di aver fatto l’uomo sulla terra e se ne addolorò in cuor suo” o 32.14, “E il Signore si pentì del male che aveva minacciato di fare al suo popolo”: qui è una visione amara sul fatto che i destinatari dell’invito non lo avevano tenuto in alcuna considerazione, “Ecco, ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e gli animali ingrassati sono già uccisi e tutto è pronto; venite alle nozze!”.

Quel re, che non aveva bisogno di nessuno, potente, assolutamente ricco, chiama gli invitati due volte e addirittura nella seconda chiamata spiega, quasi ce ne fosse bisogno, cosa quelle persone avrebbero trovato al pranzo e cioè cibi che mai avrebbero potuto gustare altrove, come rileviamo dalle parole “il mio pranzo”, “i miei buoi e gli animali ingrassati”.

Notiamo ora che ai “servi” viene data un’indicazione completamente diversa dalla prima e cioè di chiamare degli sconosciuti, gente trovata per le strade, chiunque avrebbero incontrato: i “servi” non sono più i profeti che parlavano a Israele di ravvedimento e conversione, ma quelli che operano nella dispensazione della Grazia per i quali non vale più l’ordine “Non andate ai Gentili, e non entrate in nessuna città dei Samaritani” (Matteo 10.5), ma piuttosto la realtà descritta in Colossesi 3.11, “Qui non vi è Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro, Sciita, schiavo, libero, ma Cristo è tutto e in tutti”. “Tutti – appunto – quelli che troverete” e, certo anche se non è detto, vorranno venire. Impensabile un trasporto coatto di sconosciuti, a cui nulla può importare, a una festa di nozze. Una risposta, affermativa o negativa, un invitato la dà sempre.

Abbiamo letto che quei servi “radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni”, non nel senso che costituirono un’accozzaglia di gente la cui presenza il re non avrebbe potuto tollerare, ma che quell’invito fu rivolto a tutti gli uomini senza distinzione di razza, condizione sociale e soprattutto esperienza di vita. Non esiste nessun essere umano che non sia degno del Vangelo come messaggio di salvezza e ravvedimento, ma esiste chi lo rifiuta e quindi sceglie da sé la morte in cui vivere.

Il radunare “cattivi e buoni” è però la figura dell’opera incessante della Chiesa portatrice del Vangelo, che alla fine conduce i suoi componenti nella sala delle nozze, quella in cui verrà servito il banchetto, ma in cui si trova “uno” che pretendeva paradossalmente di imporre al padrone di casa la propria presenza senza essersi minimamente adeguato alle sue esigenze che in nient’altro si concretavano se non in un vestito da indossare e portare. E proprio la Chiesa, in quanto territorio di Dio, è suscettibile alle invasioni, scorrerie e disturbi da parte dell’Avversario, come lo stesso Gesù insegna con parabole che la possono coinvolgere, come quella delle zizzanie che crescono nel campo seminato col buon seme: “Il campo è il mondo e il seme buono sono i figli del Regno. La zizzania sono i figli del Maligno e il nemico che l’ha seminata è il diavolo” (Matteo 13.38). E qui dovremmo aprire un capitolo a parte.

Abbiamo anche “Il regno dei cieli è simile a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci. Quando i pescatori la tirano a riva, si mettono a sedere, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi” (vv.47.48), e ancora 25.1,3 con la parabola delle dieci vergini che “presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo. Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; le stolte presero le loro lampade, ma non presero con sé l’olio”.

Sotto questo aspetto che vi siano elementi estranei apposta per minare il piano di Dio lo denota la stessa presenza di Giuda Iscariotha nei gruppo dei Dodici e poi di tutte le eresie che sorsero già al tempo di Pietro e di Paolo per poi diffondersi, come quella degli Ebioniti che volevano giudaizzare il cristianesimo, dei Doceti che negavano la natura umana di Gesù, dei Cerinti che vedevano in Lui un semplice uomo, per quanto illuminato in un certo periodo della sua vita.

 

Riassumendo, la nostra parabola finora è passata attraverso tre fasi: in una prima abbiamo l’invito a Israele alle nozze e il “non vollero venire” degli invitati che lo rifiutarono ai tempi del cosiddetto “Antico Testamento”; nella seconda una chiamata più dettagliata, quella fatta ai tempi di Gesù e subito dopo, col rifiuto reiterato del popolo che fa sì che il re giunga a distruggere «la loro città» come avvenuto nel 70 d.C.; infine la terza che è il tempo che tuttora viviamo, quello dei servi che costituiscono la Chiesa che si troverà poi, prima di sedersi al banchetto di Dio, quarta fase, ad affrontare il vaglio dell’operato di ogni suo componente che sarà salvato se si troverà “vestito”, o condannato se non avrà permesso all’amore di Dio di agire, rimanendo la stessa persona di prima.

L’ora della verità si ha con “la sala piena di commensali”, il re entra: sta per verificarsi ciò che aveva anticipato Isaia in 25.6, “Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di vini raffinati. Egli strapperà su questo monte il velo che copriva la faccia di tutti i popoli e la coltre distesa su tutte le nazioni. Eliminerà la morte per sempre”.

La “sala piena” in cui il re entra: era tradizione giudaica che quando una persona comune dava una festa, si trovava per prima nel luogo in cui riceveva gli ospiti, ma quando si trattava di un sovrano, questo compariva per ultimo, quando erano giunti tutti i suoi invitati. Quindi la quarta fase, che ho definito “l’ora della verità”, è quella del vaglio in cui il re entra “per vedere i commensali” e quindi conoscerli e accoglierli ufficialmente.

Certo il “vedere” di Dio coinvolge il tutto della nostra persona, le azioni fatte, i peccati non confessati e non lasciati, il nostro cuore che può essere più o meno sincero, ciò che ha realmente motivato ogni nostra azione e quindi il fine della nostra presenza in quel luogo: saremo lì perché desiderosi di entrare finalmente nel luogo promesso, o perché speranzosi di entrarvi nonostante questo non ci competa? E come reagiremo a quegli “occhi di fuoco” di Gesù che sarà lì e con quelli valuterà ciascuno dei presenti?

Qui, però, l’attenzione del re sugli invitati riguarda l’abito nuziale, che era stato offerto a tutta quella gente che, ricordiamolo, era stata presa così com’era, con vestiti inadeguati e per questo, secondo l’uso di allora, l’abito veniva portato sopra quello che già gli invitati avevano. Questo, si badi, nelle condizioni di emergenza perché era costume che i servi consegnassero all’invitato il vestito prima che si celebrassero le nozze e si presentasse così in modo consono all’evento.

Credo che il passo che più di ogni altro illustri il meccanismo del vestito sia quello di Zaccaria 3.3,4, nella visione di Giosuè davanti all’Angelo del Signore: “Giosuè era rivestito di vesti sporche e stava in piedi davanti all’angelo, il quale prese a dire a coloro che gli stavano intorno: «Toglietegli quelle vesti sporche!». Poi disse a Giosuè: «Ecco, io ti tolgo di dosso il peccato; fatti rivestire di abiti preziosi»”, il che per noi vale “Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo e non lasciatevi prendere dai desideri della carne” (Romani 13.14).

Il tema del vestito prelude all’individuazione di colui che non l’aveva, che certo non era il solo ma che Gesù rappresenta, per una migliore immedesimazione degli ascoltatori, in uno: “Ecco, io vengo come un ladro. Beato chi è vigilante e custodisce le sue vesti per non andare nudo e lasciar vedere le sue vergogne” (16.15). Può aiutare anche Apocalisse 19.7,8: “Rallegriamoci ed esultiamo, rendiamo a lui la gloria, perché sono giunte le nozze dell’Agnello; la sua sposa è pronta: le fu data una veste di lino puro e splendente. Le vesti di lino sono le opere giuste dei santi”.

Alla domanda “«Amico – termine generico, non “filos”, ma “epairos” –  come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?», quello ammutolì”, cioè non ebbe argomenti giustificativi, il suo Io che si voleva imporre, è costretto a dissolversi, scomparire.

Era chiara e risaputa l’usanza: l’accettazione dell’invito comportava indossare l’abito che veniva donato. Chi aveva parlato era un re, non una persona qualunque che, anche se così fosse stato, avrebbe dovuto avere il riconoscimento dell’indossare il vestito per gratitudine, adeguamento. Quella persona, però, voleva fare a modo suo, cioè imporre la sua presenza a prescindere dall’uso consueto, ma soprattutto si opponeva chiaramente al volere del re, così insultando non solo lui, ma anche i presenti che si erano adeguati accettando di indossare quanto da lui richiesto.

 

Ecco allora che l’eliminare quella persona oggetto di disturbo, scandalo e inquinamento dell’ambiente, era inevitabile. L’ “uno” presente era un abusivo che, col suo comportamento, non si dimostrava tanto diverso da quelli che “non vollero venire”, anzi, col loro aperto rifiuto si erano dimostrati addirittura più onesti. Amen.

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16.18 – LA PARABOLA DELLE NOZZE REGALI I/II (Matteo22.1-7)

16.18 – La parabola delle nozze regali I (Matteo 22. 1-7)

 

1 Gesù riprese a parlare loro con parabole e disse: 2«Il regno dei cieli è simile a un re, che fece una festa di nozze per suo figlio. 3Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non volevano venire. 4Mandò di nuovo altri servi con quest’ordine: «Dite agli invitati: Ecco, ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e gli animali ingrassati sono già uccisi e tutto è pronto; venite alle nozze!». 5Ma quelli non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; 6altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero. 7Allora il re si indignò: mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città.

8Poi disse ai suoi servi: «La festa di nozze è pronta, ma gli invitati non erano degni; 9andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze». 10Usciti per le strade, quei servi radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali. 11Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l’abito nuziale. 12Gli disse: «Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?». Quello ammutolì. 13Allora il re ordinò ai servi: «Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti». 14Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti».

 

Terminata la parabola dei contadini omicidi, la questione con i farisei, i capi dei sacerdoti e gli scribi si concluse solo in apparenza e Gesù “riprese a parlare loro con parabole” dove quel “loro” è da identificarsi nel Suo uditorio nel cortile del Tempio. Erano però presenti anche una parte di quelli che Lo avevano interrotto aggredendolo verbalmente chiedendogli con quale autorità facesse “queste cose”, poiché leggiamo, al termine dell’esposizione, verso 15, che “Allora i farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come coglierlo in fallo nei suoi discorsi”.

Quanto racconta Gesù in questo passo è di facile comprensione: è chiaro che parla del Padre, del Suo piano di redenzione (inascoltato) per il Suo popolo Israele e per quelli pagani, questi ultimi visti in “tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni”, ma il testo, come accade sempre anche con le parabole “immediate”, contiene altri elementi cui raramente si fa caso a una prima lettura. In questa prima parte, che prenderà in esame i versi da 1 a 7, ci occuperemo di quanto riguarda Israele perché è a Lui che Nostro Signore si riferisce.

Viene subito inquadrato il tema, quello delle nozze e relativa festa, già conosciuto negli scritti dell’Antico Patto e riferito all’unione fra il Signore Dio e il suo popolo. Isaia 60.10 scrive “Io gioisco pienamente nel Signore, la mia anima esulta nel mio Dio, perché mi ha rivestito delle vesti della salvezza, mi ha avvolto con il mantello della giustizia, come uno sposo si mette il diadema e come una sposa si adorna di gioielli”, parole dalle quali rileviamo già un’anticipazione del “vestito” di cui parla la parabola al verso 11: Isaia parla di “vesti della salvezza” e di un “mantello della giustizia” come dono, si tratta di elementi che possono arrivare solo da Lui. Qualsiasi altro abito, come abbiamo letto, sarebbe inadeguato e anche se si trattasse di un’imitazione, non sfuggirebbe agli occhi del re.

Il riferimento allo sposo poi diventa più marcato in 62.3, “Sì, come un giovane sposa una vergine, così ti sposeranno i tuoi figli; come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te” in cui vediamo il rapporto evidente fra i due prossimi alle nozze e la partecipazione di Dio in un matrimonio ancora una volta purificatore, che cancellerà gli errori del passato perché “Ed io ti sposerò in eterno. E ti sposerò in giustizia, e in giudizio, e in benignità e in compassioni. Anzi, ti sposerò in verità e tu conoscerai il Signore.” (Osea 2. 18,19), quindi fine di tutti i fraintendimenti, l’imperfezione della conoscenza, del cammino con le cadute anche pesanti che costringe a dolorose convalescenze perché purtroppo, quando si tratta di pagare il debito per un peccato o un errore, non esiste anestesia.

C’è poi, oltre al tema delle nozze, quello del convito dal quale traspare, non solo negli scritti dell’Antico, ma anche in quelli del Nuovo Patto, che Sposa e invitati sono la stessa cosa: sempre Isaia scrive “Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di vini raffinati. Egli strapperà su questo monte il velo che copriva la faccia di tutti i popoli e la coltre distesa su tutte le nazioni. Eliminerà la morte per sempre”. Cantico 5.1 poi recita “Sono venuto nel mio giardino, sorella mia, mia sposa, e raccolgo la mia mirra e il mio balsamo; mangio il mio favo e il mio miele, bevo il mio vino e il mio latte. Mangiate, amici, bevete, inebriatevi d’amore”.

 

Quindi il re manda i suoi servi agli invitati che, attenzione, non sono persone comuni, ma di alto rango e dignità sociale, quelli che avevano con lui un rapporto particolare che possiamo identificare tanto quelle persone che erano responsabili della formazione, costruzione e mantenimento del rapporto con Dio, quanto in tutta la nazione giudaica poiché con Lei il Signore aveva stipulato il Patto, facendola sua per sempre a tal punto di onorarla invitandola alla festa delle nozze. Quale fu infatti il primo scopo della venuta del Figlio? «Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d’Israele» (Matteo 15.24).

A questo punto abbiamo il verso 3, l’invio dei servitori agli invitati che però “non volevano venire”: è un rifiuto assurdo. Un re è un re, ordina ciò che vuole, può disporre della vita dei suoi sudditi e la storia umana ci ha insegnato che ben raramente si ha un sovrano che ama il suo popolo e lo governa per farlo prosperare; questo re però è diverso, onora chi ha voluto invitare, non ha secondi fini e qui bisogna prestare molta attenzione perché Gesù fa la storia di Israele solo in parte dando solo un cenno ai tempi antichi, quello della Sapienza che “…si è costruita la sua casa, ha intagliato le sue sette colonne. Ha ucciso il suo bestiame, ha preparato il suo vino e ha imbandito la sua tavola. Ha mandato le sue ancelle a proclamare sui punti più alti della città: «Chi è inesperto, venga qui!». A chi è privo di senno ella dice: «Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che ho preparato. Abbandonate l’inesperienza e vivrete, andate diritti per la via dell’intelligenza»”.

La venuta del Figlio, “nato” e “dato” al tempo stesso, fu l’ultimo tentativo di recupero per un popolo che non voleva ascoltare: “Il Signore vi ha inviato con assidua premura tutti i suoi servi, i profeti, ma voi non avete ascoltato e non avete prestato orecchio per ascoltare quanto vi diceva: «Ognuno abbandoni la sua condotta perversa e le sue opere malvagie; allora potrete abitare nella terra che il Signore ha dato a voi e ai vostri padri dai tempi antichi e per sempre. (…). Ma voi non mi avete ascoltato, oracolo del Signore, e mi avete provocato con l’opera delle vostre mani per vostra disgrazia” (Geremia 25.4).

Il “non vollero venire” emerge tragicamente ancora in Geremia 6.16-17: “Così dice il Signore: «Fermatevi nelle strade e guardate, informatevi dei sentieri del passato, dove sta la strada buona percorretela, così troverete pace per la vostra vita». Ma essi hanno risposto: «Non la prenderemo», Ho posto delle sentinelle per vigilare su di voi: «Fate attenzione al suono del corno!». Hanno risposto: «Non ci baderemo»”. Si risponde anche coi fatti, che parlano più delle parole.

Ora, il “non vollero venire” viene confermato anche di fronte alla descrizione di cosa gli invitati avrebbero trovato alla festa, che non interessò minimamente i destinatari del messaggio: “Ecco, ho preparato il mio pranzo, i miei buoi e gli animali ingrassati sono stati uccisi e tutto è pronto; venite alle nozze!” (v.4), parole portate da “altri servi”, quelli che operano in un secondo tempo in cui identifichiamo gli apostoli che non parlano solo di nozze, ma di cosa e come sarebbero state celebrate, quindi un tema nuovo, più dettagliato, che rimane non solo inascoltato, ma sostituito da altri irrilevanti perché “quelli non se ne curarono, ma andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; altri presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero”.

Primo punto è “non se ne curarono”, comportamento di chi, sapendo già cosa è importante per lui, scarta l’invito ricevuto, della serie “ho di meglio da fare”. Esempio antico in proposito lo troviamo in Salmo 106.24,25 riferito ai tempi di Mosè, ”Rifiutarono una terra di delizie e non credettero alla sua parola. Mormorarono nelle loro tende, non ascoltarono la voce del Signore”. Prima ancora i generi di Lot, che quando disse loro di alzarsi e uscire da Sodoma perché il Signore stava per distruggerla, è scritto che “sembrò loro che egli volesse scherzare” (Genesi 19.14).

E si badi che quel “non se ne curarono” è riferito non a gente comune, ma ad appartenenti ad un popolo che il Messia lo aspettava e aveva tutti gli elementi della Parola di Dio per poterlo riconoscere. L’invito che ricevono non è da un re sconosciuto, ma dal loro e per quanto riguarda i tre verbi impiegati riguardo ai servi, cioè “presi”, “insultarono” – altri traducono “trattarono villanamente” – e “uccisero” i riferimenti sono, per il tempo in cui furono pronunciati, profetici perché li troviamo adempiuti nel libro degli Atti, con gli arresti e la prigionia degli Apostoli (4.3; 5.18; 8.3), poi l’insulto è quello corporale, quando furono flagellati (5.40), Paolo fu lapidato e portato fuori dalla città di Listra creduto morto (14.19) e subì un’aggressione violenta che si concluse con l’intervento delle guardie del Tempio: “Afferrarono Paolo, lo trascinarono fuori dal tempio e subito furono chiuse le porte. Stavano già cercando di ucciderlo, quando fu riferito al comandante della coorte che tutta Gerusalemme era in agitazione. Immediatamente egli prese con sé dei soldati e dei centurioni e si precipitò verso di loro. Costoro alla vista del comandante e dei soldati, cessarono di percuotere Paolo”.

Riguardo all’uccisione, infine, ricordiamo i due martiri del Nuovo Testamento, Stefano (7.58), morto lapidato, e Giacomo, fratello di Giovanni, primo fra gli apostoli a morire per mano persecutrice di Erode Agrippa, trafitto con la spada (12.2).

 

È stato detto che gli “altri servi” di cui Gesù parla in questa parabola non sono i profeti dell’Antico Patto, ma del Nuovo; questo lo dice Lui stesso nella Sua invettiva ai Farisei che dobbiamo ancora esaminare: “Ecco, io mando a voi profeti, sapienti e scribi: di questi, alcuni li ucciderete, altri li flagellerete nelle vostre sinagoghe e li perseguiterete di città in città; perché ricada su di voi tutto il sangue innocente versato sulla terra, dal sangue di Abele il giusto fino al sangue di Zaccaria, figlio di Barachia, che avete ucciso tra il santuario e l’altare. In verità vi dico: tutte queste cose ricadranno su questa generazione” (Matteo 23.34 e segg).

Sono queste ultime azioni a suscitare l’ira del re, che da amabile ospitante si trasforma in esecutore: manda le sue truppe, fa uccidere gli assassini e dà alle fiamme la loro città, quella definita da Gesù stesso “del gran re” (Matteo 5.35). Facile identificare in queste “truppe” in quelle romane, che diventano “sue” perché usate come strumento di giudizio.

È anche interessante notare che qui la città di Gerusalemme, chiamata anche “La città di Dio”, viene detta “La loro”, a sottolineare come il Signore si estranei da lei (nonostante l’amore che le porta) esattamente come avvenne, ad esempio, quando il popolo si fece il vitello d’oro ai tempi di Mosè, quando leggiamo “Il tuo popolo si è corrotto” (Esodo 32.7) anziché “Il mio popolo”. Non è solo una curiosità linguistica, ma la descrizione di un fatto enormemente tragico, quello del volto di Dio che si ritira dall’uomo e lo lascia ad un destino terribile quanto inevitabile, quello di essere in totale balìa degli eventi, privo della Sua protezione.

E a questo punto emergono le parole di Proverbi da 1.24: “…vi ho chiamati, ma avete rifiutato, ho steso la mia mano e nessuno se ne è accorto. Avete trascurato ogni mio consiglio e i miei rimproveri non li avete accolti; anch’io riderò delle vostre sventure, mi farò beffe quando su di voi verrà la paura, quando come una tempesta vi piomberà addosso il terrore, quando la disgrazia vi raggiungerà come un uragano, quando vi colpiranno angoscia e tribolazione. Allora mi invocheranno, ma io non risponderò, mi cercheranno, ma non mi troveranno”. Amen.

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16.17 – LA PARABOLA DEI CONTADINI OMICIDI II/II ( Matteo 21.28-32)

16.17 – La parabola dei contadini omicidi II/II (Matteo 21. 28-32)

 

40Quando verrà dunque il padrone della vigna, che cosa farà a quei contadini?». 41Gli risposero: «Quei malvagi, li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo». 42E Gesù disse loro: «Non avete mai letto nelle Scritture: La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d’angolo; questo è stato fatto dal Signore
ed è una meraviglia ai nostri occhi?
43Perciò io vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti. 44Chi cadrà sopra questa pietra si sfracellerà; e colui sul quale essa cadrà, verrà stritolato». 45Udite queste parabole, i capi dei sacerdoti e i farisei capirono che parlava di loro. 46Cercavano di catturarlo, ma ebbero paura della folla, perché lo considerava un profeta.

 

 

Terminata la parabola, viene il momento di tirarne le somme. Qui non si tratta più di parlare “…perché guardando non comprendono, udendo non ascoltano e non comprendono”, ma di maieutica, cioè far sì che una persona dotata di pensiero giunga da sola alla soluzione di un problema, o argomento che non comprende. Così, anziché dire “guarda che sbagli” spiegandone il motivo, ecco che esponendo un episodio simbolico adatto alla realtà di uno o più individui, questi trovano da sé la soluzione, o giungono comunque a un punto fermo. È quanto fece, ad esempio, il profeta Natan con Davide per fargli comprendere il peccato commesso nei confronti di Dio, quando commise adulterio con la moglie di Uria e poi creò le situazioni affinché venisse ucciso (2 Samuele 12).

L’uomo nella carne ha sempre un concetto di sé molto elevato: sembra che solo lui sappia, sia nel giusto, vede le colpe solo negli altri, li giudica e non si accorge che commette esattamente gli stessi errori, se non peggio. Un proverbio latino dice che il creatore ha messo addosso ad ogni uomo due borse, una davanti e una dietro e tutti vedono quella degli altri. E le persone interrogate da Gesù rispondono correttamente, andando addirittura oltre, alle conseguenze che vanno al di là del concetto di castigo (“li farà morire miseramente”), ma anche ai provvedimenti successivi, “darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo”, anticipando cioè il loro destino.

Credo che se l’uomo, quindi anche noi come credenti, non si pone nella posizione dell’osservatore distaccato di se stesso e non si valuta continuamente, rischia non di fare la fine dei personaggi cui Nostro Signore si rivolge, ma di chi pensa a giudicare gli altri ritenendosi immune da errori. Lo dice anche l’apostolo Paolo in un passo che dovremmo conoscere: “Perciò chiunque tu sia, o uomo che giudichi, non hai alcun motivo di scusa perché, mentre giudichi l’altro, condanni te stesso; tu che giudichi, infatti, fai le medesime cose” (Romani 2.1). Più incisivo ancora 2.3: “Tu che giudichi quelli che commettono tali azioni e intanto le fai tu stesso, pensi forse di sfuggire al giudizio di Dio?”.

La domanda “Quando verrà dunque il padrone della vigna, cosa farà a quei contadini?”, personalmente, mi fa tremare perché penso all’assurda speranza di quelle persone di restare impunite, anzi, di aver vinto sul padrone che “verrà”. Non si sa quando, ma comparirà nel momento in cui meno se le aspetteranno e allora tutti i progetti, l’eterno presente in cui quelle persone avranno vissuto, finirà in modo terribile. Proprio su questo tema l’autore della lettera agli Ebrei scrive “Quando qualcuno ha violato la Legge di Mosè, viene messo a morte senza pietà sulla parola di due o tre testimoni. Di quanto peggiore castigo pensate che sarà giudicato meritevole chi avrà calpestato il Figlio di Dio e ritenuto profano quel sangue dell’alleanza, dal quale è stato santificato, e avrà disprezzato lo Spirito della grazia?” (10. 22,23).

Se penso al “peggior castigo”, va da sé che questo vada ad aggravare ancora di più quanto già anticipato da Dio in caso di disubbidienza sistematica, di rifiuto al Suo ascolto, per cui possiamo trarre le nostre conclusioni: “Se non mi darete ascolto, se non metterete in pratica tutti questi comandi, se disprezzerete le mie leggi e rigetterete le mie prescrizioni, non mettendo in pratica tutti i miei comandi e infrangendo la mia alleanza, ecco come vi tratterò: manderò contro di voi il terrore, la consunzione e la febbre, che vi faranno languire gli occhi e vi consumeranno la vita. Seminerete invano le vostre sementi: le mangeranno i vostri nemici. Volgerò il mio volto contro di voi e sarete sconfitti dai nemici; quelli che vi odiano vi opprimeranno e vi darete alla fuga, senza che alcuno vi insegua” (Levitico 26. 14-16). Sono sette conseguenze, quindi la totalità del dolore, fisico e morale, aggravato dal fatto che verrà improvviso a distruggere ogni speranza presente, e chiaramente futura. E può essere chiuso l’argomento con Daniele 9.26 che profetizza l’evento quando “Dopo sessantadue settimane, un consacrato sarà soppresso senza colpa in lui. Il popolo di un principe che verrà distruggerà la città e il santuario; la sua fine sarà un’inondazione e guerra e desolazioni sono decretate fino all’ultimo”.

Ma veniamo alle parole degli avversari di Gesù, quando dopo aver parlato della morte dei contadini, dicono “darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo”: naturalmente è immediato il collegamento alle parole “Il regno di Dio vi sarà tolto” del verso 43, ma quello di cui non si parla sono le conseguenze, che ci pensa Isaia a ricordare. In 65. 13,14 leggiamo “Ecco, i miei servi mangeranno e voi avrete fame; ecco, i miei servi berranno e voi avrete sete; ecco, i miei servi gioiranno e voi resterete delusi; ecco, i miei servi giubileranno per la gioia del cuore, voi griderete per il dolore del cuore, urlerete per lo spirito affranto”.

Vedo molta atrocità in questo perché si tratta di sofferenze che non porteranno da nessuna parte perché non si tratterà di un dolore necessario per transitare da una condizione ad un’altra, come l’avere una malattia che poi si risolve, ma di un giudizio definitivo, di uno stato stabile che non risolve nel grido e nell’urlo, ma trova in questi ultimi la sua espressione. Infatti, nella visione della salvezza universale, il Signore Dio dice “Uscendo, vedranno i cadaveri degli uomini che si sono ribellati contro di me; poiché il loro verme – cioè il loro tormento interiore – non morirà, il loro fuoco – quello che dovrebbe bruciare i cadaveri – non si spegnerà e saranno un abominio per tutti” (66.24).

Proseguendo, nel “gli consegneranno i frutti a suo tempo” vediamo la descrizione, finalmente, di un rapporto rispettoso e consolidato, dove ciascuno fa ciò che deve, in obbedienza al contratto stipulato, nel quale è chiaro vedere la Nuova Alleanza e i suoi appartenenti.

 

Ora però, se confrontiamo tra loro i racconti dei sinottici, incontriamo un problema nel senso che Marco e Luca attribuiscono a Gesù la risposta alla domanda su cosa sarebbe accaduto: “Verrà, e farà morire i contadini e darà la vigna ad altri” (Marco 12.9), Luca addirittura aggiunge, dopo la stessa frase, “Udito questo, dissero: «Così non sia!». Allora Gesù fissò lo sguardo su di loro e disse…” (20.16). Occorre chiedersene la ragione, perché stravolgerebbe in parte il senso di quanto abbiamo finora estratto. Soprattutto Luca, facendo dire ai farisei e capi sacerdoti “Così non sia!”, ribalta l’ipotesi fatta secondo la quale quei personaggi avessero in un certo senso profetizzato inconsapevolmente sul loro destino. Alcuni commentatori hanno ipotizzato che quel “dissero” sia riferito agli uditori esterni, ma credo sia una teoria che non regga.

Penso piuttosto che, dato che la Scrittura non può contraddire sé stessa, se molto spesso gli evangelisti pongono l’accento su situazioni diverse all’interno degli stessi episodi, Matteo abbia voluto riferire l’accaduto dal punto di vista dell’ebraismo, descrivendo l’evento come effettivamente andò, mentre Marco e Luca riportino le parole di quella parte degli oppositori che non avevano capito il senso delle parole di Gesù. Tutti e tre gli evangelisti, quando scrivono “dissero”, non possono alludere a una risposta corale in cui tutti pronunciano le stesse parole all’unisono – il che sarebbe ridicolo –  per cui, alla fine della parabola, sorse un mormorio discorde e i sinottici inserirono le varie risposte e le frasi di tutti, ciascuno appropriandosene in base a quanto voleva sottolineare, altrimenti avrebbero dovuto dare una descrizione univoca, cosa che raramente avviene. Ad esempio, può essere che la sorte dei contadini sia stata anticipata da qualcuno degli interpellati, altri l’abbiano rifiutata (“Così non sia!”) e Gesù l’abbia dovuta ribadire. Non lo sappiamo, ma personalmente non vedo contraddizioni fra le tre cronache, se viste sotto questo aspetto.

Non per nulla è diverso anche il dopo perché Matteo fa spiegare a Gesù il significato della pietra scartata dai costruttori, Luca lascia intuire che i suoi avversari compresero che parlava di loro, Marco e Matteo lo scrivono esplicitamente: “Cercavano di catturarlo, ma ebbero paura della folla; avevano infatti capito che aveva detto quella parabola contro di loro”. Anche qui vediamo la lettura a senso unico di quelle persone, perché più che “contro” era “per”. Ma chi è avverso a priori, non può né vuole sentire ragioni, conta quello che pensa lui e non si pone il problema se sia giusto o sbagliato.

Gesù presenta a questo punto ai Suoi avversari un verso molto importante, appartenente al Salmo 118 (v. 22 e 23, “La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata pietra d’angolo. Questo è stato fatto dal Signore, una meraviglia ai nostri occhi”), ritenuto profetico sul Messia dai rabbini (v.26, “Benedetto colui che viene nel nome del Signore”) e quindi anche da quella delegazione che si era a Lui presentata. La “pietra” è il Signore Gesù stesso, “Figlio dell’Iddio vivente” come dichiararono l’apostolo Pietro e Marta sorella di Lazzaro, verità assolutamente contestata dai capi del popolo che la scartarono, verbo greco “apodokimàzo” che allude non al semplice eliminare, ma ad uno “scartare dopo attento esame”. I Giudei dunque, sia “condadini” che “costruttori”, respinsero quella pietra, ma divenne poi quella angolare, cioè che tiene unite due mura sopportando il peso della costruzione e tenendo in piedi la casa. È la prima pietra che viene posata, ma può essere anche identificata come la “chiave di volta”, quella che la costruzione la completa e qui possiamo avere il riferimento a Cristo come “primo e ultimo, Alfa e Oméga”.

A questo punto arriviamo alle conclusioni di Gesù: al di là di tutti i riferimenti, peraltro corretti, che sono stati presentati, con la frase “Il regno di Dio vi sarà tolto” viene decretata la fine dell’egemonia di Israele come Suo popolo. Citando il “regno di Dio” nostro Signore non parla del Suo, ma di quello del Padre, di YHWH, quindi decreta la fine dei privilegi spirituali e temporali di Israele, ma al tempo stesso, parlando di “popolo che ne produca i frutti”, non parla dei gentili, ma di “éthnos”, cioè una società spirituale composta sia da ebrei che da gentili credenti, veri eredi delle promesse contenute nel patto di Dio con Abramo.

Infatti: “Non c’è Giudeo né Greco, non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù. Se appartenete a Cristo, allora siete discendenza di Abrahamo, eredi secondo la promessa” (Galati 3. 28,29). Anche Efesi 2. 19,20 “Così voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio, avendo come pietra d’angolo lo stesso Cristo Gesù. In lui tutta la costruzione cresce ben ordinata per essere tempio santo nel Signore; in lui anche voi venite edificati insieme per diventare abitazione in Dio per mezzo dello Spirito”.

Concludendo resta il verso 24, “Chi cadrà sopra questa pietra si sfracellerà, e colui sul quale essa cadrà, verrà stritolato”: è un richiamo assoluto a Isaia 8.13-15 in cui è rivelato che proprio il Signore Dio, a parole amato e osservato, sarà causa di vita o di morte. Abbiamo infatti: “Il Signore degli eserciti, lui solo ritenete santo. Egli sia l’oggetto del vostro timore, della vostra paura. Egli sarà insidia e pietra di ostacolo e scoglio d’inciampo per le due case di Israele – Giuda e le dieci tribù –, laccio e trabocchetto per gli abitanti di Gerusalemme. Tra di loro molti inciamperanno, cadranno e si sfracelleranno, saranno presi e catturati”.

Quindi scartare quella pietra porterà delle conseguenze proprio perché non sarà stata ritenuta inidonea così, per partito preso, per superficialità, ma come abbiamo visto dopo attento esame. Una pietra d’angolo senza la quale nessuna costruzione può sussistere. Non la nostra, non la Chiesa. Amen.

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16.16 – LA PARABOLA DEI CONTADINI OMICIDI I/II (Matteo 21.33-39)

16.16 – La parabola dei contadini omicidi 1 (Matteo 21. 33-39)

 

33Ascoltate un’altra parabola: c’era un uomo che possedeva un terreno e vi piantò una vigna. La circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre. La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano. 34Quando arrivò il tempo di raccogliere i frutti, mandò i suoi servi dai contadini a ritirare il raccolto. 35Ma i contadini presero i servi e uno lo bastonarono, un altro lo uccisero, un altro lo lapidarono. 36Mandò di nuovo altri servi, più numerosi dei primi, ma li trattarono allo stesso modo. 37Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: «Avranno rispetto per mio figlio!». 38Ma i contadini, visto il figlio, dissero tra loro: «Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!». 39Lo presero, lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero.

Si concludono apparentemente qui gli interventi di Gesù sui capi del sacerdoti, farisei e scribi che lo avevano interrotto mentre insegnava chiedendogli con quale autorità facesse “queste cose”. In realtà, seguiranno la parabola delle nozze e altri avvenimenti. Comunque, dopo averli messi in difficoltà chiedendo loro se il battesimo di Giovanni venisse da Dio o dagli uomini e confessata la loro ignoranza in merito, Gesù espose la parabola dei due figli mettendo in evidenza il fatto che i pubblicani e le prostitute li precedevano nel regno ed ora, dopo quella dei contadini omicidi, conclude con parole che, dette da Lui, avevano la stessa gravità, autorità e valenza della maledizione sul fico: “Io vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti” (v.43).

Credo che la parabola di cui ci occuperemo sia fra le più note e immediate del Vangelo: non c’è nessuna difficoltà a trovare l’identità dei contadini, dei servi, del figlio inviato né tantomeno non possiamo avere dei dubbi attorno alla vigna; ecco perché, lavorando su un materiale conosciuto e privo di punti oscuri, possiamo cercare di trovare quel messaggio latente, qualcosa di nuovo che si cela proprio nei testi semplici, in cui la lettura agevole fa sì, a volte, che divenga frettolosa.

Ora il primo personaggio è il proprietario di un terreno che decide di “piantare una vigna”; la cura che pone per la realizzazione del suo progetto denota una persona con una profonda conoscenza dell’arte vitivinicola, che richiede studio e applicazione: la tipologia di terreno influenza quella di coltivazione, la disposizione delle piantine messe a dimora, come farle crescere, la gestione degli spazi tra i filari e molti altri interventi. Altra caratteristica del proprietario è che non ha lasciato nulla di intentato perché il terreno producesse al meglio delle sue possibilità: prima “la circondò con una siepe” per proteggerla dagli animali, poi “scavò una buca per il torchio” perché in quei territori per pigiare si usava scavare una buca nel sasso, e quindi “costruì una torre” che serviva sia per vigilare e custodire il raccolto. In altri termini, organizzò quel terreno in modo tale che fosse indipendente, funzionale e produttivo.

Il Signore Dio fece lo stesso con Eden, circondandolo con quattro fiumi, ponendovi l’uomo e l’albero della vita, e poi, quando maturarono i tempi, liberando il Suo popolo dalla schiavitù dell’Egitto per trapiantalo nella terra promessa. Ricordiamo che, se fosse stato fedele, Israele non avrebbe certo impiegato quarant’anni per attraversare il deserto e neppure, una volta arrivato nel paese di Canaan, avrebbe conosciuto pesanti sconfitte e la deportazione a Babilonia, per non parlare delle altre.

Primo ampliamento in proposito è che Gesù presenta una realtà che, tanto ai colti quanto ai semplici del popolo, non poteva sfuggire perché era evidente che si richiamava ad Isaia 5. 1-7 che riporta: “Il mio diletto possedeva una vigna sopra un fertile colle. Egli l’aveva dissodata e sgombrata dai sassi e vi aveva piantato viti pregiate; in mezzo di aveva costruito una torre e scavato anche un tino. Egli aspettò che producesse uva; essa produsse, invece, acini acerbi. E ora, abitanti di Gerusalemme e uomini di Giuda, siate voi giudici tra me e la vigna. Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna, che io non abbia fatto? Perché, mentre attendevo che producesse uva, essa ha prodotto acini acerbi? Ora voglio farvi conoscere ciò che sto per fare alla mia vigna: toglierò la sua siepe e si trasformerà in pascolo; demolirò il suo muro di cinta e verrà calpestata. La renderò un deserto, non sarà potata né vangata e vi cresceranno rovi e pruni; alle nubi comanderò di non mandarvi la pioggia. Ebbene, la vigna del Signore degli eserciti è la casa d’Israele; gli abitanti di Giuda sono la sua piantagione preferita. Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi”.

Da questo passo vediamo tutta la sollecitudine di Dio che fa quanto in suo potere perché il popolo da Lui scelto, possa dare frutti secondo le Sue aspettative. È Lui a dissodare e sgombrare dai sassi il terreno, Lui a piantare, a far sì che, circondato dalle Sue attenzioni e protetto, potesse prosperare amandolo e osservando i Suoi statuti e leggi.

È ciò che troviamo anche in Salmo 80.9-14, non privo di considerazioni amare e profondi intrecci col passo precedente: “Hai sradicato una vite dall’Egitto, hai scacciato le genti e l’hai trapiantata. Le hai preparato il terreno, hai affondato le sue radici ed essa ha riempito la terra. La sua ombra copriva le montagne e i suoi rami i cedri più alti. Ha esteso i suoi tralci fino al mare, arrivavano al fiume i suoi germogli. Perché hai aperto brecce nella sua cinta e ne fa vendemmia ogni passante? La devasta il cinghiale del bosco e vi pascolano le bestie della campagna”.

Gesù, quindi, proponendo la parabola dei lavoratori della vigna in quel modo, pone il Suo uditorio nella condizione di far riferimento ai contesti offerti da Isaia e da Asaf, levita e cantore di Davide, che già avevano messo in risalto gli effetti dei giudizi di Dio nei confronti del loro popolo. Non dando i frutti sperati, quella vigna fu trattata come il fico seccato che abbiamo visto di recente nel senso che subì gli effetti della riprovazione del suo Creatore e Progettista.

Abbiamo poi un fatto apparentemente anomalo, ma in uso ai tempi di Gesù e cioè il dare il possedimento in affitto a dei contadini: in pratica, se il proprietario aveva degli impegni, lo dava a dei lavoranti che si impegnavano a coltivarlo per poi pagare l’affitto in natura, ricevendo percentuale sul raccolto. Infatti, quell’uomo “se ne andò in viaggio”, altra espressione frequente in diverse parabole per indicare l’assenza del padrone che delega ai suoi servi l’andamento della casa o il far fruttare delle monete che affida loro. Una persona di questo tipo, ricca e in quanto tale potente, non dà mai indicazioni sul suo ritorno perché in quanto padrone non era tenuto a farlo. Infatti “…non sapete quando è il momento. È come un uomo che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vigilare. Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino; fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati. Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!” (Marco 13.33-37).

Queste ultime parole, che si adattano alla Chiesa, contengono comunque il tema comune del rendiconto e della necessità di non farsi trovare impreparati o addormentati, il che per noi può avvenire o con la morte, o con il Ritorno di Gesù, ma per i contemporanei di Nostro Signore si sarebbe dovuto verificare con il Suo riconoscimento attivo come Figlio di Dio ora finalmente rivelato, come il “Dio con noi”, quel “un bambino è nato per noi, un figlio di è stato dato” (Isaia 9.5) e, quindi, il dare a lui la parte del ricavato della vigna presentandogli un popolo preparato a riceverlo. Al contrario, quelli che allora avrebbero dovuto essere i pastori di Israele, fecero di tutto per tenere Gesù lontano da lui.

Nel caso di Israele, però, il tema dell’esazione di un raccolto è frequente perché, tutte le volte che Dio si aspettava un risultato tanto in fede quanto in opere, questo veniva a mancare e di qui il suscitare dei profeti perché andassero dai conduttori del popolo per rimproverarli e indicar loro la via per ristabilire il corretto rapporto con Lui. Ecco perché abbiamo letto che Dio chiede cos’altro avrebbe potuto fare perché la vigna prosperasse. Ora, per quanto riguarda i profeti, non dobbiamo pensare solo agli autori dei libri che portano il loro nome, ma anche a tutti quelli che furono uccisi proprio da coloro che, in quanto re e per relazione contadini nella vigna di Dio, avrebbero dovuto dare, figurativamente, quella parte del raccolto pattuita.

“Quando venne il tempo del raccolto – di cui abbiamo parlato – mandò i suoi servi dai contadini a ritirare il raccolto”: ad esempio Uria, figlio di Semaià, inviato al re Ioiakim, che a fronte dei suoi rimproveri inviò dei suoi uomini fino in Egitto per ucciderlo, facendo poi “gettare il suo cadavere nelle fosse della gente comune” (Geremia 26.23). Geremia stesso fu percosso e gettato in prigione dai capi e rinchiuso “in una cisterna sotterranea a volta e rimase là molti giorni” (37. 15,16); lo stesso profeta, poi, “fu calato in una cisterna di fango dove affondò” (38.6). Anche Zaccaria, lapidato “nel cortile del tempio del Signore” (2 Cronache 24.21).

Parlando degli uomini di Dio dell’Antico Patto, l’autore della lettera agli Ebrei scrive: “Altri, poi, furono torturati, non accettando la liberazione loro offerta, per ottenere una migliore resurrezione. Altri, infine, subirono insulti e flagelli, catene e prigionia. Furono lapidati, torturati, tagliati in due, furono uccisi di spada, bisognosi, tribolati, maltrattati (di loro il mondo non era degno), vaganti per i deserti, sui monti, tra le caverne e le spelonche della terra” (11.35-39).

Ebbene questa cronologia, che ripercorre la storia di Israele, riprende esattamente le parole di Gesù nella nostra parabola, quando al verso 36 leggiamo “Mandò di nuovo altri servi, più numerosi dei primi, ma li trattarono allo stesso modo”. Possiamo dire che Dio mandò i suoi profeti ininterrottamente, diciamo a partire da Mosè e proseguì fino a Giovanni Battista, per quanto vi sia un considerevole periodo di silenzio (400 anni circa) fra lui, ultimo dell’Antico Patto, e Malachia, ultimo libro in tutte le versioni cristiane.

Un forte elemento di riflessione, che poi si riferisce anche all’ultima possibilità che quegli uomini avevano di salvarsi, è quel “Da ultimo, mandò il proprio figlio, dicendo: «Avranno rispetto per mio figlio!”, frase che però troviamo più incisiva in Luca 20.13, “Che cosa devo fare? Manderò mio figlio, l’amato, forse avranno rispetto per lui”. Possono sembrare parole strane messe in bocca a un personaggio che rappresenta l’Iddio Onnisciente, ma se non avesse inviato suo figlio e non fosse stato ascoltato dalle guide del popolo e loro seguaci, non solo non avrebbe potuto salvare nessuno, ma nemmeno condannare. Quel “forse avranno rispetto per lui” doveva purtroppo trovare un rifiuto e un oltraggio ufficiale che si sarebbe concretato solo nel momento della crocifissione. Sarebbe stata poi la risurrezione a trionfare sul peccato, sulla morte, sulla sentenza ingiusta emessa su di Lui, e da lì fino a Satana e all’apertura dei cieli.

A leggere il testo fin qui della parabola, notiamo che c’è un crescendo di interventi del proprietario della vigna per arrivare a una soluzione pacifica coi contadini: prima manda dei servi, poi altri in numero maggiore, infine il proprio figlio, che viene inviato “da ultimo”, come estrema risorsa. E ancora una volta possiamo collegarci alla lettera agli Ebrei: “Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose mediante il quale ha fatto anche il mondo” (1.1,2).

Questo per noi, ma il “Da ultimo” nella parabola rappresenta il tentativo finale del proprietario della vigna per avere quanto gli spetta, che come significato spirituale identifichiamo nelle anime, nel frutto costituito da un popolo ordinato ed osservante grazie al lavoro di quei contadini che però, come già rilevato, anziché per il proprietario, avevano agito esclusivamente in funzione del loro guadagno.

L’aspettativa espressa dalle parole “Avranno rispetto per mio figlio” esprime le due realtà: i contadini avrebbero dovuto riconoscere chi si presentava a loro e dargli quanto dovuto, i capi del popolo paradossalmente fanno altrettanto e coscientemente, come quei lavoratori, stabiliscono di ucciderlo. “Costui è l’erede”. In questa frase, in questo rapporto fra simbolo e riferimento, tutto lascia supporre che farisei, scribi e capi dei sacerdoti sapessero in realtà che Gesù era quello che diceva di essere. Del resto, furono loro a dire ad Erode il Grande che il Re dei Giudei avrebbe dovuto nascere da Bethlehem di Giuda. Proprio nelle prime riflessioni avevamo visto che tutto era stato organizzato da Dio, proprio come per la vigna, perché chiunque investigasse le scritture e nella vita di Gesù potesse trovare conferme al fatto che Lui fosse l’Emmanuele, così come Giovanni Battista il Suo precursore. Preferirono giustificarsi con un ipocrita “Non lo sappiamo” e identificarsi con i contadini omicidi che “lo presero, lo cacciarono fuori dalla vigna – nel quale come Gesù era entrato – e lo uccisero” parole che, per il tempo in cui furono pronunciate, contengono un’altra profezia della Sua morte, che avvenne appunto fuori da Gerusalemme.

Ricordando le parole di Salmo 2. 2,3, esiste una volontà precisa di persone consapevoli di combattere contro Dio e illuse di vincere: “Insorgono i re della terra e i prìncipi congiurano insieme contro il Signore e il suo consacrato: «Spezziamo le loro catene, gettiamo via da noi il loro giogo!»”, quello leggero e non opprimente, squalificante e mortale come quello del peccato. E a proposito di questo verso Atti 4. 27,20 riprenderà “davvero in questa città Erode e Ponzio Pilato, con le nazioni e i popoli d’Israele, si sono alleati contro il tuo santo servo Gesù, che tu hai consacrato, per compiere ciò che la tua mano e la tua volontà avevano deciso che ciò avvenisse”.

L’invio del Figlio, quindi, rappresentò per il Signore Dio l’ultima possibilità per quei contadini di mantenere i rapporti secondo la logica del contratto, ma, nel loro tentativo di usurpare il Suo diritto in quanto padrone, suscitarono davvero la Sua ira. Amen.

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16.15 – LA PARABOLA DEI DUE FIGLI (Matteo 21.28-32)


16.15 – La parabola dei due figli (Matteo 21. 28-32)

 

28«Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: «Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna». 29Ed egli rispose: «Non ne ho voglia». Ma poi si pentì e vi andò. 30Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: «Sì, signore». Ma non vi andò. 31Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Risposero: «Il primo». E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. 32Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli.

 

            Si tratta di una parabola riferita dal solo Matteo, ma che seguì immediatamente le parole di Gesù “Neppure io vi dico con quale autorità faccio queste cose” (21.27), risposta che tutti, detrattori, discepoli o incerti avevano ascoltato. Allo stesso modo, anche i “due figli” qui raffigurati rappresentano, come vedremo, le categorie presenti nel cortile dei Gentili, gli uditori di Gesù e quelli che avevano già stabilito di ucciderLo.

Una delle chiavi di lettura dell’episodio è proprio nelle prime quattro parole, “Che ve ne pare?”, che costituiscono una domanda che Gesù rivolge ai suoi inquisitori (e all’uditorio fuori dal portico) alla quale non avranno difficoltà a rispondere, rivelando la loro posizione spirituale e l’evidente rifiuto al messaggio che Dio aveva dato al popolo tramite Giovanni Battista.

La vigna è il luogo di lavoro in cui il padre vuole mandare i due figli: non sono operai pagati, ma persone che di quel terreno fanno parte e un giorno avrebbero ereditato.

La vite è una pianta che richiede molta cura fin dall’inizio in quanto, crescendo, non riesce a sostenersi da sola, ma ha bisogno di arrampicarsi su dei supporti. Quando si prende il terreno per piantarla occorre sia chimicamente adatto, organizzare i filari, studiare il modo di disporre le piante in base al tipo di territorio; va poi concimata, innaffiata, potata in inverno sapendo quando per evitare le gelate e farlo con accuratezza perché se si lasciamo molte gemme l’uva avrà un basso potere zuccherino; poi anche d’estate vanno eliminati i germogli che non portano frutto, asportati i loro apici, eliminate le foglie a contatto con i grappoli e, infine, c’è la vendemmia.

C’è un testo che riporta “Figlio, va’ a lavorare oggi nella mia vigna” e credo che il possessivo sia importante, che permetta a chi legge o ascolta di avere già l’idea del distinguo che viene fatto nel senso che terreno e piante appartengono al padre anche se desidera che, con lui tutti, i due figli possano godere un giorno del frutto del loro lavoro. Abbiamo poi “oggi”, che indica una volontà precisa da parte di quell’uomo, conoscitore dei tempi e dei momenti per intervenire.

Lavorare nella vigna quindi non è qualcosa che si possa fare per passatempo, ma richiede impegno perché, nel linguaggio parabolico, è figura del regno di Dio o di quanto a lui collegato. Bene, esaminiamo ora il comportamento del primo figlio, che alla richiesta rivoltagli risponde negativamente: non ne ha voglia, preferisce occuparsi di altro, sue faccende che lo interessano sicuramente di più perché impegnarsi per qualcuno o qualcosa è sempre meno attraente che farlo per se stessi. Eppure, dopo un tempo che non possiamo quantificare, ma sempre nell’arco della giornata, “si pentì e vi andò” pensiamo non svogliatamente, ma dopo una riflessione: non riteneva giusto né non lavorare, né fare torto al proprio padre.

Quindi, il primo figlio ripensa al suo comportamento, alla risposta data e si pente, parola greca metameletheìs che sta a indicare un cambio nei sentimenti e nel comportamento, la stessa impiegata per indicare l’agire di coloro che accorrevano a Giovanni Battista per farsi battezzare obbedendo a un impulso interiore dato da quel pentimento che la Legge di Mosè, quanto al cerimoniale, non richiedeva. Chi sbagliava di certo pagava, ma col sacrificio anche se il pentimento sicuramente poneva il peccatore su un piano ben diverso dal mero assolvimento della forma. Sappiamo che l’immedesimazione nell’attesa del Messia provocava un pentimento che si concretava nella confessione pubblica dei peccati a riprova della loro volontà di immedesimarsi, di voler rientrare nel piano di Dio che veniva loro annunciato, “Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino” (3.2).

Il secondo figlio, invece, animato dagli stessi intenti del primo, cioè vivere di rendita o occuparsi della vigna saltuariamente, non rifiuta apparentemente l’ordine, anzi la versione greca dell’episodio ha un impianto particolare perché questo non dice “Sì, signore”, ma “Io, signore”, che pare molto più ipocrita di una semplice riposta affermativa: “Io” sono quello che ci va, “Io” sono quello che risponde subito e fa ciò che tu vuoi. È un “Io“ enfatico che ci porta direi immediatamente all’ “Io” di quel fariseo che, pregando nel Tempio al confine tra il cortile degli uomini e quello dei sacerdoti, ringraziava Dio perché non era “come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri e neppure come questo pubblicano. Io digiuno due volte la settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo” (Luca 18.11,12).

Questa persona, quindi, con il suo “Io, signore” è convinta di avere la benevolenza del padre solo per aver risposto così, non preoccupandosi minimamente del fatto che certo il suo genitore avrebbe saputo che nella vigna non vi era andato. Per questa persona fare quello che voleva il proprio padre non era importante, ma l’unica cosa cui teneva era continuare a fare i propri comodi mantenendo la veste di figlio ubbidiente e prediletto. Anche qui c’è un altro verso, riferito agli scribi e farisei, “Osservate – che non è un imperativo, ma la descrizione del presente –  tutto ciò che vi dicono, ma non agite – questo sì che è un invito –  secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno” (Matteo 23.2).

Quante persone conosciamo che, magari da noi interpellate in un momento di bisogno, danno la loro disponibilità salvo poi non farsi più sentire o trovare? Ne ho conosciute molte, e da quelle mi sono allontanato non perché permaloso o ritenga la mia persona importante, ma in quanto con l’ipocrita non è possibile alcun rapporto costruttivo, anzi è solo fautore di negatività e come tale contaminante. E la disponibilità negata è più sincera di quella data prontamente, ma che poi scompare.

Ora a questo punto la domanda di Gesù fu “«Quale dei due fece il volere del padre?» ed essi risposero: «Il primo»”. Fu un interrogativo ben diverso da quello sul Battista, di fronte al quale farisei, capi dei sacerdoti e scribi non potevano rispondere senza autoaccusarsi, e la risposta venne fuori immediata, quasi senza pensarci sopra, non calcolando che conteneva una soluzione semplice a quanto chiesto prima: chi aveva risposto all’appello di Giovanni Battista? Gesù non parla – ad esempio – dei soldati o delle persone semplici tra il popolo che si erano fatti battezzare, ma della detestata categoria dei “pubblicani e prostitute (che) gli hanno creduto”. E attenzione perché a parlare di “prostitute” è Gesù, che conosce i cuori e le azioni occulte degli esseri umani.

In altri termini, “pubblicani e prostitute”, nel loro essere così lontani dal comportarsi come richiesto dalla Legge e dai farisei, arrivati al punto del richiamo con un messaggio di ravvedimento perché stava per arrivare uno ben più che profeta, furono sensibili e andarono a lavorare nella vigna facendo il primo passo, cioè credere al messaggio loro proposto e “pentirsi” esattamente come aveva fatto il primo figlio del proprietario di quel terreno. Anche il pentimento di quelli – che fu un ripensare alle azioni commesse e trovarsi in difetto – non è che sconvolgesse le loro coscienze, ma era quello che bastava, né più né meno, per fare, agire secondo ciò che chiedeva Dio in quel momento. Le prostitute smisero di fare il loro mestiere e i pubblicani di frodare il loro prossimo facendo la cresta sulle tasse per il governo di Roma, accontentandosi della loro percentuale.

Per quelli c’era il battesimo del ravvedimento in attesa della venuta di Gesù al quale poi sarebbe seguito l’ascoltarlo e accoglierlo per determinare il proprio destino spirituale. Per questo “vanno innanzi a voi nel regno dei cieli”, cioè vi precedono, quando voi non vi ponete il problema perché vi ritenete già nel giusto, date per scontato che ciò che fate è santo e per il bene del popolo ma, non guardando mai dentro voi stessi, non vi accorgete che pubblicani e prostitute entrano per la porta stretta, mentre voi rimarrete fuori.

“Giovanni venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto”: Gesù risponde per loro alla domanda esaminata nella riflessione precedente: non era accettabile il loro “non lo sappiamo” perché non era vero, erano andati ad ascoltarlo per spiarlo, addirittura tramite i loro inviati da Gerusalemme gli avevano chiesto chi fosse e disse “Io sono voce di uno che grida nel deserto: rendete diritta la via del Signore, come disse il profeta Isaia” (Giovanni 1.22). Furono parole dalle quali, con tutta la loro scienza nelle scritture, non riuscirono a trarre alcun insegnamento, a differenza dei pubblicani e delle prostitute che non ci misero molto ad abbandonare un modo di vivere come se Dio non li vedesse, non esistesse.

Quindi, anziché “non lo sappiamo”, la vera risposta avrebbe dovuto essere “non abbiamo voluto credere”. Con “Non lo sappiamo” si intende che non volevano entrare nel merito, si dichiaravano a distanza perché, se così non fosse stato, avrebbero dovuto credergli e rinunciare a tutto il loro orgoglio, umiliarsi facendosi battezzare in mezzo a tanti testimoni, mostrarsi come qualunque altro israelita che si riconosceva peccatore e quindi rinunciava alla sua rispettabilità. E come avrebbero potuto fare una cosa del genere gli scribi e farisei, se si ritenevano superiori a tal punto da dire “Questa gente che non conosce la legge è maledetta”? (Giovanni 7.49).

“Giovanni venne a voi sulla via della giustizia”. Ce n’è una sola, non tante, e la giustizia è cercata da chi non l’ha o scopre di possederne una di quelle che, come un vestito che nulla copre, gli uomini amano indossare. I farisei, gli scribi e i sommi sacerdoti lì presenti, a quella giustizia furono insensibili, anzi, poiché alla luce delle investigazioni da loro fatte non emersero degli elementi per condannare Giovanni; lo lasciarono fare, ma si guardarono bene dal considerare che, se la “via della giustizia” era quella praticata da lui, non poteva essere la loro. Amen.

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16.04 – L’INGRESSO DI GESÙ A GERUSALEMME (Marco 11.11; Matteo 21.10,11)

16.04 – L’ingresso a Gerusalemme (Marco 11.11 – Matteo 21.10,11)

 

11Ed entrò a Gerusalemme, nel tempio. E dopo aver guardato ogni cosa attorno, essendo ormai l’ora tarda, uscì con i Dodici verso Betània.

 

Dal momento in cui Gesù entra a Gerusalemme la successione degli avvenimenti presenta dei problemi di ordine cronologico non risolvibili con certezza perché, confrontando la narrazione dei quattro evangelisti, è innegabile che vi sia unitarietà di narrazione in cui ciascuno aggiunge dei particolari, ma purtroppo abbiamo discordanza nella successione degli eventi. Ho ritenuto iniziare l’esame di quanto avvenne con un solo verso di Marco perché è l’unico ad occuparsi della suddivisione della settimana della Passione di Nostro Signore, ma anche qui la certezza assoluta che abbiamo del primo giorno è che a un certo punto Gesù esce dalla città per andare a Betania per passarvi la notte. Secondo me il punto nodale della questione è nella decifrazione delle parole “e dopo aver guardato ogni cosa attorno”, che possono voler significare tanto che volle sincerarsi di persona di ciò che accadeva nel Tempio, rimandando al giorno successivo le iniziative da prendere, oppure che si sia occupato di cacciare i mercanti da lì, guarire i ciechi e gli storpi e infine ricevere la lode dai bambini, come descritto dagli altri evangelisti. A mio parere esistono punti a favore di entrambe le teorie anche se è innegabile che, entrando nel Tempio, la prima situazione che poteva emergere era quella dei venditori di animali e cambiavalute che, come già sappiamo, erano accampati nel cortile dei gentili e quindi difficilmente una reazione di Gesù si sarebbe fatta attendere. Il problema risiede nell’ora che si era fatta, data dal tempo trascorso da quando era stato ordinato a Pietro e Giovanni di andare a prendere il puledro d’asina all’arrivo al monte degli Ulivi e di lì a Gerusalemme, che non possiamo sapere.

Certo è che quanto avvenne all’ingresso in città, di cui non ci siamo occupati finora, è riportato da Matteo 21. 10-11:

 

10Mentre egli entrava in Gerusalemme, tutta la città fu presa da agitazione e diceva: «Chi è costui?». 11E la folla rispondeva: «Questi è il profeta Gesù, da Nazareth di Galilea».

 

L’ingresso in città fu qualcosa che la stravolse: mancavano pochi giorni alla Pasqua per cui era piena di pellegrini, la folla dei discepoli lo acclamava come mai aveva fatto, la gente accorreva a vedere e forse, nell’atteggiamento dei discepoli e della gente che comunque seguiva Gesù, possiamo trovare un parallelo nell’episodio in cui, dopo aver moltiplicato i pani, è scritto che “venivano a prenderlo per farlo re” (Giovanni 6), solo che quella volta “si ritirò di nuovo sul monte, lui da solo”. A quel tempo si estromise, qui invece non ferma la folla acclamante perché era nella “città del gran re”, quindi la Sua, era il figlio di Davide e veniva nel Nome del Signore. La folla dei discepoli lo acclamava come sappiamo e anche se l’idea che avevano di lui non corrispondeva pienamente a quella spirituale, ciò non toglieva che fosse il Messia atteso.

Abbiamo letto che Matteo scrive “Tutta la città fu presa da agitazione e diceva…”, cioè tratta Gerusalemme come se fosse una persona, quindi come “un corpo composto da tante membra” perché così doveva essere e, certo concettualmente, non vi è grande differenza fra quello che avrebbe dovuto essere Israele e ciò che dovrebbe essere la Chiesa, oggi purtroppo nominalmente non più una sola, senza contare le enormi differenze anche solo considerandone una sola parte, o ramo. E ragionando su questa “agitazione”, va sottolineato che ciò avvenne per la seconda volta, dopo l’episodio di una trentina d’anni prima quando la carovana dei Magi arrivò a Gerusalemme. Era una delle tante che giungevano in città, non avrebbe attirato l’attenzione di nessuno se non che quelli chiesero “Dov’è nato il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo” (2.2). Era una domanda precisa fatta da persone autorevoli, studiose, acculturate, fra le più importanti del loro popolo, che chiedevano della nascita di un re appartenente a gente non loro che erano venuti ad adorare. Sono convinto che le parole “Il re dei Giudei” e “la sua stella” siano stati gli elementi che più abbiano impressionato gli abitanti. Il verso 3 riporta che “All’udire questo, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme”. Ecco la regìa di Dio: fare in modo che la gente, sforzandosi, capisca, darle degli elementi sparsi da ricomporre come un puzzle perché sono convinto che ciò che Lui vuole è proprio che l’uomo arrivi alla Sua conoscenza componendo dei pezzi, metta in ordine corretto i dati che mette a sua disposizione. Del resto, la stessa cosa avviene per chiunque si metta seriamente alla Sua ricerca perché difficilmente si ha una rivelazione folgorante, anzi.

Ecco allora che Gerusalemme come “persona” avrebbe dovuto ricordarsi che quel re, che veniva a lei montato su un asino su cui nessuno era mai salito, era lo stesso di cui circa trent’anni prima avevano chiesto quei “Magi d’Oriente” venuti ad adorarlo. Quelle persone, che certo non avevano i rotoli dei profeti, ma solo degli elementi sparsi che la loro tradizione aveva tramandato basandosi sulle parole di Daniele, avevano compreso molto di più degli abitanti della città che dopo un trentennio si chiedevano ancora “Chi è costui?”.

Cittadini e pellegrini che non Lo conoscevano si chiedevano chi fosse e la folla dei discepoli, testimoni di quanto aveva fatto o coinvolti da Lui comunque, rispondevano come da verso 11, “«Questi è il profeta Gesù, da Nazareth di Galilea»”. Non sono parole a caso come potrebbe sembrare, contengono ancora una volta tutti gli elementi per identificare Gesù e possiamo pensare che questo fosse un’ulteriore occasione data agli abitanti della città per riconoscere in Lui il re.

Infatti abbiamo “il profeta Gesù”, la qualifica anteposta al nome secondo quanto riconosciuto dai testimoni ai suoi miracoli, in particolare la resurrezione del figlio della vedova di Nain quando “Tutti furono presi da timore e glorificavano Dio dicendo: «Un grande profeta è sorto fra noi» e: «Dio ha visitato il suo popolo»” (Luca 7.16). Abbiamo però di più, quando all’episodio già ricordato della moltiplicazione dei pani d’orzo: “Allora la gente, visto il segno che egli aveva compiuto, diceva: «Questi è davvero il profeta, colui che viene nel mondo!»” (Giovanni 6.14, ma si può considerare anche 7.40 e 9.17).

Pietro, nel suo discorso nel Tempio al portico di Salomone, ricordò tra le alte cose Mosè che “infatti disse: Il Signore vostro Dio farà sorgere per voi, dai vostri fratelli, un profeta come me; voi lo ascolterete in tutto quello che egli vi dirà. E avverrà che chiunque non ascolterà quel profeta, sarà estirpato di mezzo al popolo” (Atti 3.22,23; Deuteronomio 18.15).

 

“Il profeta Gesù”: il nome dopo la qualifica indica che, se possono esserci molti profeti provenienti da Dio, nessuno è come lui. Allora, “il profeta Gesù” è il nome, ora rivelato a tutti e se Mosè aveva condotto il popolo fino ai confini della terra promessa, Gesù farà altrettanto fino ai nuovi cieli e nuova terra.

Abbiamo poi un altro elemento che viene fornito a chi s’interrogava su quell’uomo che causava tanto clamore in città, “da Nazareth di Galilea”: ecco, qui il testo si fa più complicato, ma solo in apparenza, perché sappiamo che la città di Nazareth e soprattutto i suoi abitanti non godevano di buona fama nei territori limitrofi. Sull’identità di Gesù come uomo e come Dio sappiamo che nacque a Bethlehem perché il “Re dei Giudei” avrebbe dovuto nascere lì secondo le profezie che lo riguardavano (Michea 5.1,2), ma Giuseppe, suo padre, “Avvertito poi in sogno, si ritirò nella regione della Galilea e andò ad abitare in una città chiamata Nazareth, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo dei profeti: «Sarà chiamato Nazareno»” (Matteo 2.22,23). Si tratta di un’allusione non alla cittadina, ma al nome da cui Nazareth proviene, cioè Nezer, “germoglio”, chiaro riferimento, come già abbiamo rilevato all’inizio di questo percorso di riflessioni, a Isaia 11.1-5: “Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse – padre di Davide –, un virgulto spunterà dalle sue radici. Su di lui si poserà lo spirito del Signore, spirito di sapienza e di intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e di timore del Signore. Si compiacerà del timore del Signore. Non giudicherà secondo le apparenze e non prenderà decisioni per sentito dire, ma giudicherà con giustizia i miseri e prenderà decisioni eque per gli umili della terra. Percuoterà il violento con la verga della sua bocca, con il soffio delle sue labbra ucciderà l’empio. La giustizia sarà fascia dei suoi lombi e la fedeltà cintura dei suoi fianchi”.

Questo è il riferimento più usato per spiegare il “Germoglio”, ma ve ne sono altri non meno importanti, ad esempio Geremia 33.15, “In quei giorni e in quel tempo farò germogliare per Davide un germoglio giusto, che eserciterà il giudizio e la giustizia sulla terra”, Zaccaria 3.8, “Ecco, io manderò il mio servo Germoglio”, 6.12 “Dice il Signore degli eserciti: «Ecco un uomo che si chiama Germoglio: fiorirà dove si trova e ricostruirà il tempio del Signore”.

“Da Nazareth” quindi non si riferiva alla provenienza geografica di Gesù, ma alla promessa di Dio che, dopo tanto tempo, era finalmente germogliata, veniva al suo popolo e alla santa città che lo rappresentava.

Si può citare, a conclusione di questo giorno basandoci sulla cronologia di Marco, quanto avverrà prima o mentre Nostro Signore guarderà “ogni cosa attorno” e quindi, ancora una volta, l’amara, allarmatissima osservazione dei farisei, sacerdoti e capi del popolo: “Vedete che non ottenete nulla? Ecco: il mondo è andato dietro a lui!” (Giovanni 12.19): questa va ad aggravare ulteriormente il loro stato di allarme già espresso alla resurrezione di Lazzaro, “Che cosa facciamo? Quest’uomo fa molti segni. Se lo lasciamo continuare così, tutti crederanno in lui, verranno i Romani e distruggeranno il nostro tempio e la nostra nazione” (11.47,48).

Giunti a questo punto, non possiamo sapere esattamente cosa successe, come detto all’inizio di queste riflessioni; personalmente, preferisco attenermi a Marco, che conclude con l’ora tarda e il rientro di Gesù e i dodici a Betania.

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15.21 – GLI OPERAI DELLA VIGNA (Matteo 20.1-6)

15.21 – Gli operai della vigna (Matteo 20.1-16)

 

 1 Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. 2Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. 3Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, 4e disse loro: «Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò». 5Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno, e verso le tre, e fece altrettanto. 6Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano lì e disse loro: «Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?». 7Gli risposero: «Perché nessuno ci ha presi a giornata». Ed egli disse loro: «Andate anche voi nella vigna».
8Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: «Chiama i lavoratori e da’ loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi». 9Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. 10Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero ciascuno un denaro. 11Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone 12dicendo: «Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo». 13Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: «Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? 14Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: 15non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?». 16Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi».

 

Riferita dal solo Matteo, è una delle parabole a mio giudizio più complesse esposte da Gesù e suscettibile, ad una generica lettura, di fraintendimenti destinati a provocare domande che restano irrisolte.

Prima di addentrarci nel racconto, va detto che la nostra versione, per come inizia, lascia supporre che l’esposizione della parabola sia avvenuta per un insegnamento isolato, difficilmente collocabile nel tempo, ma questo accade perché qui è stato omesso di tradurre l’avverbio greco “gar”, “poiché, infatti”, col quale si apre il verso 1. Dobbiamo quindi collegare la vicenda degli operai della vigna alla domanda che Pietro aveva rivolto a Gesù poco prima: “Ecco, noi abbiamo abbandonato ogni cosa e ti abbiamo seguito: cosa ne avremo?”. Questa parabola allora non solo rientra  nell’insegnamento sulle conseguenze del “lasciare ogni cosa”, ma lo estende, lo amplifica inquadrandolo nell’ottica dei tempi che si sarebbero succeduti e la destina a tutti coloro che avrebbero creduto, come possiamo già intravedere dal fatto che il “padrone di casa” esce cinque volte nel corso della giornata: all’alba, alle nove, a mezzogiorno, alle tre del pomeriggio e alle cinque.

 

Se nell’identificare il “padrone di casa” non esistono problemi, credo sia necessario spendere un po’ del nostro tempo per indagare attorno alla “vigna”, che si riferisce chiaramente a un territorio, o per meglio dire a un ambiente di proprietà di Dio e sul quale ha dei progetti. Per capire la vigna occorre tener presente le numerose parabole su di essa, come quella dei contadini omicidi e del fico sterile, piantato appunto nella vigna del padrone che parlò al suo fattore perché lo tagliasse. Proprio in quest’ultima è interessante sottolineare l’inizio, “C’era un uomo che possedeva un terreno e vi piantò una vigna” (Matteo 21.33), che ci rivela quanto fosse coinvolta quella persona che, invece di vendere il suo terreno e non occuparsi più di nulla, decise di lavorarlo e piantare una coltivazione che richiede molta professionalità e attenzione come non avviene per un generico campo di frumento.

Invece quel padrone, tramite collaboratori, desidera che da terra anonima quell’appezzamento diventi qualcosa di particolare e ne personalizza l’aspetto rendendola autosufficiente per la produzione del vino: “la circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre” (v.33,34). Ecco il progetto: una siepe per proteggerla da eventuali animali, una buca per il torchio per estrarre il succo dagli acini e produrre vino, una torre per vigilare su di essa, segno che quel territorio doveva essere davvero vasto.

La “vigna” è composta da un numero indefinito di piante ed in essa si individua il popolo di Dio secondo Salmo 80.8-16 Dio degli eserciti, fa’ che ritorniamo, fa’ splendere il tuo volto e noi saremo salvi. Hai sradicato una vite dall’Egitto, hai scacciato le genti e l’hai trapiantata. Le hai preparato il terreno, hai affondato le sue radici ed essa ha riempito la terra. La sua ombra copriva le montagne e i suoi rami i cedri più alti. Ha esteso i suoi tralci fino al mare, arrivavano al fiume i suoi germogli. Perché hai aperto brecce nella sua cinta e ne fa vendemmia ogni passante? La devasta il cinghiale del bosco e vi pascolano le bestie della campagna. Dio degli eserciti, ritorna! Guarda dal cielo e vedi e visita questa vigna, proteggi quello che la tua destra ha piantato, il figlio dell’uomo che per te hai reso forte”. Possiamo vedere da questi versi lo sviluppo e la testimonianza del Popolo di Dio che, a un certo punto, fallisce e viene punito per la sua inerzia e infedeltà.

Altro passo interessante che integra il precedente lo troviamo in Isaia 51.1-7 in cui vengono contrapposte le intenzioni migliori del costruttore e il risultato assolutamente anomalo delle piante: “Il mio diletto possedeva una vigna sopra un fertile colle. Egli l’aveva dissodata e sgombrata dai sassi e vi aveva piantato viti pregiate; in mezzo vi aveva costruito una torre e scavato anche un tino – si notino le affinità con la parabola sopra ricordata –. Egli aspettò che producesse uva; essa produsse, invece, acini acerbi. E ora, abitanti di Gerusalemme e uomini di Giuda, siate voi giudici fra me e la mia vigna. Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna che io non abbia fatto? Perché, mentre attendevo che producesse uva, essa ha prodotto acini acerbi? Ora voglio farvi conoscere ciò che sto per fare alla mia vigna: toglierò la sua siepe e si trasformerà in pascolo; demolirò il suo muro di cinta e verrà calpestata. La renderò un deserto, non sarà potata né vangata e vi cresceranno rovi e pruni; alle nubi comanderò di non mandarvi la pioggia. Ebbene, la vigna del Signore degli eserciti è la casa d’Israele; gli abitanti di Giuda sono la sua piantagione preferita. Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi”.

Questo aspetto viene poi ripreso da Geremia 2.21, “Io ti avevo piantato come vigna pregiata, tutta di vitigni genuini; come mai ti sei mutata in tralci degeneri di vigna bastarda? Anche se tu ti lavassi con soda e molta potassa, resterebbe davanti a me la macchia della tua iniquità. Oracolo del Signore”.

 

La vigna allora, figura del Popolo di Dio, ha un suo significato storico ed uno attuale, è anche quel “campo” in cui “un nemico” ha seminato la zizzania, è un sistema molto più complesso che è stato descritto da Gesù in Giovanni 15.1-8 Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli”.

Altro elemento che indica il territorio di Dio è il “campo”, quando Gesù disse, spiegando la parabola delle zizzanie, “il campo è il mondo e il seme buono sono i figli del Regno. La zizzania sono i figli del Maligno” (Mt 13.38): una zona enormemente vasta in cui l’Avversario ha potuto seminare grazie alla disubbidienza di Adamo che lo ha messo in condizione di operare quando, al contrario, doveva operare in un ambito diverso ed essere collaboratore dell’Eterno.

Non è possibile classificare univocamente la vigna, nel senso che comporta più atteggiamenti tanto di Dio e di Gesù quanto dell’uomo che vi lavora, operaio e tralcio al tempo stesso e si possa fare attorno a lei un’ultima annotazione: in Matteo 9. 37,39 Gesù, vedendo le folle, “ne sentì compassione perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore. Allora disse ai suoi discepoli: «La messe è grande, ma pochi sono gli operai! Pregate dunque il Signore della messe, perché mandi operai nella sua messe»” (Matteo 9.37,38; Luca 10.2); qui vediamo un campo sterminato pronto – in prospettiva – per essere colto, in cui è necessario che ci siano uomini in grado di lavorare e mettere al sicuro ogni piantina. E da questi versi vediamo quando sia facile generalizzare e confondere la terminologia: c’è un “campo” che è il “mondo”, c’è un “granaio”, c’è la “zizzania” che verrà raccolta e bruciata (non da noi), c’è una “vigna” che ha bisogno di “operai”, c’è una “vite” che ha dei “tralci” e ciascuno di questi elementi è in stretto rapporto comunque con gli altri; credo che, nel caso della parabola che stiamo per esaminare, la “vigna” in cui gli operai vengono mandati a lavorare sia un territorio che simboleggia l’opera di Dio attraverso i secoli che si concreta attraverso il cammino del Suo Popolo, sempre Chiesa nel senso di “chiamati fuori” a prescindere dall’epoca in cui ha operato. Non a caso Giovanni Diodati, commentando l’Antico Testamento, parla di “Chiesa” anche riguardo a Israele.

 

Tornando al nostro testo, la prima uscita del padrone è all’alba, quando ai tempi di Gesù e ancora per molto tempo dopo i lavoratori a giornata si riunivano coi loro attrezzi sulla piazza del mercato e attendevano chi li chiamasse. È molto indicativo il fatto che è il padrone stesso a svegliarsi, alzarsi e uscire di casa, chiamando personalmente ciascun lavoratore stabilendo il prezzo, cioè un denaro che era la paga giornaliera ordinaria di un operaio. Avrebbe potuto delegare questo compito a un servitore che certamente aveva, ma volle interessarsi personalmente della vigna quasi fosse un prolungamento di se stesso, una parte di lui.

Appare chiaro che la “vigna” allude a qualcosa di grande, importante a tal punto da richiedere manodopera aggiuntiva per cinque volte: prima all’alba, poi alle nove del mattino (l’ora terza), a mezzogiorno, alle tre del pomeriggio (l’ora sesta e la nona) e infine verso le cinque (l’ora undicesima), quando mancava poco al finire del giorno e nonostante tutto l’opera di quegli uomini era ancora necessaria.

Mi sono chiesto cosa simboleggiassero queste differenti ore e i relativi lavoratori: si tratta del Popolo di Dio in cammino? Gli operai che vengono chiamati all’alba, sono coloro che operarono sotto la Legge e gli ultimi nella “Grande Tribolazione”, oppure si tratta di persone che si convertono chi in età giovane, chi quando la vita è in gran parte trascorsa? Propenderei per la seconda ipotesi perché nella parabola c’è questa successione temporale e sono proprio quelli delle cinque pomeridiane cui viene detto “Perché ve ne state qua tutto il giorno senza far niente?”, domanda che si collega ad un invito ben più importante che leggiamo in Isaia 55.2,3 “Perché spendete denaro per ciò che non è pane, il vostro guadagno per ciò che non sazia? Su, ascoltatemi e mangerete cose buone e gusterete cibi succulenti. Porgete l’orecchio e venite a me, ascoltate e vivrete”.

L’invito ai lavoratori dell’ultimo tempo credo sia da leggersi in questo modo, così come tutte le persone chiamate a lavorare sono da inquadrarsi sotto l’ottica dell’apostolo Paolo in 1 Corinti 3.9 quando scrive “Siamo infatti collaboratori di Dio, e voi siete campo di Dio, edificio di Dio”, arrivando a Colossesi 3.23,24 che ci anticipa il senso della parabola relativo al denaro ricevuto da quei lavoratori: “Qualunque cosa facciate, fatela di buon animo, come per il Signore e non per gli uomini, sapendo che dal Signore riceverete come ricompensa l’eredità”.

L’eredità è proprio la ricompensa che è simboleggiata dal “denaro” col quale il padrone della vigna si era accordato coi lavoratori all’alba e che viene dato anche agli ultimi, quelli del tardo pomeriggio che avevano faticato molto meno, un’ora o poco più stante il fatto che la paga viene data al tramonto: i lavoratori dell’alba non si sentono defraudati di qualche cosa perché il denaro convenuto era stato loro dato, ma perché non ritenevano giusta la proporzione fra il loro lavoro e quello degli ultimi chiamati; in altre parole, sono la figura di quei credenti che dimenticano di confrontarsi con Dio e guardano i loro simili, come vivono, vanno a sindacare ciò che hanno ricevuto da Dio e si lasciano sopraffare da sentimenti di invidia e restano scontenti.

Gesù, con questa parabola, non intende screditare l’operato dei primi, ma con le parole “Prendi il tuo e vattene” intende ribadire che, in quanto padrone, così è il suo deciso e che non poteva essergli nulla rilevato perché i patti erano stati rispettati: “un denaro” per quelli chiamati all’alba, “ciò che è conveniente” per quelli delle nove, di mezzogiorno e delle tre, addirittura non si era parlato di compenso per quelli delle cinque.

Possiamo fare una connessione con Romani 9.15-23: Che diremo dunque? C’è forse ingiustizia da parte di Dio? No, certamente! Egli infatti dice a Mosè: Avrò misericordia per chi vorrò averla, e farò grazia a chi vorrò farla. Quindi non dipende dalla volontà né dagli sforzi dell’uomo, ma da Dio che ha misericordia. (…) O uomo, chi sei tu, per contestare Dio? Oserà forse dire il vaso plasmato a colui che lo plasmò: «Perché mi hai fatto così?». Forse il vasaio non è padrone dell’argilla, per fare con la medesima pasta un vaso per uso nobile e uno per uso volgare? Anche Dio, volendo manifestare la sua ira e far conoscere la sua potenza, ha sopportato con grande magnanimità gente meritevole di collera, pronta per la perdizione. E questo, per far conoscere la ricchezza della sua gloria verso gente meritevole di misericordia, da lui predisposta alla gloria, cioè verso di noi, che egli ha chiamato non solo tra i Giudei ma anche tra i pagani.

Questo ci porta a considerare un fatto importante e cioè che il mormorio prodotto, “Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo”, contengono tutto il metodo valutativo umano in senso egoistico descritto con la contrapposizione dei termini “invidioso” e “buono” delle parole del padrone della vigna. In altri termini i “mormoratori” non avrebbero avuto nulla da ridire sulla paga di un denaro per un giorno di lavoro, ma criticano l’operato del padrone senza motivo visto che, del suo, poteva fare quello che voleva, anche dare la stessa paga a chi aveva “lavorato solo un’ora”.

Da qui deriva la risposta “Prendi ciò che è tuo e vattene”: chi aveva ragionato in quel modo era bene che prendesse la sua ricompensa e non dicesse più nulla, tenendosi il compenso per la fatica che certamente aveva impiegato nel lavorare tutto il giorno, ma sarebbe stato un “ultimo” nel senso che la valutazione espressa sugli altri lavoratori aveva fatto sì che avesse perso parte della considerazione in cui lo avrebbe tenuto il proprietario della vigna.

Quindi: ogni operaio prende il proprio premio, lo stesso, indipendentemente da quanto ha lavorato in termini di quantità oraria che non ha nulla a che vedere con quello che verrà dato in seguito, “in base a quanto ognuno avrà operato”, per cui l’essere “primo” o “ultimo” è qualcosa che compete solo a Dio, sorpassando ogni valutazione o presunzione umana.

“Prendi ciò che è tuo e vattene” può suonare anche come una sentenza e in un certo senso lo è perché, pur non andando ad intaccare la retribuzione in cui possiamo vedere la salvezza, comporta l’assegnazione della stanza in quella “casa” dove ve ne sono molte e vi sarà chi avrà posti prestigiosi, i “primi”, e chi invece dovrà occupare “gli ultimi”.

Si può concludere con le parole di Giuseppe Ricciotti che scrive “L’insegnamento generico di questa parabola è che la liberalità di Dio si riversa su chi vuole e nella misura che ne vuole e che la ricompensa finale dei seguaci di Gesù sarà nella sua parte essenziale eguale per tutti. (…) I braccianti della vigna si riferiscono a quei discepoli che in vista del regno dei cieli si ritenevano per qualsiasi ragione più adorni di meriti che altri, specialmente quei Giudei di spirito onesto ma di mentalità strettamente giudaica che si ritenevano più accetti a Dio per la loro appartenenza alla nazione eletta. Per costoro i pubblicani, le meretrici e anche i pagani, potevano essere ammessi nel regno dei cieli quando si fossero convertiti, tuttavia in quel regno sarebbero stati di gran lunga dietro ai fedeli e genuini israeliti, pieni di millenari meriti al cospetto di Dio. Gesù invece insegna che siffatti primati scompariranno e che la liberalità del Re dei cieli potrà far passare gli ultimi ai primi posti, cosicché coloro che già erano primi diventeranno ultimi”. Amen.

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15.19 – LASCIARE E SEGUIRE (Matteo 19.27-30)

15.19 – Lasciare e seguire (Matteo 19.27-30)

 

 27Allora Pietro gli rispose: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa dunque ne avremo?». 28E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: voi che mi avete seguito, quando il Figlio dell’uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, alla rigenerazione del mondo, siederete anche voi su dodici troni a giudicare le dodici tribù d’Israele. 29Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna. 30Molti dei primi saranno ultimi e molti degli ultimi saranno primi.

 

Il discorso di Gesù sulle ricchezze da abbandonare si completa con le parole provocate da una domanda di Pietro, quello che più di tutti gli altri undici è sempre pronto a farsi domande e soprattutto a porle. Il confronto fra le versioni dei sinottici, poi, ci consentirà di effettuare delle interessanti applicazioni ed estensioni. L’Apostolo, tornando alle sue parole in questo episodio, non esprime dei dubbi sulle parole del Maestro, ma, consapevole di averlo seguito fin dall’inizio del Suo Ministero, (Marco 1.16), gli chiede “Ecco, noi abbiamo lasciati tutto e ti abbiamo seguito: che cosa ne avremo?”. La sua non è una domanda mossa da interesse “venale”, ma dettata da quel “tesoro nel cielo” che avrebbe avuto il ricco se avesse lasciato i suoi beni. In realtà anche le parole “questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile”, più che essergli oscure, non sapeva come connetterle a quanto era appena accaduto: quel ricco era andato via da poco, era appena stato detto che persone della sua categoria sarebbero entrate nel regno dei cieli con enorme difficoltà, ma l’apostolo aveva ben presente che lui e i suoi compagni da ormai circa tre anni avevano scelto di vivere diversamente e, quindi, “Che dunque ne avremo?” è la domanda che scaturisce dall’incapacità di trovare da solo una risposta. Anche noi dovremmo fare la stessa cosa, cioè chiedere a Nostro Signore, attraverso il suo Santo Spirito, di illuminarci quando non capiamo, di aiutare la nostra intelligenza spirituale impossibile a gestire con le nostre forze o possibilità umane.

A questo punto, armonizzando i testi, la risposta di Gesù è doppia nel senso che riguarda da un lato i dodici, dall’altro gli altri discepoli, compresi quelli che verranno dopo di loro. I primi avranno un posto elevatissimo “alla rigenerazione del mondo”, termine che il tutto il Nuovo Testamento si trova solo anche in Tito 3.5: “Egli ci ha salvati non per opere giuste da noi compiute, ma per la sua misericordia, con un’acqua che rigenera e rinnova nello Spirito santo”, chiaro riferimento alla nuova nascita, a quell’essere “nati di acqua e di spirito” che costituisce l’unica condizione per entrare nel regno di Dio (Giovanni 3.5).

Ecco allora che con “rigenerazione del mondo” Gesù parla non di quello che conosciamo, ma di una trasformazione che inizierà col Millennio, quando Satana sarà “legato” e si concluderà con la realizzazione di Apocalisse 21.1-5: E vidi un cielo nuovo e una terra nuova: il cielo e la terra di prima infatti erano scomparsi e il mare non c’era più. E vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii allora una voce potente, che veniva dal trono e diceva: «Ecco la tenda di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio. E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate»”.

Altro dettaglio Gesù lo dà con le parole “Quando il Figlio dell’uomo sarà seduto sul trono della sua gloria”, cioè quando sarà visibile a tutti come tale, non nella Gloria di Dio Padre nella quale è ora e fu visto dai profeti. L’oggi, in cui si nega l’esistenza di Gesù anche solo come personaggio storico, è l’illusione, la finzione, la fede nelle proprie possibilità e nient’altro, ma in quanto “oggi” è destinato inevitabilmente a finire: Quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita? O che cosa un uomo potrà dare in cambio della propria vita? Perché il Figlio dell’uomo sta per venire nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e allora renderà a ciascuno secondo le sue azioni” (Matteo 16,27).

Ancora Matteo (25.31,33) chiarisce ulteriormente il concetto: “Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra”.

Ebbene, nel nostro passo Gesù dà un’importante notizia ai suoi che ribadirà poi più avanti con le parole “Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove e io preparo per voi un regno, come il Padre mio l’ha preparato per me, perché mangiate e beviate alla mia mensa nel mio regno. E siederete in trono a giudicare le dodici tribù d’Israele” quando, in 1 Corinti 6.2,3 l’apostolo Paolo sostiene “Non sapete che i santi giudicheranno il mondo? E se siete voi a giudicare il mondo, siete forse indegni di giudizi di minore importanza? Non sapete che giudicheremo gli angeli? – quelli che hanno seguito Lucifero – Quanto più le cose di questa vita!”.

Abbiamo quindi due compiti: gli apostoli, ebrei, che perseverarono con lui nelle sue prove, giudicheranno “le dodici tribù d’Israele” proprio in quanto appartenenti allo stesso popolo, gli altri, i credenti, i santi, “giudicheranno il mondo” perché si saranno da lui separati e non avranno voluto condividere i suoi metodi, ideali, morale.

 

Dopo il messaggio specifico, individuale diretto ai dodici – ricordiamo che Giuda verrà sostituito da Mattia, (Atti 1.26) –, abbiamo quello diretto a “chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome”. All’elenco Luca aggiunge la moglie. Sul significato del verbo “lasciare” sono state spese molte parole, ma qui credo che vada inserito un aggiornamento, fermo restando che il senso, come per le ricchezze, è che tutto quanto elencato non deve diventare un pensiero dominante a tal punto da oscurare il servizio e, se così accade, va abbandonato. Ad esempio Pietro, che certamente lasciò ciò che aveva, portò con sé la moglie nel suo ministero, come sappiamo da Paolo che scrive “Non abbiamo noi – plurale che interessa gli apostoli – il diritto di portare con noi una donna credente, come fanno anche gli altri apostoli e i fratelli del Signore e Cefa?” (1 Corinti 9.5).

Lasciare “per il mio nome” significa, fatti gli stessi calcoli per la costruzione della torre recentemente citata a proposito dello studio sul matrimonio, porsi nelle condizioni di abbandonarsi a Lui in quanto realmente chiamati a svolgere un compito per cui il doversi occupare di “case, fratelli, sorelle, padre, madre, figli o campi” risulterebbe di intralcio. Questo naturalmente esclude i doveri di assistenza perché un “lasciare” a senso unico, perché colti da misticismo o da un senso religioso facili si ritorcerebbero contro colui che così agisce: infatti 1 Timoteo 5.8 riporta “Se poi qualcuno non si prende cura dei suoi cari, soprattutto quelli della sua famiglia, costui ha rinnegato la fede ed è peggiore di un infedele”. Ecco perché chi “lascia” senza una chiamata ben precisa di Dio si assume un’enorme responsabilità coi quali si ritroverà presto o tardi a fare i conti.

Appare chiaro allora che tutto deve venire svolto sotto l’insegna dell’equilibrio e che non si può all’improvviso abbandonare non tanto gli averi materiali, ma le persone a noi vicine a meno che, come detto e vedremo, non costituiscano un vincolo che impedisce il servizio cristiano se c’è una chiamata in proposito. Anche qui, sbaglieremmo a cercare grandi cose, grandi strade, compiti: tutto parte dall’obiettività, come ad esempio scrisse Paolo parlando della sua condizione di fariseo, di appartenente alla tribù di Beniamino e di scrupoloso osservante la Legge di Mosè: “Queste cose, che per me erano guadagni – ecco un’altra forma di ricchezza –, io le ho considerate una perdita a morivo di Cristo. (…) Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo” (Filippesi 3.7,8). Quello fu il punto di partenza dell’apostolo; pensiamo che abbandonò la grande considerazione che godeva fra i Giudei. Poi vennero le rinunce a tutto il resto, i viaggi, le persecuzioni e le liberazioni di Dio.

“Lasciare”, se è un’azione che viene svolta correttamente, è un atto di profonda maturità e fede che, come nel caso di Abramo, il primo che mise in pratica questo verbo dietro espressa chiamata di Dio, non può che portare a benedizioni: “Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò. Farò di te una grande nazione e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e possa tu essere una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò, e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra” (Genesi 12.1-3).

Sempre parlando di Antico Patto ricordiamo la figura dei leviti, cui era demandato il servizio di cantare, suonare e assistere i sacerdoti oltre al trasporto dell’Arca dell’Alleanza: di Levi, loro capostipite, Mosè dice “…lui che dice del padre e della madre: «Non li ho visti», che non riconosce i suoi fratelli e ignora i suoi figli (…), benedici, Signore, il suo valore e gradisci il lavoro delle sue mani” (Deuteronomio 33.7-10). E se volessimo domandarci cosa significa tutto questo per noi oggi possiamo rifarci al fatto che, semplicemente, non siamo più del mondo e quindi ci troviamo in una condizione in cui il suo abbandono è l’unica scelta possibile: “Se il mondo vi odia, sappiate che prima ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma vi ho scelti io dal mondo, per questo lui vi odia” (Giovanni 15.18,19). Partendo da questo principio, ogni cosa viene da sé.

Credo che non esista credente che non abbia abbandonato qualcosa e dobbiamo tenere sempre presente che ogni discorso di Gesù porta sempre con sé affermazioni che vanno interpretate alla condizione della persona e alla realtà in cui si trova e al fatto che, come già riportato altrove, dobbiamo “accomodarci alle cose basse”, al “poco” perché ci venga affidato il “molto”, altrimenti saremmo come quelli che, anziché procurarsi uno sviluppo muscolare armonico con allenamento e fatica, si gonfiano di anabolizzanti ottenendo risultati molto discutibili. La stessa cosa si verifica in ambito spirituale.

Restano da esaminare le ultime parole di Gesù, quelle che riguardano gli effetti dell’abbandono, ma mancando lo spazio, sarà argomento del prossimo capitolo.

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15.16 – MATRIMONIO E CELIBATO (Matteo 19.10-12)

15.16 – Matrimonio e celibato (Matteo 19.10-12)

 

10Gli dissero i suoi discepoli: «Se questa è la situazione dell’uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi». 11Egli rispose loro: «Non tutti capiscono questa parola, ma solo coloro ai quali è stato concesso. 12Infatti vi sono eunuchi che sono nati così dal grembo della madre, e ve ne sono altri che sono stati resi tali dagli uomini, e ve ne sono altri ancora che si sono resi tali per il regno dei cieli. Chi può capire, capisca».

 

“Due facce della stessa medaglia” potrebbe essere il sottotitolo a queste riflessioni. Se il tema del matrimonio è molto complesso, quello del celibato, stando a quanto abbiamo letto, lo è altrettanto perché i discepoli, udite le parole del loro Maestro, si sentirono profondamente coinvolti in quanto molti di loro erano sposati: per l’ebraismo, come già ricordato, l’età del matrimonio per l’uomo era di 18 anni, 16 per la donna. Parlando poi dell’età necessaria per poter contrarre matrimonio, va detto che chi arrivava a 20 senza sposarsi era visto con sospetto che si annullava solo se questa persona si dava totalmente agli studi della Torà. Celibato e ascetismo erano eventi molto rari e la stessa lettura della Bibbia lo conferma. Gli insegnamenti rabbinici al riguardo, poi, tendono a vedere questa condizione come qualcosa di innaturale: “Non è chi si sposa a commettere il peccato: il peccatore è l’uomo non sposato che spende tutti i giorni in pensieri peccaminosi. Il matrimonio non serve solo a raggiungere l’amicizia e a procreare, ma realizza un individuo come persona. Entrambi gli sposi concorrono ad innalzare l’unione a livelli superiori per mezzo della mutua considerazione e del rispetto”.

Ora i discepoli, che consideravano sacro il vincolo matrimoniale ma fino a un certo punto perché avevano sempre il divorzio come via di uscita – e gli ebrei ne andavano fieri perché, secondo loro, era qualcosa che Dio aveva concesso solo al Suo popolo –, quando Gesù ebbe finito di rispondere ai Giudei furono molto stupiti delle Sue parole e conclusero che “Se – quindi formula dubitativa – è questa la situazione dell’uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi”. In pratica, i discepoli stentavano a credere che il divorzio non fosse quella pratica che intendevano, cioè un espediente a favore dell’uomo che, quando voleva liberarsi della donna per un motivo o per l’altro, poteva farlo e quindi, se così non poteva essere, era meglio restare senza vincoli.

A questo punto Gesù torna nuovamente a correggere il pensiero appena espresso, “non conviene sposarsi”, non contestando l’idea come aveva appena fatto col divorzio, ma dicendo “Non tutti capiscono questa parola – meglio “questo detto”, cioè il concetto appena espresso –, ma solo coloro ai quali è stato concesso”.

Da queste brevi parole possiamo effettuare alcune considerazioni: primo, “capire” forma un tutt’uno col mettere in pratica, non essendo possibile il celibato per tutti. Secondo, questo stato è qualcosa che “è stato concesso” come un dono, talché la traduzione più appropriata sarebbe “ma solo coloro ai quali è stato dato”. E comunque già l’avverbio “solo” allude a un restringimento di campo per cui, guardando le due condizioni opposte viste nello sposarsi o essere celibi, è innegabile che sia la prima condizione quella più naturale nonostante l’obbligo alla fedeltà e dell’impossibilità del divorzio tranne nel caso di fornicazione o adulterio.

Il celibato, quindi, è un dono e come tale va considerato e vissuto, è inutile praticarlo se non lo si possiede perché altrimenti, come per tutti gli altri doni, la persona si imbatterebbe altrimenti in seri disturbi mentali o, in questo caso, della sfera sessuale come possiamo constatare pressoché ogni giorno dalle cronache, quando leggiamo degli abusi praticate da vari sacerdoti della Chiesa di Roma e non solo. L’assenza della controparte femminile, non porta a una vita serena ed equilibrata per chi non ha il dono di cui trattiamo.

Come il matrimonio, il celibato non può essere imposto come condizione per accedere a compiti “più alti” nel senso che non è condizione migliore di servizio, ma indica una diversa espressione del proprio dare anche se, come vedremo, esiste un distinguo.

Al verso 12 Gesù parla di “eunuchi”, cioè persone che non sono in grado di procreare o di avere un rapporto sessuale e quindi non hanno interesse per il sesso opposto. Questo “non essere in grado” è riferito a una condizione di asessualità in cui il desiderio è del tutto assente; chi la vive considera il sesso come una perdita di tempo, qualcosa di noioso, lo paragona al mangiare senza sentire fame e se ne astiene in modo del tutto volontario e senza sforzo.

La prima delle categorie elencate è quella degli “eunuchi che sono nati così dal grembo della madre”, riferimento a quanti nascono privi delle ghiandole sessuali. La seconda riguarda coloro che “sono stati resi tali dagli uomini”, pratica barbara e crudele che consisteva nella castrazione che rendeva quelli parzialmente o completamente incapaci di attività sessuale, mentre la terza è riferita a quanti “si sono resi tali per il regno dei cieli”, cioè hanno rinunciato a questo tipo di espressione del loro corpo senza – attenzione – che questa presentasse per loro un problema determinante nei loro rapporti interpersonali. In altri termini, in questo caso, si tratta di persone che non soffrono per questa astinenza preferendo la castità non andandosi ad indentificare nei verbi “bruciare” o “non dominarsi” di cui parla l’apostolo Paolo in 1 Corinti 7.9, “Ai non sposati e alle vedove dico: è cosa buona per loro rimanere come sono io – cioè celibe –; ma se non sanno dominarsi, si sposino: è meglio sposarsi, che bruciare – dal desiderio –“.

Il matrimonio, infatti, fermo restando tutto quanto è stato detto finora, nella dispensazione della grazia non è più e non è tanto un’istituzione tesa alla procreazione – fatta di comune accordo e in base alla naturale tendenza ad allevare una prole –, ma ad evitare la fornicazione, cioè un uso libero del proprio corpo con chiunque per soddisfarsi: “Riguardo a ciò che mi avete scritto – perché la Chiesa di Corinto risentiva della filosofia greca in merito –, è cosa buona per l’uomo non toccare donna, ma, per evitare la fornicazione, ciascuno abbia la propria moglie e ogni moglie il proprio marito” (ibidem, 7.1). Certo qui Paolo parla del corpo, ma non per questo sostiene che non siano necessari la compatibilità interpersonale e comunione d’intenti e progetti.

L’astinenza dai rapporti sessuali e quindi il celibato, sono da preferirsi al matrimonio a condizione che l’uomo o la donna non avvertano dentro di sé quegli stimoli che, in assenza di marito o moglie, li porterebbero a trasgredire il comandamento di Dio in merito alla purezza del proprio corpo: “Non sapete voi che i vostri corpi sono membra di Cristo? Prenderò dunque le membra di Cristo e ne farò membra di una prostituta? Non sia mai! Non sapete che chi si unisce a una prostituta forma con essa un corpo solo? I due, è detto, diventeranno una sola carne. Ma chi si unisce al Signore firma con lui un solo spirito. State lontani dall’impurità! Qualsiasi peccato l’uomo commetta, è fuori dal suo corpo; ma chi si dà all’impurità, pecca contro il proprio corpo. Non sapete che il vostro corpo è il tempio dello Spirito Santo, che è in voi? Lo avete ricevuto da Dio e voi non appartenete a voi stessi. Infatti siete stati comprati a caro prezzo: glorificate dunque Dio nel vostro corpo!” (1 Corinti 6.15-20).

Da queste importanti parole rileviamo allora che il nostro essere fisico non ci appartiene esclusivamente come un tempo, quando facevamo di lui quello che volevamo, ma è destinato al pari dell’anima alla resurrezione, per cui Dio ha riscattato l’una e l’altro. Peccare “fuori dal corpo” succede tutti i giorni, ma “contro il proprio corpo” richiede una volontà precisa e crea una situazione che coinvolge profondamente in negativo l’anima, la psiche della persona, creando così una grave dicotomia fra l’essere di Cristo e di un individuo che non è quello con cui si è creato un rapporto duraturo di fedeltà attraverso il matrimonio.

Che il celibato, al pari del matrimonio, sia una libera scelta lo troviamo sempre nella stessa lettera ai Corinti quando leggiamo “Vorrei che tutti fossero come me – cioè celibe –; ma ciascuno riceve il proprio dono, chi in un modo, chi in un altro” (7.7).

Questo verso trova due motivazioni essenziali la prima delle quali è in vista nelle persecuzioni alle quali erano già sottoposte i primi cristiani che erano sentite in maniera più grave e angosciosa in quelli che avevano famiglia; la seconda, di ordine pratico-spirituale, è che il celibe sarebbe stato più propenso, in quanto libero da vincoli sentimentali e fisici, a dedicarsi interamente al Servizio. Infatti: “Penso che sia bene per l’uomo, a causa delle presenti difficoltà – quelle di cui è stata fatta menzione poc’anzi –, rimanere com’è. Ti trovi legato a una donna? Non cercare di scioglierti. Sei libero da donna? Non andare a cercarla. Però se ti sposi non fai peccato; e se la giovane prende marito, non fa peccato. Tuttavia costoro avranno tribolazioni nella propria vita – altri traducono “carne”ed io vorrei risparmiarvele” (7.26-28).

La seconda motivazione a favore del celibato, sempre nello stesso capitolo, la rileviamo in queste parole: “io vorrei che foste senza preoccupazioni: chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore; chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie, e si trova diviso! Così la donna non sposata, come la vergine, si preoccupa delle cose del Signore, per essere santa nel corpo e nello spirito; la donna sposata si preoccupa invece delle cose del mondo, come possa piacere al marito. Questo io lo dico per il vostro bene: non per gettarvi un laccio, ma perché vi comportiate degnamente e restiate fedeli al Signore, senza deviazioni” (7.32-35).

Prestiamo bene attenzione: qui l’apostolo parla di persone a parità di intenzioni di servire il Signore dando se stessi completamente ed è chiaro che l’essere senza un compagno/a non comporta l’osservanza di varie incombenze cui sono sottoposti coloro che l’hanno. “Come piacere alla moglie” (o al marito) non è un riferimento alla vanità del vestire o al truccarsi, ma a quell’accomodarsi l’uno all’altro che in alcuni casi può andare a ridurre la disponibilità per l’altrui. È chiaro dal contesto che la preferenza per il celibato è teorica, perché altrimenti il ministero sarebbe stato non consentito agli sposati.

Nota conclusiva al riguardo è “Chi può capire, capisca”, originale “ricevere”, che altre versioni hanno “Chi è capace di queste cose, lo sia”. Entrambe le versioni mettono in condizione gli uditori di riconoscersi o meno in quelle parole e mettere in pratica. È un invito a porsi, come sempre di fronte alla Parola ed esaminare se stessi per scegliere la condizione in cui vivere: tanto il matrimonio che il celibato non sono imponibili, come da 1 Timoteo 4.3: “…a causa dell’ipocrisia di impostori, già bollati a fuoco nella loro coscienza: gente che vieta il matrimonio e impone di astenersi da alcuni cibi che Dio ha creato perché i fedeli, e quanti conoscono la verità, li mangino rendendo grazie. Infatti ogni creazione di dio è buona e nulla va rifiutato, se lo si prende con animo grato, perché esso viene reso santo dalla parola di Dio e dalla preghiera”.

Parlando delle donne giovani che hanno perso il marito, poi, in 5.14, “Desidero quindi che le più giovani si risposino, abbiano figli, governino la loro casa, per non dare ai vostri avversari alcun motivo di biasimo”.

Matrimonio e celibato, quindi, sono condizioni di vita che vanno praticate con intelligenza e da persone che, se non mature, abbiano almeno chiaro il loro progetto di vita.

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15.14 – MATRIMONIO E DIVORZIO II/III (Matteo 19.3-9)

15.14 – Matrimonio e divorzio II/III (Matteo 19.3-9)

 

3Allora gli si avvicinarono alcuni farisei per metterlo alla prova e gli chiesero: «È lecito a un uomo ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo?». 4Egli rispose: «Non avete letto che il Creatore da principio li fece maschio e femmina 5e disse: Per questo l’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne? 6Così non sono più due, ma una sola carne. Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto». 7Gli domandarono: «Perché allora Mosè ha ordinato di darle l’atto di ripudio e di ripudiarla?». 8Rispose loro: «Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli; all’inizio però non fu così. 9Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di unione illegittima, e ne sposa un’altra, commette adulterio».

 

Dato qualche cenno in più sul matrimonio e il divorzio ai tempi di Gesù, in questa seconda parte si cercherà di studiare le sue parole. Il verso 4 inizia con “Egli rispose”: non è una semplice cronaca, ma sta a indicare “Egli parlò così”, cioè l’AMEN, l’IO SONO partecipe e, sotto l’aspetto della Parola, motore della Creazione, sta per enunciare quando da Lui stesso vissuto essendo presente ad essa. Quanto Gesù sta per dire non è il frutto di una vita passata a studiare la Torà come i vecchi, umanamente autorevoli maestri del tempo, ma la Verità totale proveniente dal Testimone che troviamo in Giovanni 1.3, “Tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste”.

Il verso prosegue con una forma interrogativa di rimprovero di fronte alla cecità del Suo uditorio che, seguendo la tradizione, poneva tutta la sua attenzione al meccanismo del divorzio anziché alla sacralità del matrimonio. “Non avete letto che il Creatore – che mise la sua intelligenza nella Sua opera – che da principio fece ogni cosa – parole che nella nostra versione mancano – fece gli uomini maschio e femmina?”: Gesù quindi ricorda che, prima di creare l’uomo, il Padre “da principio fece ogni cosa”, quindi tutti i giorni precedenti (ere) della creazione in cui si dedicò alla realizzazione dell’Universo e della Terra, dal firmamento all’asciutto e da lì ai componenti del regno vegetale e animale per poi arrivare, al sesto, all’uomo.

È interessante notare che, per vegetali e animali, il sesso era già stabilito nel senso che furono così creati, mentre per l’uomo vi fu un passaggio in più, cioè “…l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli animali selvatici, ma per l’uomo non trovò un aiuto che gli corrispondesse”. Di qui la creazione della donna che fu sì realizzata da una costola di Adamo, ma venne dotata di personalità autonoma per cui, in quel crearli “maschio e femmina”, oltre a realizzarsi il fatto che Adamo finalmente trovò una creatura che gli corrispondesse e che potesse frequentare, riconobbe in lei una parte importante di se stesso, un simile: “Questa volta è osso delle mie ossa, carne della mia carne. La si chiamerà donna – isha – perché dall’uomo è stata tolta”. Tra l’altro la parola che tutte le versioni traducono con “costola”, originale “Tselàh” significa anche “un fianco, una parte”, quindi una metà che è stato supposto essere il cromosoma X, tolto dall’uomo e subito duplicato in lui. Le cellule della donna, infatti, contengono due cromosomi X e nessun Y, il DNA dell’essere umano donna è infatti costituito da coppie XX.

Se nel creare animali e piante differenziandoli per sesso il fine era quello riproduttivo, nel caso dell’uomo quel “maschio e femmina” era riferito alla comunicazione, a una visione d’insieme, alla stessa comune progettualità, comunione e intenti che avrebbero poi dovuto essere alla base del matrimonio anche nel territorio purtroppo contaminato dal peccato. Nelle origini tanto Adamo quando Eva dovevano caratterizzarsi attraverso un dono continuo di sé l’uno per l’altro in un’armonia che si risolvesse al tempo stesso verso loro stessi e Dio anche se, dopo, una volta introdotti nell’ambiente nuovo, a loro ostile, al di fuori di Eden, tutto si fece enormemente più complicato. Adamo, nonostante avesse anche lui la sua parte di colpa, non si fidava più della moglie.

 

L’uomo e la donna sarebbero divenuti “una sola carne” cioè “non più due – cioè ciascuno con una propria personalità – ma uno solo” e questa unicità è espressa poi, molto tempo dopo, da Malachia (2.13-16) che, parlando proprio di questa unione, scrive “Un’altra cosa fate ancora: voi coprite di lacrime, pianti e sospiri l’altare del Signore, perché egli non guarda all’offerta né accetta con benevolenza dalle vostre mani. E chiedete. «Perché?». Perché il Signore è testimone fra te e la donna della tua giovinezza, che hai tradito, mentre era la tua compagna, la donna legata a te da un patto. Non fece egli un essere solo dotato di carne e soffio vitale? Che cosa cerca quest’unico essere, se non prole da parte di Dio? Custodite dunque il vostro soffio vitale e nessuno tradisca la donna della sua giovinezza. Perché io detesto il ripudio, dice il Signore, Dio d’Israele, e chi copre d’iniquità la propria veste, dice il Signore degli eserciti. Custodite dunque il vostro soffio vitale – cioè la vostra anima – e non siate infedeli”.

In questo verso vediamo l’ultima espressione: “Custodire” che significa “sorvegliare qualcosa con attenzione e cura in modo che non subisca danni e si conservi intatto”. Questa azione, nel matrimonio è reciproca, ciascuno deve vigilare affinché l’altro non cada e tutto questo non ha nulla a che fare con la gelosia, quel sentimento che provano i bambini o gli adulti non cresciuti con effetti devastanti, ma è l’amore, l’interesse profondo che una persona, maschio o femmina, prova per la sua controparte. L’amore spesso è confuso col sentimento, ma fondamentalmente è scelta, dono reciproco di sé, occuparsi della persona (che si è responsabilmente scelti) per tutta la vita in un reciproco, identico scambio.

Nelle parole di Gesù, poi, c’è un monito molto importante, cioè “ciò che Dio ha unito, l’uomo non lo separi”, due volontà a confronto: nel momento in cui uomo e donna si uniscono, è Lui il testimone. È una frase che inutilmente cercheremmo, così espressamente dichiarata, negli scritti dell’Antico Patto, che ci rivela che chi vuol separare le due persone fatte una, con il divorzio e una successiva nuova unione, si pone in antitesi a Dio che del matrimonio è testimone e artefice al tempo stesso.

Può sorgere a questo punto una questione, e cioè se quanto detto da Gesù riguardi gli ebrei, stante che il nostro passo appartiene a Matteo che scrive per loro, oppure no e la risposta non può essere che negativa, poiché di questo riferisce anche Marco (10.1-12, “L’uomo non divida ciò che Dio ha congiunto”. Se mai, l’intervento di Nostro Signore fu limitato alla domanda dei farisei in merito al matrimonio e divorzio così come da loro inteso, e fu aggiornato dall’apostolo Paolo grazie alle domande che le varie Chiese gli sottoponevano per cui, per avere un’idea chiara del tema, andrebbe affrontato alla luce del suo insegnamento in cui distingue nettamente ciò che è propria opinione da quello che è quanto ricevuto da Gesù in persona, in spirito.

Il tema del matrimonio si conclude al verso 9, “Ma io vi dico”, “Io” quale inviato dal Padre per rivelare la Sua volontà perché “Tutto è stato dato a me dal Padre mio e nessuno sa chi è il Figlio se non il Padre, né chi il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo” ( Matteo 11.27; Luca 10.22). “Chiunque ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, se non in caso di unione illegittima – o meglio “fornicazione” – e ne sposa un’altra, commette adulterio”, frase – attenzione – per chi già ha a che fare con Dio, sia esso ebreo o cristiano, rivolta a chi a Lui appartiene, perché per chi si ritrova in questa condizione prima di convertirsi viene purificato da un peccato che non sapeva di commettere.

Ancora una volta entriamo in un territorio molto delicato, perché occorre definire la fornicazione, termine dal significato poco conosciuto che il greco indica con “pornèia”, cioè prostituzione, fornicazione, lussuria. Da lì vengono “pornèion”, postribolo, e “pornéuo”, esercitare la prostituzione. Tutti queste parole hanno come significato alternativo attività idolatre che nel nostro caso non rilevano, ma tornano utili per identificare altri contesti. Il termine “fornicazione” trae la sua origine anche dalla parola “fornix”, cioè “fornice”, vale a dire la luce di un arco o di una porta monumentale, sotterraneo a volta sotto le quali le prostitute erano solite sostare nell’attesa di clienti, ma anche bordello, quindi allusione a rapporti sessuali con persone diverse dal proprio marito o dalla propria moglie, quindi, per estensione, un’attività sessuale disordinata. L’ebraico ha zenùt, riferito a rapporti incestuosi.

Certo Gesù qui parla della donna perché il tema era il divorzio ebraico che era prerogativa dell’uomo, ma adattata al nostro tempo vale per entrambe le parti: nel caso della fornicazione, che comprende anche l’adulterio, abbiamo un colpevole e un innocente, cioè chi la pratica all’insaputa dell’altro e, così facendo, rompe, rovina quell’equilibrio della “sola carne” realizzatosi a suo tempo col matrimonio. A quel punto, la parte innocente è libera davvero di attuare le pratiche per il divorzio e quindi, se lo vuole, risposarsi proprio perché non è stata lei a rompere l’istituzione matrimoniale. Stiamo parlando di questioni legali quali erano quelle portate a Gesù all’epoca dai farisei e dell’interpretazione delle due scuole.

Resta quindi aperto il problema di definire la fornicazione, perché se fosse sinonimo di adulterio la lettera di divorzio non avrebbe avuto senso in quanto la donna sarebbe stata condannata per lapidazione unitamente al proprio correo, se trovato: non trovo altri termini se non assimilando la fornicazione a pratiche estranee al matrimonio che hanno appunto a che fare con una sua contaminazione che, proprio in quanto patto tra due persone e Dio – stiamo parlando di appartenenti al Suo popolo sia prima che dopo la dispensazione della Grazia – lo rende nullo davanti a Lui.

La fornicazione è disordine e sconvolgimento così come la prostituzione che, benché si caratterizzi con atti sessuali di vario tipo e natura, non può essere considerata adulterio perché altrimenti le prostitute in Israele sarebbero state tutte lapidate, mentre erano, per usare un eufemismo, ai margini della società. La stessa Legge di Mosè (Deuteronomio 23.17) proibisce decisamente la prostituzione sacra, ma nulla dice di quella “normale” mentre lo stesso libro, in 22.21, afferma che debba essere lapidata la giovane che, al momento del matrimonio, risulta non vergine. Si tratta di un tema che a tutt’oggi non ho saputo completamente risolvere nonostante la consultazione di molti testi e pareri.

A questo punto la conclusione di Gesù è la stessa di 5.32, “Chiunque manda via sua moglie, tranne che nel caso di fornicazione, commette adulterio; ed altresì chi sposa colei che è mandata via, commette adulterio”. Non potrebbe essere diversamente perché, nel caso di un unione non inquinata dalla fornicazione, i due sono e restano una sola carne davanti a Dio indipendentemente dai motivi che producono il divorzio. Stessa cosa la riporta Luca in 16.18 a conferma che il principio è valido per tutti e non si tratta solo di una risposta alla dottrina ebraica sul matrimonio.

Se guardiamo però al divorzio, vediamo che non è permesso allo scopo di sposare una terza persona, ma può realizzarsi a condizione che le parti si astengano da altre unioni. Sarà l’apostolo Paolo a definire il tema scrivendo: “Agli sposati ordino, non io, ma il Signore: la moglie non si separi dal marito. E qualora si separi, rimanga senza sposarsi, o si riconcili col marito. E il marito non ripudi la moglie” (1 Corinti 7.10). Da notare che nel testo originale si parla ancora una volta di “uomo” e “donna” e che ciò che è scritto per uno vale anche per l’altro.

Resta il fatto che il divorzio è e rimane uno squilibrio che interviene, quando non causato da una “unione illegittima”, come risultato di una serie di circostanze non ponderate a suo tempo che finiscono per penalizzare e inquinare profondamente un rapporto il più delle volte gestito lasciandolo lo Spirito fuori dalla porta.

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15.13 – MATRIMONIO E DIVORZIO I/III (Matteo 19.3-9)

15.13 – Matrimonio e divorzio I/III (Matteo 19.3-9)

 

3Allora gli si avvicinarono alcuni farisei per metterlo alla prova e gli chiesero: «È lecito a un uomo ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo?». 4Egli rispose: «Non avete letto che il Creatore da principio li fece maschio e femmina 5e disse: Per questo l’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne? 6Così non sono più due, ma una sola carne. Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto». 7Gli domandarono: «Perché allora Mosè ha ordinato di darle l’atto di ripudio e di ripudiarla?». 8Rispose loro: «Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli; all’inizio però non fu così. 9Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di unione illegittima, e ne sposa un’altra, commette adulterio».

 

Dopo aver sostato per un certo tempo sul Vangelo di Luca, occorre affrontare un tema che, dal racconto degli altri sinottici, sappiamo fu affrontato da Gesù in quello stesso giorno, ma prima della presentazione dei bambini. Per quanto al tema del matrimonio e del divorzio siano stati dedicati diversi capitoli a commento di Matteo 5.31-32, torniamo sull’argomento data la sua vastità e il fatto che Gesù stesso ricorda il tema anche se dietro domanda di “alcuni farisei per metterlo alla prova”.

Prima considerazione va fatta richiamando le differenze tra il sermone sul monte e questo episodio:  allora Gesù, ammaestrando la folla, fece un discorso a 360 gradi fra i molti princìpi dati per scontati dal popolo e i suoi capi e la Verità secondo Dio: in quell’episodio, infatti, contiamo complessivamente dodici “ma”, due “eppure”, sette “invece” e quattordici “Io vi dico” per un totale di 35 (5×7) nuovi enunciati. Nel sermone sul monte, poi, l’insegnamento sul matrimonio fu libero, nel senso che fu Gesù a parlare in base a ciò che la folla aveva bisogno di ascoltare, mentre in questo episodio abbiamo una risposta a una questione posta con un fine preciso, quello di “metterlo alla prova”, o “tentarlo” come altri traducono.

In pratica i farisei volevano costringere Gesù a dichiarare valida una delle teorie delle due scuole rabbiniche più autorevoli del tempo, quella di Shammai e di Hillel che, ricordiamo, davano interpretazioni opposte a Deuteronomio 24.1 che recita: “Quando un uomo ha preso una donna e ha vissuto con lei da marito, se poi avviene che ella non trovi grazia ai suoi occhi, perché egli ha trovato in lei qualche cosa di vergognoso, scriva per lei un libello di ripudio e glielo consegni in mano e la mandi via dalla casa”.

La scuola di Shammai, per “qualche cosa di vergognoso”, sosteneva che altro non poteva essere se non l’adulterio, cioè la contaminazione del corpo della donna (o dell’uomo) tramite un rapporto sessuale con persona diversa dal proprio marito; per l’altra scuola, invece, il “vergognoso” poteva avere più significati in quanto il testo della Torah non specificava di cosa effettivamente si trattasse. Allora, come ricordato quando trattammo l’argomento in Matteo 5, l’interpretazione di quel passo era in senso molto più largo, riferito a qualunque cosa fosse sconveniente nella vita familiare o civile: una minestra bruciata, un brutto carattere o addirittura, come sosteneva Rabbi Aqiba, il disagio provato dal marito di una moglie meno bella di un’altra donna.

Ora che questi farisei appartenessero a una scuola piuttosto che all’altra, non rileva perché comunque, se Gesù avesse dato ragione a una delle due, avrebbero potuto accusarlo di faziosità, di rigidità o tolleranza, schierandosi immediatamente dalla parte della scuola ritenuta in torto. L’ignoranza da sempre è astuta, mai intelligente.

A questo punto vediamo che Gesù si esenta dal giudicare il risultato delle riflessioni dei vari maestri, ma fa l’unica cosa possibile e cioè va alle origini, dove tutto cominciò e si svolgeva nella perfetta dispensazione dell’innocenza nella quale vivevano i nostri progenitori, citando Genesi 1.27 in cui leggiamo “E Iddio fece l’uomo a sua immagine – spirituale –; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò.”, verso che riassume tutte le fasi della sua creazione, Adamo prima, poi Eva, tratta da lui.

 

Ecco, già qui c’è  molto da ragionare perché quel “li” allude all’essere umano integro, vale a dire che se prima c’era Adamo da solo e poteva definirsi “uomo”, “ish”, lo stesso avvenne poi, con la donna, “isha” non creata dalla polvere della terra, ma formata: “Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e rinchiuse la carne al suo posto” (Genesi 2.21). Quella fatta sull’uomo fu la prima operazione chirurgica della storia in cui Dio fu anche l’anestesista e il rianimatore. Da allora i termini “uomo” e “donna”, che per noi sono due parole diverse ma come abbiamo visto in ebraico hanno la stessa radice, furono comunque riuniti sotto il primo, “a immagine di Dio lo creò”, cioè senza nulla di diverso a parte il sesso e il differente criterio di formazione. Tutte le altre caratterizzazioni, le divisioni, il reciproco fidarsi o meno, il voler dominare e interferire l’uno sull’altro spesso senza capirsi, avverranno dopo, come conseguenza dell’aver trasgredito all’unico comandamento ricevuto.

A parte le infinite considerazioni fattibili che rendono molto arduo uno studio sul tema, le scuole rabbiniche riguardo al matrimonio usano il termine “qiddushìm”, cioè “consacrazione”, plurale di “qiddùsh” che indica alcuni riti come ad esempio il lavaggio di mani e piedi richiesto ai sacerdoti prima di fare servizio nel luogo Santo, o la consacrazione del sabato. Già quindi la consacrazione è qualcosa che dura per sempre, un patto fra l’uomo e il Creatore, quindi che non coinvolge soltanto i due esseri umani che si donano vicendevolmente.

Così comprendiamo proverbi 30.18-20, “Tre cose mi sono difficili, anzi quattro, he io non comprendo: il sentiero dell’aquila nell’aria, il sentiero del serpente sulla roccia, il sentiero della nave in alto mare, il sentiero dell’uomo in una giovane”.

“Qiddushìm”, plurale di “qiddùsh”, è usato solo per  indicare il matrimonio che, negli scritti cosiddetti veterotestamentari, si suole definire anche con l’espressione giuridica “essere di”. Quindi, parlando di tradizione e di testo, se Gesù si rifà al verso di Genesi, altrettanto fecero gli antichi rabbini prima che si analizzasse il problema del divorzio.

 

Ancora, Gesù prosegue nella citazione di Genesi e attribuisce a Dio, e non ad Adamo come alcuni intendono, le parole “Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una stessa carne”. Anche qui si dovrebbe aprire un capitolo enorme, perché la Bibbia non ci dà delle indicazioni su come si concreta il matrimonio se non che questo si ufficializza una volta per tutte con la penetrazione, unico modo per diventare “una sola carne”.

Il problema però, guardando come questo si dipana nel Pentateuco o Torà, è che ci fu una evoluzione riguardo al modo di gestirlo, come si può riassumere con le parole di Maimonide, vissuto nel 1100 d.C.: “Prima che venisse data la Torà un uomo incontrava una donna per strada e, se lui e lei – attenzione – erano d’accordo che lui la prendesse, la portava a casa da lui e si univa a lei riservatamente e lei diveniva sua moglie. Quando fu data la Torà al popolo d’Israele fu ordinato che un uomo che volesse sposare una donna dovesse prima acquistarla davanti a testimoni, e dopo diventasse sua moglie”.

Scorrendo il libro della Genesi, anche nella dispensazione della coscienza, vediamo che inizia a diffondersi l’usanza di intendere il matrimonio come un atto formale sancito da un acquisto, cioè l’uomo pagava una famiglia per avere da questi una donna. Tracce di questa usanza sono molte, come quella di Genesi 34.12 nell’episodio di Dina e Sichem, quando leggiamo “Alzate pure molto a mio carico il prezzo nuziale e il valore del dono; vi darò quanto mi chiederete, ma concedetemi la giovane in moglie”. Chi conosce l’episodio sa che, a monte, vi è una violenza carnale, ma la frase citata rimane come testimonianza dell’uso di quel tempo (v.2).

Da qui iniziò a diffondersi il termine “prendere una donna”, tradotto in alcune versioni come “sposare” per brevità, ma non correttamente. Tra l’altro il testo di Deuteronomio 22.13 potrebbe aiutare a individuare il “qualcosa di vergognoso” su cui si interrogavano le due scuole citate all’inizio su 24.1, dove anche lì il “prendere” ha lo stesso significato: “Se un uomo prende una donna e, dopo essersi unito a lei, la prende in odio, le attribuisce azioni scandalose e diffonde sul suo conto una fama cattiva, dicendo: «Ho preso questa donna, ma quando mi sono accostato a lei non l’ho trovata in stato di verginità…».

 

Occorre però una precisazione fondamentale, perché vero è che il matrimonio era un contratto, che spesso erano le famiglie a organizzarlo, quanto dichiarano i rabbini moderni su questa antica usanza distrugge un’opinione diffusa, della quale mi sono appropriato per lungo tempo, che vede il tutto organizzato a prescindere dal fatto che i due futuri sposi fossero o meno d’accordo. Se le scuole di Hillel e Shammai dibattevano anche sull’importo della somma da versare quando l’uomo “acquistava” una donna dalla sua famiglia, perché l’atto matrimoniale fosse valido non era sufficiente il semplice versamento della somma, ma era necessario – attenzione – il pieno consenso degli sposi. Il carattere di acquisto era necessario perché senza di esso il matrimonio non poteva avere una struttura giuridica, ma la base era che fra il futuro marito e la futura moglie ci fosse consenso, progettualità comune, armonia e volontà di crescita spirituale.

Ma c’è molto di più perché l’insegnamento dei maestri al riguardo sosteneva che il matrimonio può essere descritto come una associazione fondata su un interesse reciproco. Maimonide, chiaramente venuto dopo il tempo in cui Gesù parlò ai farisei, vede questa istituzione come un’unione allo scopo di condividere problemi, piaceri, dispiaceri e gioie perché quando vengono condivise le gioie si moltiplicano e i dolori si dimezzano. Poi, il matrimonio è visto come la ricerca di ideali per i quali i coniugi sono disposti a sacrificarsi e solo quando c’è questa intesa è possibile creare una famiglia. Ci vuole poco a dedurre che, mancando questi presupposti, un matrimonio non ha ragione di essere ed è destinato alla rovina esattamente come “la casa costruita sulla sabbia” o il “regno diviso in parti contrarie”.

Di questo non troviamo traccia esplicita nella Bibbia, ma il fatto che gli ebrei, ai quali credo competa l’ultima parola in quanto detentori di un Libro che fu loro “dato” ed è studiato da millenni, si esprimano così su questo tema non può lasciare indifferenti. Allora, partendo da questo punto di armonia e condivisione necessaria, capiamo meglio perché, idealmente, dovesse essere e fosse un vincolo sacro.

Una triste nota a margine è che, purtroppo, mentre nel campo scientifico esistono testi che ribadiscono un concetto che è “quello”, studiare la Scrittura proficuamente non è facile nel senso che tutto va bene se un argomento viene affrontato su un solo testo, ma nel momento in cui lo si “parallelizza” si incontrano contraddizioni o variazioni sul tema a volte incompatibili tra loro. E questo affatica e snerva al tempo stesso chi studia e vorrebbe scavare con strumenti idonei e non con piccozze spuntate, per altro non da lui. Sapere per bocca di un rabbino che il matrimonio per procura indipendentemente dalla volontà degli sposi in Israele non era cosa praticata, mi ha costretto ad aggiornare molti dei dati che avevo costruito sul tema, sbagliando, per quanto in modo marginale. Il problema è che però, come credenti, non possiamo avere le idee vaghe, ma devono essere il più possibile nitide.

Riporto un passo tratto da un breve trattato al riguardo: “Formare una coppia ben assortita è difficile come aprire le acque del Mar Rosso e richiede l’infinita saggezza di Dio stesso. Per questo motivo, benché da un certo punto di vista il matrimonio sia predeterminato, l’individuo deve scegliere saggiamente. Il matrimonio non dovrebbe essere contratto per denaro, ma un uomo dovrebbe scegliere una moglie che sia di temperamento mite ed abbia tatto, che sia modesta ed industriosa e che risponda ad altri requisiti: di rispettabilità della famiglia, di età e stato sociale simili, di bellezza e di scolarità del padre”.

 

Tornando al tema e nella storia descritta dal Pentateuco, partiamo da un “principio” in cui l’essere “una sola carne” doveva durare per tutta la vita, ma poi troviamo bigamia, concubinato e infine il divorzio causato da “qualcosa di vergognoso” interpretato come sappiamo: perché? La risposta la dà Gesù: “Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, all’inizio però non fu così”.

Certo Mosè ha “permesso”, per ordine e per parola di Dio, non certo autonomamente, ma ciò non toglie che sia necessaria una importante domanda perché esiste apparentemente una contraddizione fra quanto ordinato alla creazione e quanto letto qui sul divorzio, ma non è così o, meglio, così sembrerebbe se si prendono le dichiarazioni di Dio come qualcosa di granitico, impossibile a non subire variazioni quando è Lui, a differenza di noi, perfetto proprietario di se stesso, ad emanare, dichiarare norme che, in quanto nuove, sostituiscono o modificano più o meno leggermente quelle precedenti.

 

“Per la durezza dei vostri cuori” dove il cuore è la sede dell’anima e quindi della capacità o incapacità di fare una cosa. Il divorzio è parte della Legge, la stessa che sancisce la fedeltà fra uomo e donna e dà la morte in caso di adulterio ma permette che, in caso di convivenza impossibile, sia consentito redigere un documento che dia la possibilità alle due parti di interrompere legittimamente il rapporto e di crearne uno nuovo. Credo che senza il divorzio gli adultérii si sarebbero moltiplicati e diffusi e che la Legge, senza il divorzio “per la durezza dei vostri cuori”, non avrebbe potuto essere definita con le parole di Deuteronomio 30.11-14, “Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né troppo lontano da te. Non è nel cielo, perché tu dica: «Chi salirò per noi in cielo, per prendercelo e farcelo udire e lo possiamo eseguire?». Non è al di là dal mare, perché tu dica: «Chi attraverserà per noi il mare per prendercelo e farcelo udire e lo possiamo eseguire?», Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica”.

Ricordiamo le parole precedenti: “Le cose occulte appartengono al Signore, nostro Dio, ma le cose rivelate sono per noi e per i nostri figli, per sempre, affinché pratichiamo tutte le parole di questa legge” (39.28).

 

E in tutto questo trattare il divorzio, arriviamo al punto finale, “Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di unione illegittima – altri traducono più propriamente “fornicazione” – e ne sposa un’altra, commette adulterio” (v. 9). Fu sempre così? Certamente no. Fu così da quando Gesù parlò in quel modo? Certamente sì, perché è Lui la Parola e dichiara se stesso alla luce della dispensazione della Grazia, sul cui inizio ufficiale potremmo stare a discutere per mesi: quando nacque, quando iniziò a predicare? Quando morì? Quando risorse, ascese al cielo, o quando lo Spirito Santo fu sui centoventi?

Il “documento di divorzio”, poi, come ha scritto un fratello, “era inteso a proteggere la donna innocente contro il capriccio o la licenza di un cattivo marito, poiché quella scritta non era un’accusa di infedeltà, ma piuttosto un certificato di innocenza, come risulta dal fatto che tale scritta si consegnava alla moglie medesima, mentre la legge prescriveva che l’adultera fosse messa a morte”.

 

Siamo così giunti alla fine di questa prima parte in cui abbiamo tratteggiato in una linea lieve, con tutti i limiti dello spazio a disposizione, il matrimonio e il divorzio dai testi antichi che abbiamo, per capire perché Gesù abbia risposto così ai farisei che lo interrogavano. Al prossimo capitolo la responsabilità di commentarle. Amen.

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11.39 – IL DISCORSO ECCLESIOLOGICO 10: IL CREDITORE SPIETATO (Matteo 18.23-35)


11.39 – Il discorso ecclesiologico 10, Il creditore spietato (Matteo 18. 23-35)

 

23Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. 24Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. 25Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. 26Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: «Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa».27Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito. 28Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: «Restituisci quello che devi!». 29Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: «Abbi pazienza con me e ti restituirò». 30Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito. 31Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. 32Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: «Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. 33Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?». 34Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto. 35Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello».

 

            Si tratta di una parabola che abbiamo già affrontato, citato più volte e che qui cercheremo di inquadrare aggiungendo nuovi elementi per andare oltre la semplicità del racconto che, per come è esposto e soprattutto con la frase conclusiva “Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello”, non ha apparentemente bisogno di commenti.

La prima sottolineatura la possiamo fare sulla parola “re”, che tutti traducono in modo identico forse perché scrivere “uomo re”, o “re uomo” come nel testo originale, disorienterebbe. Gesù quindi, introducendo la parabola, usa “è simile ad un re (umano)”a sottolineare che, per la semplicità dell’esempio che andrà a narrare, tutti sono in grado di comprenderlo.

Ora questo “re”, che in quanto tale decide autonomamente e soprattutto senza che nessuno possa opporsi, leggiamo “volle fare i conti coi suoi servi”, termine che non va inteso in senso generale, ma specifico in quanto chiaramente riferito a persone altolocate, di corte, come ministri o responsabili degli affari regali; qui il riferimento potrebbe essere a schiavi emancipati che, presso i monarchi orientali, venivano spesso elevati a cariche di fiducia e responsabilità, come avvenne con Daniele, costituito “…governatore di tutta la provincia di Babilonia e capo di tutti i saggi di Babilonia”(Daniele 2.48).

Riflettendo su quel “volle”possiamo dire che esprime, a parte la non possibilità di opposizione, repentinità e sorpresa da parte dei “servi”interessati, alcuni di loro preparati a un controllo sul loro operato ed altri no. Se Dio non fosse tale non sarebbe imprevedibile, tanto in benedizione quanto nel giudizio: ricordiamo la manifestazione ai 120 in Atti 2.2 o l’esperienza di Saulo da Tarso quando “…avvenne che, mentre era in viaggio e stava per avvicinarsi a Damasco, all’improvviso lo avvolse una luce dal cielo”(9.3) o ciò che avvenne a Filippi: “D’improvviso venne un terremoto così forte che furono scosse le fondamenta della prigione; subito si aprirono le porte e caddero le catene di tutti”. D’altro canto, abbiamo la realtà degli ultimi tempi, “Quando la gente dirà: «Pace e sicurezza!», allora, d’improvviso la rovina li colpirà, come le doglie di una donna incinta, e non potranno sfuggire”(1 Tessalonicesi 5.3). Pensiamo anche alla pioggia, ai venti e ai torrenti che si abbattono sulla casa costruita sulla sabbia senza che il costruttore non sapesse quando, all’avvertimento “Fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati”(Marco13.36) e ancora Luca 21.34: “State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso all’improvviso”.

A proposito dell’imprevedibilità di Dio va sottolineato che coglierà sempre impreparato chi sarà lontano da Lui, perché chi Lo frequenta può avere in mano gli elementi per capire le Sue dinamiche attraverso le promesse contenute nella Scrittura che contiene gli eventi passati, presenti e futuri. Ricordiamo che il diluvio colse di sorpresa tutti, ma non Noè e la sua famiglia, per non citare le parole di Dio in Genesi 18.19 prima della distruzione di Sodoma: “Terrò nascosto ad Abrahamo ciò che sto per fare?”. Anche gli eventi futuri descritti nell’Apocalisse, che riportano nei dettagli ciò che sta per accadere, sono qualcosa di chiuso per il mondo, ma non per coloro che appartengono a Dio.

Bene, il servo della parabola si trova scoperto: il re “Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti”. È già stato sottolineato che questa era una somma enorme, che qui Gesù consapevolmente pone all’attenzione dei discepoli per dare la misura prima del debito, e poi della grazia ricevuta tramite la sua remissione, entrambi – mi si passi il termine – irreali perché è al di fuori della comprensione umana sia che una persona possa distrarre così tanto senza che nessuno se ne possa accorgere, sia che un re possa lasciar passare impunito un simile affronto.

Quello che Gesù vuole qui mettere in risalto è la condizione di quel dignitario che, senza la remissione di quel debito chiesta con le parole “abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”, non avrebbe mai potuto rifondere l’intera somma coi suoi mezzi. La richiesta di pietà di quell’uomo è apparentemente qualcosa di inutile perché la Legge, tanto di Mosé che umana, stabiliva che il debitore potesse essere venduto come schiavo assieme ai suoi figli. Per il debitore insolvente che cadeva in quella misura, la Legge aveva poi il Giubileo, che ricorreva ogni cinquant’anni, con la quale questi veniva liberato, o l’anno sabatico ogni sette.

Questo “uomo re”, quindi, compie un gesto al di fuori della comprensione umana, rinunciando a rientrare in possesso della somma a lui sottratta o quanto meno ad avere soddisfazione mediante l’incarceramento del colpevole, dell’affronto ricevuto. E qui sta il motivo per cui Gesù parla di “uomo re”: quanto da lui raccontato è comprensibile a tutti, non c’è nessun mistero, ma una verità chiaramente rivelata, quella della pietà provata per una persona che non ne avrebbe avuto alcun diritto perché privo di attenuanti. Quel servitore, infatti, sapeva benissimo sia che avrebbe dovuto avere nei confronti del suo re un comportamento leale, quanto che presto o tardi vi sarebbe stato un momento in cui il suo operato, come quello degli altri, avrebbe subito una verifica. Viene infatti sempre, per un subordinato, il momento della valutazione del proprio lavoro.

La descrizione dell’atteggiamento di quell’uomo, “prostrato, lo supplicava”, indica tutto il suo sentimento: aveva il terrore di perdere tutto e arriva a fare una promessa che sapeva non avrebbe mai potuto mantenere perché quel “tutto”che prometteva di restituire era qualcosa di irrealizzabile. Ma fu perdonato anche se poi, come sappiamo, si comporterà nei confronti di un suo debitore con crudeltà e insensibilità ingiustificabili a fronte del trattamento che aveva ricevuto dal suo signore.

E qui abbiamo molti elementi da considerare, prima di tutto lo stato psicologico del personaggio: aveva sottratto una somma, aveva chiesto pietà e l’aveva ottenuta, ma poi tutto era tornato come prima, rimanendo completamente insensibile di fronte alla grazia ricevuta. A differenza di Dio, che legge nei cuori, quel re aveva agito per compassione, sentimento che porta chi lo prova ad immedesimarsi nella condizione di sofferenza e miseria in cui versa un suo simile. Compatire infatti significa “patire insieme”e quel re, di fronte al suo servo, lasciò la sua posizione di dominus assoluto, cui nulla era vietato, che tutto poteva perché tutto aveva, per immedesimarsi in suo sottoposto e nel sentimento che provava, poiché la paura di perdere ogni cosa – ricordiamo “ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva”– era assolutamente reale e aveva prodotto in lui un profondo sconvolgimento.

Avuto il perdono, però, tutto era tornato come prima, cioè quel servo era rimasto lo stesso di sempre, quindi stesse attitudini, stesso non senso del dovere, stessa insensibilità. Questo ci parla del fatto che quando un essere umano, convinto di peccato e quindi consapevole di avere un debito con Dio impossibile da rifondere se non chiedendo pietà, viene da Lui perdonato, solo il tempo darà dimostrazione del fatto che quanto ricevuto sarà stato compreso e avrà prodotto un cambiamento, trasformandolo in una persona diversa.

Ora il fatto che il servo infedele della parabola non fosse stato minimamente intaccato dall’eccezionalità rappresentata dalla remissione del debito ci porta a considerare che, in realtà, il suo invocare pietà era dettato dal fare di tutto per cercare di tamponare l’emergenza drammatica che si era venuta a creare, ma senza mettere minimamente in discussione la propria persona. Si tratta di un comportamento, un modo di essere comune, identico a tutti coloro che vivono per loro stessi, sempre pronti a individuare i torti, veri o presunti che subiscono, ma altrettanto disponibili a darli. Sono quelli che si impegnano con promesse e non le mantengono. Sono quelli che si rivestono di una giustizia che non hanno, che simulano, pronti a calpestare gli altri, ma a ribellarsi ad ogni minima ingiustizia che viene loro fatta, che chiedono sempre e non danno mai, forti con i deboli e deboli con i forti.

Leggiamo al verso 28 “quel servo trovò uno dei suoi compagni”, quindi un suo pari, ragione in più per cui avrebbe dovuto usare lo stesso comportamento che il re aveva avuto nei suoi confronti: non c’era la distanza tra suddito e sovrano, ma un rapporto paritario. Non solo, ma uno aveva distratto, l’altro aveva chiesto in prestito una somma che, per quanto importante, era assolutamente rifondibile qualora il creditore avesse avuto “pazienza”. E questo ci parla del fatto che, se fra Dio e l’uomo esiste una distanza incolmabile che viene appianata col perdóno, tra uomo e uomo c’è solo uguaglianza perché “tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio”, a meno che Lui stesso intervenga a rimuoverlo.

Vediamo nella parabola che, quando il servitore perdonato si mette ad affliggere il suo pari, ci sono altri pari grado che vanno ad informare il re dell’accaduto: non è difficile collegare questi a quei credenti, compagni di viaggio verso la “casa dalle molte stanze”, che nelle loro preghiere possono chiedere un intervento risolutore di Dio a fronte di comportamenti incompatibili con la funzione rivestita: come Gesù ha insegnato col “Padre nostro”, quando ci si presenta davanti al Signore, non necessariamente esiste solo la lode; anzi, conosciamo quel passo di Apocalisse 6.10 in cui le anime degli immolati per la Parola di Dio e la testimonianza che avevano resto dicono“Fino a quando, Sovrano, tu che sei santo e veritiero, non farai giustizia e non vendicherai il nostro sangue contro gli abitanti della terra?”. Quando un cristiano si accosta al Trono della Grazia, parla col Dio in ascolto che, per quanto sappia già cosa gli verrà detto, valuta ed esamina nel profondo ciò che è nel cuore e “sa di cosa abbiamo bisogno”, testimonia la Sua attenta valutazione di tutto ciò che chiediamo, altrimenti non troveremmo scritto di pregare incessantemente e rendere grazie “in ogni cosa”(1 Tessalonicesi 5.18). “Sa di cosa abbiamo bisogno”a differenza di noi. E ricordiamo che i discepoli parlavano col loro Maestro di tutto, perché tutto dev’essere vagliato secondo lo Spirito e non secondo la carne.

Tornando al re della parabola, leggiamo che “fece chiamare quell’uomo”: già qui abbiamo la previsione di un giudizio, questa volta inappellabile perché è l’uomo coi suoi atti che si condanna da solo e, nel nostro caso, lo fa dimostrando di disprezzare totalmente quanto ricevuto per grazia. La chiamata del re e le conseguenti disposizioni nei confronti di quel servo alludono chiaramente a qualcosa che si verifica dopo la morte, quando tutti si troveranno di fronte a Lui e non sarà possibile fare qualcosa per mutare ciò che si avrà fatto in vita: “Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto”. Se nell’antica Roma il debitore incarcerato era consegnato all’aguzzino per essere costretto al pagamento, in Oriente accadeva spesso che chi si dichiarava insolvente avesse dei tesori nascosti per cui la tortura veniva applicata per costringerlo a dichiarare dov’erano, o per suscitare la compassione degli amici affinché pagassero al suo posto. Sappiamo che, nel caso della parabola, quel “finché”non sarebbe mai arrivato perché “tutto il dovuto”non avrebbe mai potuto essere rifuso.

Su questa dinamica sono illuminanti le parole di 2 Tessalonicesi 1.6-9: “È proprio della giustizia di Dio ricambiare con afflizioni coloro che vi affliggono e a voi, che siete afflitti, dare sollievo insieme a noi, quando si manifesterà il Signore Gesù dal cielo, insieme agli angeli della sua potenza, con fuoco ardente, per punire quelli che non riconoscono Dio e quelli che non obbediscono al vangelo del Signore nostro Gesù. Essi saranno castigati con una rovina eterna, lontano dal volto del Signore e dalla sua gloriosa potenza”.

Arriviamo così al verso finale, che ci conferma quanto il perdono sia fondamentale perché è lì che si misura se ciò che ci è stato dato dal Signore è stato da noi assimilato realmente: “Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello”.Perdonare “di cuore”cioè non formalmente, senza mettendo da parte il ricordo del torto subito per poi farlo emergere al momento opportuno. Il vero perdóno dev’essere lo stesso di Dio, che disse “Io non mi ricorderò dei loro peccati”. Perdonare di cuore implica proprio coinvolgere quella parte di noi che il servo spietato si guardò bene da chiamare in causa, cioè procedere ad un esame di sé con riguardo specifico al vissuto e a quanto ricevuto. Perdonare di cuore significa essere imitatori di Dio, dimostrare di appartenergli, ma va sottolineato che va praticato nel momento in cui l’altro manifesta il proprio rincrescimento esattamente come nei due casi che abbiamo visto, perché quando interviene un’offesa – termine volutamente generico – viene interrotta una comunicazione fra persone che solo il responsabile dell’atto può ripristinare e non certo l’innocente coinvolto. Perché “il di più, viene dal maligno”. Amen.

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11.38 – IL DISCORSO ECCLESIOLOGICO 9: SETTANTA VOLTE SETTE (Matteo18.21,22)

11.38 – Il discorso ecclesiologico 9, settanta volte sette (Matteo 18. 21,22)

 

21Allora Pietro gli si avvicinò e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». 22E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.

 

            Leggendo anche velocemente i versi precedenti notiamo che i discepoli, pur ascoltando con attenzione le parole del loro Maestro, compresero l’importanza del perdóno, ma non quelle della preghiera comunitaria soprattutto riguardo l’ultima frase, “Perché dove due o tre sono riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro”. Infatti Pietro, colpito dal discorso sulla “colpa”commessa da un fratello e sulle iniziative da attuare per regolarla, si chiese se vi fosse un limite a questo, visto che Gesù non lo aveva specificato. Probabilmente l’apostolo aveva presente che il Talmud prescriveva che si dovesse perdonare non più di tre volte, deduzione tratta da Amos 2.4-6 e Giobbe 33.29,30: “Così dice il Signore: «Per tre misfatti di Giuda e per quattro non revocherò il mio decreto di condanna, perché hanno rifiutato la legge del Signore e non ne hanno osservato i precetti, si sono lasciati traviare dagli idoli che i loro padri avevano seguito. Manderò il fuoco a Giuda e divorerà i palazzi di Gerusalemme». Così dice il Signore: «Per tre misfatti d’Israele e per quattro non revocherò il mio decreto di condanna, perché hanno venduto il giusto per denaro e il povero per un paio di sandali, essi che calpestano come la polvere della terra la testa dei poveri, e fanno deviare il cammino dei miseri, e padre e figlio vanno dalla stessa ragazza, profanando così il mio santo nome»”. Qui vediamo che è il quattro a determinare l’irrevocabilità del “decreto di condanna”. Il passo citato di Giobbe poi parla dell’esperienza del giusto: “Egli si rivolgerà agli uomini e dirà: «Avevo peccato e violato la giustizia, ma egli non mi ha ripagato per quello che meritavo, mi ha scampato dal passare per la fossa e la mia vita contempla la luce». Ecco, tutto questo Dio fa due, tre volte per l’uomo, per far ritornare la sua anima dalla fossa e illuminarla con la luce dei viventi”.

Pietro, quindi, conoscendo il significato del numero tre e consapevole dell’importanza del perdóno quale metodo per il mantenimento della vita fraterna, spontaneamente interpreta la quantità di volte in cui una colpa può venire rimessa fino a sette, cifra che allude alla perfezione più del tre: tre è il numero di Dio, quattro è quello dell’uomo e sette è la loro somma dalla quale si deduce facilmente che è lì che si trova la completezza dei due elementi, poiché la creazione è stata fatta in funzione dell’essere umano e per la sua vita, che doveva essere eterna anche sul pianeta creato. L’apostolo aveva allora capito non solo l’importanza del perdóno, ma anche quanto fosse importante, fondamentale esercitarlo non alla luce degli scritti antichi, ma di quel periodo nuovo che sarebbe sfociato nella dispensazione della Grazia che il suo Maestro stava istituendo. Ricordiamo le parole in Luca 17.4, che completano le parole di Matteo in cui il sette è usato per indicare un numero indefinito di volte: “Se il tuo fratello commetterà una colpa, rimproveralo; ma se si pentirà, perdonagli. E se commetterà una colpa sette volte al giorno contro di te e sette volte ritornerà a te dicendo: «Sono pentito», tu gli perdonerai»”. Da notare anche i tre “se”, riferiti ad eventualità che portano colpa e pentimento, e il “ma”a lui connesso che modifica la posizione di chi ha agito male.

Nel racconto di Matteo, invece, è Gesù a intervenire con Pietro, e per riflesso su tutti gli altri. Lo fa rispondendo numericamente escludendo che il perdóno fosse qualcosa di cui tenere la contabilità: “settanta volte sette”dà come risultato 490, cifra non impossibile da annotare, ma il cui significato si comprende da ciò che il 70 e il 7 significano. Spesso accade, in questi scritti, di riflettere sui numeri per cui, essendo un tema trattato basilarmente, possiamo lavorare sul settanta, importante perché prodotto del 7×10, cioè della cifra della perfezione come 3+4 e, per il 10, di ciò che il Signore si aspetta dall’uomo. Ciò raffigurato dai comandamenti in cui, anche lì, abbiamo una cifra importante, essendovene 4 per la relazione con YHWH e 6 tra esseri umani, che diventano così dieci.

Il settanta è un numero non semplice a svilupparsi, perché contiene significati a volte opposti tra loro, implica tanto benedizione quanto un giudizio di Dio, oltre ad altri elementi: abbiamo infatti le parole di assurda rivendicazione di Lamec, figlio di Caino, che ponendosi in una posizione che non aveva dichiarò che “Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamec settanta volte sette”(Genesi 4.24), non “settantasette”come altri traducono. Ricordiamo sempre in proposito che il male è una forza che spinge chi lo commette a non fermarsi e questo si trasmette alla sua discendenza: l’omicida di Abele, accecato non tanto dall’invidia e dall’odio, ma a monte da un Io spropositato, generò un individuo che giungerà addirittura a voler rivaleggiare con Dio sulla terra.

Ricordiamo il settanta come numero di condizione perché il Signore lo moltiplichi, come nel caso della famiglia di Giacobbe che entrò in Egitto con questa quantità di persone che componevano la sua famiglia “tutte le persone della famiglia di Giacobbe che entrarono in Egitto, ammontano a settanta”(Genesi 47.27) e, a sottolineare l’importanza del lutto conseguente alla morte del patriarca, tali furono i giorni in cui lo piansero (50.3).

Ancora, da tenere presente Esodo 15.27 e Numeri 33.9 a proposito dell’oasi di Elim: lì il popolo si ritrovò dopo essere uscito dall’Egitto, quando “Partirono da Mara e giunsero ad Elim; ad Elim c’erano dodici sorgenti di acqua e settanta palme; qui si accamparono”. Qui alcuni intravedono gli apostoli e i settanta(due) discepoli inviati in missione da Gesù, anche se a mio parere con questi numeri vengono ricordati al tempo stesso l’amore e la potenza progettuale di Dio per il Suo popolo, che allora lo doveva rappresentare sulla terra, e quello che si sarebbe costituito un giorno.

Sempre restando negli scritti dell’Antico Patto, ricordiamo la risposta alla preghiera di Mosè quando, non riuscendo più a gestire efficacemente le questioni del popolo lui affidato – ricordiamo le sue parole, “Non posso io da solo portare il peso di tutto questo popolo, è troppo pesante per me”–  ebbe questa risposta: “Radunami settanta uomini tra gli anziani di Israele, conosciuti da te come anziani del popolo e come loro scribi, conducili alla tenda del convegno; vi si presentino con te. Io scenderò e lì parlerò con te; toglierò dello spirito che è su di te e lo porrò su di loro, e porteranno insieme a te il carico del popolo e tu non lo porterai più da solo”. Anche qui vediamo il settanta come premessa perché Dio – e non certo l’uomo – agisca.

Settanta è anche un limite, elemento su cui meditare per mettersi alla ricerca di ciò che è al di là, l’oltre, come in Salmo 90.10: “Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti; e il loro agitarsi è fatica e delusione; passano presto e noi voliamo via”. Guardando a questa cifra, allora, vediamo il limite severo all’esistenza orizzontale, riassunta nella “fatica e delusione”, nel passare “presto”, cosa che accadrebbe anche se gli anni venissero moltiplicati perché l’uomo, quando è incapace di misurare i propri giorni alla luce dello Spirito, di essi non sa che farsene e la prova concreta di ciò la vediamo nel fatto che rifiuta l’idea della morte.

Abbiamo parlato all’inizio del settanta come giudizio, ma in realtà questo termine così immediato si addice a lui solo in parte, comprendendo sì un provvedimento negativo di Dio – ricordiamo le parole di Geremia 25.11 “Tutta questa regione sarà distrutta e desolata e queste genti serviranno il re di Babilonia per settant’anni”–, ma anche il tempo fissato perché il Progetto del Regno si compia, con la gioia o la disperazione degli uomini a seconda di dove avranno scelto di collocarsi, come detto a Daniele dall’Angelo Gabriele in 9.24, “Settanta settimane sono fissate per il tuo popolo e per la tua santa città per mettere fine all’empietà, mettere i sigilli ai peccati, espiare l’iniquità, stabilire una giustizia eterna e suggellare visione e profezia e ungere il Santo dei Santi”.

Questi, in sintesi, sono i versi che mi sento di applicare al numero oggetto di riflessione. In realtà ce ne sono molti di più, ma tutti raggruppabili sotto le categorie base che abbiamo esaminato. “Settanta volte sette”è allora il tutto, il possibile, il finito che non ha un limite perché, sotto questo aspetto, esercitare il perdono equivale a entrare, se vogliamo, in un percorso circolare: “Se perdonerete agli altri le loro colpe– che avranno riconosciuto –, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche voi; ma se non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe”(Matteo 6.14,15). Anche qui, allora, torniamo ad un aspetto del “legare”e “sciogliere”, del “rimettere i peccati”oppure no, azioni che non hanno nulla a che vedere con la permalosità di un individuo che, se presente in lui, necessita di rivedere molti aspetti della sua vita perché, a prescindere dall’età che possa avere, non ha ancora abbandonato quegli elementi che lo caratterizzavano da bambino. Il concetto di Matteo 6, quindi appartenente al sermone di Gesù sul monte, fu da lui specificato in Marco11.25,26: “Quando vi mettete a pregare, se avete qualcosa contro qualcuno, perdonate, perché anche il Padre vostro che è nei cieli perdoni a voi le vostre colpe”dove il “perdonate”significa porsi in attesa che la controparte si penta, pregando per lei, e non conservare astio o sentimenti di offesa nei suoi confronti.

Concludendo, il “settanta volte sette”dato da Nostro Signore in risposta alla domanda di Pietro, ci parla dell’atteggiamento naturale che deve avere il cristiano di fronte alla richiesta di perdóno, che va dato dimenticando l’accaduto, senza conservarlo per recriminazioni successive anche quando chi è stato già perdonato, eventualmente, ricommette lo stesso errore. Ricordiamo la frase in Isaia 43.25 “Io, io cancellerò i tuoi misfatti per amore di me stesso e non ricorderò più i tuoi peccati”.E chi porrà un punto fermo su tutto questo sarà l’apostolo Paolo che, scrivendo ai credenti della Chiesa di Roma, in 12.21, inviterà a provvedere in merito con le parole “Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene”. Amen.

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11.37 – IL DISCORSO ECCLESIOLOGICO 8: CONCORDIA E PRESENZA (Matteo18.18.20)

11.37 – Il discorso ecclesiologico 8, concordia e presenza (Matteo 18. 18-20)

 

18In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo. 19In verità io vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. 20Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro.

 

            Riportiamo il verso 18, affrontato nello scorso capitolo, perché strettamente connesso ai due successivi: qui Gesù mostra la Sua Chiesa come un organismo che agisce sotto un’autonomia responsabile, in Sua assenza fisica, fedele ai suoi compiti perché animato dal di Lui timore, termine che, più che alla paura, fa riferimento alla consapevolezza della Persona con la quale si ha a che fare: Gesù non si può ingannare e il fatto che “scruti i nostri pensieri”e dia “la giusta retribuzione”a seconda di come operiamo credo basti. Una Comunità i cui membri hanno cercato e trovato, hanno abbandonato gli elementi del mondo in modo tale che non ne sono più dominati, cui preme una fedeltà reale e non nominale alla Parola di Dio, potrà veramente “legare” e “sciogliere”, ma anche realizzare la promessa del verso successivo, sostenuta dall’Amen di Cristo: “In verità io vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà”.

Cercando ora di esaminare queste parole possiamo fare la prima sottolineatura, a parte sull’autorevolezza rappresentata dall’ ”amen”, sull’indicazione del luogo, “sulla terra”, qui usata per ricordare tanto la distanza quanto la vicinanza di Dio al Suo popolo nonostante le dimensioni che caratterizzano entrambi, la “terra”e il “cielo”, perché“In un luogo eccelso e santo io dimoro, ma sono anche con gli oppressi e gli umiliati, per ravvivare lo spirito degli umili e rianimare il cuore degli oppressi”(Isaia 57.15). E il ponte tra le due identità, uomo e Dio, è lo Spirito Santo. In un precedente capitolo, riguardo ai differenti luoghi in cui entrambe operano, è stato ricordato il verso “Non essere precipitoso con la bocca e il tuo cuore non si affretti a proferire parole davanti a Dio, perché Dio è in cielo e tu sei sulla terra; perciò siano poche le tue parole”(Ecclesiaste – o Qoèlet – 5.1).

Veniamo ora alla premessa espressa nel verso 19, purtroppo interpretata alla lettera da molti intendendo quel “qualunque cosa”come ciò che è a loro capriccio, riconoscendo a questa espressione un potere quasi magico, ma dimenticandosi che le parole di Gesù, non solo qui, vanno lette in senso spirituale, quello che allora gli Apostoli né i discepoli erano in grado di fare. Non è escluso che loro stessi, ascoltandole, le abbiano interpretate in questo modo, ma furono poi da loro inquadrate correttamente una volta disceso lo Spirito Santo.

Vediamo ora le promesse di Nostro Signore in tal senso, fermo restando che si tratta di un impegno preciso che Lui stesso si assume. Il primo passo è rivolto a tutti gli uomini e donne alla Sua ricerca: “Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve, e chi cerca trova, e a chi bussa sarà aperto”(Matteo 7.7). Si tratta di un appello a non desistere, a chiedere, cercare e bussare, tutte azioni che denotano uno stato di necessità dimostrato da chi lo compie. Soprattutto una volta trovato e che ci è stato aperto, ecco il chiedere come pratica costante, poiché tutto il verso è caratterizzato da una libertà incondizionata in quanto non viene indicato un limite massimo di volte in cui chiedere o bussare. Dio ha un ufficio, o un “negozio” dove comprare “senza denari e senza prezzo”che non è aperto “dalle – alle”, ma sempre.

Promesse importanti le troviamo in (Matteo) 21.22 “…e tutto ciò che chiederete con fede nella preghiera, lo otterrete”e in Giovanni 14.13, stretto parente del verso che stiamo esaminando: “Qualunque cosa chiederete nel mio nome, la farò, perché il Padre sia glorificato nel Figlio. Se mi chiederete qualcosa nel mio nome, io la farò”. Anche qui abbiamo “qualunque cosa”, ma anche “nel mio nome”, precisazione che sostiene la responsabilità che ci assumiamo nella preghiera che in molte assemblee cristiane si usa concludere così quasi come una forma rituale, purtroppo spesso dimenticando che “nel nome di Gesù” è compreso ciò che Lui approva ed è, quindi è riferita al cammino sotto la Sua guida. Infatti così scrive l’apostolo Giovanni nella sua prima lettera: “Se il nostro cuore non ci rimprovera nulla, abbiamo fiducia in Dio, e qualunque cosa chiediamo, la riceviamo da lui perché osserviamo i suoi comandamenti e facciamo quello che gli è gradito”. E qui troviamo delle prime tracce, delle indicazioni viste in quel “se”, che tante volte e non solo qui viene sottovalutato, quando in realtà un “se”nella vita del cristiano c’è sempre ed è quello che fa la differenza in tante circostanze che lo riguardano.

Cominciamo così a mettere a fuoco il significato di quanto promesso da Gesù anche in 5.14,15: “E questa è la fiducia che abbiamo in lui: qualunque cosa gli chiediamo secondo la sua volontà, egli ci ascolta. E se sappiamo che ci ascolta in tutto quello che gli chiediamo, sappiamo di avere già da lui quanto gli abbiamo chiesto”. Credo che qui sia quel “secondo la sua volontà”a determinare la risposta, che certo può valere anche per le nostre esigenze materiali, perché altrimenti la preghiera del “Padre Nostro”non sarebbe stata insegnata. In Giacomo 5.14-18 leggiamo “Chi tra voi è nel dolore, preghi; chi è nella gioia, canti inni di lode. (…) molto potente è la preghiera efficace del giusto”. Prima di pregare, quindi, è necessario un esame, per vedere se possiamo accostarci al Padre considerati come aventi diritto a farlo, secondo la Sua Parola oppure no, e in questo caso porvi rimedio. Giacomo poi passa a descrivere la preghiera del singolo citando un esempio illustre: “Elia era un uomo come noi: pregò intensamente che non piovesse, e non piovve sulla terra per tre anni e sei mesi. Poi, pregò di nuovo e il cielo diede la pioggia e la terra produsse il suo frutto”,anche qui riferita ad un fatto di testimonianza e non perché Elia si servisse di quel miracolo per fini personali.

Mi sono chiesto se, negli scritti del Nuovo Patto, fosse possibile trovare una conferma al verso in esame, vale a dire la promessa dell’esaudimento di una preghiera della Comunità concorde, caratteristica che aveva appunto la prima Chiesa come in Atti 1.14: “Tutti questi– a quel tempo gli undici – erano perseveranti e concordi nella preghiera, insieme ad alcune donne e a Maria, la madre di Gesù, e ai fratelli di lui”. Ebbene, leggiamo 12. 5-12 che riferisce un episodio avvenuto tempo dopo: “Mentre Pietro era in carcere, dalla Chiesa saliva incessantemente a Dio una preghiera per lui. In quella notte, quando Erode stava per farlo comparire davanti al popolo, Pietro, piantonato da due soldati e legato con due catene, stava dormendo, mentre davanti alle porte le sentinelle custodivano il carcere. Ed ecco, gli si presentò un angelo del Signore e una luce sfolgorò nella cella. Egli toccò il fianco di Pietro, lo destò e disse: «Àlzati, in fretta!». E le catene gli caddero dalle mani. L’angelo gli disse: «Mettiti la cintura e légati i sandali». E così fece. L’angelo disse: «Metti il mantello e seguimi!». Pietro uscì e prese a seguirlo, ma non si rendeva conto che era realtà ciò che stava succedendo per opera dell’angelo: credeva invece di avere una visione.Essi oltrepassarono il primo posto di guardia e il secondo e arrivarono alla porta di ferro che conduce in città; la porta si aprì da sé davanti a loro. Uscirono, percorsero una strada e a un tratto l’angelo si allontanò da lui. Pietro allora, rientrato in sé, disse: «Ora so veramente che il Signore ha mandato il suo angelo e mi ha strappato dalla mano di Erode e da tutto ciò che il popolo dei Giudei si attendeva». Dopo aver riflettuto, si recò alla casa di Maria, madre di Giovanni, detto Marco, dove molti erano riuniti e pregavano”.

 

Altra domanda che ci possiamo fare è se esista differenza fra la preghiera del singolo e quella comunitaria, e la risposta va inquadrata in modo direttamente proporzionale al progetto esistente, poiché ciascun credente è testimone dell’aiuto multiforme che riceve da Dio individualmente, ma la Chiesa, quindi tutti i suoi membri, hanno dovere di pregare per il suo sviluppo e perché possano testimoniare in modo efficace, più opportuno, per portare delle anime a Cristo. Ecco perché abbiamo letto recentemente che, dopo la preghiera Comunitaria, tremarono i muri del luogo in cui la Chiesa era ospitata.

Può essere di consolazione sapere che la preghiera ha una funzione temporanea, vale a dire fino a quando saremo presenti su questa terra, come dalle parole che Gesù disse ai Suoi: “Così anche voi, ora, siete nel dolore; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà, e nessuno potrà togliervi la vostra gioia. Quel giorno non mi domanderete più nulla”(Giovanni 16.22,23). E qui Nostro Signore parla tanto di quando si manifesterà a loro dopo la sua risurrezione, quanto dell’incontro finale dei credenti con Lui.

Veniamo così al verso 20 in cui Gesù espone una verità allora in forma embrionale, “dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”, che completa un altro passo, quello relativo alla missione data ai discepoli “Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”(Matteo 28.20.

Gesù è allora con il singolo, sempre, ma la Sua presenza si realizza nella Chiesa composta dai “due o tre”in poi. Sappiamo già della differenza con la Sinagoga, che di persone ne richiedeva almeno dieci, lasciando in tal modo sguarniti quei piccoli centri isolati dove gli israeliti non potevano riunirsi se in numero inferiore a quello prescritto, ma senza realizzare un’assemblea. E sappiamo che la Sinagoga non era un centro culturale, ma quello in cui le persone si riunivano per essere istruite dai Maestri nella Legge, nei Profeti e negli altri libri.

Ebbene, la Chiesa è tale anche con due persone, cui spetta la responsabilità di pregare perché il Signore voglia farla crescere, cosa che certamente avverrà se lo spirito di servizio e la concordia animeranno questo primo nucleo che sarà in grado non di far proseliti, ma di vivere, progredire e soccorrere quelle anime alla ricerca di Dio. Ecco allora che anche Marco 11.24, “Tutto quello che chiedete nella preghiera, abbiate fede di averlo ottenuto e vi accadrà”, alla luce dello sviluppo che abbiamo fatto, implica la consapevolezza di cosa si chiede: la risposta del Padre non potrà mancare proprio perché la Chiesa avrà posto le premesse per la realizzazione dell’esaudimento. Sono convinto che questo, e non altro, rientri nel “qualunque cosa”che verrà ottenuto dal Padre. E che il resto, avendo cercato prima il “Regno di Dio”, verrà dato in aggiunta. Amen.

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11.36 – IL DISCORSO ECCLEIOLOGICO 7: IL RAPPORTO FRATERNO II (Matteo 18.15-18)


11.36 – Il discorso ecclesiologico 7, il rapporto fraterno II (Matteo 18. 15-18)

 

15Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; 16se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni.17Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano. 18In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo.

 

            Prima di affrontare questa seconda parte, che inizia dal verso 16, occorre ricordare che quanto esposto da Nostro Signore è solo in apparenza una procedura da seguire letteralmente perché, se si guardasse solo a quella, faremmo di queste parole un manuale di istruzioni e perderemmo di vista la sostanza, volta al recupero della persona che ha agito in maniera inopportuna nei confronti di un fratello, o sorella, oltre che a fare emergere lo spirito che la anima concretamente. Scopo di quanto descritto è quello di responsabilizzare il soggetto di fronte a un errore che solo la dinamica dell’episodio potrà determinare, ad esempio, come volontario o involontario, giustificato oppure no, come quell’ “adiratevi e non peccate”citato nel capitolo scorso in cui l’ira o lo sfogo in un determinato contesto non è visto come qualcosa di illegittimo, mentre lo è quando avviene in modo incontrollato.

Ricordiamo le parole del verso 11, “se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello”, collegabile a Proverbi 9.7-9 e 15.12: “Chi corregge il beffardo si attira insulti, chi riprende l’empio riceve affronto. Non riprendere il beffardo, per evitare che ti odi; riprendi il saggio, e ti amerà. Istruisci il saggio, e diventerà più saggio che mai; insegna al giusto e accrescerà il tuo sapere”. Spiega il principio il secondo passo, “Il beffardo non ama che altri lo riprenda; egli non va dai saggi”. Anche qui, oltre a venire rimarcato l’abisso che separa chi appartiene all’una o all’altra categorie di persone, abbiamo la possibilità di raccordarci alle parole di Gesù in esame, tese, come detto, a far emergere lo spirito della persona perché, in sostanza, “il saggio”è impossibile che non ascolti un’osservazione obiettiva e ragionata di un fratello, o di questo accompagnato dai “due o tre testimoni”qualora il primo tentativo non raggiunga il risultato sperato.

Le parole “prendi con te una o due persone”è poi un chiaro riferimento a Deuteronomio 19.15: “Un solo testimone non avrà valore contro alcuno, per qualsiasi colpa e per qualsiasi peccato; qualunque peccato uno avrà commesso, il fatto dovrà essere stabilito sulla parola di due o tre testimoni”ed ecco perché, prima di dirlo “alla comunità”, è necessaria la presenza di più persone al confronto con chi ha commesso l’errore. Possiamo osservare che la testimonianza di più persone, all’epoca della Legge, contribuiva a rendere il fatto concreto potendo ogni testimone nella possibilità di riferire particolari e dettagli che magari erano sfuggiti ad un altro; ciò avveniva in modo più o meno concorde, da valutarsi da parte di chi era chiamato a giudicare quanto realmente avvenuto.

Trasportando poi il verso di Deuteronomio alle parole di Gesù, la presenza dei testimoni non ci parla di un processo in atto, cioè del fatto che i “due o tre”svolgano una semplice presenza per poi riferire quanto accaduto, ma di un fatto costruttivo: la loro partecipazione è giustificata dal fatto che il primo tentativo di conciliazione non ha avuto l’esito sperato, ma è richiesta la presenza di persone mature, “abituate a discernere il bene dal male”e pertanto in grado di esprimere pareri e consigli tesi a redimere la questione. I “testimoni”in questione, quindi, non sono chiamati a registrare ogni parola tenendosi in disparte, ma a rendersi conto delle ragioni dell’uno e dell’altro, valutare lo spirito che muove entrambi senza parteggiare per nessuno dei due, chiamati a valutare anche in previsione di quanto verrà poi riferito alla Chiesa. Il fatto che i testimoni siano parte attiva in questa operazione è confermato dal verso 17, e cioè “se disdegna di ascoltarli, dillo alla Chiesa”: “ascoltarli”, non “riceverli”.

Credo sia importante sottolineare che questa procedura è ben lontana da quella prevista per una querela o a un processo per calunnia che si celebra nei nostri tribunali, ma a difesa di quell’equilibrio che, se viene a mancare in una Chiesa o Comunità, la rende inevitabilmente sterile e la porta poco a poco allo spegnimento, come dalle parole di Apocalisse 2.5 in cui leggiamo “Se non ti convertirai, verrò a te e toglierò il tuo candelabro dal suo posto”. Quando infatti una Chiesa è animata da spirito di parte e non da quello Santo, quando il compromesso e il portare avanti posizioni umane non viene combattuto in egual misura da tutti i suoi membri, ecco che arriva il fallimento, l’incapacità di testimoniare e predicare il Vangelo di Gesù Cristo. Ed ecco perché, quando una Chiesa si raduna, è richiesto che ogni suo componente si misuri alla luce di Esodo 23.15, 34.20, Deuteronomio 15.13 e 16.16, tutti riportanti il medesimo concetto – si noti che i versi sono quattro –: ”Non si dovrà comparire davanti a me a mani vuote”, cioè prive di un frutto che siamo chiamati a portare continuamente perché è nell’Assemblea che il Signore è presente secondo la Sua promessa e scruta i cuori per vedere chi si presenta a Lui degnamente.

L’Assemblea cristiana infatti non si concreta né si può realizzare, risolvere in un rito religioso, ma nel contributo spirituale che ciascuno porta, nel desiderio di incontro e sostegno tra fratelli e sorelle che non fanno parte di un ordine o un’associazione più o meno benefica, ma adorano “in spirito e verità”Dio Padre e Gesù Cristo. Purtroppo, molti oggi hanno perso di vista questo principio e così le Chiese poco a poco si spengono a livello non solo di comunione fraterna, ma soprattutto nei confronti della potenza del Vangelo. Ricordiamo quanto si verificò in Atti 4.31: “Quando ebbero terminato la preghiera, il luogo in cui erano radunati tremò e tutti furono ripieni di Spirito Santo e annunziavano la parola di Dio con franchezza”.E sottolineiamo che tale manifestazione avvenne dopo una preghiera molto particolare, in cui si richiedeva l’assistenza perché il Vangelo fosse annunciato: “E ora, Signore, volgi lo sguardo alle loro minacce– Erode, Pilato e Israele – e concedi ai tuoi servi di proclamare con tutta franchezza la tua parola, stendendo la tua mano affinché si compiano guarigioni, segni e prodigi nel nome del tuo santo servo Gesù”. I presenti, cioè, si preoccuparono del recupero di quanti avrebbero creduto grazie al porgere il Vangelo nei modi opportuni per ciascuno e non dei loro problemi personali, come sappiamo fece Salomone quando, guardando alla sua persona e riconoscendosi mancante di sapienza per reggere il governo del suo popolo, la chiese, come più volte ricordato.

Tornando al nostro testo, vediamo la terza ed ultima soluzione nel caso la questione tra i due interessati non possa venire risolta: “Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità, e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano o il pubblicano”. Anche qui la Chiesa, o Comunità, è vista non come un organismo che difende i torti o le ragioni, ma guarda al principio, valuta i pro e i contro in modo spirituale per rimuovere quanto si è venuto a creare nell’interesse non di una norma, ma delle ragioni che hanno portato alla sua istituzione. E la Comunità è qui vista non a livello di insieme completo, ma di quei credenti ancora una volta in grado di esprimere un giudizio maturo e responsabile, come raccomandato più volte nelle lettere di Paolo, già applicato dagli Apostoli nella primitiva Chiesa. Abbiamo parlato di offese, ma teniamo presente che queste comprendono uno spazio molto più ampio di argomenti, come possono essere delle posizioni dottrinali che una persona può assumere, in contrasto a quanto stabilito unitariamente; ricordiamo ad esempio Atti 15.6 quando, a fronte dell’affermazione in base alla quale la circoncisione dovesse essere applicata a chi si convertiva, leggiamo “Allora si riunirono gli apostoli e gli anziani per esaminare questo problema”.

Un verso che fa da “ponte” ed amplia la panoramica della “colpa”circa gli equilibri che la Chiesa è chiamata a difendere è da vedersi in Romani 16.17,18 “Vi raccomando poi, fratelli, di guardarvi da coloro che provocano divisioni e ostacoli contro l’insegnamento che avete appreso: tenetevi lontani da loro. Costoro, infatti, non servono Cristo Nostro Signore, ma il proprio ventre e, con belle parole e discorsi affascinanti, ingannano il cuore dei semplici”. “Belle parole e discorsi affascinanti”sono collegati a quei concetti che possono suscitare la curiosità istintiva umana e interpretano, altrettanto umanamente, contenuti spirituali servendo il realtà “il proprio ventre”, espressione che si riferisce a ciò che non ha a che vedere neppure con la semplice intelligenza. Questi ragionamenti, come scritto da Paolo, “ingannano il cuore dei semplici”, cioè di coloro che stanno imparando e sono molto più vulnerabili rispetto a chi ha già effettuato un percorso di fede e confronto con la Parola di Dio.

“Sia per te come il pagano e il pubblicano”è una frase forte, che non necessita di un gran commento, poiché sappiamo che per gli ebrei tanto l’uno che l’altro erano persone ritenute impure e con le quali nessuno aveva a che fare.

È invece meritevole di attenzione l’ultimo verso, il 18, perché stabilisce l’autorità data alla Chiesa, guidata dallo Spirito Santo nel “legare”o “sciogliere”, espressione che sta a significare rendere legale o illegale una cosa oltre che porre dei vincoli, aprire o chiudere una posizione dottrinale proprio come, ad esempio, fecero gli apostoli con l’esempio di Atti 15.6 che abbiamo citato, poi risolto ai versi 19 e 20. La Chiesa è allora chiamata a intervenire, come “colonna e sostegno della verità”, in tutte quelle questioni che ogni credente può sempre porre per i problemi più svariati, e dare delle risposte e provvedimenti perché altrimenti non sarebbe tale nel senso che, non agendo, dimostrerebbe di non avere un mandato. E qui si apre un discorso assolutamente vasto, credo impossibile a svilupparsi in poco né in molto spazio. “Legare”o “Sciogliere”è una responsabilità che possono assumersi in pochi, al contrario di quanto spesso avviene perché la vera sottomissione al Signore e allo Spirito è cosa rara e le “chiavi”verranno consegnate a Pietro solo dopo la discesa dello Spirito Santo e una sua provata maturazione, non prima. Ora, vediamo che queste vengono date anche alla Chiesa, ma quanti oggi sono in grado di usarle? Ricordiamo anche Giovanni 20.23, “A coloro cui perdonerete i peccati, saranno perdonati, a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati”che ha stretta attinenza con quanto esaminato e non può essere applicato alla confessione auricolare, ma rientra proprio con quanto fin qui esaminato. E il perdono è una cosa molto seria, che comprende tante situazioni che comportano il pentimento perché questo possa verificarsi perché altrimenti si cadrebbe “…sotto il potere di Satana, di cui non ignoriamo le intenzioni”(2 Corinti 2.11).

Concludendo: quando la Chiesa stabilisce che una persona debba essere considerata “come il pagano o il pubblicano”significa che quella, per le posizioni assunte di fronte a lei e non tanto di fronte a un fratello a seguito di una semplice contesa o torto, non è in possesso di quelle caratteristiche interne che portano inevitabilmente un frutto di amore, pace e fedeltà alla Parola.

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11.35 – IL DISCORSO ECCLESIOLOGICO 6: IL RAPPORTO FRATERNO I (Matteo 18.15-18)

11.35 – Il discorso ecclesiologico 6, il rapporto fraterno I (Matteo 18. 15-18)

 

15Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; 16se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni.17Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano. 18In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo.

 

            È la parola del verso 17, qui tradotta con “comunità”, letteralmente “assemblea”e da altri “Chiesa”che troviamo la giustificazione al titolo di queste riflessioni, “il discorso ecclesiologico”, perché qui, per la prima volta nei discorsi di Gesù riservati ai discepoli, si parla di qualcosa che va oltre alla Sinagoga ebraica, che mai avrebbe avuto il potere di“legare e sciogliere”correlato a ciò che è “in cielo”. Ricordiamo anche le due scuole rabbiniche di Hillel e Shammai, la prima più rigida e l’altra più elastica nell’interpretazione della Legge, che però non ebbero alcun potere in tal senso. Sempre per la prima volta, poi, viene descritta la comunità dei credenti come un organismo vivo, chiamato ad agire e operare anche al suo interno e non solo nella predicazione del Vangelo, in quanto composta da esseri umani che, nonostante la chiamata ad essere “santi”, possono sbagliare e non essere effettivamente liberati da quegli elementi tipici del mondo che li hanno caratterizzati prima della loro salvezza. Per molti queste parole possono costituire un controsenso, ma dobbiamo pensare che riguardano l’uomo nel profondo e dimenticano che, se Cristo li ha liberati dal peccato, non significa che di colpo hanno raggiunto la perfezione, ma sono stati posti nella condizione di perseguire un cammino di verità che richiede lo spogliarsi costante dell’ “uomo vecchio”con tutte le sue prepotenti esigenze.

Ricordiamo in proposito alcuni passi importanti, il primo dei quali già citato: “Celebriamo la festa – la Pasqua, quindi il memoriale– non con il lievito vecchio, né con lievito di malizia e di perversità, ma con azzimi di sincerità e di verità”(1 Corinti 5.8), invito rivolto a quei credenti che non si sono ancora liberati del “lievito vecchio”, ma ancor di più Efesi 4.17-32 che descrive in modo perfetto ciò che eravamo e ciò che siamo, o dovremmo essere, condizionale che non ammetterà scusanti quando ci troveremo davanti a Lui nel “rendiconto”: “Vi dico dunque e vi scongiuro nel Signore– notiamo l’appello accorato dell’Apostolo – : non comportatevi più– perché il ricordo di quelle azioni non è scomparso e neppure il loro richiamo – come i pagani con i loro vani pensieri, accecati nella loro mente, estranei alla vita di Dio a causa dell’ignoranza che è in loro e della durezza del loro cuore. Così, diventati insensibili, si sono abbandonati alla dissolutezza e, insaziabili, commettono ogni sorta di impurità. Ma voi– ecco l’identità nuova – non così avete imparato a conoscere il Cristo, se davvero gli avete dato ascolto e se in lui siete stati istruiti, secondo la verità che è in Gesù, ad abbandonare, con la sua condotta di prima, l’uomo vecchio che si corrompe seguendo le passioni ingannevoli, a rinnovarvi nello spirito della vostra mente e a rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella vera santità”.

In questa prima parte, allora, Paolo ricorda ciò che gli Efesi erano e ciò che sono, situazione che può dirsi ed essere stabile solo se la condotta dell’uomo vecchio viene abbandonata e si pone in opera il rinnovamento, azione che non finisce mai. Il testo prosegue: “Perciò, bando alla menzogna e dite ciascuno la verità al suo prossimo, perché siamo membra gli uni degli altri. Adiratevi, ma non peccate; non tramonti il sole sopra la vostra ira, e non date spazio al diavolo. Chi rubava non rubi più, anzi lavori operando il bene con le proprie mani, per poter condividere con chi si trova nel bisogno. Nessuna parola cattiva esca dalla vostra bocca, ma piuttosto parole buone che possano servire per un’opportuna edificazione, giovando a quelli che ascoltano. E non vogliate rattristare lo Spirito Santo di Dio, con il quale foste segnati per il giorno della redenzione. Scompaiano da voi ogni asprezza, sdegno, ira, grida e maldicenze con ogni sorta di malignità. Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato voi in Cristo”.

Ecco, quanto letto possiamo definirlo un appello,  un richiamo accorato a riconoscere i difetti ancora presenti in noi per operare alla loro eradicazione esattamente come quando, poco prima nel suo discorso, Nostro signore aveva parlato della necessità di amputare la mano, il piede e/o l’occhio a seconda della “concupiscenza”che attrae ciascun membro della Chiesa. E ricordiamo ancora Colossesi 3.10,11 che ricorda quanto avvenuto in noi un giorno: “Vi siete svestiti dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova– azione quindi che si sviluppa nel tempo e non subito – per una piena conoscenza, ad immagine di Colui che lo ha creato. Qui non vi è Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro, Sciita, schiavo, libero, ma Cristo è tutto e in tutti. Scelti da Dio, santi e amati, rivestitevi dunque di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità, sopportandovi a vicenda e perdonandovi gli uni gli altri, se qualcuno avesse di che lamentarsi nei confronti di un altro. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi. Ma sopra tutte queste cose, rivestitevi della carità, che le unisce in modo perfetto”.

Appare ora evidente che, nei passi dell’Apostolo citati, la divisione netta fra chi appartiene a Dio e chi no, quindi tra “uomo vecchio”e “uomo nuovo”, diventa tale solo nel momento in cui chi ha creduto sceglie di aderire al progetto di Dio in prima persona, cioè operando in sé affinché il Signore sia posto nella condizione di agire attraverso il suo Santo Spirito; viceversa, quanto viene letto e la partecipazione alle riunioni dell’Assemblea resteranno solo atti compiuti senza altro scopo che quello dell’apparenza e della soddisfazione della carne, di quella sua parte erroneamente definita “spirituale”.

 

Fatta questa importante premessa, possiamo affrontare quanto detto da Gesù ai discepoli che, in questo intervento, forse allude a quella discussione animata avvenuta poco prima, quando vi era stata la discussione tra chi di loro fosse “il maggiore”, cioè il più importante, il più atto a comandare sugli altri, o il preferito dal Maestro. Ancora, ricordiamo quando si erano rivolti accuse reciproche perché si erano ritrovati con un solo pane sulla barca, insufficiente a sfamarli. Possiamo dire che sicuramente quanto avvenuto nei due episodi era qualcosa di tipicamente, tristemente umano e altrettanto la è l’ipotesi formulata al verso 13, “Se un tuo fratello commetterà una colpa contro di te”, dove la “colpa”, originale dal greco “peccare contro, ingiuriare”, si riferisce a torti o a litigi di natura privata. Superficialmente c’è chi è convinto che certe cose, fra veri cristiani, sia impossibile che succedano, ma qui – e non solo – emerge l’esatto contrario, anzi, vi è un richiamo a Levitico 19.17-19 “Non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello; rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai di un peccato per lui. Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore. Osserverete le mie leggi”. Ed è bello considerare che, se in questo passo abbiamo delle proibizioni ferme, nelle parole che troviamo negli scritti del Nuovo Patto il motore che muove i componenti della Chiesa è l’amore che portano in e per Cristo a spingerli, che non consente l’odio covato nel cuore. L’amore per il “prossimo”viene poi purtroppo generalizzata ed estesa a chiunque, mentre in realtà è riferita a chi è “vicino”, quindi al confratello, o consorella e non può essere applicata alle persone con le quali abbiamo a che fare quotidianamente, che non fanno parte della famiglia di Dio. Non si tratta di comportarsi come dei settari, ma di dare priorità e chi la deve avere tenendo sempre presente che coloro che non conoscono l’amore di Dio possono comunque diventare suoi figli in futuro, a meno che non abbiano uno spirito di opposizione.

Possiamo dire che l’offesa e il contrasto portato da chi appartiene al mondo è naturale e inevitabile ma quella portata da un fratello, per le dinamiche che si sono instaurate, è innaturale ma possibile, e allora occorre agire affinché si pervenga ad una soluzione proprio perché quello stato di inimicizia conseguente alla “colpa”contro la persona venga a cessare: esattamente come per le amputazioni di cui Gesù ha parlato poco prima di questi versi, tese ad impedire lo sviluppo di situazioni moralmente e spiritualmente incresciose, con il “va’, e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolta, avrai guadagnato il tuo fratello”, abbiamo la cura contro il rancore, “il rancido del cuore” come qualcuno lo ha definito, che sfocerebbe inevitabilmente in astio aperto facilmente riconoscibile dagli altri componenti della Chiesa che, ignorandone le cause, potrebbero venire scandalizzati ed interrogarsi in merito senza possibilità di comprendere.

“Avrai guadagnato il tuo fratello”è il risultato del “se ti ascolta”, cioè ammette il proprio torto e qui viene chiamata in causa l’intelligenza spirituale tanto dell’una quanto dell’altra parte, poiché l’eventuale offeso deve porre amorevolmente l’offensore nelle condizioni di ammettere il proprio errore; in altri termini non basta dire “tu mi hai fatto questo”, perché altrimenti la questione verrebbe posta nello stesso ambito in cui l’offesa è stata generata e la contesa si riproporrebbe identica. Piuttosto, qui vengono chiamate in causa la verità e la carità assieme affinché il fratello sia guadagnato, cioè che la contesa cessi a vantaggio dell’amore possibile solo nel momento in cui la parte colpevole comprenda – più che ammetta, perché quello viene da sé – il proprio errore. Anche qui possiamo citare ad esempio il profeta Natan che, quando dovette far riconoscere a Davide il peccato commesso con la moglie di Uria, non andò da lui accusandolo, ma gli narrò una parabola ponendolo nella condizione di autoaccusarsi, rivelandogli successivamente che era lui ad avere sbagliato e non il personaggio ipotetico presentato (2 Samuele 12.1-12): Vi erano due uomini nella stessa città, uno ricco e l’altro povero. Il ricco aveva bestiame minuto e grosso in gran numero; ma il povero non aveva nulla, se non una sola pecorella piccina che egli aveva comprata e allevata; essa gli era cresciuta in casa insieme con i figli, mangiando il pane di lui, bevendo alla sua coppa e dormendo sul suo seno; era per lui come una figlia. Un ospite di passaggio arrivò dall’uomo ricco e questi, risparmiando di prendere dal suo bestiame minuto e grosso, per preparare una vivanda al viaggiatore che era capitato da lui portò via la pecora di quell’uomo povero e ne preparò una vivanda per l’ospite venuto da lui». Allora l’ira di Davide si scatenò contro quell’uomo e disse a Natan: «Per la vita del Signore, chi ha fatto questo merita la morte. Pagherà quattro volte il valore della pecora, per aver fatto una tal cosa e non aver avuto pietà». Allora Natan disse a Davide: «Tu sei quell’uomo»”.

Ecco allora che, porgendo ai suoi discepoli questo insegnamento, Gesù non intende esporre soltanto una formale, corretta procedura, ma sottolinea l’obiettivo primario, il “guadagnare il tuo fratello”che, “se ti ascolta”, si troverà ad essere un debitore spirituale perché, grazie a quell’intervento, sarà stato posto nelle condizioni di crescere spiritualmente avendo rimosso un’importante pietra d’inciampo nel proprio cammino. Inoltre, chiamando in causa l’intelligenza dell’offeso, avrà posto quest’ultimo nelle condizioni di utilizzare una strategia tesa non al redimere ciò che di umano si era venuto a creare, ma al ristabilimento di un equilibrio tanto necessario quanto inevitabile per entrambi perché, nel culto, la presenza dell’inimicizia e della non comunione piena non sono ammessi. L’obiettivo finale è infatti posto in risalto da Giacomo, “fratello del Signore”: “…se uno di voi si allontana dalla verità e un altro ve lo riconduce, costui sappia che chi riconduce un peccatore dalla sua via di errore lo salverà dalla morte e coprirà una moltitudine di peccati”(5.19,20). Perché siamo esenti dall’errore fino a prova contraria. Amen.

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11.34 – IL DISCORSO ECCLESIOLOGICO 5: LA PECORA SMARRITA (Matteo 18.24-27)

11.34 – Il discorso ecclesiologico 5: la pecora smarrita (Matteo 18. 24-27)

 

12Che cosa vi pare? Se un uomo ha cento pecore e una di loro si smarrisce, non lascerà le novantanove sui monti e andrà a cercare quella che si è smarrita? 13In verità io vi dico: se riesce a trovarla, si rallegrerà per quella più che per le novantanove che non si erano smarrite. 14Così è volontà del Padre vostro che è nei cieli, che neanche uno di questi piccoli si perda.

 

            Chi legge questa parabola prova, tecnicamente, un sottile senso di smarrimento perché è indubbio che sia connessa a quella, dal racconto più esteso, inserita in un gruppo di tre che trattano il recupero della persona (Luca 15.4-7), che svilupperemo più avanti quanto a testo: “Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non ascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro: «rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta». Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione”. Si tratta indubbiamente di un’esposizione più ricca di dettagli, dedicata a chi si era radunato per ascoltarlo, “i pubblicani e i peccatori”, oltre che “i farisei e gli scribi”che “mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro”. Nel nostro testo, più stringato, Gesù parla ai suoi. In entrambi i racconti abbiamo però gli stessi numeri, il cento e il novantanove, che vanno esaminati per capire meglio ciò che Nostro Signore volle annunciare in entrambe le circostanze.

 

Il numero cento: già il fatto che sia il risultato della moltiplicazione di 10×10 ci dà l’idea che troviamo la figura di quanto basta agli occhi di Dio non dal punto di vista della sufficienza, ma del raggiungimento delle Sue aspettative, non di più né di meno, e quindi ci parla di ciò che Lo soddisfa. Il 100 è al tempo stesso rappresentazione di una cifra precisa, mi viene da raccordarla con “il giorno e l’ora” conosciuti solo dal Padre, vista nel massimo che l’uomo può dare, come leggiamo nel risultato della germinazione dei terreni: “Un’altra parte cadde nel terreno buono e diede il frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno”(Matteo 13.8), là dove la il “terreno buono”è identificato in “colui che ascolta la parola e la comprende”(v.23). Ascolto e comprensione formano quindi un tutt’uno e siamo responsabili dell’una e dell’altra azione perché altrimenti saremmo come colui che si guarda allo specchio in Giacomo 1.23,24: “Se uno ascolta la Parola e non la mette in pratica, costui somiglia a un uomo che guarda il proprio volto allo specchio; appena si è guardato, se ne va, e subito dimentica com’era”, descrizione che purtroppo si adatta a molti.

Ricordiamo poi, tornando al tema numerico, i cento denari di debito al “servo spietato”, indice questa volta di proporzione, cioè relativi alla fattibilità del rifonderlo, i gruppi “di cento e di cinquanta”visti nel miracolo della “moltiplicazione dei pani e dei pesci”. Possiamo anche definire questo numero come quello in cui Dio e l’uomo si incontrano, perché Gesù disse “Non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la ita eterna nel tempo che verrà”(Marco 10.30). Abbiamo poi gli anni di Abrahamo quando diventò padre di Isacco, appunto cento (Genesi 21.5), contrapposti agli 86 di quando ebbe Ismaele (16.16) e ai novantanove di quando gli fu promesso un figlio da Sara.

Stante ciò che il cento rappresenta va da sé che il novantanove sia un chiaro indice non tanto di inferiorità, ma di mancanza, incompletezza di fronte alla quale si rende necessario un diretto intervento di Dio perché questa venga a cessare: qui viene raccontato di un pastore che, dopo uno dei tanti conteggi di controllo durante la giornata, si accorge che una pecora manca. Rileviamo che qui Nostro Signore parla di “pecore”, cioè di un animale ben preciso affrontato già diverse volte, ma qui direi che è necessario sottolineare che la pecora in questione è già sua, quindi il riferimento è all’uomo chi gli appartiene tanto prima che dopo avere fatto la Sua conoscenza. E sono convinto che qui, a parte le riflessioni che faremo più avanti quando esamineremo la parabola nella sua forma “completa” in Luca 15, stia la totalità del principio: Gesù disse ai Giudei “voi non credete, perché non siete delle mie pecore”(Giovanni 10.26), cioè non lo erano né lo sarebbero mai stati perché il loro “padre”era un altro (8.44). Ora il discorso si fa più sottile, perché se il cristiano salvato appartiene a Dio ed è quindi una “pecora”, in un certo senso lo era anche prima pur non essendo ancora stato chiamato e salvato: se infatti i nomi scritti nel libro della vita lo sono “prima della fondazione del mondo”, va da sé che già mentre eravamo peccatori, senza rendercene conto, avevamo degli elementi in noi che sarebbero germogliati un giorno. Per non creare fraintendimento con queste mie frasi, era come se fossimo attesi ed ecco perché il nostro nome era già scritto, conosciuto.

Qui dobbiamo prestare attenzione perché ciò non ha nulla a che vedere con la predestinazione in quanto l’uomo è sempre libero di scegliere, si trova perennemente di fronte a un bivio anche solo ogni qualvolta pensa. La decisione sulla strada da percorrere viene fatta volontariamente dalla persona e senza nessuna influenza nonostante pesino le scelte fatte anzitempo dalla propria famiglia, che di lui porta tanto la responsabilità quanto gli trasmette elementi di cui farà tesoro in seguito, nel bene e nel male. La possibilità di mutare l’indirizzo della propria vita però c’è sempre, la chiamata di Dio è per ogni uomo e soprattutto è personale, per cui personalmente si accetta o personalmente si rifiuta. Poi, a rendere pratico il verso che abbiamo visto tempo fa, “Nessuno viene a me se il Padre non lo attira”, è la somma di un’infinità di elementi, tutti volontari e valutati da Colui che è.

Il pastore “lascia le novantanove sui monti”, dove non possono smarrirsi, in un recinto o sorvegliate dai cani, e va “a cercare quella che si (è) smarrita”: deve fare fatica, tornare indietro, chiedersi la direzione che un animale come la pecora, priva di orientamento, può avere preso. Deve controllare eventuali tracce sul terreno, guardare negli anfratti, fra i cespugli, tendere l’orecchio per sentire un eventuale belato. Notiamo anche come sia esclusa la possibilità che la pecora in questione sia stata rubata, ma l’esempio vale per quella che si è persa e anche qui intravediamo la verità in base al quale “nessuno può strapparle dalla mia mano”perché la pecora può perdersi, ma non morire.

Mi sono chiesto a questo punto il perché e come un uomo possa smarrirsi e qui possiamo aprire due discorsi, il primo riguarda la vita condotta prima dell’incontro col Signore Gesù: come la pecora, vagavamo cercando di nutrirci con quel poco che riuscivamo a trovare. E c’era un senso di incompletezza, più o meno dominante. Aspirazioni che si inseguivano, ideali di vita che a volte sembravano vicini, altre si allontanavano, ma la consapevolezza di essere persi non c’era e ci si limitava a rincorrere un vuoto lontanamente consapevole. E quando siamo stati trovati, tutto è cambiato, siamo stati portati in una dimensione prima sconosciuta.

L’essere credenti, però, non ci garantisce l’ingresso in una sorta di paradiso terrestre in cui “tutto è bellissimo” e si vive perennemente con “la pace nel cuore”, ma siamo sempre in un mondo che richiede adesione, che tenta, propone modelli di vita e ideali di fronte ai quali esiste sempre il rischio di soccombere, soprattutto se non si hanno conosciuto quegli spazi e sistemi che fanno maturare. E allora anche in questo caso è facile perdersi, come la pecora della parabola che, probabilmente, è rimasta indietro nel percorso del gregge. E qui si parla comunque di un animale preciso, quindi, in base a questa seconda classificazione, di un appartenente della Chiesa, di un salvato il cui nome è scritto nel libro della vita, perché altrimenti la classificazione sarebbe diversa (ricordiamo le parole su quelli che “se sono caduti, è impossibile rinnovarli una seconda volta portandoli alla conversione”in Ebrei 6.6). Ebbene, anche qui l’opera del pastore è la stessa, si mette a cercare.

Notiamo che al verso 11 Gesù non dà per scontato il fatto che la sua ricerca abbia un esito felice: “Se riesce a trovarla”perché trovare una pecora implica tanto la messa in atto degli accorgimenti citati poco prima, quanto il chiamarla e soprattutto che lei risponda, come in effetti avviene ancora oggi, fatto di cui troviamo traccia anche nelle parole che descrivono il rapporto del Pastore: “Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono”(Giovanni 10.27). Nel nostro caso, allora, quel “Se riesce a trovarla”implica il fatto che la pecora risponda, si metta a belare per farsi sentire e sappiamo che in quel caso il ritrovamento è inevitabile.

La parabola qui esposta credo abbia un significato diverso da quella che ritroveremo in Luca, poiché, ricordando le parole citate all’inizio, leggiamo che il pastore “va in cerca di quella perduta, finché non la trova. Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici, e dice loro «Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta»”(15.5,6).

In questa di Matteo leggiamo “…si rallegrerà per quella più che per le novantanove che non si erano smarrite”, e qui abbiamo qualcosa per noi umanamente poco comprensibile: novantanove pecore sono un bel numero e una in meno, dal punto di vista del profitto, è poca cosa soprattutto secondo la mentalità dell’allevamento moderno, ma il discorso di Gesù è distante anni luce da questo ragionamento perché qui la pecora è vista come valore per la vita che porta e per il fatto che è stata affidata a quel Pastore che considera le novantanove che ha già come un dato di fatto. Quella che si è persa, però, rappresenta una sconfitta nei confronti della totalità del gregge. E infatti non a caso il testo conclude con “Così è la volontà del Padre vostro, che nessuno di questi piccoli si perda”.

Dalle parole di Gesù, come in effetti è, sembra che la perduta ritrovata abbia un valore maggiore rispetto alle altre rimaste e così è perché la considerazione che fa il Pastore di quell’animale è simbolicamente la stessa che troviamo sul figlio prodigo tornato alla casa paterna: “…questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”(Luca 15.24). Lo stesso non poteva dirsi delle altre pecore che non si erano smarrite ed ecco perché è scritto che “vi sarà più gioia nel cielo per un peccatore che si converte, più che per novantanove giusti che non han bisogno di conversione”(Luca 15.7). È proprio per questa “gioia nel cielo”avvenuta nel momento in cui ci siamo arresi all’amore di Dio che abbiamo il dovere di perseverare nel cammino che ci è destinato. E siamo responsabili anche di quella gioia. Amen.

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11.33 – IL DISCORSO ECCLESIOLOGICO 4: LA MONETA D’ARGENTO (Matteo 17.24-27)

11.33 – Il Discorso Eccleiologico 4: La moneta d’argento (Matteo 17. 24-27)

 

24Quando furono giunti a Cafàrnao, quelli che riscuotevano la tassa per il tempio si avvicinarono a Pietro e gli dissero: «Il vostro maestro non paga la tassa?». 25Rispose: «Sì». Mentre entrava in casa, Gesù lo prevenne dicendo: «Che cosa ti pare, Simone? I re della terra da chi riscuotono le tasse e i tributi? Dai propri figli o dagli estranei?». 26Rispose: «Dagli estranei». E Gesù replicò: «Quindi i figli sono liberi. 27Ma, per evitare di scandalizzarli, va’ al mare, getta l’amo e prendi il primo pesce che viene su, aprigli la bocca e vi troverai una moneta d’argento. Prendila e consegnala loro per me e per te».

 

            Può sembrare strano che venga inserito, in mezzo al discorso ecclesiologico, un episodio che, in realtà avvenne poco prima. Credo che però, considerata la frase del verso 27, “per evitare di scandalizzarli”, sia giusto inserirlo dopo l’insegnamento sullo skàndalon, per poter fare alcune precisazioni-estensioni, nonostante quanto letto preceda la trattazione di Nostro Signore in merito.

I soggetti del racconto sono tre: “quelli che riscuotevano la tassa per il tempio”, Pietro che risponde prima a loro e poi a Gesù, ed infine Lui, che gli ordina di pescare un pesce per prendere la moneta d’argento, nel testo originale “statére” e consegnarla “a loro per te e per me”. La nostra versione interpreta correttamente il testo originale che scrive “quelli che raccoglievano le due dramme”, o “didramme” per distinguerli dai pubblicani che si occupavano di riscuotere la “moneta del censo”, cioè “un denaro”, tributo imposto dal governo romano menzionato in 22.17 e seguenti: quando i discepoli dei farisei chiesero a Gesù se era o meno lecito pagare il tributo a Cesare, la Sua risposta fu “«Perché mi tentate, ipocriti? Mostratemi la moneta del tributo». Quelli gli presentarono un denaro. E disse loro «Di chi è questa immagine e l’iscrizione?». Gli dissero: «Di Cesare». Allora disse loro: «Date dunque a Cesare le cose di Cesare e a Dio le cose di Dio»”.

Le due dramme, o mezzo siclo, circa sette grammi d’argento, erano la somma che doveva essere pagata da ogni maschio dai trent’anni in su per il mantenimento e il servizio nel Tempio. L’istituzione di tale offerta, che era obbligatoria ma in realtà tutti davano volontariamente, trae la sua origine in Esodo 30.12-14: “Quando per il censimento conterai uno per uno gli Israeliti, all’atto del censimento ciascuno di essi pagherà al Signore il riscatto della sua vita, perché non li colpisca un flagello in occasione del loro censimento. Chiunque verrà sottoposto al censimento, pagherà un mezzo siclo, conforme al siclo del santuario, il siclo di venti ghera – tradotto anche “il siclo contiene venti oboli” –. Questo mezzo siclo sarà un’offerta prelevata in onore del Signore. Ogni persona sottoposta al censimento, dai venti anni in su, corrisponderà l’offerta prelevata per il Signore. Il ricco non darà di più e il povero non darà di meno di mezzo siclo, per soddisfare all’offerta prelevata per il Signore, a riscatto delle vostre vite. Prenderai il denaro espiatorio ricevuto dagli Israeliti e lo impiegherai per il servizio della tenda del convegno – il Tempio non c’era ancora –. Esso sarà per gli Israeliti come un memoriale davanti al Signore, per il riscatto delle vostre vite”. Abbiamo letto che il testo parla di “censimento”, ma dopo il ritorno dalla deportazione a Babilonia sotto Nabucodonosor  tra il VII e il VI secolo a.C., diventò un tributo da pagare annualmente.

Ecco allora che gli ignoti riscossori delle due dramme, una volta presentatisi, furono molto meravigliati del fatto che, alla loro vista, Pietro e il suo Maestro non avessero messo le mani alla cassa per dare il tributo, che non veniva mai chiesto, ma dato spontaneamente stante il forte senso religioso allora presente. Il testo originale non recita “Il vostro maestro non paga la tassa”, ma “le didramme”, a sottolineare la sorpresa di quelli e non una frase pronunciata, come avvenuto per i farisei e gli scribi, per tentare Gesù. Questa disposizione d’animo è molto importante per le applicazioni che faremo.

Alla domanda Pietro risponde “Sì” dando per scontato che, appartenendo allo stesso popolo e conscio che il servizio al Tempio era comunque svolto per onorare il Padre, e rientra in casa per raccogliere le due dramme che ciascuno avrebbe dovuto dare agli incaricati. Viene però prevenuto dalla domanda del Maestro: “Che cosa ti pare, Simone? I re della terra da chi riscuotono le tasse e i tributi? Dai propri figli, o dagli estranei?”.

Qui Nostro Signore, con le sue parole “i figli sono liberi”, fa un parallelismo fra i re della terra ed il Re assoluto cui le due dramme andavano date, e il senso di ciò che spiega a Pietro è chiaro: se i figli dei sovrani del mondo non pagavano certo il tributo che davano le persone comuni, Lui, quale Figlio di Dio, era esente dal dare l’offerta, tanto più che avrebbe dato se stesso. Vediamo però che, a differenza di tutte le volte in cui si trovò a difendere un principio dottrinale senza mai cedere, diremmo con un’espressione popolare “di un millimetro”, qui si comporta diversamente, cioè: le persone che avevano chiesto a Pietro se Gesù non pagasse le due dramme lo avevano fatto esprimendo la loro meraviglia, anticipando il loro turbamento qualora ciò non fosse avvenuto e per questo, per non porre a loro un motivo di inciampo, acconsente a pagare anche se in un modo particolare.

Abbiamo allora da questo episodio un insegnamento preciso, parente stretto di quanto già osservato nel citare l’insegnamento di Paolo da Tarso a proposito dello scandalizzare i deboli su cose di poco conto: certo Gesù avrebbe potuto mettersi a spiegare a quegli esattori il motivo per cui non era tenuto a pagare il tributo, ma non avrebbero capito e sarebbero rimasti turbati e interdetti sul fatto che, proprio Lui che predicava ed era indubbiamente un profeta, non avesse dato quanto chiesto. Per questo motivo abbiamo qui un miracolo in un certo senso anomalo, che non viene mai in mente a nessuno quando si tratta di elencare quanto di soprannaturale fatto da Gesù in terra. Eppure è Lui il “figlio dell’uomo” di cui parla Davide in Salmo 8.6-10: “Davvero lo hai fatto poco meno di un dio, di gloria e di onore lo hai coronato. Gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi: tutte le greggi e gli armenti e anche le bestie della campagna, gli uccelli del cielo e i pesci del mare, ogni essere che percorre le vie dei mari”.

Ecco perché Gesù sapeva quanto sarebbe successo: “Va’ al mare, getta l’amo e prendi il primo pesce che viene su, aprigli la bocca e troverai una moneta d’argento – il testo originale ha “statére” –. Prendila e consegnala loro per te e per me”. Va ricordato che lo statére era una moneta attica che valeva l’esatto quadruplo di una dramma, cioè di un siclo ebraico, quindi Pietro estrasse dal pesce due didramme.

Possiamo aprire anche una parentesi a proposito del pesce, che fu sicuramente il cosiddetto Chronis Simonis, dal ciclo vitale molto particolare: la femmina depone le uova tra la vegetazione sott’acqua e il maschio le raccoglie in bocca conservandole fino a quando i piccoli raggiungono la lunghezza di circa dieci millimetri. Per espellerli, il maschio incubatore introduce nella sua bocca un sassolino o un oggetto che provoca l’uscita dei piccoli, ma rimane nella sua bocca per qualche tempo. Nel nostro caso, quel pesce trovò uno statére che fece la stessa funzione del sasso, o del ciottolo.

“Prendile e consegnala a loro per te e per me”. E gli altri? Essendo una “tassa” riservata solo agli israeliti e tali essendo i discepoli, l’unica spiegazione possibile è che, stante il poco valore delle due dramme, undici di loro ne fossero in possesso, tranne Pietro. Potremmo anche supporre che gli altri undici non fossero ancora in casa, stante il fatto che gli evangelisti si preoccupano sempre del senso degli episodi e spesso non sono così minuziosi nel descrivere il contesto. Abbiamo letto infatti “Quando furono giunti a Capernaum”, ma non che tutti entrarono nella casa in cui Gesù abitava.

Tornando all’episodio, Nostro Signore, quand’anche avesse avuto le due dramme, non era tenuto a pagarle per cui nello statére raccolto dalla bocca del pesce vediamo Gesù come Figlio di Dio che, pur non dovendo dare nulla, pagò comunque ma solo da un punto di vista tecnico. Allo stesso modo Pietro qui è visto come figura della Chiesa nel senso che, come tutti gli altri e noi, sarebbe diventato un figlio di Dio assumendo in quanto tale l’identità del suo Maestro: “a quanti lo hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio”. Il cristiano infatti rientra nel Suo progetto, “Poiché quelli che ha sempre conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito di molti fratelli; quelli poi che ha predestinato li ha anche chiamati; quelli che ha chiamato li ha anche giustificati; quelli che ha giustificato, li ha anche glorificati” (Romani 8.29,30).

È allora chiaro che Gesù non era tenuto a dare nulla in quanto Figlio del Padre cui era dedicato il Tempio con le sue funzioni, ma se gli altri discepoli, rappresentati qui da Pietro, avessero dovuto osservare strettamente quella prescrizione dando anch’essi le due dramme, certamente in quel pesce si sarebbe trovato mezzo siclo e non uno intero. Nostro Signore non fa presente a Pietro che avrebbe dovuto restituirgli la parte eccedente, ma gli dice “consegnala loro per te e per me”, a conferma del fatto che considerava quell’apostolo come simbolo di tutti coloro che avrebbero creduto in Lui un giorno. E qui si potrebbe aprire un capitolo a parte sull’identità che hanno i credenti col Padre e il Figlio, ma credo non ve ne sia bisogno perché tutto il Vangelo è improntato su questa verità predicata, che emergerà in tutta la sua forza e potenza dopo la resurrezione e la discesa dello Spirito Santo.

Possiamo concludere anche evidenziando ciò che Gesù avrebbe potuto fare e non fece, a parte lo spiegare agli “esattori” il motivo per cui non pagava: non disse “voi non sapete chi sono io”. Non li cacciò, con le buone o le cattive non importa. Non disse “Guarisco muti, sordi, lebbrosi e paralitici e questo vi deve bastare”. Non si sottrasse al pagamento, dimostrando ai discepoli col miracolo del pesce che comunque era esente da quel tributo, come in effetti lo rimase, non mettendolo “di tasca propria”.

Invece, pensò a non turbare gli esattori, in buona fede, che si aspettavano di ricevere le due dramme da lui: ricevendole, avrebbero potuto testimoniare che Gesù, come tutti gli altri, aveva dato il proprio contributo al mantenimento del Tempio, quello stesso edificio che verrà distrutto nel 70 mettendo la parola “fine” ad un culto che non avrebbe avuto più ragione di essere stante l’apertura della nuova dispensazione voluta proprio da Dio Padre.

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11.32 – IL DISCORSO ECCLESIOLOGICO 3: NOTE SU MATTEO 18.9-11 (Prima parte)

11.32 – Il discorso ecclesiologico 3: note su Matteo 18. 9-11 (Prima parte)

 

9(…). È meglio per te entrare nella vita con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geènna del fuoco.10Guardate di non disprezzare uno solo di questi piccoli, perché io vi dico che i loro angeli nei cieli vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli. [ 11] Poiché il figlio dell’uomo è venuto a salvare ciò che era perduto.

 

            Quando si esamina un testo fondamentale del Vangelo, è naturale seguire e cercare di approfondire gli insegnamenti più immediati, ma così facendo vi sono dei particolari che sfuggono; ecco allora che è necessario esaminare gli ultimi tre versi, ma anche aprire un collegamento ancora sugli scandali, alla luce di un episodio avvenuto prima del discorso ecclesiologico cui abbiamo dedicato, per ora, due capitoli. La postilla è un’annotazione fatta a mano su un testo e così, figurativamente, voglio intendere questo intervento e il successivo.

Prima nota va apposta alla seconda parte del verso nono: si tratta di una considerazione importante per chi rimane perplesso a fronte della necessità, per quanto figurata, di amputare la mano o il piede o cavare l’occhio, nel senso che “entrare nella vita con un occhio solo”, vale più che “con due occhi essere gettato nella Geènna del fuoco”;l’attaccamento a ciò che siamo, quindi che ci caratterizza e ci fa muovere nella vita decidendo cosa e come fare ed agire, qui si ferma, chiede una spiegazione. Preso con le faccende dell’esistenza, alcune obbligatorie ed altre per il suo esclusivo piacere o benessere, l’uomo dà molte cose per scontate: pensa che il domani gli appartenga e prende appuntamenti e impegni, sceglie e programma magari dove trascorrere l’estate o le feste, è intento a soddisfarsi o cercare di farlo e per questo cerca di mantenersi in salute, ma il verso in esame, parente di quello che invita a considerare l’utilità di guadagnare il mondo a fronte della perdita dell’anima, avverte che due mani, due piedi e due occhi non servono se poi si viene “gettati nella Geènna del fuoco”, espressione forte che conosciamo perché la Geènna era la valle di Ennon fuori da Gerusalemme dove ardevano perennemente dei fuochi che bruciavano i rifiuti. Mi sento di sottolineare quel “gettato”, che conferma il fatto che coloro i quali subiranno tale sorte avranno perso quell’autonomia a lungo cercata: nonostante la loro opposizione, verranno “gettati nella Geènna”perché considerati, appunto, rifiuti. E il rifiuto è un materiale di scarto o avanzo che non può essere utilizzato in alcun modo, per cui viene distrutto, eliminato.

Pensiamo: da individuo che voleva essere al centro di tutto, convinto di valere, chi si perderà finirà per non contare più nulla, sarà così stimato da Colui che avrà l’ultima parola, Gesù Cristo. Si tratta di una descrizione che, pur non con le stesse parole, troviamo in molte parabole, parte delle quali sono state esaminate.

Arriviamo così al verso 10, in cui Gesù torna al bambino che aveva chiamato e posto in mezzo a loro. Nostro Signore parla di “piccoli”, ma in modo diverso perché il riferimento non è più a chi è innocente o senza diritti, ma a chi deve crescere, pervenire allo stato adulto, di persona responsabile. Il bambino, qui, è allora colui che ha ancora tutto un cammino da percorrere sul quale non bisogna interferire scandalizzandolo e il verso prosegue in modo impegnativo per il lettore: “io vi dico che i loro angeli nei cieli vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli”. Sono quindi angeli presenti alla Corte Celeste e questo verso potrebbe lasciar supporre, a livello immediato, che i “piccoli”godano di una protezione tutta particolare vista nell’opera dell’ “angelo custode”, ma questa idea andrebbe a scontrarsi con gli innocenti periti per la strage voluta da Erode il Grande e tutti quei bambini che da sempre muoiono nelle guerre, carestie o, purtroppo, per mano dei loro stessi genitori.

“I loro angeli”, invece, appare più un’espressione riferita a quegli esseri che Paolo, probabile autore della lettera agli Ebrei, definisce “spiriti amministratori mandati a servire coloro che lo temono”(Ebrei 1.14), diretti operatori attivi a seguito della venuta di Gesù profetizzata anche in Salmo 33.7 “Calerà l’Angelo del Signore attorno a coloro che lo temono, e li libererà”. Quella descritta in Ebrei 1.14 è una realtà difficile da enucleare, che va oltre l’assistenza ufficiale che troviamo negli annunci a Zaccaria, Elisabetta, Maria o Giuseppe, con gli inviati a sostenere Gesù dopo il digiuno nel deserto o, uscendo dal contesto dei Vangeli, con l’episodio in cui Pietro fu liberato quando era in carcere (Atti 12.6-12). Credo che il ruolo dell’angelo, tenendo presente comunque questi episodi, sia da connettere a quello descritto in Esodo 23.20-24 quando il popolo di Dio, Israele, era destinato ad entrare nella terra promessa, quella di Canaan, come oggi la Chiesa attende i “nuovi cieli e nuova terra”e i suoi componenti di incontrare il Dio Vivente e Vero dopo la morte del corpo.

Prima di leggere il passo di Esodo, teniamo presente che il popolo di Dio è sempre esistito ed è uno, Israele prima della venuta del Figlio, e la Chiesa da allora in poi che li comprende entrambi, pagani ed ebrei, perché sono stati “riconciliati tutti e due con Dio in un corpo unico mediante la sua croce, sulla quale fece morire la loro inimicizia”(Efesi 2.16) in quanto, per la carne, lontani. Vediamo allora quanto ci è stato tramandato, inframmezzandolo con un breve commento: “Ecco, io mando un angelo davanti a te per custodirti nel cammino e per farti entrare nel luogo che io ti ho preparato– notiamo il verbo “preparare” usato anche da Gesù quando disse ai suoi “vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto tornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io”(Giovanni 14.1-3) –. Abbi rispetto della sua presenza, dà ascolto alla sua voce e non ribellarti a lui”. Anche oggi quell’ “angelo”parla a noi attraverso la Scrittura e lo Spirito Santo, il Consolatore. Attenzione ora a come prosegue il testo: “Egli infatti non perdonerebbe la vostra trasgressione, perché il mio nome è in lui”: anche qui viene spontaneo, riguardo alle parole “perché il mio nome è in lui”, il collegamento con quanto detto da Gesù dopo la Sua risurrezione, “Ogni potere mi è stato dato in cielo e sulla terra”(Matteo 28.18) e altri, come il fatto che Lui e il Padre siano una cosa sola (Giovanni 10.30). Nel termine “Gli angeli loro”, quindi, si riassume tutto questo: promessa di assistenza e guida, presenze reali che spesso sottovalutiamo quali “spiriti amministratori”. Lo stesso velo, che le sorelle dovrebbero indossare nelle Assemblee cristiane, costituisce un segno distintivo da indossare per loro (1 Corinti 11.10 “Per questo la donna deve portare sul capo un segno della sua dipendenza a motivo degli angeli”).

Torniamo al testo: “Se tu dai ascolto alla sua voce e fai quello che io ti dirò, io sarò il nemico dei tuoi nemici e l’avversario dei tuoi avversari”. È quindi il comportamento dell’uomo, in positivo o in negativo, che determina il comportamento dell’ “angelo”, “Se fai quello che io ti dirò”. Abbiamo allora questo essere da una parte e l’uomo dall’altra che non può più agire, per l’elezione e le promesse ricevute, come se fosse indipendente, dando retta solo a se stesso e ai suoi progetti perché intimamente, indissolubilmente legato a Dio. E il “non separi l’uomo ciò che Dio ha unito”non vale solo per il matrimonio, ma per quel legame che il Signore stesso ha voluto, scegliendo la persona per farla sua. Nel nostro testo di Esodo 23, infatti, il credente è chiamato ad assumere una posizione netta, senza restare un punto di domanda di fronte agli altri: “Quando il tuo angelo camminerà alla tua testa e ti farà entrare presso l’Amorreo, l’Evveo, il Gebuseo e io– non tu – li distruggerò, tu non ti prostrerai davanti ai loro dèi e non li servirai; tu non ti comporterai secondo le loro opere, ma dovrai demolire e frantumare le loro stele”.

Ora questi versi, scritti riguardo a popoli che vivevano un’altra dispensazione così come un modo di vivere diverso, parlano anche a noi per il comportamento che dobbiamo adottare nei confronti di chi ha dèi estranei, allora come oggi, visti in uno stile di vita, modo di ragionare, agire, pensare al di fuori di quel Dio di cui magari hanno sentito parlare, ma che non vogliono conoscere per dar luogo all’amore della verità per essere salvati. A volte tendiamo a sottovalutare il fatto che “tu non ti comporterai secondo le loro opere”non si riferisce soltanto a rimanere influenzati da un modo di ragionare e fare, ma sia un errore anche solo il salutare una persona e quindi parlare con essa ponendola sul nostro stesso piano. Così infatti scrive l’apostolo Giovanni: “chi va oltre e non rimane nella dottrina del Cristo, non possiede Dio. Chi invece rimane nella dottrina, possiede il Padre e il Figlio. Se qualcuno viene a voi e non porta questo insegnamento, non ricevetelo in casa e non salutatelo, perché chi lo saluta partecipa alle sue opere malvagie”(2 Giovanni 1. 8-11).

Ricevere una persona in casa equivale a renderla partecipe del nostro mondo, condividere con lei pensieri e dati facendolo un nostro pari. Giovanni qui non parla di una separazione di tipo farisaico, cioè porsi su un piano di superiorità arrogante, ma del fatto che si è diversi perché tra luce e tenebre non esiste cosa in comune e chi appartiene a Dio sarà sempre oggetto di attenzione distruttiva da parte di chi non è come lui, esattamente come fu per Abele con Caino.

Il nostro verso 10, allora, ha riferimento agli angeli come testimoni dello sviluppo del “bambino”o del “piccolo”, identificato in chi ha creduto, più che a un’attività di custodia e protezione perché altrimenti, nel caso citato di Caino e Abele, questi avrebbero clamorosamente fallito mentre spettava a Caino, primogenito, la responsabilità di essere tanto d’esempio, quando di rispettare e in un certo qual modo proteggere il fratello. E infatti il giudizio su di lui non fu da poco e, per coloro che scandalizzeranno i “piccoli”, vale l’esempio della macina da mulino.

“Disprezzare uno solo di questi piccoli”significa sminuire la loro testimonianza e la loro fede, certo quando è portata con parole e comportamento appropriato perché“chi accoglie voi, accoglie me”.

Altra postilla riguarda il verso undicesimo, non citato nella nostra versione ma presente in altre, che è un parallelo di Luca 19.10: “È venuto infatti il figlio dell’uomo a salvare ciò che era perito”, utilizzato come ponte tra l’insegnamento sui piccoli e la parabola della pecora perduta che esamineremo a breve.

Per riallineare poi il racconto cronologico ed estendere un poco quanto già scritto a proposito dello scandalo, resta da considerare un episodio avvenuto prima dell’inizio del discorso ecclesiologico, che sempre Matteo riporta in 17.24-27: di questo ci occuperemo nel prossimo capitolo.

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11.31 – IL DISCORSO ECCLESIOLOGICO 2: MANO – PIEDE – OCCHIO (Matteo 18.8-11)

11.31 – Il discorso Ecclesiologico 2: mano – piede- occhio (Matteo 18. 8-11)

 

8Se la tua mano o il tuo piede ti è motivo di scandalo, taglialo e gettalo via da te. È meglio per te entrare nella vita monco o zoppo, anziché con due mani o due piedi essere gettato nel fuoco eterno. 9E se il tuo occhio ti è motivo di scandalo, cavalo e gettalo via da te. È meglio per te entrare nella vita con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geènna del fuoco.10Guardate di non disprezzare uno solo di questi piccoli, perché io vi dico che i loro angeli nei cieli vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli. [ 11]

 

            Prima di iniziare a lavorare su questi versi, vale la pena ricordare la sintesi espressa da Gesù ai discepoli che verrà espressa da lì a poco: “In verità io vi dico, chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso”(Marco 10.15). È una frase che sconfessa la teoria universalista, che purtroppo ha trovato adesioni in diverse Chiese, che sostiene che Dio sia troppo buono per non accogliere tutti nel suo regno perché il vero inferno è qui, su questa terra.

L’accoglienza del regno di Dio, fatta con la semplicità e l’innocenza di un bambino perché tali si diventa nel momento in cui lo si accetta assieme a Gesù Cristo, è però correlata a versi che già conosciamo sono parole che abbiamo cercato di affrontare quando abbiamo visto il sermone sul monte e che pongono il bambino da una parte e l’uomo maturo dall’altra perché, spiritualmente parlando, non ci può essere l’uno senza l’altro.

Gesù, trattando il tema dello scandalo, prima ha parlato di quello provocato da terze persone ed ora qui passa ad esaminare ciò che può sempre sorgere all’interno di noi stessi riguardo la mano, il piede e l’occhio, organi che ci parlano delle scelte che la nostra persona compie quotidianamente. Per evitare di lasciare nei discepoli l’idea che la colpa possa sempre venire da altri, ecco che subito il tema si sposta sull’individuo, sul singolo che molto spesso è il vero nemico di se stesso, principio confermato dal possessivo “tua”e “tuo”. Esaminiamo allora le tre parti anatomiche citate da Nostro Signore.

 

LA MANO

Ha connessione con la volontà immediata, indica lo strumento con il quale concretiamo i nostri progetti, idee, intenzioni dirette. Compare per la prima volta in Genesi 3.22 con le parole “Poi il Signore disse: «Ecco, l’uomo è diventato come uno di noi quanto alla conoscenza del bene e del male– senza però essere in grado di portarla –. Che ora egli non stenda la mano e non prenda anche dell’albero della vita– diventato per lui incompatibile –, ne mangi e viva per sempre!»”. Ricordiamo poi Caino, che “alzò la mano contro il fratello Abele e l’uccise”(4.8), quella di Noè che, quando la colomba tornò all’arca, “stese la mano, la prese e la fece rientrare presso di sé”.

Si prende per mano in segno di protezione (21.18, “Àlzati, prendi il fanciullo per mano, perché io ne farò una grande nazione”) e la si può tendere per lo stesso motivo, ma qui deve essere la persona ad accettarla. La mano è quella che constata gli effetti dell’assistenza-esistenza di Dio e qui gli esempi sono innumerevoli, da Mosè con bastone tramutato in serpente e viceversa, per non parlare della lebbra (Esodo 4: “Il Signore gli disse ancora – a Mosè –: «Introduci la mano nel seno!». Egli si mise in seno la mano e poi la ritirò; ecco, la sua mano era diventata lebbrosa, bianca come la neve. Egli disse: «Rimetti la mano nel seno!». Rimise in seno la mano e la tirò fuori: ecco, era tornata come il resto della sua carne”) fino a Tommaso, che voleva metterla nel fianco di Gesù (Giovanni 20.25).

Arto delicato per l’ambivalenza che può assumere, veniva protetto per legge da cattive intenzioni: “Questi precetti che oggi ti do(…) te li legherai alla mano come un segno”(Deuteronomio 6.8). La mano rappresenta anche tutto ciò che potrebbe essere dato ad altri e invece viene tenuto per sé, quindi l’altruismo o l’egoismo: “Non chiuderai la mano al tuo fratello bisognoso, ma gli aprirai la mano e gli presterai quanto occorre alla necessità in cui si trova.(…) Dagli generosamente e, mentre gli doni, il tuo cuore non si rattristi. Proprio per questo, infatti, il Signore tuo Dio ti benedirà in ogni lavoro e in ogni cosa a cui avrai messo mano”(Deuteronomio 15.8-10).

In 1 Timoteo 2.8 l’apostolo Paolo scrive “Voglio dunque che in ogni luogo gli uomini preghino, alzando al cielo mani pure, senza collera e senza polemiche”dove abbiamo un importante insegnamento perché pregare con le “mani pure”implica un esame di coscienza preventivo, a ricordare che la preghiera viene elevata senza che vi siano peccati non confessati, a Dio o a un fratello o sorella, che la renderebbero vana. È scritto infatti che “Mosè stese le mani verso il Signore: i tuoni e la grandine cessarono e la pioggia non si rovesciò più sulla terra”(Esodo 9.33), cosa impossibile se non si fosse trovato in condizioni di purezza, nonostante la sua condizione di uomo. Ma era uno strumento di Dio e tale doveva rimanere.

La letteratura sapienziale, poi, collega quest’arto all’operosità o alla negligenza: ricordiamo Proverbi 21.25 (“Il desiderio del pigro lo porta alla morte, perché le sue mani rifiutano di lavorare”), Qoelet 10.18 (“Per negligenza il soffitto crolla e per l’inerzia delle mani piove in casa”, Siracide 2.12 (“Guai ai cuori pavidi e alle mani indolenti e al peccatore che cammina su due strade”).

 

 

IL PIEDE

Se la mano agisce nell’ambito del perimetro raggiungibile dalla persona ferma, il piede è quello che consente al corpo di spostarsi e quindi, all’occorrenza, amplia enormemente le possibilità della mano. Si tratta però di un’applicazione secondaria perché il piede è visto più come arto deputato alla stabilità, oltre che mobilità. La parola “piede” compare per la prima volta in Genesi 8.9 quando “la colomba, non trovando dove posare la pianta del piede, tornò a lui nell’arca, perché c’era ancora l’acqua su tutta la terra”. Al plurale, invece, abbiamo Genesi 18.2 quando alle querce di Mamre si presentarono ad Abrahamo “tre uomini che stavano in piedi presso di lui”. Prima che allo spostarsi, allora, il primo riferimento è all’equilibrio, che può essere stabile o precario. Anche questo è importante a tal punto da venire citato, assieme agli altri due oggetto di riflessione, nel famoso verso della Legge “Occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede”in Esodo 21.24.

La sua stabilità o meno è correlata all’ubbidienza a Dio: “Non permetterò più che il piede degli Israeliti erri lontano dal suolo che io ho dato ai loro padri, purché si impegnino ad osservare tutto quello che ho comandato loto, secondo tutta la legge che ha prescritto loro il mio servo Mosè”(2 Re 21.8); ricordiamo Salmo 26.12 “Il mio piede sta su terra piana; nelle assemblee benedirò il Signore”. Certo il piede è indispensabile per spostarsi, ma ha sempre riferimento al cammino spirituale, in bene o in male: “Poiché egli conosce la mia condotta; se mi mette alla prova, come oro puro io ne esco. Alle sue orme si è attaccato il mio piede, al suo cammino mi sono attenuto e non ho deviato”(Giobbe 23. 10,11).

Eloquente in proposito il libro dei Proverbi, “Allora camminerai sicuro per la tua strada e il tuo piede non inciamperà,(…) perché il Signore sarà la tua sicurezza e preserverà il tuo piede dal laccio.(…) Bada alla strada dove metti il piede e tutte le tue vie saranno sicure,(…) non deviare né a destra né a sinistra, tieni lontano dal male il tuo piede.(…) Quale dente cariato e quale piede slogato, tale è l’appoggio del perfido nel giorno della sventura”(3.23; 4.26; 25.19).

Da citare il calcagno, l’osso più voluminoso del tarso, che costituisce il tallone: conosciamo l’espressione “alzare il calcagno” contro qualcuno, che allude al ferire con frode, ma anche tendere delle trappole per neutralizzare. Il verso più noto in proposito è quello relativo al giudizio sul serpente, “Io porrò inimicizia fra te e la donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe – quindi figli di Dio e figli dell’Avversario –: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno”(Genesi 3.15): effettivamente Gesù fu dato in mano agli uomini che fecero di lui non quello che vollero, ma ciò che fu loro concesso. Lui stesso, parlando di Giuda ai Suoi, disse “…deve compiersi la Scrittura: Colui che mangia il mio pane ha alzato contro di me il suo calcagno”(Giovanni 13.18).

 

 

L’OCCHIO

Organo della vista, ne abbiamo parlato affrontando il sermone sul monte. Se mano e piede necessitano di comandi per lo più coscienti da parte del cervello, l’occhio spesso agisce autonomamente in base alla personalità, all’indole dell’individuo e va qui affrontato non sotto l’aspetto neurologico, ma psicologico perché la funzione visiva in un soggetto sano è costituita non solo dalle sue caratteristiche anatomo-funzionali, ma comprende anche processi percettivi, cognitivi ed emozionali. L’occhio allora è uno strumento di analisi, ma agisce anche in autonomia, istintivamente ed è su questa caratteristica che Gesù intende spostare l’attenzione dei suoi uditori, essendo nota la massima secondo la quale “l’occhio non si stanca mai di guardare né l’orecchio di udire”; può allora far cadere la persona in peccato non tanto senza che questa se ne accorga, ma innescando dei processi giustificativi dell’azione facendo che la mente, che dovrebbe controllarlo e dominarlo, venga messa in subordine.

Ricordiamo le parole che descrivono il primo peccato: “Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradevole agli occhi e desiderabile per avere saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò”(Genesi 3.6). L’occhio fu responsabile di tutta una catena di processi che portarono al diluvio, quando leggiamo nella sua premessa “Quando gli uomini cominciarono a moltiplicarsi sulla terra e nacquero loro delle figlie, i figli di Dio videro che le figlie degli uomini erano belle e ne presero per mogli a loro scelta”(Genesi 6. 1,2); questo verso non pone l’accento sul fatto che costituisca un peccato sposare una bella donna, ma il sistema che si era venuto a costituire visto nel degrado dell’umanità. Rileggiamolo: “I figli di Dio– cioè quelli che avrebbero dovuto metterLo al centro della loro vita – videro– l’occhio – che le figlie degli uomini– cioè di persone che non avevano la loro stessa elezione – erano belle– cioè potevano costituire un’alternativa molto più immediata alla loro realizzazione, per quanto carnale – e se ne presero per mogli a loro scelta– cioè più di una, secondo il loro capriccio –“. “Figli di Dio” e “figlie degli uomini” sono termini che alludono alla mescolanza di due stirpi diverse. E dopo un certo tempo, che possiamo calcolare ma che non viene specificato, leggiamo che “Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che ogni intimo intento del loro cuore non era altro che male, sempre”(v.5).

L’occhio, allora, aveva preso il sopravvento sulla ragione quasi senza che quelle persone se ne rendessero conto e la concupiscenza non solo verso il corpo femminile, ma tutto ciò che poteva costituire attrattiva per essere posseduta, era diventato dominante, unica ragione di vita. Come oggi. L’occhio fu anche causa della rovina di Acan, personaggio davvero emblematico che non ho mai dimenticato dalla prima volta in cui ho letto di lui, e della sconfitta degli Israeliti nella battaglia contro “quelli di Ai”: dalla lettura dei capitoli 6 e 7 del libro di Giosuè apprendiamo che, contrariamente alla legge dello sterminio che proibiva a chiunque di impadronirsi degli averi del nemico, Acan non fu in grado di distogliere il suo occhio da un mantello, duecento sicli d’argento e un lingotto d’oro che prese per sé durante la presa di Gerico. Ricordiamo infine un altro episodio già citato, quello di Davide che vide nuda alla finestra la moglie di Uria e questo fatto, di per sé banale, non controllato, portò a un adulterio, a un omicidio e alla morte del bimbo da lei partorito.

 

Ho citato tre casi, quelli per me più degni di nota, che ci parlano del fatto che l’occhio può portare molta rovina se non viene gestito a monte dallo Spirito ed è proprio a questa realtà cui fa riferimento Gesù quando parla di tagliare, cavare e gettare via: sono azioni che alludono ad una procedura particolare vista nella costante vigilanza sulla carne riguardo ai tre organi citati, la cui cattiva gestione può portare a conseguenze imprevedibili anche perché, come esseri umani, saremo sempre pronti a giustificare ogni nostro comportamento negativo, a distrarci sottovalutando la rovina cui possono portare. Ecco la necessità di pregare il Solo che può preservarci, mantenerci vigili, aiutarci a combattere senza pietà – uso un’espressione forte – noi stessi, il nostro “uomo vecchio”.

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11.30 – IL DISCORSO ECCLESIOLOGICO 1: I BAMBINI E GLI SCANDALI (Matteo 18.1-7)

11.30 – Il discorso Ecclesiologico 1: i bambini e gli scandali (Matteo 18.1-7)

 

1 In quel momento i discepoli si avvicinarono a Gesù dicendo: «Chi dunque è più grande nel regno dei cieli?». 2Allora chiamò a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro 3e disse: «In verità io vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. 4Perciò chiunque si farà piccolo come questo bambino, costui è il più grande nel regno dei cieli. 5E chi accoglierà un solo bambino come questo nel mio nome, accoglie me.6Chi invece scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, gli conviene che gli venga appesa al collo una macina da mulino e sia gettato nel profondo del mare. 7Guai al mondo per gli scandali! È inevitabile che vengano scandali, ma guai all’uomo a causa del quale viene lo scandalo!

 

            Per ragioni di spazio e per non appesantire queste letture che credo non facili, non è stato detto che la questione su chi fra i discepoli fosse il maggiore provocò un insegnamento molto più articolato di Gesù, rivolto strettamente a loro, noto come “discorso Ecclesiologico” che affronteremo in più parti. Prima di iniziare la prima di questo discorso, non possiamo ignorare la differenza fra il racconto di Marco, che abbiamo affrontato nel capitolo precedente, “Per la strada avevano discusso su chi di loro fosse il più grande”, e la narrazione di Matteo, che riporta un’apparente, analoga domanda a tal punto che verrebbe da chiedersi quali furono davvero le parole pronunciate da entrambe le parti. In realtà Gesù non disse una sola cosa, ma tante che ciascun evangelista riporta a seconda dell’accento che intende dare al discorso.

Marco, allora, riferendociallo scorso capitolo, riporta la prima risposta alla questione che i discepoli non osarono porre al loro Maestro, cioè chi tra loro fosse il più grande, mentre Matteo la inquadra secondo un contesto più ampio, “Chi dunque è più grande nel regno dei cieli?”: notiamo che viene omessa la parte che più riguardava i dodici da vicino, “di noi”, ma viene estesa anche al futuro, o se vogliamo al “non tempo” dell’eternità. “Regno dei cieli”come realtà presente, ma anche definita con la sua struttura eterna, con l’avvento dei “Nuovi cieli e nuova terra”. E qui la risposta di Gesù si rifà a quel particolare riferito alla nuova nascita nel senso pratico, quello di convertirsi e diventare come i bambini.

Nei versi che abbiamo letto il discorso verte su tre argomenti che nessuno può interpolare: la conversione coi suoi effetti, la mutazione della persona ad essa conseguente, gli scandali. Stupisce soprattutto la nuova descrizione della conversione, perché se Giovanni Battista la predicava come mezzo per andare verso Cristo, “ravvedetevi, perché il regno dei cieli è vicino”, quello che voleva dire Gesù sarà spiegato proprio da Pietro nel tempio: “Convertitevi dunque e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati e così possano giungere i tempi della consolazione da parte del Signore ed egli mandi colui che vi aveva destinato come Cristo, cioè Gesù”(Atti 3.19). La cancellazione dei peccati implica un rapporto nuovo con Dio, che prima si teneva lontano dal peccatore. Poiché il popolo, tramite i suoi capi, aveva già crocifisso Nostro Signore, questi non sarebbe stato potuto essere mandato se non con una rivoluzione interiore e non eclatante come si credeva: “vi mandi”nel senso che sarebbe stato inviato a ciascuno individualmente e non collettivamente, come popolo eletto. Scopo della conversione, allora, è quella di ricevere l’Unico Autore della salvezza, con lo Spirito Santo promesso.

Ricordiamo che, quando Nicodemo incontrò Gesù per la prima volta, riteneva il tornare bambino, il “rinascere”una cosa inconcepibile: vedeva infatti l’uomo come il risultato di un processo di crescita, in peso, statura e coscienza, ma dimenticava l’atteggiamento, l’essenza, le caratteristiche del bambino rapportate a Dio Padre. Davide, nonostante fosse uomo di guerra, re vittorioso, ma purtroppo anche adultero e omicida (perdonato) così parla in Salmo 131.1,2:“Signore, non si esalta il mio cuore né i miei occhi guardano verso l’alto; non vado cercando cose grandi né meraviglie più alte di me – come fanno tutti gli uomini che appartengono a questo mondo –. Io invece– cioè in opposizione alla corrente, al contrario degli altri che la seguono – resto quieto e sereno: come un bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è in me l’anima mia”. L’anima, il suo essere, in contrasto al suo aspetto di uomo di guerra e re d’Israele.

Non può sfuggire il fatto che siamo chiamati ad essere bambini solo di fronte a Dio, e non ai nostri simili che altrimenti ne approfitterebbero e ci sfrutterebbero, per quanto sappiamo che “i figli di questo mondo sono più avveduti di quelli della luce”;questo si verificherà, potenzialmente, sempre. Quello dell’essere o diventare bambini è un aspetto molto importante che verrà approfondito tanto da Pietro quanto da Paolo che mettono in guardia i credenti perché non lo impieghino unilateralmente: “Fratelli, non comportatevi da bambini nei giudizi– che richiedono maturità e la consapevolezza di trovarsi in un “terreno minato” –. Quanto a malizia, siate bambini, ma quanto a giudizi, comportatevi da uomini maturi”(1 Corinti 14.20). Pietro, poi, scrive “Come bambini appena nati, desiderate avidamente il genuino latte spirituale, grazie al quale voi possiate crescere verso la salvezza, se davvero avete gustato che buono è il Signore”(1 Pietro 2.2,3). Bambini da un lato, uomini dall’altro. E come un bambino si trova al sicuro e tranquillo nella propria casa coi propri genitori, così dovrebbe essere per il credente la Chiesa, sua nuova famiglia, cosa che purtroppo non sempre avviene; qui entriamo nel discorso degli scandali, cioè in quei sassi posti perché gli altri possano inciampare. E penso a certi pastori, anziani o sacerdoti che con il loro comportamento allontanano le anime anziché recuperarle e parlare amorevolmente con loro.

Ancora una volta è d’obbligo il confronto con il Dio Vivente: “Poiché così parla l’Alto e l’Eccelso, che ha una sede eterna e il cui nome è santo: «In un luogo eccelso e santo io dimoro, ma sono anche con gli oppressi e gli umiliati, per ravvivare lo spirito degli umili e rianimare il cuore degli oppressi. Poiché io non voglio contendere sempre né per sempre essere adirato; altrimenti davanti a me verrebbe meno lo spirito e il soffio vitale che ho creato”(Isaia 57.15,16).

Capiamo? Qui c’è la descrizione dell’irraggiungibilità di YHWH, “Alto”ed “Eccelso”che abita in un luogo dalle stesse caratteristiche, precluse all’uomo, che però è coi bambini visti nella figura degli “oppressi e umiliati”perché così sono, come abbiamo visto quando abbiamo parlato del bambino come essere privo di diritti. Se Dio fosse sempre adirato con la sua creatura “verrebbe meno lo spirito e il soffio vitale che ho creato”, cioè vi sarebbe un altro diluvio, per quanto con forme diverse, come sarà con la Grande Tribolazione e la fine del tempo che non vivremo.

E possiamo affermare che fino a quando l’uomo resterà sempre quello che è, penserà sempre alle cose basse e ad esse si dedicherà perché non potrà farne a meno, si porrà sempre come oppositore di Dio, precludendogli ogni intervento. Invece “Umiliatevi davanti al Signore, ed egli vi esalterà”(Giacomo 4.10) e, dopo questa esperienza personale, l’essere umano, una volta saputo che il proprio nome era scritto nel libro della vita e che farà parte della Chiesa, troverà ragione e scopo quanto scrive Pietro nella sua prima lettera, 5. 5,6: “Rivestitevi tutti di umiltà gli uni verso gli altri, perché Dio resiste ai superbi, ma dà grazia agli umili. Umiliatevi dunque sotto la potente mano di Dio, affinché vi esalti al tempo opportuno, riversando su di lui ogni vostra preoccupazione, perché egli ha cura di voi”. E l’umiliazione consiste nel confessare al Signore la propria bassezza, rinunciare a qualsiasi pretesa e affidarsi a Lui.

Solo il diretto interessato (e naturalmente Dio che vaglia, premia o riprende) può sapere se veramente si sarà fatto piccolo e notiamo che l’apostolo Pietro parla di “rivestirsi di umiltà”, quella vera che, essendo un vestito, può essere simulato, indossato da chi bambino non è; ecco perché si parla di individui “che vengono voi in veste di pecore, ma dentro sono lupi rapaci”. Lupi che sbranano, ma anche pongono ostacoli nel cammino di fede anziché correggerlo e indirizzarlo correttamente. Qui viene chiamato il discernimento degli spiriti, che vanno provati “per vedere se sono da Dio”, e soprattutto l’indossare quell’armatura di cui abbiamo già parlato in un precedente capitolo, che abbiamo visto proteggere tutti gli organi vitali, reperibile in Efesi 6. Un’armatura che chiaramente un bambino non indossa, ma un uomo chiamato al combattimento certamente sì: “Indossate l’armatura di Dio per poter resistere alle insidie del diavolo”(Efesi 6.11). Il “bambino”non è in antitesi all’uomo maturo, ma ci parla dell’innocenza e dell’essere indifeso che trova nel Signore l’unico riparo e conforto possibile. Il “bambino”è anche quello che è appena “nato di nuovo”, che ha bisogno di un sostegno particolare da parte di chi gli ha presentato il Vangelo: portare infatti un’anima a Cristo implica un esempio e soprattutto  una guida dottrinale e spirituale che non può essere lasciata al caso, per cui “scandalo”non è solo ciò che incanala verso pratiche estranee al cristianesimo, il più delle volte importate dall’ambiente pagano, ma anche quella promiscuità che fa leva sulla carne, incompatibile con lo Spirito.

Abbiamo parlato dei “lupi rapaci”, ma guardando alle parole sugli scandali che riporta Luca troviamo un particolare importante e cioè in 17.1,2 Gesù dice “…è meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare, piuttosto che scandalizzare uno di questi piccoli. State attenti a voi stessi!”. L’ultima frase, la messa in guardia di Gesù, riguarda anche i discepoli ed è pronunciata proprio in vista del ruolo che avrebbero avuto, quello di pascere il gregge, compito impossibile a farsi senza una dedizione che nella Chiesa è reciproca. Ricordo, quando fui battezzato, che mi si avvicinò un fratello che mi disse “Adesso io sono responsabile di te, e tu sei responsabile di me”, a sottolineare che anch’io avevo una funzione da adempiere perché il mio comportamento, per quanto elementare, poteva edificare quanto distruggere, rallegrare spiritualmente quanto contristare. Ero chiamato alla maturità che avrei conseguito negli anni, ad un cammino, ad una crescita che si realizzasse attraverso il confronto con la Parola di Dio, ma anche con i fratelli.

La frase di Gesù “State attenti a voi stessi!”implica il procedere attraverso passi ponderati, come ad esempio il caso di quei credenti in Roma che, consapevoli di non peccare, mangiavano liberamente qualunque cibo, quando c’erano altri che si scandalizzavano di questo. Paolo scrive allora “Se per il cibo il tuo fratello resta turbato, tu non ti comporti secondo carità. Non mandare in rovina per il tuo cibo colui per il quale Cristo è morto!”(14.13-15).

Ancora, in 1 Corinti 8.9-13: “Non sarà certo un alimento ad avvicinarci a Dio: se non ne mangiamo, non veniamo a mancare di qualcosa e se ne mangiamo, non abbiamo un vantaggio. Badate però che questa vostra libertà non divenga occasione di caduta per i deboli. Se uno infatti vede te, che hai la conoscenza, stare a tavola in un tempio di idoli, la coscienza di quest’uomo debole non sarà forse spinta a mangiare le carni sacrificate agli idoli? Ed ecco, per la tua conoscenza, va in rovina il debole, un fratello per il quale Cristo è morto! Peccando così contro i fratelli e ferendo la loro coscienza debole, voi peccate contro Cristo. Per questo, se un cibo scandalizza il mio fratello, non mangerò più carne, per non dare scandalo al mio fratello”.

Entriamo qui allora in un ambito particolare, vale a dire ciò che è alla radice dell’animo di chi è in grado di discernere – seguendo l’esempio citato da Paolo – che il mangiare delle carni sacrificate a idoli pagani non è più un peccato, ma nel momento in cui questo è di intoppo per gli altri, allora questo gesto diventa dannoso perché ostacolo per un credente debole, “un fratello per il quale Cristo è morto”. Si tratta di un tema da trattare con attenzione, perché qui non si parla di fratelli pettegoli, chiusi e rigidi sempre pronti a giudicare, ma di persone la cui coscienza viene turbata realmente e nel profondo a fronte di argomenti di importanza del tutto secondaria, come dalle parole “se non ne mangiamo, non veniamo a mancare di qualcosa e se ne mangiamo, non ne abbiamo alcun vantaggio”.

Diverso fu il caso di quanto Pietro fu rimproverato dai Giudei con le parole “Sei entrato in casa di uomini non circoncisi e hai mangiato insieme con loro!”(Atti 11.2), evidentemente riferendosi a quanto avvenuto in casa del centurione Cornelio; quei Giudei, ascoltate le sue precisazioni, è scritto che “si calmarono e cominciarono a glorificare Dio dicendo: «Dunque anche ai pagani Dio ha concesso che si convertano perché abbiano la vita!»”(v.18).

L’avviso “State attenti a voi stessi”viene formulato da Gesù proprio perché spesso è la struttura del nostro essere umano che può portarci ad azioni avventate, come fu per Pietro che, lasciando agire il suo essere umano, ebbe per un certo periodo un comportamento poco corretto nella Chiesa: “Quando Cefa venne ad Antiochia, mi opposi a lui a viso aperto perché aveva torto. Infatti, prima che giungessero alcuni da parte di Giacomo, egli prendeva cibo insieme ai pagani; ma, dopo la loro venuta, cominciò ad evitarli e a tenersi in disparte, per timore dei circoncisi. E anche gli altri Giudei lo imitarono nella simulazione, tanto che pure Barnaba si lasciò attrarre nella loro ipocrisia. A quando vidi che non si comportavano rettamente secondo la verità del Vangelo, dissi a Cefa in presenza di tutti: «Se tu, che sei Giudeo, vivi come i pagani e non alla maniera dei Giudei, come puoi costringere i pagani a vivere alla maniera dei Giudei?”(Atti 2,11-14).

L’attenzione verso noi stessi è primo vero metodo se intendiamo prima progredire e poi essere d’aiuto per portare il Vangelo al nostro prossimo. Siamo chiamati a curarci, sempre, ed in questo vediamo l’impegno nel togliere la trave dal nostro occhio, le domande su cosa abbiamo fatto di giusto o sbagliato nel giorno che Dio ci ha mandato, i frutti portati, siano essi rappresentati dal trenta, sessanta o cento. Amen.

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11.24 – IL PROFETA ELIA II/IV: L’INTERPRETAZIONE (Matteo 17.3-8)

11.24 – Elia  II: l’interpretazione (Matteo 17. 3-8)

 

10Allora i discepoli gli domandarono: «Perché dunque gli scribi dicono che prima deve venire Elia?». 11Ed egli rispose: «Sì, verrà Elia e ristabilirà ogni cosa. 12Ma io vi dico: Elia è già venuto e non l’hanno riconosciuto; anzi, hanno fatto di lui quello che hanno voluto. Così anche il Figlio dell’uomo dovrà soffrire per opera loro». 13Allora i discepoli compresero che egli parlava loro di Giovanni il Battista.

 

Redatta, per quanto brevemente, la “carta di identità” di Elia, cercheremo di affrontare un problema piuttosto ostico, e cioè la domanda dei discepoli, “perché dunque gli scribi dicono che prima deve venire Elia?”che riflette l’opinione degli ebrei del tempo. La risposta di Gesù è lapidaria, va al nocciolo della questione e presenta ciò che i dodici dovevano sapere per non sviarsi, e cioè “Elia è già venuto e non l’hanno riconosciuto; anzi, hanno fatto di lui quello che hanno voluto”, con chiaro riferimento alla persona e all’opera di Giovanni Battista. Qui Gesù dà ai suoi discepoli l’interpretazione corretta a fronte di una quantità di opinioni che li disorientavano, cosa che per noi non è perché, a differenza di loro, possiamo contare sulla totalità del Vangelo scritto e delle Epistole.

Per avere un quadro generale delle opinioni attorno a Elia a quel tempo occorre prendere in esame gli scritti di allora, come la letteratura intertestamentaria, cioè quella costituita dagli scritti non ritenuti sacri oltre i libri non accettati dal canone ebraico (Giuditta, Tobia, I e II Maccabei, Sapienza, Siracide, Baruc e la versione greca del libro di Ester). Accanto a questi ve ne sono altri che, nonostante non accolti e posti sullo stesso piano degli altri, forniscono comunque testimonianza non della Verità, ma di quella che era l’opinione dell’autore e di quanti la condividevano.

Si riteneva ad esempio che Elia, con Mosè, Isacco, Giacobbe, Giosuè e Daniele, sarebbe tornato con tutti gli altri profeti che il popolo aveva ucciso oppure che, giungendo su un carro di fuoco, quel profeta avrebbe comunicato i segni che avrebbero annunciato la fine del mondo, come tenebre, fuoco e caduta delle stelle. Potrebbe sembrare un estensione  di Malachia 3.23, (“Ecco, io invierò il profeta Elia prima che giunga il giorno grande e terribile del Signore”), ma in realtà era interpretato come evento autonomo. Del I sec. a.C. è il libro di Enoch, che collega Elia strettamente al Messia in una visione nella quale agisce prima del giorno del giudizio come Suo precursore ma, nonostante questo, pare essere considerato come figura salvifica autonoma.

Abbiamo poi la letteratura di Qumran, nella quale il profeta è presente in un solo frammento in aramaico in cui leggiamo “Vi manderò prima Elia” senza specificare di cosa. L’ attesa di un precursore, comunque, non si era interrotta, ma continuava in molti ambienti, compreso quello degli Esseni che gli attribuivano un ruolo di riconciliazione visto nella frase “In verità i padri vanno dai figli”. Si tratta di due frammenti importanti, perché testimoniano che nella Palestina in cui poi operò Gesù c’era effettivamente questa attesa elianica prima di un evento che avrebbe risollevato il popolo d’Israele. Una visione certo confusa, ma corretta se interpretata alla luce dei dati che abbiamo oggi.

Nella letteratura Targumica, cioè quella inerente la versione aramaica della Bibbia, andando l’ebraico progressivamente in disuso, Elia è raccordato a Fineas, uno dei capi delle casate dei leviti secondo Edodo 6.25. Fineas uccise con una lancia Zimbri con la moglie Cozbi, madianita, perché la loro unione aveva violato il divieto di Dio di unirsi con pagani; successivamente, in Numeri 13.6-7, Fineas è citato come uno dei capi nella spedizione contro i madianiti, rei di aver portato il popolo di Israele all’idolatria. Fineas, che nella tradizione dell’Antico Patto ricopre il ruolo di chi punisce l’idolatria e la contaminazione coi pagani,  è definito in un manoscritto “l’altro sacerdote Elia, che alla fine dei giorni sarà mandato dagli esuli di Israele”, identificazione fatta perché le parole “messaggero” e “alleanza” vengono usate nella Scrittura per entrambi, Elia e Finees.

Abbiamo infine gli scritti rabbinici che presentano il tema del ritorno di Elia molto frequentemente: nella maggioranza di questi testi il fatto che avrebbe convertito “il cuore dei padri ai figli”e viceversa era interpretato col fatto che avrebbe risolto tutte le dispute al fine di costruire la pace nel mondo, ma anche tutte quelle questioni teologiche sulle quali i rabbini non erano d’accordo o non in grado di fornire delle risposte. Elia sarebbe stato l’arbitro definitivo, decidendo sulle questioni genealogiche, regolarizzando i matrimoni misti in vista della purità rituale e, in altri passi, sarebbe stato anche responsabile della resurrezione dei morti.

Riassunto, forse banale ma stringato di tutte le convinzioni, è che il riferimento al Messia era secondario e la convinzione più forte era quella che Elia avrebbe caratterizzato l’era messianica, anche se non si sapeva bene come. Una forte traccia di questa confusione la vediamo alla croce, quando in Matteo 27.47-49, al grido “Elì, Elì, lemà sabactàni?” udendo questo, alcuni dei presenti dicevano: «Costui chiama Elia».(…) Gli altri dicevano: «Lascia! Vediamo se Elia viene a salvarlo!»”.

Tenendo presente il principio rivelato da Gesù “Elia è già venuto e non l’hanno riconosciuto, anzi hanno fatto di lui ciò che hanno voluto”, in un manoscritto del III secolo d.C., ci si chiede se si può bere vino nel giorno della venuta del Messia e si risponde che è vietato “perché Elia non è ancora venuto”.

È indubbio che in molti scritti giudei del I secolo a.C. era radicata la convinzione che Elia sarebbe venuto prima del “giorno del Signore”e, di conseguenza, era facile considerarlo come precursore del Messia.

“Prima”, quindi riprendendo la domanda dei discepoli, “deve venire Elia”: è un’opinione alla quale dovevano aver creduto e sarebbe rimasta latente in loro se non lo avessero visto – e sentito – parlare con Gesù alla trasfigurazione; da quella visione sul monte, allora, derivò un disorientamento perché non riuscivano a capire come mai proprio quell’Elia, presente fisicamente a poca distanza da loro, non fosse venuto “prima”, ma si fosse rivelato solo in quella circostanza.

A questo punto Gesù fuga ogni dubbio, e cioè che l’insegnamento degli scribi era corretto, perché “Sì, verrà Elia e ristabilirà ogni cosa”, oppure “Veramente deve prima venire Elia”(Marco 9.13) dove quel “prima”si riferisce proprio a “prima”di Gesù. Per inquadrare correttamente i due versi, in cui il “venire” è messo da Matteo al futuro perché gli preme collegarsi a Malachia, occorre rifarsi alle nozioni che già possediamo su Giovanni Battista e andare a quegli episodi che abbiamo già esaminato, dall’annuncio a Zaccaria alle sue risposte alla delegazione venuta a Gerusalemme per interrogarlo. Il “ristabilirà ogni cosa”detto da Gesù non vuol dire che la predicazione dell’Elia che lo aveva preceduto avrebbe avuto un effetto immediato negli uomini, ma rivela le intenzioni di Dio riguardo ad Israele, cioè che avrebbe potuto convertirsi. Il “ricondurre il cuore dei padri verso i figli”e viceversa è una verità riferita alla connessione fra l’Antico e il Nuovo patto in un legame indissolubile di continuità e aggiornamento, rivelazione. E il “ristabilirà”di Elia-Giovanni Battista non si riferisce ad una sorta di edificazione miracolosa, ma al verificarsi di una serie di eventi riconoscibili da chi avrebbe voluto davvero accogliere il Cristo e non altri. Giovanni, infatti, sappiamo che è l’ultimo profeta della dispensazione della Legge, il ponte fra la vecchia e la nuova, e il primo della Grazia.

Come la storia di ogni uomo è costituita da piccoli, ma incessanti passi e tappe, così avviene per il popolo di Dio, sia questo Israele oppure la Chiesa. Ricordiamo le parole di Gabriele: “Ricondurrà molti figli di Israele al Signore loro Dio”, cioè porrà le basi perché questo possa avvenire. Nel suo ministero, Giovanni Battista fece proprio questo, cioè predicò il ravvedimento, in vista del Salvatore. Nel “ristabilirà ogni cosa”possiamo così discernere tutti i tentativi possibili perché gli uomini potessero porsi nelle condizioni di accogliere il Cristo e, se leggiamo gli episodi in cui Giovanni fu protagonista, vediamo che ebbe sempre una funzione perché il cuore degli uomini fosse mosso all’accoglimento del Figlio di Dio: predicò, battezzò, quando venne il momento indicò in Gesù “l’Agnello di Dio”e si mise da parte con le parole “Lui deve crescere; io, invece, diminuire”(Giovanni 3.30), a conferma del fatto che la sua opera stava per concludersi.

Il “ristabilire” di Elia-Giovanni è poi collegato a quello di Gesù Cristo, secondo il discorso di Pietro nel Tempio: “Convertitevi dunque e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati e così possano giungere i tempi della consolazione da parte del Signore ed egli mandi – nei vostri cuori – colui che vi aveva destinato come Cristo cioè Gesù. Bisogna che il cielo lo accolga fino ai tempi della ricostituzione di tutte le cose, della quali Dio ha parlato per bocca dei suoi santi profeti fin dall’antichità” (Atti 3. 19-21). Questa è stata la funzione di Giovanni Battista-Elia, un tassello importante in vista della realizzazione di quel progetto, di respiro ben più ampio, che è la nuova creazione in cui vivranno tutti coloro che hanno creduto e agito secondo quanto è a loro stato dato.

“Elia è venuto e non l’hanno riconosciuto”: c’è una chiara accusa in queste parole, riferita alla cecità della mente e del cuore che il Battista stesso aveva denunciato con la frase “Razza di vipere, chi vi ha insegnato a fuggire l’ira futura?”(Marco 1.15), domanda che viene rivolta perché lì il loro “maestro” non poteva essere che l’Avversario cui gli scribi e i farisei davano ascolto.

“Anzi, hanno fatto di lui ciò che hanno voluto”, chiaro riferimento da un lato alla congiura dei due gruppi perché fosse arrestato da Antipa, e allo stesso re che non diede ascolto alle sue parole e a quel senso di timore che queste generavano il lui. “Ciò che hanno voluto”, cioè consapevolmente, per quell’ “ignoranza” che non è frutto di un non sapere, ma di un non voler distinguere i segni dei tempi non accogliendo le Parole di vita eterna. “Tu solo hai parole di vita eterna”.

Gesù conclude il suo intervento con parole semplici, “così anche il figlio dell’uomo dovrà soffrire per opera loro”: la Parola che “si è fatta carne e venne ad abitare in mezzo a noi”, che avrebbe dovuto suscitare la conversione del Suo popolo, verrà da lui condannata a morte e uccisa; così fanno tutti coloro che hanno uno spirito contrario. È probabile che Matteo qui riporti questa frase impiegata nel tentativo di far comprendere ai discepoli un principio che per loro rimase incompreso e che Marco ci consente di identificare: “Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti. Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti”(9. 9,10).

Con l’espressione “soffrire molte cose”, Gesù allude poi alle sofferenze morali e spirituali che il Suo Sacrificio avrebbe comportato, condizione che Marco descrive col termine “annichilito”, più corretto rispetto a “disprezzato” che altri riportano. “Annichilire” ha infatti tra i suoi sinonimi “annientare”, “ridurre al nulla”, distruggere”. E qui sempre l’apostolo Pietro dice “Voi, per mano di pagani, l’avete crocifisso e l’avete ucciso. Ora Dio lo ha risuscitato, liberandolo dai dolori della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere”(Atti 2.23,24). La volontà degli iniqui a fronte di quella di Dio. “Voi avete rinnegato il Santo e il Giusto, e avete chiesto che vi fosse consegnato un assassino. Avete ucciso l’autore della vita, ma Dio lo ha risuscitato dai morti”(3.14).

Il verso che conclude l’episodio in cui Gesù scendeva dal monte coi suoi, testimonia quanto sia distante l’insegnamento dello Spirito da quello della carne: “Allora essi compresero che parlava di Giovanni Battista”: per loro era importante capire “Perché dicono gli scribi che prima deve venire Elia”, lasciando in secondo ordine la morte del loro Maestro. È bello però vedere che, dalle parole di Pietro citate poco prima in Atti, parlò proprio di quella morte salvifica facendo riferimento alle verità infinite contenute nella morte e resurrezione di Gesù. La rivelazione pose lui e gli altri undici in un altro ambito di conoscenza ed esperienza oggi a portata di ogni cristiano, ma cui ben pochi pensano. Amen.

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11.22 – LA TRASFIGURAZIONE III/III: MOSÈ ED ELIA

11.22 – La trasfigurazione III: Mosè ed Elia  (Matteo 17. 3-8)

 

3Ed ecco, apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui. 4Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». 5Egli stava ancora parlando, quando una nube luminosa li coprì con la sua ombra. Ed ecco una voce dalla nube che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo». 6All’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. 7Ma Gesù si avvicinò, li toccò e disse: «Alzatevi e non temete». 8Alzando gli occhi non videro nessuno, se non Gesù solo. 9Mentre scendevano dal monte, Gesù ordinò loro: «Non parlate a nessuno di questa visione, prima che il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti».

 

L’estrema particolarità del racconto si apre con “Ed ecco”, riferita al momento in cui il volto e il vestito di Gesù raggiunsero il massimo del loro splendore. Solo allora “apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui”. A questo punto è spontaneo chiedersi come abbiano fatto i tre testimoni a sapere chi fossero i “due uomini” (Luca 9.30) che apparvero e parlarono con Lui. Il fatto che Luca li descriva così, “due uomini” e che solo dopo precisi la loro identità ci dice che, quando apparvero, i discepoli non sapevano chi fossero, per cui solo ascoltando le parole che si dissero Gesù, Mosè ed Elia, arrivarono a scoprirne l’identità.

Matteo e Marco tacciono sull’argomento, ma Luca, evidentemente dopo avere interrogato Pietro sullo specifico, scrive “…parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme” (v.31): il rappresentante della Legge, in quando fu Mosè a darla al popolo per ordine di Dio, e quello dei profeti, ci parlano di perfetta congiunzione, continuità perché tanto l’una che l’altra – Legge e Profezia – convergevano in un unico punto, il Figlio di Dio fattosi uomo. È molto importante la presenza di Elia perché, come Enoch, non conobbe la morte venendo rapito mentre era ancora in vita.

Ciò a cui i tre discepoli assistevano, era proprio questo: Mosè ed Elia parlano con Gesù del suo “esodo”, cioè della morte che avrebbe affrontato ed è singolare il termine usato, “exodos”, non confondibile con “exitus” perché qui Luca usa lo stesso termine impiegato per descrivere l’uscita degli Israeliti dall’Egitto per la terra di Canaan. L’ “exodos”, che qui ci dà l’idea della morte, in realtà allude alla Sua resurrezione ed ascensione al cielo con cui Gesù abbandonerà – come uomo – fisicamente per sempre la Terra.

Mosè incontrava di persona Colui del quale aveva profetizzato, “il fine – cioè lo scòpo – della Legge”, Elia Colui che nei tempi antichi gli aveva parlato e la sua presenza lì, ad esempio al posto di Isaia, Daniele, Geremia o altri profeti illustri, trova la sua ragione nel fatto che la sua persona, unitamente a quella di Enoch, è conservata per il tempo della fine quando torneranno entrambi sulla terra per esercitare la loro testimonianza. Ricordiamo sempre che Gesù è al tempo stesso punto di arrivo per le profezie dell’Antico Patto, per lo meno di molte, e di partenza per la Nuova Creazione, avvenuta o che si sta costruendo spiritualmente, ma non ancora materialmente nel senso di manifestazione chiara, ufficiale, come verrò definitivamente sancito con l’avvento dei “Nuovi cieli e nuova terra dove dimora stabile la giustizia”.

Sull’opera dei due testimoni, va detto che sarà talmente grande e importante da rendere impossibile riferimenti diversi al di fuori di Elia ed Enoch proprio perché il loro rapimento, avvenuto nell’antichità, non avrebbe altrimenti senso. Leggiamo ciò che scrive di loro Giovanni, tenendo presente che usa un linguaggio figurato, compatibile con le sue conoscenze di uomo del primo secolo: “Questi sono i due olivi – simbolo di giustizia e sapienza – e i due candelabri – simbolo di luce – che stanno davanti al Signore della terra. Se qualcuno pensasse di far loro del male, uscirà dalla loro bocca un fuoco che divorerà i loro nemici. Così deve perire chiunque pensi di far loro del male. Essi hanno potere di chiudere il cielo, perché non cada pioggia nei giorni del loro ministero profetico. Essi hanno anche potere di cambiare l’acqua in sangue e di colpire la terra con ogni sorta di flagelli, tutte le volte che lo vorranno. E quando avranno compiuto la loro testimonianza, la bestia che sale dall’abisso farà guerra contro di loro, li vincerà e li ucciderà. I loro cadaveri rimarranno esposti sulla piazza della grande città, che simbolicamente si chiama Sodoma ed Egitto, dove anche il loro Signore fu crocifisso. Uomini di ogni popolo, lingua e tribù, lingua e nazione vedono i loro cadaveri – televisione satellitare o internet – per tre giorni e mezzo e non permettono che i loro cadaveri vengano deposti in un sepolcro. Gli abitanti della terra fanno festa su di loro, si rallegrano e si scambiano doni, perché questi due profeti erano il tormento degli abitanti della terra. Ma dopo tre giorni e mezzo un soffio di vita che veniva da Dio entrò in essi e si alzarono in piedi, con un grande terrore di quelli che stavano a guardarli. Allora udirono un grido possente dal cielo che diceva loro: «Salite quassù» e salirono in cielo in una nube, mentre i loro nemici li guardavano. In quello stesso momento ci fu un grande terremoto che fece crollare un decimo della città: perirono in quel terremoto settemila persone; i superstiti, presi da terrore, davano gloria al Dio del cielo” (Apocalisse 11.6-13).

Ho voluto aprire questo squarcio sul futuro per non lasciare un vuoto sulla funzione di Elia, che come quella di Enoch deve ancora concludersi non essendo entrambi passati attraverso la morte del corpo, ma l’oggetto della sua conversazione con Gesù fu comunque imperniata sul Suo “esodo” perché solo grazie alla Sua morte e resurrezione sarebbe stata rivelata in modo inequivocabile l’immortalità di tutti coloro che a Cristo sarebbero appartenuti: la loro vita non cesserà con la morte del corpo, ma il nostro spirito e anima torneranno a Dio.

Non avendoci lasciato le parole che si dissero Gesù, Mosè ed Elia, non possiamo ipotizzare quanto tempo durò il loro dialogo; fatto sta che, avuta l’occasione, Pietro non esitò a caratterizzare la propria natura con un intervento inopportuno, dovuto alla paura irrazionale per tutto ciò di cui non riusciva a capacitarsi, oltre al sopravvalutare la sua persona. Marco dice che Pietro “non sapeva cosa dire, perché erano spaventati”, Luca “Egli non sapeva quello che diceva” e ricordiamo che Mosè stesso, quando si trovò sul Sinai, è scritto che “Lo spettacolo era così terrificante che Mosè disse «Ho paura e tremo»” (Ebrei 12.21).

Nel nostro caso Pietro, spaventato, non sa cosa fare – ma non sarebbe stato sufficiente ascoltare, dato che era protetto comunque dal suo Signore? – e si indirizza verso un gesto teso a trattare tutti grossolanamente nello stesso modo, pur rivolgendosi a Gesù per primo: “Signore, è bello per noi essere qui! – e “bello” non ha nulla a che vedere con la paura, per cui pronuncia una frase di circostanza – Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia”. Era la sua reazione di fronte a ciò che non comprendeva, ponendo comunque se stesso e Giacomo con suo fratello in secondo piano, perché le tende per loro non le menziona.

Pietro s’inserisce così a sproposito in un contesto di una tangibilità spirituale unica, ma provoca un evento teso a distruggere qualunque attività superstiziosa o comunque fuori luogo, estranea dalla logica ed aspettative di Dio Padre: “Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!”. I traduttori del nostro testo, però possono generare confusione con quel “li”, poiché non è chiaro se si riferisca ai discepoli o a Gesù, Mosè ed Elia. Luca scrive “Mentre parlava così, venne una nube e li coprì con la sua ombra. All’entrare nella nube, ebbero paura”. La traduzione Diodati, meno interpretativa, riporta “Mentre egli diceva queste cose, venne una nuvola che adombrò quelli, e i discepoli temettero, quando quelli entrarono nella nuvola”.

Va prestata attenzione al tipo di nube, che Matteo non a caso è l’unico a specificare poiché parla di “una nube luminosa” affinché i suoi lettori ebrei potessero identificarla con la Sekinah, la stessa che indicava al popolo che Dio era presente in mezzo a loro, quella che lo condusse nel deserto, che prese possesso nel tempio di Salomone e che accolse Cristo nella sua ascensione. La nube copre Gesù, Mosè ed Elia e la voce del Padre esorta i testimoni, e quindi noi, ad ascoltare “il Figlio mio, l’amato, in cui ho preso il mio compiacimento”, non altri, non i presenti all’incontro con Gesù nonostante la loro autorevolezza. Allo stesso modo il cristiano si deve ben guardare dall’ascoltare altri voci che non siano quelle del Cristo e soprattutto non farle ascoltare, come fa la Chiesa di Roma promuovendo, fortunatamente non sempre, un politeismo anomalo o, meglio, inserendo degli dèi minori quali coadiutori del Padre e del Figlio.

Eppure, il concetto dell’Unicità e Identità di Dio risiede nel concetto stesso della nuvola che significava la presenza dell’Eterno agli occhi degli uomini dell’Antico Patto, che qui avvolge Gesù, Mosè ed Elia e, dopo l’invito ad ascoltare il Figlio, si dissolve lasciandolo solo, non più trasfigurato. Pietro, Giacomo e Giovanni udirono la voce di Dio, e “caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore”: fu una voce diversa da quella di Gesù, che parlava con un timbro umano quindi rapportata al loro udito limitato.

Mi sono chiesto perché gli apostoli furono presi da timore e credo che la risposta risieda nel fatto che capirono sia cosa fosse quella nube, sia che la voce di Dio aveva nelle sue corde il passato, il presente e il futuro oltre che la stesa eternità. Il loro timore fu provocato, come fu per altri che li avevano preceduti, dalla limitatezza che ogni essere umano ha a prescindere perché di fronte alla perfezione e alla santità di YHWH nessuna imperfezione può esistere. La paura che sorse provenne da questo e Gesù dovette fare due cose per risollevare quelle persone impaurite, toccarli e parlare loro dicendo di non temere, rivelandosi ancora una volta come tramite fra la potenza e l’infinito assoluto del Padre e l’uomo. Perché dove interviene Nostro Signore non esiste più timore, né angoscia, né soprattutto l’ignoto e lo fa “toccando”, dimostrando la propria identità corporea, e parlando, la via più diretta per la comunicazione, per lo meno in quel caso.

Abbiamo infine la proibizione al parlare a chiunque di quanto avevano ascoltato e visto, se non dopo la Sua resurrezione, cioè quando lo Spirito Santo avrebbe consentito la comprensione di quell’evento, anch’esso avvenuto perché il Signore non ha lasciato nulla, “neppure uno iota” perché l’essere umano da Lui salvato rimanesse privo di elementi per la propria salvezza e cammino. Amen.

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11.21 – LA TRASFIGURAZIONE II/II (Matteo 17.2)

11.21 – La trasfigurazione II: connessioni  (Matteo 17. 2)

 

 2E fu trasfigurato davanti a loro; il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce”.

 

Prima di affrontare quanto narrato dai sinottici sulla trasfigurazione, vanno ricordate le circostanze precedenti l’episodio, avvenuto di notte, quando Pietro, Giacomo e Giovanni giunsero stremati su quella che era probabilmente la cima maggiore dell’Hermon, a 2.815 metri. Sappiamo che Luca ha aggiunto un particolare, “Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno; ma, quando si svegliarono, videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui”. Vi fu dunque qualcuno dei tre che nonostante la stanchezza era in dormiveglia, stante il fatto che, sempre Luca, al verso 29 scrive “Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante”: se non ci fosse stato almeno un testimone oculare, quel “mentre” non avrebbe senso. Uno di loro, probabilmente due secondo la Legge, fu allora testimone della progressività dell’evento. Matteo scrive che “Il suo volto brillò come il sole”, l’unica parola a sua disposizione per fare un paragone con quanto visto.

Anche Giovanni, cercando di descrivere il volto del Cristo glorificato in Apocalisse 1, riporta “Mi voltai per vedere la voce che parlava con me, e appena voltato vidi sette candelabri d’oro e, in mezzo ai candelabri, uno simile a un Figlio d’uomo, con un abito lungo fino ai piedi e cinto al petto con una fascia d’oro. I capelli del suo capo erano candidi, simili a lana candida come neve. (…) e il suo volto era come il sole quando splende in tutta la sua forza” (vv.12-16). Il sole, però, è anche un riferimento sottile a qualcosa di temporaneo, a sostegno del fatto che il paragone fatto è limitato, perché l’eternità sarà diversa: “Non vi sarà più notte, e non avranno più bisogno di luce di lampada né di luce di sole, perché il Signore Dio li illuminerà. E regneranno nei secoli dei secoli” (22.5).

Possiamo anche fare queste quattro connessioni che troviamo nel libro dei Salmi: in 49.6 leggiamo “Molti dicono: Chi ci fa vedere il bene? Risplenda su di noi, Signore, la luce del tuo volto”, che comporta quel bene o prosperità spirituale che l’uomo ha assoluto bisogno di ricevere dopo essere stato spogliato, privato della comunione con Dio a causa del peccato di Adamo ed Eva.

Seconda connessione in Salmo 16.11: “Tu mi mostrerai il sentiero della vita; sazietà di ogni gioia è sul tuo volto; ogni diletto è nella tua destra in sempiterno”, dichiarazione profetica fatta propria da Gesù come Figlio dell’uomo che, posto nel sepolcro nuovo di Giuseppe d’Arimatea, sapeva che la morte non lo poteva trattenere. Dio, allora, si riserva la sovranità di salvare l’uomo per la sua parola e, con l’apparizione nelle nuvole, noi che abbiamo sperato in lui saremo trasformati in un batter d’occhio e lo vedremo nella sua realtà.

Terza, in Salmo 21.6: “Poiché tu lo ricolmi di benedizioni in perpetuo, lo riempi di gioia nella tua presenza. Contrariamente sarà per coloro che non avranno amato la sua apparizione, perché temeranno il suo giudizio”, verso che parla della vittoria che il Signore ha riportato sul peccato e sulla morte e del giudizio verso coloro che non si identificano in Lui.

Quarta ed ultima in Salmo 31.16: “Fa risplendere il tuo volto sul tuo servitore; salvami, per la tua benignità”, frase che ci accomuna, della quale ci possiamo appropriare a pieno titolo. La luce che brilla è per il “servitore” quella dello Spirito che guida, chiama  e richiama chi ha creduto in Lui.

 

Prima di esaminare un altro particolare, quello della veste di Nostro Signore, va fatta anche una precisazione sui tre testimoni dell’evento: è stato scritto nel capitolo precedente che Gesù scelse Pietro, Giacomo e Giovanni per salire con sé sul monte e della fatica che fecero, essendo uomini di lago o di pianura, ma non di montagna. Non erano abituati a quel tipo di fatica e per loro quella salita rappresentò sicuramente uno sforzo notevole, ma comunque alla loro portata perché altrimenti sarebbero stati scelti altri, che però non c’erano stante il fatto che erano loro i prescelti ad essere testimoni di quell’avvenimento. Gesù però non li costrinse a compiere un percorso che avrebbe comportato per loro un rischio – ad esempio – cardiaco o di altra natura. Camminarono patendo, ma anche sicuri, consapevoli chi era Colui che li guidava e che probabilmente li precedeva nel percorso. Credo che questo fatto possa essere messo in relazione, per ciò che riguarda il nostro cammino,  con quei carichi di pena o di responsabilità che ciascuno di noi porta e che può venire individuato nel fatto che “non siamo mai tentati oltre le nostre forze”. Ciò a meno che non sia un percorso in cui ci troviamo invischiati per la nostra defettibilità umana e incapacità di valutare correttamente situazioni destinate a sovrastarci e coprirci di sofferenza. Apriamo allora questa breve parentesi ricordando Proverbi 6.1-5: “Figlio mio, se hai garantito per il tuo prossimo, se hai dato la tua mano per un estraneo, se ti sei legato con ciò che hai detto e ti sei lasciato prendere dalle parole della tua bocca, figlio mio, fa’ così per liberartene; poiché sei caduto nelle mani del tuo prossimo, va’, gettati ai suoi piedi, importuna il tuo prossimo; non concedere sonno ai tuoi occhi né riposo alle tue palpebre, così potrai liberartene come la gazzella dal laccio, come un uccello nelle mani del cacciatore”. Anche qui è promesso l’intervento di Dio perché “Chi abita al riparo dell’Altissimo, passerà la notte all’ombra dell’Onnipotente. Io dico al Signore: «Mio rifugio e mia fortezza, mio Dio in cui confido». Egli ti libererà dal laccio del cacciatore, dalle peste che distrugge” (Salmo 91.1-3).

A Pietro, Giacomo e Giovanni fu quindi chiesto uno sforzo che, nonostante la sua pesantezza, era alla loro portata e non si lamentarono; il testo dice soltanto che, giunti a destinazione, la loro stanchezza di manifestò con forza, facendoli addormentare, a differenza di Gesù che, mettendosi a pregare, ancora una volta si qualificò come loro punto di riferimento, oltre che garante delle loro vite. E qui ciascuno può fare le proprie considerazione sul cammino da lui percorso, sulle cose cui dà continuità e importanza, ma anche su come si caratterizzano i suoi passi: spediti, incerti, impacciati, ondivagamente, a scatti, variando il passo, a tentoni, responsabilmente o irresponsabilmente.

 

Ultimo elemento, almeno per quelle che sono le mie possibilità, è costituito dalla veste di Gesù, cronologicamente la terza delle sette da lui vestite nei Vangeli, che credo sia necessario esaminare, per quanto brevemente: la prima fu costituita dalle fasce con le quali fu avvolto, neonato, da Maria prima di porlo nella mangiatoia, avvenimento che ci parla della perfetta identità di Gesù, nella sua incarnazione, con l’uomo. Come tutti, venne al mondo, provò il trauma del passaggio dal ventre materno al mondo e pianse. L’autore della lettera agli Ebrei scrive “…entrando nel mondo, Cristo dice: «Tu non hai voluto sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato»” (10.4): un corpo “preparato” per una vita di luce, testimonianza, operosità e, infine, sacrificio come l’Agnello di Dio che non poteva che prendere su di sé “il peccato del mondo”.

La seconda veste fu la tunica che portava nei suoi viaggi e con la gente, il cui orlo fu toccato dalla donna emorroissa. Abbiamo parlato dei filatteri, per ricordarsi “tutti i miei comandi, li metterete in pratica e sarete santi per il vostro Dio”, “comandi” che furono interamente osservati da Gesù al punto che leggiamo “Ora il termine della Legge è Cristo, perché sia data giustizia a chiunque crede” (Romani 10.4).

Terza veste fu proprio quella della trasfigurazione in cui emerge per la prima volta il fatto che nessun abito avrebbe mai potuto trattenere né velare lo splendore della Sua gloria, visione che stiamo cercando di affrontare e che rimase impressa nel cuore e nella mente dei tre apostoli. E abbiamo visto che ne parlarono a distanza di anni istruendo la Chiesa.

Quarta veste fu quella del servizio, quando Gesù lavò i piedi dei discepoli, episodio che dobbiamo ancora affrontare, ma dal quale emerge la Sua benedizione e la carità. In proposito è scritto che “Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita” (Giovanni 13.3,4).

Quinta veste fu la tunica dell’innocenza, ma anche dello scherno quando “…anche Erode – Antipa – coi i suoi soldati, lo insultò, si fece beffe di lui, gli mise addosso una splendida veste e lo rimandò a Pilato” (Luca 23.11). Quando Pilato vide tornare Gesù, disse “Ecco, io l’ho esaminato davanti a voi, ma non ho trovato in quest’uomo nessuna delle colpe di cui lo accusate, e neanche Erode: infatti ce l’ha rimandato”. Il termine “splendida veste”, che altri traducono “veste bianca”, colore non dell’innocenza come saremmo portati a supporre, ma dei re giudei. Anche la “splendida veste” ha comunque un significato analogo, vale a dire la derisione della persona di Gesù, che Erode vestì come lui.

Sesta fu la tunica di porpora che i soldati di Pilato, anche qui come scherno, gli misero addosso prima di percuoterlo: se Erode Antipa lo aveva vestito di bianco, o “splendidamente” alludendo ai re, i romani fecero lo stesso a modo loro, ad imitazione della porpora imperiale, mettendogli in mano una canna a simboleggiare lo scettro e una corona di spine ad imitazione della corona.

Settima veste furono i teli coi quali Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo avvolsero il corpo di Gesù prima di coprirlo con un lenzuolo nuovo, nell’altrettanto  nuovo sepolcro di Giuseppe: “Essi presero allora il corpo di Gesù e lo avvolsero con teli, insieme agli aromi, come usano fare i Giudei per preparare la sepoltura. Ora, nel luogo dove era stato crocifisso, vi era un giardino e nel giardino un sepolcro nuovo, nel quale nessuno era stato posto” (Giovanni 19.40,41). Matteo parla di Giuseppe che, con Nicodemo “lo avvolsero in un lenzuolo nuovo” – non “pulito” come altri traducono – e lo depose nel suo sepolcro nuovo, che si era fatto scavare nella roccia” (27.59,60). Per Marco, Giuseppe, “comprato un lenzuolo, lo depose dalla croce, lo avvolse con il lenzuolo e lo mise in un sepolcro scavato nella roccia” (15.46).

Ognuna di queste vesti, qui brevemente accennate, ha un suo significato, ma quella di Gesù nella trasfigurazione ci parla di presente e di eternità futura: Egli, da Figlio dell’uomo, quindi nell’esteriore in tutto simile a noi, s’illumina – Lui sì – d’immenso visibile ai tre apostoli. Sappiamo che subito dopo appaiono Mosè ed Elia a conversare con Lui, ma senza possedere le caratteristiche di luce di Gesù, venendosi così a stabilire una sorta di scala gerarchica, pur in un confronto denso di significati che esamineremo nel prossimo capitolo.

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11.20 – LA TRASFIGURAZIONE I/III (Matteo 17.1,2)

11.20 – La trasfigurazione I/III (Matteo 17. 1,2)

 

 1Sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. 2E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. 

 

È giusto portare la nostra attenzione sullo spazio temporale intercorso tra le parole di Gesù rivolte ai presenti sulle implicazioni del discepolato e l’episodio della trasfigurazione, “sei giorni” secondo Matteo e Marco, “circa otto giorni” secondo Luca dove quel “circa” non esclude il “sei” degli altri due che lo indicano con sicurezza. Essendo Matteo e Pietro presenti, possiamo quindi prendere come esatta la cifra da loro indicata.

Riferendoci ai significati del numero sei esposti in un precedente capitolo, possiamo fare gli stessi collegamenti, aggiungendo però un’applicazione specifica: tanto i discepoli che il loro Maestro stavano vivendo un tempo nuovo, quello dell’istruzione specificamente dedicata alla Sua morte, che prima non era stata affrontata. Ecco allora che quei “sei giorni”, in cui non sappiamo cosa avvenne, possono essere paragonati a quelli della creazione in cui Iddio, “giorno dopo giorno” costituisce i presupposti per la realizzazione di qualcosa che prima non c’era: non si trattò di rendere i discepoli testimoni di miracoli e guarigioni, di aggiornare la conoscenza imperfetta che avevano delle Scritture, ma di entrare nella Sua Identità di Figlio di Dio che avrebbe dovuto “soffrire molto ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e dopo tre giorni risorgere” (Marco 8.31). Accanto al significato profondo di questa morte, pensiamo che Giuda, che aveva già in animo di tradire il suo Maestro, si ritenne autorizzato ad agire con un ragionamento assolutamente basso, del tipo “Se deve morire, tanto vale che io contribuisca a questo, guadagnando del denaro”.

Ai discepoli, una volta compreso che Gesù era “il Cristo, il Figlio dell’Iddio vivente” furono allora impartiti insegnamenti particolari che nessuno riportò, tranne pochi cenni come quelli di Marco 8.31 che abbiamo appena letto. È ancora Marco, ad esempio, a scrivere le dirette parole di Gesù: “Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma una volta ucciso, risorgerà” (9.31). Possiamo, riguardo al silenzio dei Vangeli su quanto avvenuto nei “sei giorni”, fare una connessione a quanto si sentì dire l’apostolo Giovanni in Apocalisse 10.4: “Dopo che i sette tuoni ebbero fatto udire la loro voce, io ero pronto a scrivere, quando udii un voce dal cielo che diceva: «Metti sotto sigillo quello che hanno detto i sette tuoni e non scriverlo».

Quei sei giorni di istruzione, quindi, si conclusero, o “iniziarono” nuovamente, con la manifestazione di Gesù trasfigurato alla quale ebbero il privilegio di assistere Pietro, Giacomo e Giovanni, i testimoni più attendibili sui quale Nostro Signore poteva contare, come prescritto dalla legge che richiedeva, perché un fatto fosse accettato come vero, la parola di “due o tre testimoni”, lo stesso numero perché una Chiesa sia formata. È allora probabile che Luca, visto che la trasfigurazione avvenne solo una volta e in un momento preciso, abbia utilizzato il numero otto – ci parla di “otto giorni dopo” – perché indice di un periodo nuovo: i discepoli avrebbero dovuto iniziare ad avere una visione sempre più dettagliata di Gesù che proprio da lì iniziò ad ampliarsi, a prescindere dall’ordine “Non parlate a nessuno di questa visione, prima che il Figlio dell’uomo sia risorto dai morti”. Pietro, Giovanni e Giacomo, erano stati comunque presenti. Certo, ad accettare che il loro Maestro sarebbe morto e poi risorto ci volle molto tempo.

I tre Apostoli furono condotti “in disparte”, espressione che allude sempre a un fatto privato, a un discorso, all’espressione di uno stato d’animo o un avvenimento cui persone estranee non devono assistere perché a nulla gioverebbe, non lo capirebbero, non lo saprebbero valutare. “Su un alto monte”, poi, pur parlandoci di un percorso di fatica, simbolo anche di un percorso spirituale, attesta la completa fiducia che riposero il Lui i tre discepoli, che accettarono di affrontare quella saluta senza chiedergli nulla, forse soltanto informati del fatto che lo scopo di recarsi là era di pregare. Ricordiamo che quel monte fu l’Hermon, non il Tabor come molti hanno sostenuto, formato da tre cime – numero certamente non casuale – la più alta delle quali raggiunge i 2.800 metri circa, sicuramente tanti calcolando che, sei giorni prima, Gesù e i suoi si trovavano nella zona di Cesarea, che si trova alle prime pendici di quel monte. Gente di lago, tutt’al più di pianura, si trovò così nella necessità di affrontare un percorso di montagna che fu sicuramente lungo e faticoso, come avvenne per Mosè, quando salì sul monte Horeb per ricevere le tavole della Legge; ricordiamo Esodo 24.13 “Il Signore disse a Mosè: «Sali, verso di me sul monte e rimani lassù: io ti darò le tavole di pietra, la legge e i comandamenti che io ho scritto per istruirli»”. Anche in questo caso abbiamo una fatica, ma doppia perché quando Mosè scese, portava le tavole di pietra scritte dal dito di Dio.

Nostro Signore quindi salì sul monte con uno scopo preciso: Luca scrive “per pregare” (9.28) quindi è probabile che fu quello il motivo che spinse i tre discepoli a seguire Gesù e forse avvertirono meno la fatica del percorso, certi che avrebbero imparato per lo meno qualcosa; ricordiamo infatti la loro richiesta, “Signore, insegnaci a pregare”, sgorgata spontaneamente dai loro cuori quando videro il loro Maestro intento nell’orazione. Luca 11.1: “Gesù si trovava in un luogo a pregare. Quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli»”.

A questo punto è facile supporre quanto avvenne una volta arrivati: Gesù lascia i suoi tre testimoni e si scosta da loro qualche metro, come farà anche nel Getsemani: lì lasciò gli altri discepoli in un luogo scostandosi poi con Pietro, Giovanni e Giacomo, per poi andare da solo “un poco più avanti” (Matteo 26.39) dopo aver detto loro “restate qui, e vegliate con me” (v.41). Anche qui, nell’episodio della trasfigurazione come al Gestemani, abbiamo la stanchezza che s’impossessò di Pietro, Giovanni e Giacomo; Luca scrive “Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno” (9.32).

Mi sono chiesto quale fu, o furono, il soggetto/i della preghiera di Gesù sul monte: pur non avendo la pretesa di elencarli tutti, certo Nostro Signore presentò al Padre i discepoli e le Sue imminenti sofferenze perché, certo solo come uomo, si sentiva prigioniero del tempo che si avvicinava inesorabilmente verso la croce. Un Dio perfetto scelse volontariamente di vivere prigioniero in un corpo umano. E qui vediamo il confitto che provò tra l’essere uomo e l’essere Dio: è qualcosa di enormemente grande il fatto che come Dio potesse ogni cosa, ma come uomo fosse subordinato al Padre di cui cercava continuamente la comunione.

È a questo punto che avviene qualcosa di spiazzante, totalmente diverso dal sudare sangue che si verificherà da lì a un anno circa: qui “il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce”, Marco aggiunge “bianchissime, nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche” (9.3).

La trasfigurazione di Nostro Signore fu questa e tutto converge su due punti basilari: primo, Gesù è il nuovo Mosè descritto in quel passo già citato “Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te, fra i tuoi fratelli, un profeta pari a me – nell’esteriore –; a lui darete ascolto”; secondo, abbiamo una descrizione simile a quella riportata in Daniele 7.13-15: “Guardando nelle visioni notturne ecco apparire, sulle nubi del cielo, uno simile a un figlio dell’uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui, che gli diede potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano; il suo potere è un potere eterno che non tramonta mai e il suo regno è tale che non sarà mai distrutto”.  Gesù si trasfigura non in una maschera di morte, ma nella luce, nella Vita assoluta e soprattutto potente e gloriosa. Quello che i tre discepoli videro, non era un uomo incamminato verso Gerusalemme per morire, ma appunto il Signore che avrebbe vinto la morte nell’attesa di sedere alla destra del Padre, Unico a poter aprire il libro della vita.

Ecco perché, idealmente assieme ai tre apostoli, ci troviamo di fronte a qualcosa che ribalta profondamente, da un punto di vista umano, il concetto del Cristo che sta per essere condannato a morte, quindi provando orrore e tristezza: Gesù va incontro ad essa sapendo che le sofferenze che gli verranno inflitte, anziché preludere alla fine, costituiranno il veicolo verso la Gloria definitiva e solo dopo averla acquisita verrà definito “il primogenito di molti fratelli”. Come anticipato poco prima a proposito dell’ “otto” citato da Luca, la trasfigurazione va letta non come punto di arrivo, ma come un anticipo, un accenno del futuro e la via da percorrere doveva essere la croce, non altre. Scrive un fratello: ”La trasfigurazione non è il segno conclusivo né per Gesù, né per i discepoli: da questo momento in poi la narrazione evangelica non descriverà più momenti come questo, ma scorrerà senza intoppi verso la croce”.

La trasfigurazione, al di là di questi significati, ebbe però uno scopo, cioè quello di formare i tre sui quali Gesù faceva affidamento nel senso che a loro affiderà la costruzione della prima Chiesa. Se molto sappiamo di Pietro e Giovanni, non possiamo non attribuire anche a Giacomo un ruolo determinante perché fu il primo dei dodici a subire il martirio sotto Erode Agrippa nell’anno 44, alcuni dicono al ritorno da un viaggio in Spagna dove si era recato a portare il Vangelo, ma questo è attestato da fonti del 600 (Isidoro di Siviglia) e da due del 1600, per questo poco credibili (Maria di Ágreda e Anna Katarina Emmerick). La morte di Giacomo, a parte l’indubbio dolore per la perdita nelle Comunità cristiane, fu un esempio da un lato e dall’altro stravolse il principio in base al quale davanti a Dio esista una scala di preferenze per cui tanto più si è vicini a lui, quanto più si è protetti nel senso umano del termine. Il problema è che la sofferenza è l’unico modo per acquistarsi un premio, e questo vale per tutti, in un modo o in un altro, perché corpo e anima si muovono su percorsi diversi, anche se spesso paralleli.

Per certo quello della trasfigurazione fu un episodio che Pietro e Giovanni compresero molto bene quando diventarono portatori della Parola di Dio al mondo; il primo, nella sua seconda lettera, riporta le parole udite proprio in quella circostanza: “Egli ricevette onore e gloria da Dio Padre quando giunse a lui questa voce dalla maestosa gloria: «Questi è il Figlio mio, l’amato, nel quale ho posto il mio compiacimento». Questa voce noi l’abbiamo udita discendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte” (1.17.18.

Giovanni, invece, lascia traccia anche di questo episodio quando afferma in 1.14 “Noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come unigenito dal Padre”, o ancora nella sua prima lettera in 1.1-3 quando scrive “Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita, (…) quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi state in comunione con noi”.

Così parlarono questi due testimoni del nostro episodio, una volta che fu compreso, a tal punto che furono in grado di istruire perfettamente e senza esitazioni coloro che si univano alla Chiesa, risollevando vite affaticate, stremate dal peccato, che altro non è se non il vivere lontani da Dio, in modo deliberato o perché affetti da una forma di cecità dalla quale, volendolo, si può sempre guarire.

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11.19 – RENDERÀ A CIASCUNO SECONDO LE LORO AZIONI II/II (Matteo 16.27.28)

11.19 – Renderà a ciascuno II (Matteo 16. 27,28)

 

 27Perché il Figlio dell’uomo sta per venire nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e allora renderà a ciascuno secondo le sue azioni28In verità io vi dico: vi sono alcuni tra i presenti che non moriranno, prima di aver visto venire il Figlio dell’uomo con il suo regno».

Il tema del rendiconto, cioè quel momento in cui l’uomo dovrà rispondere delle sue azioni, è stato accennato diverse volte nel corso di questa serie di studi. Gesù lo ha presentato anche attraverso le parabole, cioè quei messaggi figurati studiati appositamente perché rimanessero nella mente delle persone semplici molto meglio dei discorsi dedicati a chi della Legge e degli altri scritti aveva una conoscenza più approfondita. Qui, dopo aver parlato di rinnegamento di sé, di fare attenzione a come si considera la propria vita, della necessità di appartenergli perché altrimenti non avremmo nulla da dare in cambio per la nostra salvezza, ecco presentarci il motivo di tutta questa serie di esortazioni: la venuta del “Figlio dell’uomo nella gloria del Padre suo” è imminente. “Sta per venire” e “verrà” sono i modi con cui l’espressione originale è tradotta ed è da sottolineare che Gesù, allora sottomesso come tutti gli uomini anche allo scorrere del tempo, qui si apre ad una visione che gli appartiene come Dio. E qui l’apostolo Pietro, spinto dallo Spirito Santo, scrive “Carissimi, c’è una cosa che non dovete dimenticare: per il Signore, lo spazio di un giorno è come mille anni e mille anni sono come un giorno solo. Il Signore non ritarda a compiere la sua promessa: alcuni pensano che sia in ritardo, ma non è vero. Piuttosto egli è paziente con voi, perché vuole che nessuno di voi si perda e che tutti abbiate la possibilità di cambiare vita. Il giorno del Signore verrà all’improvviso, come un ladro. Allora i cieli spariranno con grande fracasso, gli astri del cielo saranno distrutti dal calore e la terra, con tutto ciò che essa contiene, cesserà di esistere” (1 Pietro 3.1-10).

A parte che questi versi aprono varie prospettive sulle quali torneremo, è la proporzione tra i “mille anni” e “un giorno” a dirci che qui Gesù parla come Dio all’uomo, per cui non possiamo aspettarci un avvenimento imminente secondo il nostro metro valutativo e soprattutto in base quell’istinto che ci spinge a considerare procedente in un tempo misurabile ciò che il Signore classifica come “breve”. E infatti per questo abbiamo letto “Il Signore non ritarda a compiere l’adempimento della sua promessa, come alcuni credono”.

Su questo “Sta per venire”, o “verrà”, possono valere le stesse considerazioni fatte quando Nostro Signore operò una rilevante distinzione fra “L’ora viene, ed è questa, in cui i morti udranno la voce del Figlio di Dio e quelli che l’avranno ascoltata vivranno”, e “Viene l’ora in cui tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la sua voce e ne usciranno” (Giovanni 5.25-28) in cui due periodi per noi distanti nel tempo vengono da Lui divisi dalla specificazione “ed è questa”, ma utilizzando lo stesso tempo, al presente. Una cosa sono i nostri tempi, un’altra i Suoi.

Studiando i versi in esame occorre distinguere il 27 dal 28, poiché il termine “regno” implica la presenza di più significati. “Il Figlio dell’uomo sta per venire nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e allora renderà conto a ciascuno secondo le sue azioni” si riferisce all’ultima fase della storia umana, quando avranno avuto fine tutti gli eventi che caratterizzeranno il periodo dato all’umanità per salvarsi tra cui vengono annoverati, oltre alla Grazia e il rapimento della Chiesa, la Gran Tribolazione e il Millennio. Gesù, che qui non parla di questi eventi, va dritto al nocciolo della questione visto nel giudizio finale, chiaramente collegato alla retribuzione, al “rendere a ciascuno secondo le sue opere”, principio noto dai tempi antichi quando Salomone, in Proverbi 24.12 scrive “Se tu dicessi: «Io non lo sapevo», credi che non l’intenda colui che pesa i cuori? Colui che veglia sulla tua vita lo sa; egli renderà a ciascuno secondo le sue opere”.

Ora è stato detto da molti, me compreso, che gli uomini dell’Antico Patto potevano constatare la maledizione o benedizione su di loro in base alla qualità di vita, per cui la presenza di malattie era sintomo di un peccato, così come la prosperità rivelava loro il premio per l’osservanza alla Sua Legge; eppure, qui abbiamo la conferma che il verbo “rendere” espresso al futuro non si riferisce necessariamente a qualcosa di immediato, come la diretta constatazione dell’essere benedetti. È un futuro che riguarda l’anima. Da sottolineare anche il vegliare di Dio sull’uomo perché “Io, il Signore, scruto la mente e saggio i cuori, per dare a ciascuno secondo la sua condotta, secondo il frutto delle sue azioni” (Geremia 17.10): qui il Signore va oltre a ciò che facciamo, ma ne guarda il “frutto” con gli occhi della Sua Santità e Onniscienza. Stessa cosa in 32.19 in cui Geremia parla degli occhi di Dio “aperti su tutte le vie degli uomini, per dare a ciascuno secondo la sua condotta”, ancora “secondo il frutto delle sue azioni”, per cui quando Gesù parla di un rendiconto futuro sa bene di essere capito. Teniamo anche presente che gli Autori dei Vangeli scrivono un riassunto anche dei discorsi fatti alle persone sapendo che, attraverso lo Spirito Santo, sarebbero stati compresi dai loro lettori.

Nel Nuovo Patto il principio del rendiconto non viene ampliato come in molti casi, ma confermato perché l’uomo rimane sempre lo stesso: lo vediamo dal comportamento crudele e prevaricatore che ha in guerra, sempre lo stesso nonostante passino gli anni a migliaia, nel giudicare frettolosamente, nel compiere sempre le stesse trasgressioni davanti a Dio. Se c’è un progresso, questo è tecnologico, mai interiore. Ecco perché “Tu, con il tuo cuore duro e ostinato, accumuli collera su di te per il giorno dell’ira e della rivelazione del giusti giudizio di Dio, che renderà a ciascuno secondo le sue opere – stesse parole rivolte agli antichi -: la vita eterna a coloro che, perseverando nelle opere di bene, cercano gloria, onore, incorruttibilità; ira e sdegno contro coloro che, per ribellione, disobbediscono alla verità e obbediscono all’ingiustizia” (Romani 2.6), dove “cercare”, “disobbedire” e “obbedire” sono i cardini di tutto il discorso.

Per fugare ogni dubbio va precisato che esiste un giudizio di Dio che sarà rivolto agli uomini che non lo avranno posto nelle condizioni di agire perché a lui “ribelli”, ma che non riguarderà i credenti, poiché – parole di Gesù – “chi ascolta la mia parola e crede in Colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita” (Giovanni 5.24). Questo però non esime dal comparire “davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno – perché individuale è il messaggio di Dio come individuale la risposta – la ricompensa dalle opere compiute quando era nel corpo, sia in bene che in male” (2 Corinti 5.10). Questo è imbarazzante per quelli che predicano unicamente la salvezza di chi crede vedendo il cristiano come un privilegiato dall’amore di Dio, fatto indubbio, ma a scapito delle responsabilità che occupa come tale. È un ripetersi della dottrina che alcuni predicavano nella Chiesa di Corinto.

In pratica, ogni credente scamperà al Giudizio, perché “passato dalla morte alla vita”, come descritto in 2 Tessalonicesi 1.7-9: “…quando si manifesterà il Signore Gesù dal cielo, insieme agli angeli della sua potenza, con fuoco ardente, per punire quelli che non riconoscono Dio e quelli che non obbediscono al vangelo del Signore nostro Gesù. Essi saranno castigati con una rovina eterna, lontano dal volto del Signore – che è calore e luce – e dalla sua gloriosa potenza. In quel giorno egli verrà per essere glorificato dai suoi santi ed essere riconosciuto mirabile da tutti quelli che avranno creduto, perché è stata accolta la nostra testimonianza in mezzo a voi”.

Ma c’è di più, come leggiamo nel libro dell’Apocalisse: in tutte le lettere alle sette chiese si leggono elogi e rimproveri, ma a tutte loro, quindi a ogni cristiano, viene detto “Ecco, io vengo presto – ecco perché “il Figlio dell’uomo sa per venire” – e ho con me il mio salario per rendere a ciascuno secondo le sue opere” (22.12): di qui la responsabilità che abbiamo, correlata a quel verso più volte ricordato in base al quale “il fuoco darà la prova dell’opera di ciascuno”, cioè il passaggio di tutto ciò che abbiamo fatto attraverso la visione di Colui che ha “gli occhi di fuoco”, Gesù Cristo glorificato e il solo ad avere diritto di valutazione sull’operato dei credenti.

 

Tutte queste parole sono e furono considerate dagli uomini, quindi allora come oggi, solo come teoriche e per questo il verso successivo fornisce un elemento fonte di accurata meditazione: “In verità io vi dico: vi sono alcuni tra i presenti che non moriranno, prima di aver visto venire il Figlio dell’uomo con il suo regno”. Qui purtroppo la traduzione è errata perché non si tratta di “con il suo”, ma “nel suo”, dove Luca precisa per i non ebrei “prima di aver visto il regno di Dio”: è un verso che ha fatto inciampare molti che hanno sostenutoo che qui non è stato detto il vero, fraintendendo il regno di Dio con il ritorno di Gesù per giudicare. “Vedere il regno” ha qui il significato delle Sue manifestazioni a prescindere dal tipo, perché sono multiformi, ma va precisato che la traduzione del verso 28 “con il suo regno” è frutto di interpretazione.

In proposito ricordiamo le parole di Gesù in Matteo 12.28: “Ma se io scaccio i demòni per mezzo dello Spirito di Dio, allora è giunto a voi il regno di Dio”. Se allora l’espressione “regno di Dio” comprende molte realtà, qui abbiamo un riferimento alla Sua resurrezione, con la relativa ascensione con la quale Nostro Signore abbandonò questa terra perché ogni cosa era stata compiuta e adempiuta per la salvezza dell’uomo, ma anche alle altri avvenimenti, come tutto ciò che caratterizzò la Sua morte, e qui possiamo pensare sicuramente all’oscurità che cadde sulla terra, al terremoto, alla resurrezione di molti, ma soprattutto alla cortina del tempio che si crepò in due lasciando aperta la visione del luogo santissimo, a conferma dell’abolizione del Vecchio Patto con il popolo di Israele. Ancora, pensiamo alla discesa dello Spirito Santo sui centoventi e alla distruzione di Gerusalemme e del suo Tempio ad opera delle truppe romane di Tito, avvenuta nel 70 d.C.

C’è anche però un altro riferimento, molto più immediato, che quanto avverrà davvero “a breve” secondo il metro umano, ed è quello alla trasfigurazione di Gesù, evento al quale Pietro, Giacomo e Giovanni avranno il privilegio di essere testimoni, che sii verificherà sei giorni dopo queste parole.

Ecco allora che le parole di Gesù qui esaminate ci parlano dell’assoluta necessità di recepirle: a un avvenimento allora lontano del rendiconto così come espresso al verso 27, ne fa da contrappunto un altro, quello del “Figlio dell’Uomo venire nel suo regno” a garanzia del primo, qui enunciato, che ogni vero cristiano attende.

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11.18 – RENDERÀ A CIASCUNO SECONDO LE LORO AZIONI I/II (Matteo 16.27,28)

11.18 – Renderà a ciascuno I, riassunto (Matteo 16. 27,28)

 

 27Perché il Figlio dell’uomo sta per venire nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e allora renderà a ciascuno secondo le sue azioni28In verità io vi dico: vi sono alcuni tra i presenti che non moriranno, prima di aver visto venire il Figlio dell’uomo con il suo regno».

            Purtroppo la necessità di approfondire le parole di Gesù, nonostante la limitatezza dello spazio e della comprensione umana, ha fatto sì che il Suo discorso sia stato spezzato in più capitoli. Riassumiamo allora brevemente quando da Lui detto finora, dapprima chiama i presenti e parla tanto a chi lo seguiva quando a chi lo voleva fare avvertendoli che avrebbero dovuto rinnegare loro stessi ed essere disposti a perdere la loro vita; dopo di che invita tutti a riflettere sul fatto che il guadagnare “il mondo intero” non avrebbe avuto alcun senso a fronte della morte, inevitabile.

La vita, infatti, assume un significato diverso a seconda di come l’uomo si colloca di fronte a lei e agli interessi che lo spingono ad agire: una vita vissuta orizzontalmente provoca una tensione e mobilità verso tutto ciò che è terreno; chi ha questo in sé sarà quindi portato ad agire in funzione della sua sopravvivenza “fisica” entrando in un circuito mentale, quindi dell’anima, descritto in Proverbi 30.16: “La sanguisuga ha due figlie: «Dammi! Dammi!». Tre cose non si saziano mai, anzi quattro non dicono mai «Basta!»: il regno dei morti, il grembo sterile, la terra mai sazia d’acqua, e il fuoco che mai dice »Basta!»”.

È importante l’animale scelto da Agur, autore del capitolo 30: la sanguisuga, anellide che, quando succhia il sangue, produce un potente anticoagulante e un anestetico per poter meglio ingerire il sangue e impedire alla vittima di provare dolore. La sanguisuga è caratterizzata da una grande voracità al punto che riesce a conservare notevoli quantità di sangue nel suo tubo digerente ed è in grado di resistere anche per un anno senza nutrirsi. Si può dire che, figurativamente, essa è l’immagine dell’assorbimento indolore e continuo della vita, qui raffigurata nel sangue. Essa ha due figlie, “Dammi! Dammi!” che chiaramente si riferisce ai desideri che non saziano mai e che qui Agur spiega all’uomo, preda di essi senza che se ne accorga: l’autocritica, o l’autoesame per risolvere, è qualcosa che si rifugge, pervenendo ad uno stato in cui si è preda continua dei propri desideri. Ed il paragone poi passa alle “tre cose”, “anzi quattro” perché tale è il numero dell’uomo, che “non si saziano mai”, con riferimento alla terra sulla quale viviamo e dalla quale traiamo la nostra esperienza.

Abbiamo allora “il regno dei morti”, qui visto come il luogo in cui vanno tutti gli uomini secondo la visione sapienziale, “il grembo sterile”, cioè la mancata rassegnazione della donna che vuole avere figli e non accetta la sua condizione e per riflesso l’uomo che non accetta fallimenti ai suoi progetti, “la terra mai sazia d’acqua” e “il fuoco”: in questo caso vengono presentati due elementi opposti, incompatibili fra loro, ma ugualmente ingordi con la differenza che il primo ha bisogno di regolarità – perché gli effetti delle alluvioni sono ben noti – e il secondo non si ferma mai nella sua opera distruttrice.

Ora questi versi descrivono la vita terrena e l’avidità cui questa naturalmente porta; poco importa se vi siano persone che non manifestino chiaramente ossessività e compulsività perché, di fatto, ciascuno ha uno spazio al quale non è disposto a rinunciare ed è quello di cui Gesù parla utilizzando i termini “rinunzi a se stesso”“propria vita”.

“Guadagnare il mondo intero” è un’espressione che allude chiaramente ad un ipotetico punto di arrivo di un imperatore, e non può non venire in mente Carlo V d’Asburgo che disse “Sul mio regno non tramonta mai il sole”. Gesù quindi non solo vuol dire che “Guadagnare il mondo intero” non serve a nulla se poi lo si perde con la morte e il terrore di essa affrontando poi un’eternità negativa, ma anche come si può giungere a un punto d’arrivo in cui la fame e sete di possesso non potrebbe andare oltre perché si avrebbe già tutto. L’essere ingordi quindi conoscerebbe un termine in ogni caso, con la morte o con l’arrivare a possedere tutto il mondo, ma non per questo la sete di avere finirebbe. L’orizzontalità della vita è destinata comunque a finire.

C’è poi una domanda, rivolta a tutti i presenti ma anche a tutti quelli che leggono queste parole: “Che cosa un uomo potrà dare in cambio della propria vita?”. È un invito a rispondere, ma per quanto uno possa pensare, non troverà mai il modo di farlo adeguatamente perché fu la stessa che venne rivolta, in modo indiretto, al “ricco stolto” dell’omonima parabola quando leggiamo “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?” (Luca 12.20). Quell’uomo rimase muto perché obiettivamente tutto quello che avrebbe potuto dare in cambio perché il tempo del “rendiconto” fosse procrastinato, ammesso che Dio fosse un mercante, non avrebbe avuto per Lui alcun valore.

Mi sono chiesto il perché di questo “nulla da dare in cambio” e non ho trovato altra risposta se non andare al libro della Genesi, quando vediamo il Creatore, dare una vita perfetta infondendola ad Adamo, collocato in un recinto costruito perché si sentisse protetto. Adamo, e poi sua moglie, erano esseri che a differenza di noi potevano vederlo e parlargli, vivendo quell’autonomia di compiti che erano propri a ciascuno di loro e che trovavano in Eden un punto di intersezione. Adamo, e poi sua moglie, avevano da dare a Dio “in cambio”  il lavoro gioioso nel Giardino e il loro esistere in un reciproco rapporto di amore che si sviluppava nell’innocenza.

Una volta che tutto quell’equilibrio si ruppe, e che nulla fu come prima, Adamo e la sua discendenza non avrebbero potuto dare in cambio proprio nulla se non – attenzione – una costanza di pensieri a Lui rivolti, trovandosi debitori comunque in un rapporto che certo non era più alla pari come un tempo. “Dare a Dio” fu ciò che fece Abele come secondogenito, fatto che lascia stupiti in quanto la benedizione apparteneva al primo figlio. Possiamo ipotizzare che Caino ricevette l’influsso orgoglioso della madre, che lo chiamò infatti “Acquisto”, dal quale si aspettava che fosse lui a schiacciare il capo al serpente per poter tornare quella di prima.

Abele, invece, fu quello che si poneva dei problemi, delle domande, occupandosi di pecore mentre il fratello lavorava la terra, due attività che dicono molto sulle attitudini di entrambi. Mentre il primo tendeva a Dio offrendogli in sacrificio la parte migliore dei suoi animali, “primogeniti del suo gregge e il loro grasso”, Caino non è detto che facesse altrettanto coi prodotti del suo raccolto, già sbagliando in partenza perché era il sacrificio dell’innocente ad avere valore e non i frutti della terra.

Abele non pensava di “dare a Dio qualcosa in cambio”, ma gli premeva manifestare a Lui il proprio timore e la riconoscenza perché, nonostante la condanna ai suoi genitori da lui ereditata, provava gratitudine e ossequio, per cui fu ricambiato: “Il Signore gradì Abele e la sua offerta” (Genesi 4.3). Abele sapeva, ai fini del suo esistere, di non avere nulla da offrire, ma da manifestare cercando un contatto sicuramente sì, e questo era la disposizione del cuore, cosciente che senza la benedizione di Dio non avrebbe concluso assolutamente nulla e rinunciava al suo, visto nei primogeniti e nel grasso degli agnelli.

Gli uomini che gli successero, fecero altrettanto e così sappiamo che si crearono due generazioni che si svilupparono in perenne lotta fra loro, quella degli uomini di Dio e quella dei loro avversari. Anch’essi non avevano nulla da dare in cambio, salvo l’orientamento della loro vita e dei loro pensieri e non uno di loro non fu premiato, ponendosi così automaticamente nell’avere aperto davanti al Creatore un “conto di giustizia” nonostante giusti non lo fossero: scelsero la via del bene, quella “della benedizione” al posto dell’altra, “della maledizione” e così vissero, dando a Dio quanto potevano nonostante sapessero che nulla sarebbe stato mai sufficiente a colmare la distanza tra loro e YHWH. Ma agirono con fede, a tal punto che Dio arrivò a chiamare Abrahamo “mio amico” in Isaia 41.8: “Ma tu, Israele, mio servo, tu Giacobbe, che ho scelto, discendente di Abrahamo, mio amico”, parole che mi fanno rabbrividire ogni volta che le leggo per l’amore e il rapporto che sottintendono, per la profonda imperfezione che si compensa nelle perfezioni di Dio, che guarda all’uomo solo perché pone in lui la fede.

Ecco allora che, da questi passi che ho volutamente scelto dall’Antico Patto per rimarcare ancora di più il concetto dello sviluppo della relazione con l’Eterno Iddio, appare chiaro come sia la fede l’unica cosa che abbiamo da dare a Lui in cambio, riconoscendolo come unico riferimento di vita.

Dal Nuovo Patto in poi, però, l’amore di Dio che già contemplava il sacrificio del Suo Agnello “fin dalla fondazione del mondo”, ha squarciato definitivamente il velo dell’ignoranza giungendo al suo massimo punto di espressione, cioè dando il Figlio in sacrificio per tutti quelli che avrebbero voluto appropriarsene, aggrappandosi ad esso. Chi crede nel Figlio, “pane disceso dal cielo”, sarà “simile a Lui” perché “noi siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che, quando si sarà manifestato – e qui vengono chiamati in causa i versi che esamineremo e che abbiamo letto all’inizio – noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è” (1 Giovanni 3.2).

Sempre Giovanni scrive, in un verso a noi noto, che “Iddio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio Unigenito perché chiunque creda in lui non vada perduto, ma abbia vita eterna” (3.16) per cui ecco che, pur non avendo nulla da “dare in cambio”, c’è quel “creda in lui” che implica quel “dare in cambio” non nostro, ma acquisito perché in noi “non abita alcun bene”.

La domanda di Gesù “Cosa un uomo potrà dare in cambio per la propria vita?” ha come risposta “nulla”, se non il fatto di appartenergli. Non “alla notte, né alle tenebre” (1 Tessalonicesi 5.5), ma “al giorno” (v.8) perché, come in Romani 8.39, “né altezza, né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore”. E “Cosa mi dai in cambio?” è una domanda che non verrà rivolta a nessun credente. Amen.

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11.17 – CHI VUOL SALVARE LA PROPRIA VITA, LA PERDERÀ (Matteo16.25,20)

11.17 – Chi vuol salvare la sua vita (Matteo 16. 25,26)

 

 25Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà. 26Infatti quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita? O che cosa un uomo potrà dare in cambio della propria vita? 

            Siamo qui al seguito del discorso di Gesù dopo le parole su cui abbiamo cercato di meditare nei due capitoli precedenti, relative alla necessità di prendere ciascuno la propria croce, e seguirlo. Dopo questa massima, vengono esposte le ragioni: chi avrà soluto salvare la propria vita, la perderà, ma chi l’avrà persa per causa Sua, la troverà. “Volere”, “salvare” e “perdere” sono allora i tre perni attorno ai quali ruota il principio espresso da Nostro Signore. Il primo è un verbo che significa “Tendere con decisione, o anche soltanto con il desiderio, a fare o conseguire qualcosa”. Quando è seguito da un verbo all’infinito, come in questo caso, esprime per lo più la tendenza a conseguire, o la determinazione a fare qualcosa. Voler “salvare la propria vita” è quasi un’azione obbligata perché tutti tendono a questo: sottrarsi a un pericolo, a un danno che, in questo caso, si riferisce chiaramente alla morte.

Una prima lettura del testo è quindi quella letterale, rivolta nella prospettiva a quanti saranno uccisi per la loro testimonianza alla Parola di Dio: ricordiamo Stefano e l’apostolo Giacomo, fratello di Giovanni, il primo dei Dodici a venire ucciso per mano di Erode Agrippa I, come leggiamo in Atti 12.1-3, “In quel tempo il re Erode cominciò a perseguitare alcuni membri della Chiesa. Fece uccidere di spada Giacomo, fratello di Giovanni. Vedendo che ciò era gradito ai giudei, fece arrestare anche Pietro”.

Sono personalmente convinto che il senso del verso 25 sia quello che ho riportato, ma poiché la Scrittura parla a tutti gli uomini indipendentemente dall’epoca nella quale vivono, è giusto sottolineare che, se per noi europei la persecuzione contro i cristiani non è per ora in atto, per lo meno non in modo dichiaratamente violento, questa esiste in molti Paesi del pianeta. Nel corso della storia i cristiani morti per la loro fede sono stimati in circa settanta milioni, di cui quarantacinque solo nel XX secolo. Una ricerca datata 8 giugno 2011 condotta da Massimo Introvigne, fondatore e direttore del Centro Studi sulle Nuove Religioni, ha portato la statistica secondo la quale nel mondo viene ucciso un cristiano ogni cinque minuti. Possiamo quindi fare le nostre debite considerazioni sul fatto che da decenni venga ricordata la “Shoah”, si dice sei milioni di ebrei uccisi dal Nazismo, e non quella dei settanta milioni di cristiani. In merito a quanto scritto poco prima riguardo all’Europa, l’Osservatorio sull’intolleranza e discriminazione contro i cristiani in Europa, membro della Piattaforma dell’Agenzia Europea dei diritti fondamentali, segnala che proprio anche da noi, come Continente, i casi di intolleranza e discriminazione nei confronti dei cristiani siano in aumento. Il Report dell’Agenzia in questione, segnala 241 casi tra il 2013 e il 2014. Citando la prefazione al lungo documento, reperibile in rete in lingua inglese, il dott. Gudrun Kugler, direttore dell’Osservatorio, spiega: “La società sempre più secolare in Europa ha sempre meno spazio per il cristianesimo. Alcuni governi e attori della società civile cercano di escludere invece di accogliere. Ci vengono segnalati innumerevoli casi di intolleranza verso i cristiani. Ricercando, documentando e pubblicando questi casi speriamo di creare una consapevolezza che è un primo passo verso un rimedio” (che mai avverrà, stante la società verso la quale stiamo andando).

Nelle Maldive, meta di vacanza di molti europei, è stato proclamato nel 1994 l’Atto di Unità Religiosa che vieta la promozione di ogni manifestazione diversa dall’Islam o di ogni opinione che sia in disaccordo con quella degli esperti islamici. Nel 2011 le autorità hanno espulso un’insegnante accusata di diffondere il Cristianesimo, avendo trovato una Bibbia nella sua casa. In Arabia Saudita il possesso di una Bibbia è considerato un crimine, in Corea del Nord la dittatura ateo-comunista proibisce qualsiasi appartenenza a gruppi cristiani e, al 2015, si parla di una cifra oscillante tra i 50mila e i 70mila cristiani imprigionati a vita nei campi di lavoro forzato. La Cina ha istituito una “Chiesa patriottica nazionale” e quei cattolici che non ne fanno parte sono considerati agenti di una potenza straniera.

E potremmo continuare, sottolineando le parole troppo blande di Papa Francesco che si limitò a dire, nell’Angelus del 15 marzo 2015, “Che questa persecuzione contro i cristiani, che il mondo cerca di nascondere, finisca e ci sia la pace”. “Che il mondo cerca di nascondere” perché la fede è messa al bando, perché l’informazione deve essere controllata e canalizzata, perché le menti devono restare spente e, dando voce ai morti del passato instillando l’orrore per il regime Nazista, tacciano quelle dei morti del presente e la gente possa convincersi che il Male appartiene al passato.

Finito questo excursus breve, ma necessario, veniamo alla “vita” di cui Gesù parla per quelli che le persecuzioni del mondo non le subiscono ancora: possiamo definire la “vita” come il risultato di un impulso che il Creatore ha dato in origine a ciò che sarebbe rimasto altrimenti inerte. Per il regno vegetale si trattò di un ordine dato alla Terra: “La terra produca germogli, erbe che producono seme e alberi da frutto, che fanno sulla terra frutto con il seme, ciascuno secondo la propria specie”. Ciò avvenne il terzo giorno. Poi il quinto giorno la stessa cosa avvenne per le creature del mare e gli uccelli, ma il sesto fu la volta degli animali e dell’uomo, l’unica creatura a ricevere l’alito vitale di Dio per cui “fu fatto anima vivente”.

Il Creatore quindi costituì l’uomo responsabile di tutta la sua opera: Lui l’aveva fatto, prodotto dalla polvere della terra, e a lui apparteneva anche dopo la caduta ed ecco perché nessuno poteva arrogarsi il diritto di togliergli la vita nel senso fisico del termine: “Del sangue vostro, ossia della vostra vita – quella naturale, come per tutti gli animali – io domanderò conto; ne domanderà conto ad ogni essere vivente e domanderò conto della vita dell’uomo all’uomo, ad ogni suo fratello” (Genesi 9.5). Un principio che non mutò mai nel corso delle dispensazioni.

Solo più avanti, nella dispensazione della Legge, si intravede un parallelismo tra vita carnale e vita spirituale, per quanto già con il Diluvio ed altri episodi appaia chiaro il principio in base al quale il vivere ha senso solo se perseguito ricercando Dio per a Lui adeguarsi: “Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male” (Deuteronomio 30.15). Al verso 19 viene detto “Prendo oggi a testimoni contro di voi il cielo e la terra; io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione: scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza”.

A questo punto è chiaro che la “vita” di cui parla YHWH nella Sua Legge si riferisce solo apparentemente a quella orizzontale, ma tenda alla sopravvivenza spirituale, che per ora definiamo superficialmente fisica e psichica, poiché il vivere in senso puramente animale è cercato da pochi. Che i due tipi di “vita” sono quelli che costituiscono l’uomo lo sa bene anche l’Avversario, che in Giobbe 2.4, a Dio che gli parlava di quanto fosse integro “il mio servo Giobbe”, Gli rispose “Pelle per pelle; tutto quello che possiede, l’uomo è pronto a darlo per la sua vita”.

Per “vita”, quindi, si intende tutta la persona e non solo il fatto che il muscolo cardiaco svolga la sua funzione. Interessante la preghiera in Salmo 26.9, “Non associare a me i peccatori, né la mia vita agli uomini di sangue” e 49.9, già citato in altra riflessione, “Troppo caro sarebbe il riscatto di una vita: non sarà mai sufficiente per vivere senza fine e non vedere la fossa”: se l’uomo fosse un animale, con l’anima che risiede nel sangue come tutte le altre creature, sarebbe sacrificabile, potrebbe essere ucciso senza colpa, essendo la sua sopravvivenza totale relegata a quel liquido. Ultimo passo relativo agli scritti dell’Antico Patto degno di considerazione si trova sempre in questo Salmo, ai versi 15 e 16: “Come pecore sono destinati agli inferi, sarà loro pastore la morte; scenderanno a precipizio nel sepolcro, svanirà di loro ogni traccia, gli inferi saranno la loro dimora. Certo, Dio riscatterà la mia vita, mi strapperà dalla mano degli inferi”.

Qui possiamo vedere tanto la certezza di riscatto della “vita” in toto espressa dal salmista che pone una distinzione tra ciò cui gli uomini tendono per natura, il benessere fisico, e quello di chi invece fonda la sua vita con Dio come riferimento, “Certo, Dio riscatterà”.

Veniamo però al Nuovo Patto, in cui Gesù, esponendo la parabola del figlio prodigo, riporta le parole del padre che lo vide tornare: “Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato” (Luca 15.22-24). Si può essere allora morti anche vivendo, o si può vivere senza essere morti e soprattutto c’è una vita eterna, quella che cercava il giovane ricco che incontreremo (Luca 18. 18-27): quella persona gli chiese “Maestro buono, che devo fare per eredita la vita eterna?”; dopo avergli riferito che aveva osservato tutti i precetti della legge, alle parole “Se vuoi esser perfetto, va’, vendi ciò che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro nel cielo, poi vieni e seguimi” è scritto che “Se ne andò rattristato, perché aveva molti beni”: la vera vita, quella eterna, si trasformò per quella persona in qualcosa di secondario perché ne aveva un’altra, la propria, alla quale dava priorità. Ecco allora che quel giovane fece una scelta, volle salvare la sua vita, quella che gli apparteneva come essere pensante, cosciente, che lo faceva persona nella carne, e non quella della rinuncia, che gli avrebbe tolto i suoi averi materiali, ma gliene avrebbe dati altri, spirituali, in cambio.

Da notare che Gesù non chiese a quel ricco di abbandonare i suoi averi e darli ai poveri come condizione per avere la vita eterna, ma di abbandonarli come prima cosa dentro di sé e poi seguirlo perché solo così il suo dare agli altri avrebbe avuto un senso: non lo chiama ad essere altruista o “buono”, ma a far parte del gruppo dei discepoli realizzandosi pienamente, a liberarsi di un ostacolo. Se ci fermassimo alla prima parte della Sua risposta, il cosiddetto “vangelo sociale” sarebbe legittimato.

La ricchezza è qui vista come “vita”, cioè tutto ciò che rappresenta essa per l’uomo, ma va intesa come possesso, materiale o affettivo, cioè tutto quello che ci condiziona nelle nostre scelte, come più volte sottolineato, qualcosa relegato al bene che si possiede, sia denaro, cose, persone, affetti. E qui siamo chiamati molto a meditare, perché la nostra esistenza non può essere condizionata dai nostri “beni”, non può esservi compromesso, ma distinzione. Sotto questa lettura, hanno pieno senso le parole di Paolo a Timoteo nella sua prima lettera: “Invece quelli che vogliono arricchire – anche nel senso dell’Ego – cadono vittime di tentazioni, di inganni e molti desideri insensati e funesti, che affondano gli uomini nella rovina e nella perdizione. Infatti l’amore del denaro – amore e non disponibilità di esso – è radice di ogni specie di mai; e alcuni che vi sono dati, si sono sviati dalla fede e si sono procurati molti dolori” (6.9-10).

L’affermazione di Gesù sulla “propria vita” è allora intesa nel suo senso più ampio, cioè l’uomo deve chiedersi cosa lo spinge, lo anima nel profondo e meditare sul fatto che, seguendo i propri impulsi naturali e anche venendo a “guadagnare il mondo intero”, quello che Gli voleva dare Satana, a nulla servirebbe se perdesse la propria anima, la sola ad essere immortale.

Perché non c’è nulla che possiamo dare a Dio in cambio, neppure noi stessi, se non fossimo stati da Lui accolti. Amen.

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11.16 – SEGUIRE GESÙ: PRENDERE LA CROCE II (Matteo 16.24)

11.16 – Seguire Gesù: prendere la croce II (Matteo 16. 24)

 

 24Allora Gesù disse ai suoi discepoli: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua.

 

Nello scorso capitolo abbiamo lavorato, nelle sue parti essenziali, sul corrispettivo di Luca che, al “prendere la sua croce”, aggiunge “ogni giorno”. Prima di esaminare il significato della “croce” di cui Gesù parlò ai discepoli e alla folla da Lui direttamente chiamata, sottolineiamo che il seguirLo doveva essere una scelta libera e ponderata: “Se qualcuno vuole venire dietro a me”. In pratica la porta della Grazia è aperta a tutti, ma quel “se” avvisa chi vuole seguirlo che non può farlo restando la persona di prima, cioè pretendendo di mettere sullo stesso livello se stesso e Dio, cercare un compromesso per vivere tenendo separato ciò che appartiene alla propria natura umana da ciò che è il confronto con Lui. La cosa è impossibile perché non si può “servire a due padroni”, perché “o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro.” (Matteo 6.24).

“Se” quindi, attirato dai miracoli e dai discorsi di Gesù, una persona si sente attratta da Lui, deve sapere che si troverà presto o tardi di fronte alla necessità di rinnegare se stesso, cioè fare i conti con tutti quegli elementi che hanno rappresentato fino a quel momento il centro della sua vita, per abbandonarli. Alcuni lo fanno subito, in blocco, totalmente, altri con una progressione perché si comincia dalle piccole cose per poi arrivare alle grandi e non viceversa. Il rinnegamento di se stessi inizia quando si acquisisce la conoscenza che “in me non abita alcun bene”, è come iniziare con vestiti invernali un cammino sotto il sole per svestirsi progressivamente, abbandonando ciò che non serve perché portarlo addosso diventa un problema fastidioso. Credo che sia pertinente in proposito Colossesi 3.12-17 “Vestitevi dunque, come eletti di Dio, santi ed amati, di sentimenti di misericordia, di benevolenza, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza. Sopportatevi gli uni gli altri e perdonatevi a vicenda, se uno ha di che dolersi di un altro. Come il Signore vi ha perdonati, così fate anche voi. Al di sopra di tutte queste cose vestitevi dell’amore che è il vincolo della perfezione. E la pace di Cristo, alla quale siete stati chiamati per essere un solo corpo, regni nei vostri cuori”.

“Rinnegare se stessi” è strettamente connesso al “prendere la propria croce” e al seguire Gesù, due azioni ciascuna delle quali implica l’altra perché altrimenti sarebbero entrambe sconnesse, senza senso perché solo se fatte assieme garantiscono la sopravvivenza della persona.

Venendo alla seconda parte di queste riflessioni, mi sono chiesto se i presenti al discorso di Gesù, discepoli compresi, potessero capire cosa s’intendesse effettivamente per “croce”, non essendovi un solo caso in cui è menzionata nelle loro Scritture, nella Legge, nei Profeti o negli altri Libri. Forse i più informati avranno fatto il collegamento con la crocifissione, praticata dai Romani dal 200 a.C., ma dalle origini persiane, da Antioco Epifane ed Alessandro Magno ancora prima, ma la ritengo un’eventualità rispetto al fatto che il suo vero significato verrà rivelato proprio con l’esecuzione di Gesù ed il Suo risorgere.

Come abbiamo fatto con l’ “ogni giorno”, vediamo allora le applicazioni sul prendere “la propria croce”. La prima domanda che mi sono fatto è se i presenti conoscessero il significato della parola. Ho fatto due ipotesi, che probabilmente si assommano tra loro e danno un unico risultato: primo, la crocifissione era stata introdotta dai romani nel 200 a.C., ma era in uso presso i babilonesi, i persiani e i cartaginesi dai quali i romani l’appresero. La storia umana ha tramandato la crocifissione di duemila abitanti ordinata da Alessandro Magno quando conquistò Tiro nel 332. La croce, quindi, è possibile che abbia provocato nei presenti un immediato riferimento al dolore e alla morte. Secondo, ma più che un’ipotesi è un dato, è che Gesù nominò quello strumento di morte in modo tale che fosse capito nel suo significato più ampio dopo, quando appunto a provarla sarebbe stato lui stesso.

Sul problema di cosa avesse voluto realmente dire, molto si è scritto, anche contraddittoriamente, ancora una volta tendendo a dare una sola interpretazione. Come abbiamo visto poco prima per l’ “ogni giorno”, però, anche per la croce credo si debba procedere ad una lettura a strati perché non ci sono riferimenti primari o secondari, ma molti di pari importanza che convergono in un solo punto che li contiene tutti.

La croce parla di testimonianza sofferta. In Atti 5.41,42 leggiamo “Essi – gli Apostoli, dopo che furono flagellati, quindi soffrirono non poco – se ne andarono via dal sinedrio, lieti di essere stati giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù. E ogni giorno, nel tempio e nelle case, non cessavano di insegnare e di annunciare che Gesù è il Cristo”. Qui allora vediamo che per i Dodici (ricordiamo che Giuda Iscariotha era stato sostituito da Mattia) non era importante ciò che il sinedrio avrebbe loro fatto, ma testimoniare propagandando il Vangelo e Luca, medico, non dice una parola sulle conseguenze della flagellazione, ma pone l’accento sul fatto che “se ne andarono (…) lieti di essere giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù”. La realizzazione personale infatti, contrariamente ad ogni idea umana, non si verifica solo quando meditiamo la Parola o preghiamo, ma anche nel dolore conseguente alla dichiarazione dell’essere credenti e alla testimonianza del Vangelo.

La croce parla di sofferenza a molti livelli, non solo quello della persecuzione cui allude Paolo nelle sue lettere, poiché i persecutori dei cristiani, prima dei romani, furono proprio gli stessi ebrei. Ricordiamo Filippesi 1.29: “Riguardo a Cristo, a voi è stata data la grazia non solo di credere in lui, ma anche di soffrire per lui, sostenendo la stessa lotta che ci avete visto sostenere e sapete che sostengo anche ora”. In Ebrei 10.32-37 si legge “…avete preso parte alle sofferenze dei carcerati e avete accettato con gioia di essere derubati delle vostre sostanze, sapendo di possedere beni migliori e duraturi. Non abbandonate dunque la vostra franchezza, alla quale è riservata una grande ricompensa. Avete solo bisogno di perseveranza perché, fatta la volontà di Dio, otteniate ciò che vi è stato promesso. Avete un poco, infatti, un poco appena, e colui che deve venire verrà, e non tarderà”. E il credente ha bisogno di perseverare perché senza questo metodo si inaridirebbe; soprattutto è chiamato a pensare che il tempo che vive non è quello che è istintivamente portato a misurare coi propri metri umani: l’autore della lettera ricorda che abbiamo “un poco appena” prima del ritorno di Cristo. Attenzione a non sottovalutare la portata della persecuzione, poiché questa viene portata avanti tanto da religioni avverse al cristianesimo – e questo anche oggi –, ma dall’Avversario stesso che fa di tutto pur di incrinare, rovinare e se possibile distruggere il rapporto col Padre. Ci ha già provato e agirà in tal senso fino alla sua fine.

La croce parla di rinuncia e abbandono, come in Filippesi 3.7-11: “Ma queste cose – la storia umana di Paolo con ciò che questa comporta, esperienze, affetti, professione, inserimento sociale –, che per me erano guadagni, io le ho considerate una perdita a motivo di Cristo. Anzi, ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. Per lui ho lasciato tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo ed essere trovato in lui (…) perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dei morti”.

La croce parla di continuità, come ancora in Ebrei 12.2: “Tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento – Lui solo –. Egli, di fronte alla gloria che gli era posta dinanzi, si sottopose alla croce, disprezzando il disonore, e siede alla destra del trono di Dio”.

La croce ci parla del rifiuto della carne intesa nel senso ebraico del termine, basar, che comprendeva il corpo e i sentimenti umani. Leggiamo in Galati 5. 24,25 “Quelli che sono di Cristo hanno crocifisso la carne con le sue passioni e i suoi desideri. Perciò, se viviamo nello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito”. Ciò che siamo è e sarà sempre impuro, non importa quanto, fatto sta che il nostro vestito, se non fosse per l’intercessione di Cristo, sarebbe irrimediabilmente sporco e qui, a conferma che la nostra origine rimane, interviene Colossesi 3.5,6: “Fate morire dunque ciò che appartiene alla terra: impurità, immoralità, passioni, desideri cattivi e quella cupidigia che è l’idolatria; a motivo di queste cose l’ira di Dio viene su coloro che gli disobbediscono. Anche voi un tempo eravate così, quando vivevate in questi vizi”. Qui Paolo si esprime al tempo passato, ma proprio perché una volta, quando non credevamo, eravamo dediti a varie forme di peccato che  e qui dobbiamo prestare molta attenzione –rimane come attitudine e richiamo; ricordiamo che a Caino fu ricordato che il peccato era alla porta e lo spiava, attendendo il momento per agire. Anche lui, che viveva la dispensazione della coscienza, era libero di scegliere e prendere o meno i provvedimenti opportuni per salvaguardare il suo essere.

La croce è un riferimento: “Quanto a me, non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo” (Galati 6.14). Da notare la “croce del Signore” come punto di orientamento, poiché è alla croce che fu inchiodato non solo lui, ma anche quel “documento scritto contro di noi” (Colossesi 2.14) senza il quale non avremmo mai avuto accesso al Padre. Poi dal verso di Galati abbiamo la reciprocità: il mondo, per l’apostolo Paolo, non aveva più senso, né per il mondo la sua persona. È un addio reciproco che moti cristiani stentano a mettere in pratica.

La croce, infine, ci parla di noi, visti come “vasi di creta” e della nostra condizione: “In tutto, infatti, siamo tribolati, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo. Sempre, infatti, noi che siamo vivi veniamo consegnati alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nella nostra carne mortale” (2 Corinti 4.8-11). Interessante il riferimento alla morte e al corpo, poiché il credente non si appartiene, ma è di Colui che lo ha salvato: portiamo “la morte di Gesù” in noi in quanto salvati per essa, ma ciò che è mortale in noi rivestirà immortalità.

Ecco allora che “prendere la propria croce ogni giorno” è un’espressione che comprende tutti questi riferimenti, ciascuno dei quali emerge a seconda delle circostanze, sempre conosciute molto più di quanto crediamo noi, da Nostro Signore Gesù Cristo e dal Padre. Amen.

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11.15 – SEGUIRE GESÙ: PRENDERE LA CROCE I (Matteo16.24)

11.15 – Seguire Gesù: prendere la croce I (Matteo 16. 24)

 

 24Allora Gesù disse ai suoi discepoli: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua.

 

Il parallelo di Marco ci informa che Gesù e i discepoli erano soli quando avvenne il riconoscimento di Pietro e il suo rimprovero, quindi tutto questo si verificò a distanza dalla gente che Lo seguiva. Anche lì, in quel territorio di Cesarea di Filippo, le persone Lo riconobbero e Lo seguivano, ma credo in maniera diversa; ricordiamo che in altri episodi, presente la folla, era detto che  “non avevano tempo neppure per mangiare” e quando Nostro Signore volle portarli in un luogo isolato per farli riposare, tornati dalla missione che aveva loro affidato, ci riuscì in parte. Qui invece in Marco 8.34 leggiamo “Convocata la folla insieme ai suoi discepoli, disse loro”: li dovette chiamare, ma chi erano?

Gesù, all’inizio del Suo Ministero, opera nel territorio della Giudea e Galilea, con una visita in territorio Samaritano. Lì conosce e opera anche nei confronti di persone non appartenenti al popolo di Israele nel senso puro del termine, che tuttavia gli manifestarono una grande fede. Poi, come visto ultimamente, passa nella zona di Tiro e Sidone, tra i pagani, guarendo la figlia della donna cananea, o siro-fenicia. Quindi va nella Decapoli, rientra nella Galilea, per la seconda volta dà da mangiare alla folla (quattromila persone) “sette pani e pochi pesciolini” per poi entrare nella regione di Cesarea di Filippo: abbiamo tre passaggi in territori non ebrei che avvengono poco prima del Suo riconoscimento come “il Cristo” e del nuovo periodo di istruzione dei Dodici. Le persone che Gesù chiamò a Sé per farsi ascoltare, erano allora pagani ed ebrei, essendo imminente il Suo Sacrificio. Tra l’altro, qui è la prima volta in cui Nostro Signore, prima di parlare, “convoca la folla” rivelando cosa significhi veramente seguirlo e lo fa partendo dal significato più immediato del verbo, “venir dietro di me”, perché per seguire una persona bisogna necessariamente porsi avendola quanto meno a portata d’occhio per fare il suo stesso percorso.

E qui Gesù dice chiaramente che il “venir dietro di me” non è un’azione che possa risolvere qualcosa, ma è necessaria una piena identificazione in Lui. “Rinneghi se stesso, prenda la sua croce – Luca aggiunge “ogni giorno”e mi segua”, frase identica in tutte le versioni salvo, come abbiamo letto, ciò che Luca aggiunge.

A questo punto necessita una precisazione, e cioè: non è la prima volta che Nostro Signore parla della necessità di prendere “la propria croce”. La prima volta che espresse questo concetto l’abbiamo nel sermone in Matteo 10.38, “Chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me”, che abbiamo esaminato in un precedente capitolo. Allora, però, questa frase era inserita in un contesto molto più ampio, in un discorso rivolto ai Dodici prima di inviarli in missione e lo abbiamo trattato come tale, cioè dedicandovi un breve ed essenziale sviluppo che qui cercheremo di estendere in modo più ampio e complesso ricordando che la Parola di Dio poche volte ha dei riferimenti univoci.

Sappiamo infatti che la voce di YHWH è paragonata a un suono: Daniele, quando lo udì, cadde “stordito con la faccia a terra” (10.9) e che Giovanni, in un verso già citato, in Apocalisse 1.15 scrive “La sua voce era simile al fragore di grandi acque”; riferimento al rumore bianco, cioè la somma di tutte le frequenze udibili. Il rumore bianco, per definizione, è quello caratterizzato dall’assenza di periodicità nel tempo e da ampiezza costante su tutto lo spettro di frequenze. Quello delle onde del mare è un primo esempio. Quindi la multiformità del messaggio, la sua contemporaneità nel momento. È necessario allora cercare di districarsi, quando siamo in presenza di espressioni e concetti che, come nel nostro caso, ne comprendono molti: “prendere la propria croce” è uno di questi; sono parole strutturate in modo tale da presentare un numero elevato di strati, di rimandi, di concetti.

I termini chiave di questo verso, facendo riferimento a Luca, sono due, la “croce” e “ogni giorno” e credo sia utile cominciare da quest’ultimo, che ci parla fondamentalmente di continuità, necessaria anche solo per l’apprendimento e il mantenimento di qualsiasi professione che richiede costanza, studio, pratica e aggiornamento. Nel campo spirituale troviamo molti esempi negli scritti dell’Antico e del Nuovo Patto.

“Ogni giorno” lo troviamo per la prima volta in Esodo 16.4 a proposito della manna: “Il popolo uscirà a raccoglierne ogni giorno la razione di un giorno, perché io lo metta alla prova, per vedere se cammina o no secondo la mia legge”. Qui abbiamo un nutrimento dato direttamente da Dio al suo popolo, che non poteva prenderne per conservarlo perché “quando il sole cominciava a scaldare, si scioglieva” e addirittura, si esprime meraviglia perché solo quando veniva raccolta doppia razione il giorno antecedente il sabato, “non imputridiva, né vi erano vermi” (v.24). Il primo riferimento, allora, è che “ogni giorno” il credente è chiamato nel suo interesse a cercare il proprio nutrimento spirituale, di cui abbiamo traccia nella preghiera del “Padre Nostro”.

E qui i riferimenti sono numerosi: ricordiamo Deuteronomio 11.1, “Ama dunque il Signore, tuo Dio, e osserva ogni giorno le sue prescrizioni; le sue leggi, le sue norme e i suoi comandi”, Proverbi 8.24 “Beato l’uomo che mi ascolta, vegliando ogni giorno alle mie porte, per custodire gli stipiti della mia soglia”, per non parlare delle promesse, tutt’oggi valide, contenute nel Salmo 1: “Beato l’uomo che non entra nel consiglio dei malvagi, non resta nella via dei peccatori e non siede in compagnia degli arroganti, ma nella legge del Signore trova la sua gioia, la sua legge medita giorno e notte. È come un albero piantato lungo corsi d’acqua, che dà frutto a suo tempo: le sue foglie non appassiscono e tutto quello che fa, riesce bene. Non così, non così i malvagi, come pula che il vento disperde; perciò non si alzeranno i malvagi nel giudizio né i peccatori nell’assemblea dei giusti, poiché il Signore veglia sul cammino dei giusti, mentre la via dei malvagi va in rovina”.

Anche in questi versi abbiamo un primo significato di quell’ “ogni giorno” detto da Gesù, che sarebbero delle belle massime religiose se non sapessimo che c’è un rapporto stretto tra l’avvicinarsi a Dio e il confronto con Lui, che “Ogni giorno ha compassione e dà in prestito, e la sua stirpe sarà benedetta” (Salmo 37.26). In opposizione abbiamo le conseguenze della disubbidienza così descritta in Deuteronomio 28.33: “Un popolo che tu non conosci mangerà il frutto del tuo suolo e di tutta la tua fatica. Sarai oppresso e schiacciato ogni giorno”, verso rientrante nelle maledizioni nel caso in cui Israele non Lo avesse seguito.

“Ogni giorno” ci parla anche del sacrificio quotidiano dei due agnelli (Esodo 28.29) a conferma del bisogno continuo di remissione a prescindere e non solo per un peccato specifico, per il quale esistevano precise norme. Così anche noi constatiamo quotidianamente la nostra debolezza e fragilità, necessitando sempre del perdóno anche per quelle mancanze dovute a inavvertenza, che non vediamo.

La quotidianità ci parla anche di testimonianza e di pratica concreta di fede: ricordiamo Atti 5.52, “Ogni giorno, nel tempio e nelle case, non cessavano di insegnare e annunciare che Gesù è il Cristo”, 16.5, “Le Chiese intanto andavano fortificandosi nella fede e crescevano di numero ogni giorno” ed Ebrei 3.13 “Esortatevi piuttosto a vicenda ogni giorno, finché dura questo oggi – cioè il tempo presente – perché nessuno di voi si ostini, sedotto dal peccato”. Tutto questo perché la vita che viviamo non dà tregua quanto a problemi, siano essi spirituali o pratici perché “a ciacun giorno basta la sua pena”.

Ecco allora che quell’ “ogni giorno” di cui parla Gesù comprende tutti questi elementi; in pratica non dobbiamo dimenticare che il riferimento è al nutrimento spirituale, al sacrificio dell’Antico Patto fatte le opportune applicazioni, a trovare nel Signore l’unico riferimento conoscendo la Sua cura, alla testimonianza e al fatto che ci troveremo sempre di fronte a degli elementi avversi, siano essi persone o problemi contingenti della vita. Un’espressione che ne racchiude tante altre e contemporaneamente, “il suono di grandi acque” di cui è stato accennato poco sopra.

In altri termini la “croce”, che esamineremo nel prossimo capitolo, se fosse da prendere “ogni giorno” limitandoci al suo stretto significato, genererebbe in noi un senso di disagio, assumendo un significato di condanna quasi senza speranza come fu per Adamo quando si sentì dire “…maledetto sarà il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba dei campi – non più l’albero della vita –. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane, finché non ritornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere ritornerai” (Genesi 3. 17-19).

Molto tempo è però passato da quel giudizio e ci troviamo certamente in una posizione diversa dai nostri progenitori perché sappiamo che l’ “ogni giorno” in cui la croce va presa comporta assistenza, aiuto e benedizione. Non siamo lasciati soli nel nostro cammino mai, a meno che non siamo noi a volerlo ignorando la cura e l’attenzione continua che il Padre, grazie all’intercessione del Figlio, ci vuole dare. Amen.

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11.14 – VATTENE DA ME (Matteo 16.21-23)

11.14 – Vattene da me (Matteo 16. 21-23)

 

 21Da allora Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno. 22Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo dicendo: «Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai». 23Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: «Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!».

 

È giusto che la prima sottolineatura sul nostro testo riguardi “Da allora”, tradotta più propriamente “Da quell’ora”, precisazione con la quale si apre un periodo nuovo iniziato quando Pietro riconobbe Gesù come “il Cristo”: da lì, “Da quell’ora” appunto, l’insegnamento di Nostro Signore riguarderà la Sua imminente morte e resurrezione. La conoscenza che gli Apostoli potevano avere di Lui, ancora una volta, doveva procedere per gradi così come quella del credente, se accoglie i Suoi insegnamenti ed è disposto ad modificare i concetti che ha appreso dal sistema mondano in cui ha vissuto fino a prima di incontrarlo, quando pensava “non secondo Dio, ma secondo gli uomini” (v.23).

È importante considerare che non esiste maturità senza formazione e che il Vangelo insegna, al riguardo, che l’improvvisazione o il pressapochismo non possono rientrare nel comportamento di chi lo annuncia, e quindi del cristiano, nel momento in cui si dichiara agli altri come tale. I Dodici, ma dovremmo dire gli Undici, seguirono Gesù per circa tre anni, testimoni di miracoli e soprattutto discorsi che ci hanno tramandato in minima parte; soprattutto le parole del loro Maestro furono non capite e dimenticate, ma quando lo Spirito Santo scese su di loro, le ricordarono tutte sotto un’ottica alla quale non avevano mai pensato, perché prima di quell’avvenimento non in grado di farlo. Ci fu così un tempo per vedere, ascoltare, toccare con mano gli effetti del Vangelo restando stupiti, e ce ne fu un altro in cui quanto appreso, apparentemente senza averne ben capito la portata, ebbe uno sviluppo assolutamente cosciente e partecipato rendendo così adempiute le parole di Gesù quando disse “In verità, in verità io vi dico: chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà più grandi di queste, perché voi ne siate meravigliati” (Giovanni 14.12).

Adempimento di queste parole le troviamo nei miracoli compiuti da Pietro e da Paolo, e il “più grandi di queste” non è riferito alla loro portata, ma alla diffusione del Vangelo che avrebbe raggiunto tutto il mondo, mentre Gesù diede tutti gli elementi per essere riconosciuto da Israele come il Cristo, restando inascoltato.

Oggi, per il credente, è tutto diverso e non può più appropriarsi di quanto avvenne a Gerusalemme nel giorno di Pentecoste, quando lo Spirito Santo si manifestò con “lingue come di fuoco e cominciarono a parlare altre lingue” (Atti 2. 3,4): come già detto in un’altra riflessione, lo Spirito di Dio si rivela in lui inizialmente convincendolo di peccato, giustizia e giudizio, dell’incompatibilità naturale che ha con Lui e di salvezza, ma una volta che ciò è avvenuto inizia un percorso che non può essere paragonabile a quello che ebbero altri credenti nei tempi antichi. Si tratta di un cammino di ricerca in cui si ha la Scrittura come unica fonte di orientamento. Anche lì, non sarà necessaria una semplice lettura del testo, ma un’accurata meditazione personale, quella che alcuni chiamano “lectio divina” in cui si lascia da parte ogni richiamo mondano e personale e si studia, ci si documenta, si riflette su una Bibbia che presenti il maggior numero possibile di riferimenti per incrociare tra loro i dati, interrogarsi serenamente sul testo. In pratica, guardando alle parole di Salomone in Proverbi 2. 3-6 “…se appunto invocherai l’intelligenza e rivolgerai la tua voce alla prudenza, se la ricercherai come l’argento e per averla scaverai come per i tesori, allora comprenderai il timore del Signore e troverai la conoscenza di Dio, perché il Signore dà la sapienza, dalla sua bocca escono scienza e prudenza”, si può dire che siano sempre attuali e che ci riguardino profondamente da vicino ancora oggi. Ci sono allora verità che restano e vivono indipendentemente dal tempo in cui furono scritte, ed altre dispensazionali.

Non è facile il cammino cristiano: è pieno di domande, è una strada in salita, di scelte dolorose. Se così non fosse, sarebbe un percorso in discesa e l’ingresso per la porta sarebbe larga, non stretta, nonostante spesso chi propaganda il Vangelo insista sulla Pace di e con Dio, che certamente esiste, ma che scende su di noi dopo un percorso spesso di travaglio e non perché veniamo catapultati a vivere in una sorta di zona franca al riparo da ogni negatività. È chi vive nel mondo e per esso che in lui sta “bene”, non il credente proiettato, in pellegrinaggio verso il mondo futuro che lo attende, altrimenti sarebbe sbagliato l’insegnamento “dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni” (Atti 14.22).

Torniamo al nostro episodio, da sviluppare tenendo presente i racconti di Marco e Luca: quest’ultimo riferisce le parole dette ai Dodici, e cioè “Il Figlio dell’uomo deve soffrire molto, essere rifiutato dagli uomini, dai capi sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno” (9.22); queste pongono una distanza immensa fra Lui e il popolo che avrebbe dovuto riconoscere in Lui il Messia promesso. Qui Gesù cita gli uomini, i capi sacerdoti e gli scribi, mentre Matteo tutto il Sinedrio, composto dagli Anziani, scelti con voto popolare, i capi sacerdoti, cioè i responsabili delle ventiquattro mute che si alternavano nel servizio al Tempio – ricordiamo Zaccaria, padre di Giovanni Battista, appartenente alla muta di Abia –. Per ultimi abbiamo gli scribi, figura della vera conoscenza che avrebbe dovuto venire trasmessa al popolo e che primi fra tutti avrebbero dovuto riconoscerlo come il Cristo con la stessa sicurezza e naturalezza con la quale risposero ad Erode circa trent’anni prima; “Riuniti tutti i capi sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Cristo. Gli risposero: «A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta” (Matteo 2.4,5).

Sempre dalle parole riferite da Luca, vediamo che Gesù non parlò solo del rifiuto della sua persona che sarebbe culminato con la Sua messa a morte, ma disse anche “e risuscitare il terzo giorno”, parole che non furono comprese dai discepoli perché stupiti e afflitti dall’annuncio della sua morte: quel “venire ucciso” li gettò in un profondo stato di tristezza e stupore, ritenendo impossibile che Uno che aveva fatto così tanti miracoli non fosse invincibile. Che Gesù dovesse risorgere, fu un dato che non venne preso in considerazione da nessuno dei presenti perché non capito, e in tale ignoranza rimasero anche dopo la Sua trasfigurazione, perché leggiamo “Essi tennero per loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti” (Marco 9.10). Non solo, ma anche più di un anno dopo queste parole, i discepoli dettero prova di non averle per nulla elaborate, poiché quando le donne annunciarono loro la resurrezione di Gesù, “Quelle parole parvero loro un vaneggiamento e non credevano ad esse” (Luca 24.11).

Fu così che Pietro, forse interpretando il sentimento di tutti, ma certamente dando ulteriore conferma del suo carattere impetuoso, prese Gesù “in disparte”, letteralmente, a seconda dei manoscritti “tiratolo con la mano” o “presolo con sé”, e “cominciò a rimproverarlo dicendo: «Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai»”. Solo Matteo riferisce queste parole; Luca non ne parla affatto e Marco parla di un generico rimprovero (8.32). Cosa avvenne realmente?

È probabile che Pietro si rivolse a Gesù portandosi a una distanza molto breve dal gruppo e che volesse parlargli a tu per tu, ma le sue parole furono udite anche dagli altri. Con la sua frase, lo stesso Apostolo che prima lo aveva indicato come “Il Cristo, il Figlio del Dio vivente”, prima si augura che Gesù si fosse sbagliato, e poi pretende di negare un avvenimento da Lui profetizzato. La sua frase potrebbe essere trattata indulgentemente se fosse stata proferita in un contesto diverso e certamente non riferita al suo Maestro: presa isolatamente, si tratta di un modo di dire scaramantico come se ne sentono tanti, ma per l’ambito in cui fu pronunciata fu molto grave perché la risposta che ebbe fu “Vattene da me, Satana”, il famoso “Vade retro” latino poi tramandato e diventato di uso comune e sempre a sproposito.

Furono le stesse parole pronunciate quando l’Avversario esaurì le sue tentazioni nel deserto e di cui è detto che “si allontanò da lui per un certo tempo”, tradotto anche “fino al momento fissato” (Luca 4.13) per cui, nel caso di specie, Pietro si fece strumento dell’Avversario per tentarlo ulteriormente, facendo leva sull’afflizione degli Undici conseguente alla perdita che avrebbero avuto, ricorrendo anche a quest’arma per distoglierlo dai Suoi propositi, o meglio dal Piano di Dio. “Dio non voglia” è quindi un semplice augurio? È piuttosto un’intromissione, un’ingerenza nel Suo/Loro piano e “questo non ti accadrà affatto” è una negazione di tutte le parole di Gesù al riguardo.

Se l’apparenza della valutazione quindi ci consente di ipotizzare che Pietro volesse rimproverare bonariamente Gesù in realtà Satana, attraverso questo Apostolo, assale Gesù di nuovo, mostrandogli la possibilità di sfuggire i patimenti e la morte, frase pericolosa soprattutto perché pronunciata dallo stesso discepolo che poco prima aveva riconosciuto profondamente l’identità e il ruolo del Suo Maestro. Se Pietro avesse pronunciato alla leggera quelle parole, non avrebbe ricevuto quel rimprovero rivoltogli pubblicamente poiché, se Matteo scrive “Gesù, voltandosi, disse”, Marco ha “Ma egli, voltatosi e guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro e disse”.

“Tu mi sei di scandalo” sono parole che completano il “Via da me, Satana”: ricordiamo che lo “skàndalon” era il laccio, la trappola, la pietra sulla quale s’inciampa non vedendola e Pietro, purtroppo, era proprio uno scandalo quello che stava tendendo e disponendo per Gesù.

“Tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini”, identiche parole riportate da Marco dettategli da Pietro che si ricordò molto bene quel rimprovero, vero a differenza di quello che mosse a Gesù: il verbo “fronéo” significa “pensare”, ma anche “compiacersi, essere animato”, quindi impostare il proprio essere lontano da qualcosa. Quell’Apostolo, in quel momento, guardava alla morte di Gesù come a una disgrazia e aveva perso completamente il significato profondo e assoluto che aveva, perché “Come per la caduta di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l’opera giusta di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione, che dà la vita. Infatti, come per la disobbedienza di un solo uomo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’ubbidienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti” (Romani 8.18,19).

Gesù doveva morire proprio per questo, per essere “consegnato alla morte a causa delle nostre colpe ed è stato resuscitato per la nostra giustificazione” (4.25), perché “se, quando eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto di più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita” (5.10). “Perché il salario del peccato è la morte, ma il dono di Dio è la vita eterna in Cristo Gesù, nostro Signore” (6.23). Amen.

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11.13 – LE CHIAVI DEL REGNO DEI CIELI (Matteo 16.19-20)

11.13 – Le chiavi del regno dei cieli (Matteo 16.19-20)

 

 19A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli». 20Allora ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo.

 

È facile collegare Pietro e le chiavi del regno dei cieli con l’immagine profana di un vecchio con barba e tunica dalla quale pende un mazzo di chiavi che, più anni fa che oggi, ci veniva/viene proposto per lo più in raffigurazioni satiriche. Chiaramente qui ci troviamo di fronte a qualcosa di molto più serio. Prima sottolineatura da farsi è sicuramente sulle parole “A te darò”, che indica una persona precisa, appunto Pietro, coinvolta in qualcosa a venire, cioè una volta Gesù risorto quando, in previsione della discesa dello Spirito Santo, sarà Pietro più degli altri ad avere la responsabilità della conduzione della prima Comunità dei credenti. Possiamo dire che, essendo questo apostolo stato il primo a riconoscere il suo Maestro come “il Cristo, il Figlio del Dio vivente”, furono “le chiavi” il premio che ebbe, ma non per questo la promessa di Gesù fu intesa dagli altri undici come un attestato di primato nel senso di autorità umana. Infatti, poco tempo dopo li troviamo a discutere su chi di loro fosse “il più grande”: dopo la trasfigurazione, “Quando (Gesù) fu in casa, chiese loro: «Di cosa stavate discutendo per la strada?». Ed essi tacevano – perché sapevano trattarsi di una discussione fuori luogo –. Per la strada, infatti, avevano discusso tra loro chi fosse più grande” (Marco 9. 33,34).

“Chiavi” e “regno dei cieli” (non “paradiso”, che è cosa diversa) sono le parole da sottolineare perché indicano un ruolo e un ambito. La chiave è sinonimo di un potere che si ha o viene conferito. Conosciamo Apocalisse 1.18, in cui il Figlio si rivela a Giovanni con queste parole: “Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo, e il Vivente. Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi”.  La parole “chiave”, al plurale, compare in tutta la Scrittura  solo per due volte: nel verso che stiamo esaminando e il questo di Apocalisse. Chi detiene le chiavi di una casa è il padrone, chi l’ha in uso, o un suo delegato di fiducia. Ricordiamo le parole a Eliachim, il cui nome significa “Alzato da Dio”, il cui nome è citato nella genealogia di Gesù (Matteo 1.13 e Luca 3.30,31) di cui è detto in Isaia 22. 21,22 “Lo vestirò con la tua veste ne lo fortificherò con la tua cintura – quindi riferimento a ruolo e forza – e gli darò in mano il tuo potere: egli sarà come un padre per gli abitanti di Gerusalemme e per la casa di Giuda. Gli porrò sulla spalla la chiave della casa di Davide: se egli apre, nessuno chiuderà; se egli chiude, nessuno potrà aprire”.

Un richiamo spirituale molto forte lo abbiamo quando Gesù disse “Guai a voi, Dottori della Legge, perché avete portato via la chiave della conoscenza: voi stessi non siete entrati, e avete impedito di farlo a quelli che volevano entrare.” (Luca 11.52), che in Matteo 23.13 è “scribi e farisei, ipocriti, che chiudete il regno dei cieli davanti alla gente; di fatto non entrate voi, e non lasciate entrare nemmeno quelli che vogliono entrare”.

Nostro Signore dice a Pietro che gli darà le chiavi, al futuro, e certamente fu questo apostolo ad usarle quando predicò il Vangelo con la sapienza dello Spirito, ma la stessa cosa la faranno anche gli altri, non in misura minore, ma con compiti e doni diversi. Davanti a Dio infatti non vi sono persone più o meno importanti, ma figli di cui si serve e a cui ha dato per fruttare chi 30, chi 60 e chi 100. Il premio però è e sarà individuale per cui non sta a noi fare una scala di rilevanza in senso umano. Nei versi oggetto di meditazione era comunque importante che Pietro fosse premiato per la dichiarazione che prima degli altri dà di Gesù: “Tu sei beato, (…) perché né carne né sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli”. Le chiavi date a Pietro, quindi, non furono sua esclusiva, ma anche degli altri, come Giacomo, Giovanni, Filippo, Paolo e tutti quanti predicarono con la potenza dello Spirito. Già un primo segnale dell’aprire e del chiudere lo troviamo in Marco 16.15,16 dove Nostro Signore conferisce ufficialmente il mandato agli Apostoli: “Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo ad ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato”.

Le “chiavi”, nel caso di Pietro, gli furono date per aprire nel predicare a Gerusalemme con tutte le manifestazioni che ne seguirono, e per chiudere come nel caso di Anania e Saffira o del mago Simone, da lui condannati (Atti 5.1-11; 8.9-25). A conferma del fatto che le chiavi non furono date solo a quest’apostolo, pensiamo a Paolo, alla sua predicazione che iniziava sempre a partire dagli ebrei, ma che quando rifiutarono il suo messaggio si rivolse ai pagani (Atti 13.46; 17.6; 28.28). La chiusura vi fu per l’incestuoso di Corinto, “dato in mano di Satana” fino a quando non abbandonò il suo peccato, venendo riammesso in seno alla Chiesa, per cui fu ristabilito (1 Corinti 5; 2 Corinti 2.5-10) ed ecco una nuova apertura.

Le chiavi di Pietro, e con lui gli altri apostoli che predicarono, furono quelli della rivelazione spirituale, dell’orientamento e guida dello Spirito Santo per l’avanzamento e l’aiuto/sostegno nella conversione di chiunque ha creduto, ma anche di chiusura e impedimento dichiarato ad entrare che si connette direttamente al principio del legare e sciogliere.

“Tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli”. Anche qui abbiamo qualcosa detto nel presente della circostanza, ma che poi, quando si tratterà di passare dallo stadio formativo a quello operativo, sarà conferito anche agli altri Apostoli. Infatti in Matteo 18.18 leggiamo “In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo”.

Qui il riferimento letterale è strettamente legato al significato che gli ebrei davano al “legare”, cioè dichiarare illegale qualcosa, e allo “sciogliere”, cioè legalizzarla. Si era soliti dire, a proposito dei Rabbi o degli Anziani, ma anche dei Giudici, che essi avevano “il potere di legare e di sciogliere”. Gli Apostoli, quindi, e credo chi governa la Chiesa esercitando un potere ricevuto da Dio e non da se stessi, possono “legare” e “sciogliere”, come avvenuto ad esempio nel caso della circoncisione che i convertiti giudei volevano fosse condizione di salvezza per i pagani. Nella Chiesa l’azione del legare o sciogliere può venire coinvolta nel valutare iniziative o situazioni apparentemente anomale che possono sempre venirsi a creare, per prendere i provvedimenti opportuni, ammettendole o respingendole. Certo che in essa devono esistere uomini preparati e capaci, che mettano il Vangelo alla base delle loro decisioni, che agiscano in armonia col Padre, il Figlio e lo Spirito Santo esercitando la loro autorità e non, come a volte purtroppo accade, che semplicemente si sostituiscano a Loro provocando danni a volte irreparabili.

“Legare” e “sciogliere” è connesso anche al perdóno dei peccati e vediamo Giovanni 20.20-23: Gesù è risorto e si presenta agli Undici. “Disse loro di nuovo: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati»”. Si tratta di un verso molto importante che ha autorizzato la Chiesa di Roma ad introdurre la confessione auricolare nei suoi Sacramenti quando in realtà autorizza gli Apostoli, oltre a legare e sciogliere nel senso esaminato, all’esercizio del perdono o meno che non può essere generalizzato, ma va dato nel caso in cui la persona si penta attorno a un peccato specifico che impedisce la comunione fraterna. Anche qui, sono gli uomini preposti alla conduzione della Chiesa a dover esercitare questo potere. Si tratta di dinamiche importanti che coprono delle responsabilità altrettanto importanti, collegate agli episodi citati che videro Pietro e Paolo protagonisti dell’esercizio della disciplina e che possono riguardare anche l’ammissione o meno alla comunione fraterna e alla partecipazione al Memoriale a seconda del comportamento che alcuni possono prendere. Qui non si tratta di peccati “ordinari”, come torti, sgarbi od offese, ma di atti che possono gettare biasimo sulla Chiesa, condizioni di peccato non lasciato che coinvolgono anche la Comunità dei credenti, cattivi insegnamenti ed esempi.

Solo lo Spirito Santo può guidare i responsabili di una Chiesa in tal senso, poiché ragionando in termini umani o facendo riferimento alla semplice istituzionalità del ruolo, questi possono commettere errori che gli si ritorcerebbero contro; ricordiamo che “Come un passero che svolazza, come una rondine che volteggia, così una maledizione immotivata non ha effetto” (Proverbi 26.2). E il motivo deve trovarsi nelle cose spirituali. Si tratta allora di qualcosa di ben lontano dall’assolvere o meno un’anima, fatto certo registrato nei Vangeli, ma riferito sempre e solo a Dio e al suo Figlio Gesù Cristo, che dell’assoluzione è tramite e garante. La confessione dei peccati è l’unico mezzo per avere un perdóno di qualcosa di negativo commesso tra uomo e uomo, ma spetta alla persona colpita perdonare, non certo a un sacerdote che non può in alcun modo perdonare un peccato commesso contro Dio. La confessione auricolare può essere una buona cosa, ma per avere un consiglio, un indirizzo di comportamento a fronte di un problema dal quale non si sa come uscire. Così come i dieci comandamenti contemplano infrazioni fra uomo e uomo e fra l’uomo e Dio, altrettanto la confessione è necessaria per ripristinare la comunione fra entrambi gli elementi e, a seconda dei casi, va rivolta all’uno o all’altro.

 

Veniamo così al verso 20, “Allora ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo”. Questo doveva essere compreso già da un anno e mezzo, quando Gesù fu preannunciato e presentato da Giovanni Battista che ricordiamo Lo battezzò come qualunque atro uomo che andava a lui. Ora chi aveva “orecchie per udire” già aveva fatto la scelta di unirsi a Lui e quelli che avevano creduto lo avevano riconosciuto; dirlo così, ufficialmente agli altri, avrebbe causato un fraintendimento come tutte le altre volte in cui i miracolati da Gesù, trasgredendo il suo ordine di non parlarne, avevano provocato reazioni unicamente appartenenti al mondo della carne. E qui vediamo anche un’altra prerogativa degli Apostoli, che avrebbero dovuto porre le fondamenta proprio sul fatto che Lui era “il Cristo, il Figlio del Dio vivente”: loro lo avevano saputo e dovevano conservare quel dato come un tesoro. Scrive un fratello che “La vita di Gesù doveva giungere al suo termine prima che i suoi discepoli rendessero testimonianza di lui come del Cristo; anzi, il Signore stesso doveva, per primo, annunciare questo pubblicamente davanti al popolo nell’ora del suo martirio”. E lo fece dinnanzi all’organo che lo rappresentava.

Andando all’episodio cui si riferiscono queste parole, leggiamo che il sommo sacerdote “gli domandò «Sei tu il Cristo il Figlio del Benedetto?» E Gesù disse: «Io lo sono. E voi vedrete il Figlio dell’uomo sedere alla destra della Potenza, e venire con le nuvole del cielo». E il sommo sacerdote, stracciatasi la veste disse: «Abbiamo ancora bisogno di testimoni? Voi avete udito la bestemmia, che ve ne pare?” (Marco 14.62). Ecco cosa ne fecero gli altri delle parole di Gesù: sentito che era “il Cristo, il Figlio del Benedetto”, lo accusano di bestemmia e “Tutti sentenziarono che era reo di morte”.

Dalla lettura di questo passo allora vediamo che il rifiuto aperto e definitivo a Nostro Signore doveva arrivare direttamente a Lui dai più stretti interessati, cioè il sommo sacerdote e il tribunale ebraico (Sinedrio). A dire di essere il Cristo doveva essere Lui stesso e non i discepoli cui viene ordinato di tenere per loro quella verità. “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” è una frase facile a dirsi e a ricordarsi, ma è totalmente inutile se non la si fa propria, poiché anche un ateo sa che si dice che Gesù sia vissuto e che fosse Figlio di Dio, ma non per questo è salvato.

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11.12 – TU ES PETRUS (Matteo 16.13-17)

11.12 – Tu es Petrus (Matteo 16.13-17)

 

 18E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. 

 

 

Prima di affrontare questi versi, che se fossero stati visti nella loro semplicità non avrebbero causato fraintendimenti nel cristianesimo, è necessaria una premessa sulla mia persona: non ho aderito ad altro se non al cristianesimo vissuto in modo indipendente, svincolato tanto dal Cattolicesimo Romano quanto dal Protestantesimo nelle sue molte forme. Credo che, per essere definita “Chiesa” sia sufficiente una Comunità composta da “due o tre radunati nel mio nome” (Matteo 18.20), come avremo modo di sviluppare in futuro. Credo che Dio parli a chi lo ascolti e che questa persona possa trovarsi in tutte le denominazioni cristiane che presentano ai propri aderenti la possibilità di avere a che fare con una traduzione corretta delle Scritture perché quella, non la Chiesa, comunità dei credenti, è il riferimento per entrare attraverso quella “porta stretta” la cui unica via è costituita da Gesù Cristo. Un vero credente può solo indicare la via agli altri, volendo portando la sua esperienza ed esprimendo ciò che prova, o quello che il Signore gli ha rivelato attraverso lo Spirito Santo, entità preposta alla sua consolazione: “Lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto” (Giovanni 14.26)

Venendo al verso 18, vediamo chiaramente come i soggetti siano due, Pietro che ha affermato “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”, e quanto da lui detto, che diventa pietra-roccia su cui Gesù edificherà la sua Chiesa come una casa costruita su di Lui, in grado di resistere alle forze avverse. Se la Chiesa fosse fondata su Pietro, cioè un uomo come noi, sarebbe un assurdo e, anche ammettendo come lontana ipotesi che ciò sia vero, Nostro Signore lo avrebbe detto chiaramente senza ricorrere ad un giro di parole fra “Pietro”, greco Pétros, pietra, sasso, e pétra, roccia, rupe, “su questa pietra”. E coloro che tradussero queste parole dall’aramaico al greco, certamente non sbagliarono.

Ancora, se la Chiesa fosse fondata su Pietro, persona che difese strenuamente il Vangelo e le proprie idee, che ebbe un ruolo fondamentale nella prima Chiesa a Gerusalemme, si sarebbe certamente adoperato perché Marco, suo discepolo, lo riportasse nella sua opera.; invece, proprio al riguardo tace, riportando un dialogo molto più stringato di Matteo: “Ed egli domandava loro: «ma voi, chi dite che io sia?». Pietro gli rispose: «Tu sei il Cristo». E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno” (8. 29,30).

Purtroppo la “traduzione interconfessionale in lingua corrente”, la cosiddetta TILC, riporta “Per questo io ti dico che tu sei Pietro e su di te, come su una pietra, io costruirò la mia comunità”. Ora credo che nessun insegnante di greco possa lasciar passare una simile traduzione che non solo distorce, ma rinnega anche la Chiesa stessa definendola “comunità”, termine passabile in altre circostanze ma non qui, dove l’Ecclésia è l’insieme dei “chiamati fuori”, degli uomini che desiderano porre in Cristo il fondamento della loro vita. Si tratta di un errore che, per grossolanità, è paragonabile a uno dei tanti commessi dalla “Traduzione del Nuovo Mondo” dei Testimoni di Geova che tuttavia, restando isolata, non può potenzialmente traviare allo stesso modo la conoscenza i semplici come la versione TILC di cui si legge che “Protestanti e Cattolici hanno lavorato insieme in questa traduzione e insieme la presentano ai lettori. È una traduzione interconfessionale, accolta da tutte le confessioni cristiane, approvata dall’Alleanza Biblica Universale e da parte Cattolica dall’autorità ecclesiastica (CEI)”. Una traduzione fondata sul compromesso, per accontentare un po’ tutti, col famoso “un colpo al cerchio e uno alla botte”. Fortunatamente, la TILC non ha la stessa diffusione della “Bibbia di Gerusalemme”, della Luzzi, della Diodati “riveduta”, o della CEI originale su cui basiamo queste riflessioni, segnalandone le varianti. Al contrario la traduzione semplicistica del testo biblico operata dalla TILC, lo ha terribilmente inaridito e reso simile a un romanzo, o a una lettura di puro intrattenimento dalla quale, al massimo, si possono trarre dei begli insegnamenti morali. Ma non serve a nulla, è impossibile procedere ad una esegesi del testo.

Tornando in tema, Gesù afferma che proprio sulla dichiarazione di Pietro edificherà la sua Chiesa: se “Simone, figlio di Giona” era Pietro – verità incontestabile – altrettanto e ancora di più lo era il fatto che nessuna Chiesa può fondarsi su altro principio cardine se non quello che Gesù è “il Cristo, il Figlio del Dio vivente (…) e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa”. Purtroppo questo verso così importante viene liquidato con “nemmeno la potenza della morte potrà distruggerla” nella TILC in cui il senso dell’impotenza di Satana a “prevalere” su di essa e le verità conseguenti vengono fortemente ridotte.

Sulla distinzione “Pietro – pietra” si discute da sempre e molte pagine sono state scritte con tesi contrapposte, per cui mi asterrò dall’addentrarmi in questioni che non portano da nessuna parte anche perché una cosa è la difesa dottrinale e altro è la contesa. Scrivendo a Tito, suo discepolo e collaboratore greco, Paolo gli ordina “Evita le questioni sciocche, le genealogie, le risse e le polemiche intorno alla Legge, perché sono inutili e vane” (3.9).

Da notare comunque, tornando alla seconda parte del verso 18, che la traduzione letterale ha “Le porte dell’Ade non la potranno vincere”, ben diversa da “la potenza della morte” perché il riferimento non è tanto alla morte come “salario del peccato” – al limite questo è una delle possibili applicazioni –, ma “le porte dell’Ade” è riferito al regno della morte in potere a Satana, definito in Ebrei 2.14 “Colui che della morte ha il potere”. Sicuramente utile per capire l’espressione delle “porte dell’Ades” è Giobbe 38.17, quando Dio gli chiede “Ti sono state svelate le porte della morte e hai visto le porte dell’ombra tenebrosa?” confermando di avere pieno potere su ogni cosa, morte compresa, come avvenuto con Gesù con la sua risurrezione.

Ricordiamo che le “porte” di una città erano i luoghi in cui le autorità si riunivano per deliberare e da esse uscivano gli eserciti per andare alla guerra. “Le potenze degli inferi”, corretta interpretazione de “le porte”, si riferisce allora a tutta la potenza dell’Avversario che vede nella Chiesa il nemico da distruggere perché composto da uomini che, nonostante protetti e salvati, sono comunque defettibili e soggetti a cadere nell’errore nel momento in cui non vigilano su loro stessi e non pregano secondo il “Padre Nostro”, “non abbandonarci nella tentazione”.

La Chiesa come nemico da abbattere è un concetto che troverà il suo culmine nella Bestia di cui è detto che “…(le) fu data una bocca – Satana è e sarà sempre un subordinato e ha bisogno sempre che gli venga concesso un potere – per proferire parole d’orgoglio e di bestemmie, con il potere di agire per quarantadue mesi. Essa aprì la bocca per proferire bestemmie contro Dio, per bestemmiare il suo nome e la sua dimora, contro tutti quelli che abitano in cielo. Le fu concesso di fare guerra contro i santi e di vincerli – provvisoriamente –; le fu dato potere sopra ogni tribù, popolo e nazione. La adoreranno tutti gli abitanti della terra, il cui nome è scritto nel libro della vita dell’Agnello, immolato fin dalla fondazione del mondo” (Apocalisse 13.5-8). E il termine “adorare” qui non è inteso come nell’antichità, in cui le persone si prostravano davanti all’imperatore, ma “affidare la propria vita a qualcuno condividendone gli scopi e gli ideali”.

Sostando ancora un attimo su questi versi, vediamo che l’Agnello, immolato sulla croce, in realtà lo fu “fin dalla fondazione del mondo”, cioè prima di creare l’universo Padre e Figlio concordarono il piano per la salvezza dell’uomo qualora fosse caduto. Come effettivamente avvenne.

La porta quindi rappresenta l’ingresso e l’uscita, la definizione di un confine che da sempre un impero tende ad allargare, e questo a maggior ragione si verifica con quello dell’Avversario, ma “I monti circondano Gerusalemme: il Signore circonda il suo popolo, da ora e per sempre” (Salmo 125.1), naturalmente in senso protettivo perché altrimenti quella città soccomberebbe. Perché “Anche se i monti si spostassero e i colli vacillassero, non si allontanerebbe da te il mio affetto, né vacillerebbe la mia alleanza di pace, dice il Signore che usa misericordia. (…) Ecco, io ho creato il fabbro che soffia sul fuoco delle braci e ne trae gli strumenti per il suo lavoro, e io ho creato anche il distruttore per devastare. Nessun’arma affilata contro di te avrà successo, condannerai ogni lingua che si alzerà contro di te in giudizio. Questa è la sorte dei servi del Signore, quanto spetta a loro da parte mia. Oracolo del Signore” (Isaia 54.10-17).

Da queste parole intravediamo che la Chiesa, nuovo popolo di Dio e, andando oltre, “Corpo di Cristo”, sarà risparmiata nell’ora più terribile. Nell’ ”arma affilata”, da sempre garanzia di vittoria per chi la possiede, vediamo l’inefficacia di ciò che umanamente garantirebbe l’eliminazione dei “santi”. Il condannare “ogni lingua”, poi, è connesso alla frase “Non sapete voi che i santi giudicheranno il mondo?” (1 Corinti 6.2).

Abbandonando questi riferimenti nell’Antico Patto, vediamo quelli del nuovo: “Le mie pecore ascoltano la mia voce ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutte e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola” (Giovanni 10. 27-30).

Paolo in Romani 8.35-39: “Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Come sta scritto: «Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo considerati come pecore da macello». Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né altezza né profondità, né alcuna creatura potrà separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore”. E, solo dalla lettura del libro degli Atti, sappiamo che Paolo queste cose le provò tutte, per cui parlava con cognizione di causa e non per portare i credenti di Roma ad uno stato “euforico” o distrarli dal pensiero delle persecuzioni che subivano. Chi, credendo in Gesù Cristo e seguendolo perché sa che Lui solo è “il Figlio del Dio vivente”, possiede “un regno incrollabile” e sa che “il nostro Dio è un fuoco divorante” (Ebrei 12.28,29). Un fuoco che brucerà quel “leone ruggente” che è Satana, che “va in giro cercando chi possa divorare” (1 Pietro 5.8). Amen.

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11.11 – lPOTESI E VERITÀ (MATTEO 16.13-17)

11.11 – Ipotesi e verità (Matteo 16.13-17)

 

13Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo, domandò ai suoi discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». 14Risposero: «Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti». 15Disse loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». 16Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». 17E Gesù gli disse: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. 

 

 

Dopo aver guarito il cieco a Bethsaida, Gesù giunge coi Suoi nella “regione di Cesarea di Filippo”, nome dato da Erode Filippo alla città un tempo chiamata Panea (dal nome del dio Pan); questo fece in onore dell’imperatore Tiberio, il cui nome completo era Tiberio Giulio Cesare Augusto, dopo avere ampliato e abbellito la città. Cesarea di Filippo è  un nome che viene dato per distinguerla dall’omonima, detta “Marittima”, fondata da suo padre Erode il Grande. Il territorio di Cesarea, prevalentemente pagano, fu scelto da Gesù come zona di ritiro coi discepoli per istruirli in merito alla Sua morte che si stava avvicinando: perché ciò fosse possibile, era necessario che si trovassero lontani da quelle folle pronte a vedere in Lui il guaritore, ma poco disposte a interrogarsi seriamente su chi fosse. Era quindi necessario, dopo un anno e mezzo circa in cui i dodici erano con Lui, che lo conoscessero ancora meglio e soprattutto venissero fatti partecipi di verità che avrebbero compreso in seguito. I sinottici, riguardo all’insegnamento ai dodici, hanno tramandato la parte più saliente dei suoi discorsi e Luca ci dice che, prima della domanda “La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?”, Gesù “si trovava in un luogo solitario a pregare” (9.18).

La risposta che diedero i discepoli alla domanda di Gesù rifletteva quanto si diceva effettivamente di Lui, che qui si definisce “Figlio dell’uomo” a sottolineare il modo immediato con cui si presentava “esternamente” secondo Isaia 53.2 “È cresciuto come un virgulto davanti a lui e come una radice in terra arida. Non ha apparenza né bellezza da attirare i nostri sguardi, non splendore per poterci piacere. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia; era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima”. Definendosi qui “Figlio dell’uomo” Gesù vuole sottolineare la sua umanità, che tutti potevano constatare, a differenza di quella di “Figlio di Dio” che pochi, pensando a tutta la gente che aveva fin lì incontrato, erano stati disposti ad attribuirgli.

Nostro Signore qui fa una domanda precisa ed ottiene una risposta che i dodici non ebbero alcun problema a dare: “Alcuni, Giovanni Battista”, alludendo evidentemente ad Erode e ad altri che condividevano la sua opinione quando disse “Quel Giovanni che io ho fatto decapitare, è risorto!” (Marco 6.16). E la superstizione, fedele compagna dell’ignoranza, fece il resto. I discepoli continuano dicendo “Altri, Elia” in quanto aspettato dagli israeliti prima della venuta del Messia. Vale la pena osservare che in proposito abbiamo Malachia 3 che riporta “Ecco, io manderò un mio messaggero a preparare la via davanti a me e subito entrerà nel suo tempio il Signore che voi cercate, e l’angelo dell’alleanza che voi sospirate. (…) Ecco, io invierò il profeta Elia prima che giunga il giorno grande e terribile del Signore: egli convertirà il cuore dei padri verso i figli e il cuore dei figli verso i pardi perché io, venendo, non colpisca la terra con lo sterminio” (versi 1 e 22-24). Ora la traduzione dei LXX di questo libro, fatta nel 185 a.C. ad Alessandria d’Egitto, aggiunse ad Elia “il Tisbita” identificandolo con il profeta, per cui in Israele erano molti ad attendere la venuta di Elia il Tisbita in persona. Ecco perché a Giovanni Battista chiesero “Sei tu Elia?” (Giovanni 1.21), ottenendo una risposta negativa.

I discepoli, proseguendo, dicono “altri, Geremia” perché a quel tempo una parte degli israeliti metteva in connessione l’ “uomo di dolori” di Isaia 53.2 con Geremia, detto “il profeta del pianto”. Erano molti a pensare che il profeta di cui si parla in Deuteronomio 18.15, “il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto”, fosse da identificare proprio in Geremia, ritenuto “pari” a Mosè. L’ultima ipotesi sull’identità del “Figlio dell’uomo” è “…o uno dei profeti”, secondo Luca “uno dei profeti antichi resuscitato”, secondo Marco “Un profeta, pari ad uno dei profeti”: trattasi certo di una definizione più nebulosa delle precedenti ma che attesta come, in un modo o in un altro, tutti lo guardavano come un uomo straordinario. Ma non serviva a nulla, non bastava, Gesù non voleva questo, né cercava, né ammetteva di essere riconosciuto in modo diverso dalla sua reale esistenza come il Figlio di Dio e per questo inizia il suo discorso coi discepoli. “…o uno dei profeti” era anche l’opinione che aveva Nicodemo quando, venuto da Gesù, gli disse “Sappiamo che sei venuto da Dio come maestro; nessuno infatti può compiere questi segni che tu compi, se Dio non è con lui”.

La risposta dei dodici alla domanda di Gesù non comprende l’opinione dei farisei e relativi associati perché quelli non cercavano di darsi spiegazioni su chi fosse in quanto guardavano al fatto che li metteva sempre in difficoltà davanti al popolo e per questo andava eliminato. La “gente” di cui Gesù chiede notizia è il popolo, cioè chi si ricordava dei miracoli, del Suo operato, chi lo seguiva, e la domanda ai dodici sull’identità del “Figlio dell’uomo” ci conferma che essi parlavano con la gente, non costituivano un gruppo chiuso e isolato dal contesto in cui vivevano.

 

A questo punto, ricevuta una risposta esauriente alla prima domanda, Gesù passa a una verifica, a dire “Bene, la gente pensa questo di me, ma voi?”. Qui la questione si fa complessa perché i discepoli, per rispondere, avrebbero dovuto esprimersi in modo diverso dal popolo, non dare un’opinione, ma dimostrare di avere delle certezze, vivendo ormai accanto a Lui da un anno e mezzo. E qui viene in mente ciò che gli dissero dopo l’episodio della tempesta sedata, “Veramente tu sei il Figlio di Dio!”, affermazione dettata dalla paura e dalla meraviglia per quanto da Lui fatto, ma che in quel caso era fuori luogo soprattutto per quel “veramente”.

A questo punto è Pietro a prendere la parola e credo che lo abbia fatto, conoscendo il suo carattere, d’impeto, senza pensarci due volte: “Tu sei il Cristo, il Figlio dell’Iddio vivente”. Si tratta di un’affermazione di una portata enorme, considerato che lo Spirito Santo non era ancora sceso. È un boato, un lampo che squarcia il buio perché “TU – e non altri – SEI – cioè esisti come essere totale – IL CRISTO – cioè Colui che tutti aspettavano – IL FIGLIO – “il” e non “un”, prima di tutto non dell’uomo, ma – DELL’IDDIO VIVENTE”.

Pietro non poteva aggiungere altro e implicitamente afferma di non aver bisogno di dire nulla di più. Gesù era stato chiamato “Signore”, “Figlio di Davide”, “Maestro buono”. Ricordiamo Giovanni Battista, che lo aveva definito “L’Agnello di Dio, che prende su di sé il peccato del mondo”, ma “Il figlio dell’Iddio vivente”, nessuno prima di allora lo aveva detto. E, contrariamente a quanto sostiene una parte del cristianesimo, non credo che Pietro parlasse a nome di tutti, come a volte avveniva, perché altrimenti Gesù non avrebbe detto “Tu sei beato, Simone, figlio di Giona”, ma “Siete beati”. Tra i dodici non vi fu nessuna consultazione ma, mentre gli altri esitavano a rispondere, Pietro si fa avanti.

Sappiamo che a rivelare tutto questo a Pietro fu il Padre che gli permise di fare accostamenti fino ad allora impensabili per un discepolo o un apostolo. Infatti ricordiamo Salmo 2.7-9 “Voglio annunciare il decreto del Signore. Egli mi ha detto: «Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato. Chiedimi e ti darò in eredità le genti e in tuo dominio le terre più lontane. Le spezzerai con scettro di ferro, come vaso di argilla le frantumerai”. Dicendo “Il figlio dell’Iddio vivente”, Pietro ricorda questo verso: il Figlio “generato” nel senso di rivelato progressivamente agli uomini, concetto che approfondiremo prossimamente. Notare anche lo “scettro di ferro”, che recentemente abbiamo connesso alla profezia “Lo scettro non sarà rimosso da Giuda” pronunciata dal patriarca Giuseppe. Va fatta comunque molta attenzione perché l’identità precisa di Nostro Signore è la prima a dover essere rivelata, per lo meno nel contesto ebraico. Infatti la prima cosa che fece Saulo da Tarso una volta ripresosi dalla sua cecità temporanea, fu “Rimase alcuni giorni insieme ai discepoli che erano a Damasco, e subito nelle sinagoghe annunciava che Gesù è il Figlio di Dio” (Atti 9.20). È una verità che costituisce la prima pietra dell’edificio spirituale posto a salvezza del credente. Se Gesù non fosse il Figlio di Dio, il Suo sacrificio sarebbe stato inutile perché, nella storia, molti sono gli uomini che hanno dato la vita per i loro simili, ma non hanno salvato l’anima di nessuno.

Quella che Pietro dice a Gesù è una verità basilare, fondamentale, che non può che venire definita “pietra” ed infatti viene più volte ribadita nelle lettere tanto di Paolo che di Giovanni. Pensiamo all’apertura della lettera ai Romani, dove si afferma che il Vangelo di Dio era stato “promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sacre Scritture e che riguarda il Figlio suo, nato dal seme di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza, secondo lo Spirito di santità, in virtù della resurrezione dei morti” (1.1-4). Ricordiamo anche l’apertura della lettera agli Ebrei, verso che già conosciamo, quando si dice che “ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo. Egli è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza, e tutto sostiene con la sua parola potente” (1.2,3).

Andiamo poi all’apostolo Giovanni, che scrive “Noi stessi abbiamo visto e attestiamo che il Padre ha mandato il suo Figlio come salvatore del mondo. Chiunque confessa che Gesù è il Figlio di Dio, Dio rimane in lui ed egli in Dio”. (1 Gv 4. 14,15). Infine possiamo citare qualche verso più avanti: “E chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio? Egli è colui che è venuto con acqua e sangue, Gesù Cristo; non con acqua soltanto, ma con l’acqua e con il sangue” (5.5).

Concludendo: la verità espressa da Pietro è alla base della conoscenza cristiana, è il primo gradino, come testimoniato dalle letture che ho citato da Atti 9.20 alla prima lettera di Giovanni 5.5: non possiamo che constatare che le verità lì espresse si sviluppano tutto attorno al fatto che Gesù è “il Figlio di Dio” proprio perché solo essendo tale avrebbe potuto salvare la creatura altrimenti condannata per sempre ad un presente e a un futuro di tenebre. Amen.

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11.09 – NON CAPITE ANCORA? (Matteo 15.5-12)

11.09 – Non capite ancora? (Matteo 15.5-12)

 

5Nel passare all’altra riva, i discepoli avevano dimenticato di prendere del pane. 6Gesù disse loro: «Fate attenzione e guardatevi dal lievito dei farisei e dei sadducei». 7Ma essi parlavano tra loro e dicevano: «Non abbiamo preso del pane!». 8Gesù se ne accorse e disse: «Gente di poca fede, perché andate dicendo tra voi che non avete pane? 9Non capite ancora e non ricordate i cinque pani per i cinquemila, e quante ceste avete portato via? 10E neppure i sette pani per i quattromila, e quante sporte avete raccolto? 11Come mai non capite che non vi parlavo di pane? Guardatevi invece dal lievito dei farisei e dei sadducei». 12Allora essi compresero che egli non aveva detto di guardarsi dal lievito del pane, ma dall’insegnamento dei farisei e dei sadducei.

 

 

Quanto abbiamo letto si verifica subito dopo la predizione del “segno di Giona” quale unico dato ai farisei e sadducei su cui abbiamo già fatto qualche considerazione: ci dice molto il fatto che Gesù non si sia allontanato da loro a piedi, ma in barca coi dodici, a rimarcare la distanza, e relativa impossibilità a seguirlo anche fisicamente, fra la “generazione malvagia e adultera” e quelli che in Lui avevano creduto nonostante la limitatezza della loro comprensione che, nel passo di oggi, qui emergerà con tutta la sua evidenza. Marco scrive “Li lasciò, salì sulla barca con i suoi discepoli e partì per l’altra riva” (8.13), ma non ci viene detto dove per cui, stante le dinamiche dell’episodio, viene da pensare che approdarono su una spiaggia lontana da un centro abitato.

Possiamo anche supporre che tra l’arrivo di Gesù a Dalmanutà, il suo intervento coi suoi oppositori e la partenza per la riva opposta del mare di Galilea passò poco tempo nel senso che i discepoli non ebbero modo di pensare a fare provviste, stante la loro presenza all’incontro coi farisei e sadducei e l’interesse col quale seguirono quanto avvenne.

La presenza di quel “solo pane” fu occasione per Gesù di insegnare loro un importante metodo di comportamento, cioè “Fate attenzione, guardatevi dal lievito dei farisei e dal lievito di Erode” (Marco), o “dei farisei e dei sadducei” come scrive il nostro testo. Nostro Signore allora prende spunto da quel pane che i discepoli non avevano con sé, lavorato con un lievito innocuo, per istruirli sulla possibilità che una sostanza, spiritualmente analoga, non andasse a intaccare la loro anima e coscienza.

Gesù, stante la situazione che si era venuta a creare, avrebbe potuto iniziare un discorso sul non preoccuparsi “per il cibo che perisce” e pensare “a quello per la vita eterna”, ma rimprovera i dodici perché, in quel momento, la loro preoccupazione era quella di come risolvere un problema umano tralasciando l’insegnamento che rivolgeva loro. La parola “lievito”, infatti, portò subito alla loro mente il pane naturale, senza alcuno spazio per ciò cui la parola alludeva.

È opinione comune che col lievito s’intenda il peccato ed in un certo senso è vero, ma è un termine suscettibile a interpretazioni innumerevoli. Il peccato infatti è un’azione che, contrapponendosi al volere di Dio, impedisce al credente che lo ha commesso la possibilità di una relazione con Lui fino a quando non viene perdonato tramite la sua confessione e soprattutto l’abbandono di esso.

La vera individuazione del lievito va invece fatta nell’orgoglio e nell’ipocrisia, nel lasciare spazio all’Io che, se lasciato libero, finirebbe inevitabilmente per lievitare, cioè inquinare la persona allontanandola sempre di più dal Signore. Gesù parlò spesso di questa sostanza e solo in un caso positivamente: “Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata” (Luca 13.21). Conscio dell’importanza dell’insegnamento riguardo al lievito negativo, invece, Paolo lo sviluppa mettendone in evidenza tutta la sua pericolosità: in 1 Corinti 5.6 leggiamo “Non è bello che voi vi vantiate: non sapete che un po’ di lievito fa fermentare tutta la pasta?”. Abbiamo allora un collegamento al “vantarsi” , cioè esaltare i propri meriti, celebrarsi, decantarsi, lodarsi. In poche parole, sentirsi migliori di altri. Al riguardo, prosegue scrivendo “Togliete via il lievito vecchio, per essere pasta nuova, poiché siete azzimi. (…) Celebriamo dunque la festa – il memoriale – non con il lievito vecchio, né con lievito di malizia e di perversità, ma con azzimi di verità” (vv.7,8).

Il “lievito vecchio” è il modo di ragionare dell’uomo naturale, che va “tolto via”, perché il credente è chiamato ad essere azzimo e non a caso, negli scritti dell’Antico Patto, troviamo il pane senza lievito quale strumento di relazione con Dio proprio in vista della futura liberazione dell’uomo dal peccato. Gesù in Luca 12.1 ricordò il concetto espresso ai discepoli specificando “Guardatevi bene dal lievito dei farisei, che è l’ipocrisia” (13.21), quindi la finzione, l’interpretazione di un ruolo che non si ha, l’adagiarsi su tradizioni e massime morali magari anche belle, ma vuote al loro interno, sterili. Occorre essere se stessi sempre, ma nella condizione di esseri umani rinnovati, azzimi.

Nella nostra lettura di Matteo e Marco abbiamo il lievito di tre categorie di persone: i farisei, i sadducei e di Erode. Conosciamo i primi e i secondi, ma quel “di Erode”, quindi citando una persona specifica, è riferito non tanto a lui, identico a molti altri regnanti quanto a comportamento e nefandezze, ma agli Erodiani, piccolo partito che lo sosteneva, ma ugualmente pericoloso perché associato agli altri che Lo volevano uccidere. Si tratta di una mia osservazione, ma se prendiamo letteralmente “il lievito di Erode”, cioè a quello che era in lui, allora è chiaro il riferimento alla morte di Giovanni Battista e alle dinamiche che la provocarono.

“Fate attenzione” e “guardatevi” sono due esortazioni tese a non dare per scontato che la nostra condizione di salvati impedisca il rimanere invischiati in situazioni che sono il risultato di una mancata cura quotidiana della nostra persona. Ricordiamo le istruzioni date a Mosè a proposito della celebrazione della Pasqua: “Non si veda lievito presso di te, entro tutti i tuoi confini, per sette giorni” (Deuteronomio 16.4). Pensiamo alla cura che le famiglie israelite avrebbero dovuto impiegare perché neppure un granello fosse presente nelle loro case. Anche il parallelo di Esodo 12.19 è eloquente: “Per sette giorni, non si trovi lievito nelle vostre case, perché chiunque mangerà del lievitato dal giorno primo al settimo, quella persona sarà eliminata da Israele”. Quando ci presentiamo davanti al Signore – e lo siamo sempre – ecco allora che la cura perché il lievito sia assente dev’essere continua, abbiamo il dovere e la necessità di “fare attenzione” e “guardarci” proprio perché non ne siamo esenti.

Il lievito, allora, solo in senso lato può essere ammesso come figura del peccato, poiché in realtà è riferito a ciò che lo produce, cioè il voler essere indipendenti da Dio e se Caino espresse questa volontà ufficialmente allontanandosi da Lui dopo il giudizio, altri lo fanno aggiungendo o togliendo dalla Scrittura, come i farisei e i sadducei, adagiandosi sul sistema da loro organizzato.

Tutto questo era racchiuso nelle parole che Gesù disse ai suoi, ma sappiamo che non lo ascoltarono, perché leggiamo “Ma – forte avversativo – essi parlavano tra loro e dicevano: «Non abbiamo preso del pane!»”, cioè si preoccupavano per qualcosa di enormemente basso confrontato all’insegnamento che avrebbero dovuto ricevere. Non erano preoccupati, ma “discutevano fra loro perché non avevano pane” (Marco), quindi da un lato esprimevano preoccupazione perché quel pane che avevano non sarebbe bastato a sfamarli, ma anche si accusavano reciprocamente, interrogandosi su chi di loro avrebbe dovuto pensare a comprarlo mentre il loro Maestro discuteva coi farisei e sadducei e si accusavano l’un l’altro.

“Gente di poca fede” è il rimprovero che fu loro rivolto, ma leggiamo le parole di Marco: “«Perché discutete che non avete pane? – infatti non ne avevano motivo – Non capite ancora e non comprendete? Avete il cuore indurito? Avete occhi e non vedete, avete orecchie non udite? E non vi ricordate, quando ho spezzato i cinque pani per i cinquemila, quante ceste colme di pezzi avete portato via?». Gli dissero «Dodici». «E quando ho spezzato i sette pani per i quattromila, quante sporte piene di pezzi avete portato via?». Gli dissero: «Sette». E disse loro: «Non capite ancora?»” (8.17-21). Da notare che, alle prime quattro domande, i discepoli non seppero rispondere. Qui Gesù pone di fronte i Suoi a quanto fosse inutile il loro parlare, perché avevano con loro chi, come più volte dimostrato, avrebbe certamente provveduto. Basta ricordare che li inviò in missione senza nulla. E ricorda le “ceste colme” di pani e pesci raccolti che parlavano del fatto che Dio, quando dona, va sempre oltre, anche nella necessità più cupa espressa da Davide in Salmo 55.18, 19 che si trovava in una situazione ben più seria di quella dei presenti nel nostro episodio: “Di sera, al mattino, a mezzogiorno vivo nell’ansia e nel sospiro, ma egli ascolta la mia voce; in pace riscatta la mia vita da quelli che mi combattono: sono tanti i miei avversari”.

I dodici avevano dimenticato con chi erano, era bastata l’insufficienza del pane a disorientarli, a impedir loro di capire. E sì che, dalle loro risposte, ricordavano i due episodi della “moltiplicazione”, ma non erano in grado di collegarli alle loro persone. E il nostro testo riporta che Gesù riprende da capo: “Come mai non capite che non vi parlavo di pane? Guardatevi invece dal lievito dei farisei e dei sadducei. Allora essi compresero che egli non aveva detto di guardarsi dal lievito del pane, ma dall’insegnamento dei farisei e dei sadducei”. Ecco perché “l’uomo naturale non comprende le cose di Dio”, non sa né può senza una rivelazione dello Spirito, senza un’appartenenza a Lui. Senza una vera e radicata fede nel Figlio, l’uomo resta solo, potremmo dire un essere patetico. E infatti “Senza di me non potete far nulla”.

Concludendo, il “lievito dei farisei” è composto dalle dottrine aggiunte alla Parola. Il “lievito dei sadducei” rappresenta le verità negate, come quella della resurrezione e, infine, quello “di Erode” è costituito dalle “verità laiche”, dall’inquinamento del mondo sulla Fede e a Verità. E il mondo, non avendo nulla a che fare con Cristo, vorrebbe entrare con forza nella Chiesa e spesso ci riesce. Tutti questi tre elementi tendono a ribaltare la verità del Dio che si fa uomo a vantaggio dell’uomo che si fa dio. Quando questi tre lieviti s’insinuano, va da sé che producano una reazione a catena negativa le cui conseguenze sono purtroppo sotto gli occhi di chiunque abbia un minimo di discernimento spirituale. Amen.

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