11.38 – IL DISCORSO ECCLESIOLOGICO 9: SETTANTA VOLTE SETTE (Matteo18.21,22)

11.38 – Il discorso ecclesiologico 9, settanta volte sette (Matteo 18. 21,22)

 

21Allora Pietro gli si avvicinò e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». 22E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.

 

            Leggendo anche velocemente i versi precedenti notiamo che i discepoli, pur ascoltando con attenzione le parole del loro Maestro, compresero l’importanza del perdóno, ma non quelle della preghiera comunitaria soprattutto riguardo l’ultima frase, “Perché dove due o tre sono riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro”. Infatti Pietro, colpito dal discorso sulla “colpa”commessa da un fratello e sulle iniziative da attuare per regolarla, si chiese se vi fosse un limite a questo, visto che Gesù non lo aveva specificato. Probabilmente l’apostolo aveva presente che il Talmud prescriveva che si dovesse perdonare non più di tre volte, deduzione tratta da Amos 2.4-6 e Giobbe 33.29,30: “Così dice il Signore: «Per tre misfatti di Giuda e per quattro non revocherò il mio decreto di condanna, perché hanno rifiutato la legge del Signore e non ne hanno osservato i precetti, si sono lasciati traviare dagli idoli che i loro padri avevano seguito. Manderò il fuoco a Giuda e divorerà i palazzi di Gerusalemme». Così dice il Signore: «Per tre misfatti d’Israele e per quattro non revocherò il mio decreto di condanna, perché hanno venduto il giusto per denaro e il povero per un paio di sandali, essi che calpestano come la polvere della terra la testa dei poveri, e fanno deviare il cammino dei miseri, e padre e figlio vanno dalla stessa ragazza, profanando così il mio santo nome»”. Qui vediamo che è il quattro a determinare l’irrevocabilità del “decreto di condanna”. Il passo citato di Giobbe poi parla dell’esperienza del giusto: “Egli si rivolgerà agli uomini e dirà: «Avevo peccato e violato la giustizia, ma egli non mi ha ripagato per quello che meritavo, mi ha scampato dal passare per la fossa e la mia vita contempla la luce». Ecco, tutto questo Dio fa due, tre volte per l’uomo, per far ritornare la sua anima dalla fossa e illuminarla con la luce dei viventi”.

Pietro, quindi, conoscendo il significato del numero tre e consapevole dell’importanza del perdóno quale metodo per il mantenimento della vita fraterna, spontaneamente interpreta la quantità di volte in cui una colpa può venire rimessa fino a sette, cifra che allude alla perfezione più del tre: tre è il numero di Dio, quattro è quello dell’uomo e sette è la loro somma dalla quale si deduce facilmente che è lì che si trova la completezza dei due elementi, poiché la creazione è stata fatta in funzione dell’essere umano e per la sua vita, che doveva essere eterna anche sul pianeta creato. L’apostolo aveva allora capito non solo l’importanza del perdóno, ma anche quanto fosse importante, fondamentale esercitarlo non alla luce degli scritti antichi, ma di quel periodo nuovo che sarebbe sfociato nella dispensazione della Grazia che il suo Maestro stava istituendo. Ricordiamo le parole in Luca 17.4, che completano le parole di Matteo in cui il sette è usato per indicare un numero indefinito di volte: “Se il tuo fratello commetterà una colpa, rimproveralo; ma se si pentirà, perdonagli. E se commetterà una colpa sette volte al giorno contro di te e sette volte ritornerà a te dicendo: «Sono pentito», tu gli perdonerai»”. Da notare anche i tre “se”, riferiti ad eventualità che portano colpa e pentimento, e il “ma”a lui connesso che modifica la posizione di chi ha agito male.

Nel racconto di Matteo, invece, è Gesù a intervenire con Pietro, e per riflesso su tutti gli altri. Lo fa rispondendo numericamente escludendo che il perdóno fosse qualcosa di cui tenere la contabilità: “settanta volte sette”dà come risultato 490, cifra non impossibile da annotare, ma il cui significato si comprende da ciò che il 70 e il 7 significano. Spesso accade, in questi scritti, di riflettere sui numeri per cui, essendo un tema trattato basilarmente, possiamo lavorare sul settanta, importante perché prodotto del 7×10, cioè della cifra della perfezione come 3+4 e, per il 10, di ciò che il Signore si aspetta dall’uomo. Ciò raffigurato dai comandamenti in cui, anche lì, abbiamo una cifra importante, essendovene 4 per la relazione con YHWH e 6 tra esseri umani, che diventano così dieci.

Il settanta è un numero non semplice a svilupparsi, perché contiene significati a volte opposti tra loro, implica tanto benedizione quanto un giudizio di Dio, oltre ad altri elementi: abbiamo infatti le parole di assurda rivendicazione di Lamec, figlio di Caino, che ponendosi in una posizione che non aveva dichiarò che “Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamec settanta volte sette”(Genesi 4.24), non “settantasette”come altri traducono. Ricordiamo sempre in proposito che il male è una forza che spinge chi lo commette a non fermarsi e questo si trasmette alla sua discendenza: l’omicida di Abele, accecato non tanto dall’invidia e dall’odio, ma a monte da un Io spropositato, generò un individuo che giungerà addirittura a voler rivaleggiare con Dio sulla terra.

Ricordiamo il settanta come numero di condizione perché il Signore lo moltiplichi, come nel caso della famiglia di Giacobbe che entrò in Egitto con questa quantità di persone che componevano la sua famiglia “tutte le persone della famiglia di Giacobbe che entrarono in Egitto, ammontano a settanta”(Genesi 47.27) e, a sottolineare l’importanza del lutto conseguente alla morte del patriarca, tali furono i giorni in cui lo piansero (50.3).

Ancora, da tenere presente Esodo 15.27 e Numeri 33.9 a proposito dell’oasi di Elim: lì il popolo si ritrovò dopo essere uscito dall’Egitto, quando “Partirono da Mara e giunsero ad Elim; ad Elim c’erano dodici sorgenti di acqua e settanta palme; qui si accamparono”. Qui alcuni intravedono gli apostoli e i settanta(due) discepoli inviati in missione da Gesù, anche se a mio parere con questi numeri vengono ricordati al tempo stesso l’amore e la potenza progettuale di Dio per il Suo popolo, che allora lo doveva rappresentare sulla terra, e quello che si sarebbe costituito un giorno.

Sempre restando negli scritti dell’Antico Patto, ricordiamo la risposta alla preghiera di Mosè quando, non riuscendo più a gestire efficacemente le questioni del popolo lui affidato – ricordiamo le sue parole, “Non posso io da solo portare il peso di tutto questo popolo, è troppo pesante per me”–  ebbe questa risposta: “Radunami settanta uomini tra gli anziani di Israele, conosciuti da te come anziani del popolo e come loro scribi, conducili alla tenda del convegno; vi si presentino con te. Io scenderò e lì parlerò con te; toglierò dello spirito che è su di te e lo porrò su di loro, e porteranno insieme a te il carico del popolo e tu non lo porterai più da solo”. Anche qui vediamo il settanta come premessa perché Dio – e non certo l’uomo – agisca.

Settanta è anche un limite, elemento su cui meditare per mettersi alla ricerca di ciò che è al di là, l’oltre, come in Salmo 90.10: “Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti; e il loro agitarsi è fatica e delusione; passano presto e noi voliamo via”. Guardando a questa cifra, allora, vediamo il limite severo all’esistenza orizzontale, riassunta nella “fatica e delusione”, nel passare “presto”, cosa che accadrebbe anche se gli anni venissero moltiplicati perché l’uomo, quando è incapace di misurare i propri giorni alla luce dello Spirito, di essi non sa che farsene e la prova concreta di ciò la vediamo nel fatto che rifiuta l’idea della morte.

Abbiamo parlato all’inizio del settanta come giudizio, ma in realtà questo termine così immediato si addice a lui solo in parte, comprendendo sì un provvedimento negativo di Dio – ricordiamo le parole di Geremia 25.11 “Tutta questa regione sarà distrutta e desolata e queste genti serviranno il re di Babilonia per settant’anni”–, ma anche il tempo fissato perché il Progetto del Regno si compia, con la gioia o la disperazione degli uomini a seconda di dove avranno scelto di collocarsi, come detto a Daniele dall’Angelo Gabriele in 9.24, “Settanta settimane sono fissate per il tuo popolo e per la tua santa città per mettere fine all’empietà, mettere i sigilli ai peccati, espiare l’iniquità, stabilire una giustizia eterna e suggellare visione e profezia e ungere il Santo dei Santi”.

Questi, in sintesi, sono i versi che mi sento di applicare al numero oggetto di riflessione. In realtà ce ne sono molti di più, ma tutti raggruppabili sotto le categorie base che abbiamo esaminato. “Settanta volte sette”è allora il tutto, il possibile, il finito che non ha un limite perché, sotto questo aspetto, esercitare il perdono equivale a entrare, se vogliamo, in un percorso circolare: “Se perdonerete agli altri le loro colpe– che avranno riconosciuto –, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche voi; ma se non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe”(Matteo 6.14,15). Anche qui, allora, torniamo ad un aspetto del “legare”e “sciogliere”, del “rimettere i peccati”oppure no, azioni che non hanno nulla a che vedere con la permalosità di un individuo che, se presente in lui, necessita di rivedere molti aspetti della sua vita perché, a prescindere dall’età che possa avere, non ha ancora abbandonato quegli elementi che lo caratterizzavano da bambino. Il concetto di Matteo 6, quindi appartenente al sermone di Gesù sul monte, fu da lui specificato in Marco11.25,26: “Quando vi mettete a pregare, se avete qualcosa contro qualcuno, perdonate, perché anche il Padre vostro che è nei cieli perdoni a voi le vostre colpe”dove il “perdonate”significa porsi in attesa che la controparte si penta, pregando per lei, e non conservare astio o sentimenti di offesa nei suoi confronti.

Concludendo, il “settanta volte sette”dato da Nostro Signore in risposta alla domanda di Pietro, ci parla dell’atteggiamento naturale che deve avere il cristiano di fronte alla richiesta di perdóno, che va dato dimenticando l’accaduto, senza conservarlo per recriminazioni successive anche quando chi è stato già perdonato, eventualmente, ricommette lo stesso errore. Ricordiamo la frase in Isaia 43.25 “Io, io cancellerò i tuoi misfatti per amore di me stesso e non ricorderò più i tuoi peccati”.E chi porrà un punto fermo su tutto questo sarà l’apostolo Paolo che, scrivendo ai credenti della Chiesa di Roma, in 12.21, inviterà a provvedere in merito con le parole “Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene”. Amen.

* * * * *

 

 

Lascia un commento