5.12 – SESTO, NON UCCIDERE I/IV (Matteo 6.21-26)

5.12 – Sesto, non uccidere I/IV: Caino e Abele (Matteo 5.21-26)

 

21Avete inteso che fu detto agli antichi: Non ucciderai; chi avrà ucciso dovrà essere sottoposto al giudizio. 22Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio. Chi poi dice al fratello: «Stupido», dovrà essere sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: «Pazzo», sarà destinato al fuoco della Geènna.23Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, 24lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono. 25Mettiti presto d’accordo con il tuo avversario mentre sei in cammino con lui, perché l’avversario non ti consegni al giudice e il giudice alla guardia, e tu venga gettato in prigione. 26In verità io ti dico: non uscirai di là finché non avrai pagato fino all’ultimo spicciolo!”.

 

E siamo arrivati agli insegnamenti di Gesù sulla Legge in cui si parte da un comandamento estendendolo fino alle radici della coscienza e dello spirito: “Avete inteso(…) ma io vi dico”. L’osservanza della Legge, fatta per l’uomo che aveva perso la propria innocenza in Eden, a partire dal cammino del popolo nel deserto era il solo modo possibile per ottenere la benedizione e l’assistenza di Dio ma, soprattutto, era stata data nell’attesa di Colui che l’avrebbe adempiuta. È importante tener presente la definizione che dà della Legge l’apostolo Paolo, probabile autore della lettera agli Ebrei, in base alla quale essa è “l’ombra dei futuri beni”, ma non avendo “la forma reale stessa delle cose” (10.1); è da questo principio che bisogna partire per comprendere la forza dell’insegnamento di Gesù tanto su di essa e sui Profeti quando leggeremo che “insegnava come avendo autorità, non come gli scribi o i farisei” generando stupore e ammirazione in quanti lo ascoltavano.

Siamo giunti a un punto del discorso sul monte in cui Nostro Signore inizia ad affrontare alcuni comandamenti a partire dal sesto in base al capitolo 20 del libro dell’Esodo in cui il “Decalogo”, o “Sommario”, viene enunciato e che è giusto riportare:

 

01 –   Io sono il Signore Iddio tuo, che ti ha fatto uscire dal paese di Egitto, dalla casa di schiavitù. Non avrai altre dèi davanti a me;

02 –   Non ti farai scultura alcuna né immagine alcuna delle cose che sono lassù nei cieli e quaggiù sulla terra e nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non le servirai;

03 –   Non userai il Nome del Signore, tuo Dio, invano, poiché il Signore non lascerà impunito che pronuncia invano il suo nome;

04 –   Ricordati del giorno di sabato per santificarlo;

05 –   Onorerai tuo padre e tua madre, affinché i tuoi giorni siano lunghi sulla terra che il Signore Iddio tuo ti dà;

06 –   Non ucciderai;

07 –   Non commetterai adulterio;

08 –   Non ruberai;

09 –   Non farai falsa testimonianza contro il tuo prossimo;

10 –   Non desidererai la casa del tuo prossimo; non desidererai la moglie del tuo prossimo, né il suo servo, né la sua serva, né il suo bue né il suo asino, né cosa alcuna che sia del tuo prossimo.

 

Ho trascritto l’elenco originale, riportato anche in Deuteronomio 5, perché forse non tutti sanno che differisce da quello tradizionalmente insegnato dalla Chiesa di Roma che ne ha purtroppo stravolto l’ordine, eliminando e aggiungendo arbitrariamente degli elementi.

Riguardo ai comandamenti, sesto compreso, vediamo che la proibizione è utilizzata al tempo al futuro a dimostrazione della loro immutabilità nel tempo e che la sua infrazione è il risultato di un lungo processo progettuale che si sviluppa in un’anima che si lascia contaminare dal peccato, permanendo in esso, divenendo così contraria alle esigenze che Dio ha fatto conoscere. Il peccato infatti è prima di tutto una condizione, quella in cui versa la creatura lontana per natura dal proprio creatore. È lo stato in cui si versa ereditariamente dopo la trasgressione dei progenitori in Eden, liberi di accettare la vita nel Giardino, o la morte sulla terra. Se non si pone rimedio a questo stato diventando figli per la fede in Cristo, lo stato di allontanamento da Dio genera tutti gli altri e per questo fu dato il decalogo, o Sommario della Legge.

Per poter affrontare il tema del sesto punto del Sommario, prima di entrare nel merito dell’insegnamento di Gesù, credo occorra esaminare l’omicidio nella storia guardando a due uccisioni emblematiche e relative conseguenze, tenendo presente che per “Legge” gli ebrei consideravano tutti i libri formanti il Pentateuco. Partire con questa base significa inevitabilmente andare all’omicidio perpetrato da Caino su Abele che troviamo al capitolo quarto del libro della Genesi. Si tratta di un episodio che molti conoscono, in cui vi sono particolari sui quali si sorvola se si legge l’episodio come un semplice racconto, ma che descrivono come l’idea dell’omicidio si forma e si sviluppa in una persona.

Caino era il primogenito e il suo nome significa “Acquisto” perché sua madre ritenne di aver avuto un favore da Dio rimanendo incinta di lui e credette di aver pagato, “partorendo con dolore”, il suo debito. Non si può nemmeno escludere che sperava che Caino fosse il destinato a porre rimedio alla situazione in cui lei e suo marito versavano. Adamo ed Eva erano infatti presenti quando venne formulato il giudizio sul serpente con la “progenie della donna” che gli avrebbe schiacciato il capo. A proposito del primogenito di Eva leggiamo che “Adamo conobbe Eva sua moglie, che concepì e partorì Caino e disse: «Ho acquistato un uomo grazie al Signore»” (Genesi 4.1). Quando poi lei constatò che suo figlio era fragile, soggetto ad ammalarsi e a soffrire come tutti, ecco che capì la vita umana sarebbe stata ben diversa da quella conosciuta in Eden e “Partorì ancora Abele, suo fratello” il cui nome significa “soffio” o “vanità”. Il primo figlio di Eva fu agricoltore, il secondo pastore ed entrambi offrirono in sacrificio a Dio secondo i frutti del loro lavoro, ma mentre Abele presentò i primogeniti del suo gregge con il loro grasso, quindi rinunciando ai migliori capi e anticipando i sacrifici della dispensazione della Legge, Caino si limitò ad un’offerta generica in cui era esente il sentimento di adorazione e di amore per il proprio Creatore. Quando infatti Caino “fu molto irritato e il suo volto era abbattuto” (v. 5), perché constatava che il fratello veniva benedetto e la sua offerta veniva ignorata, Dio non lo lasciò solo coi suoi pensieri ad arrovellarsi e intristirsi ulteriormente, ma gli parlò: “Perché sei irritato ed è abbattuto il tuo volto? Se agisci bene, non dovresti forse tenerlo alto? Ma se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, e tu lo dominerai” (v.6), che altri traducono “devi dominarlo”.

Da queste parole possiamo trarre alcuni elementi: Dio invita Caino a riflettere rispondendo prima di tutto da sé alla domanda sul perché fosse irritato e abbattuto e questo fu un’esortazione ad un ascolto profondo, ad una analisi, a mettere da parte sia la delusione che porta alla tristezza interiore, sia l’astio che ne avrebbe potuto esserne la conseguenza: calmati, fermati, rifletti perché sei dotato di anima, quindi di intelligenza, ed il tuo problema lo puoi risolvere.  Trovando le ragioni del suo stato psicologico, Caino ne avrebbe trovato anche il rimedio perché la radice del problema non risiedeva nell’offrire frutti della terra anziché pecore, ma in tutto il suo modo di pensare e agire a monte: “Se agisci bene, non dovresti forse tenerlo alto?”. Erano parole che tendevano ad indicare una strada, un percorso che Abele aveva già intrapreso senza che alcuno glielo indicasse, scelto dopo aver riflettuto: impossibile che Adamo ed Eva non avessero spiegato ai loro figli il perché della sofferenza, fisica e morale, del lavoro e come mai dovessero faticare per poter sopravvivere.

Se Caino non avesse “agito bene”, cioè lasciandosi guidare dalla propria coscienza e depurandosi dei pensieri che lo contaminavano, sarebbe stato sempre dominato dal proprio istinto che lo avrebbe portato sempre più lontano dalla presenza e dalle attenzioni di Dio che mostrava di gradire le offerte del fratello con una vita meno travagliata della sua, sostenendolo nelle proprie fatiche e facendolo prosperare. Il peccato, inteso come tutto ciò che è contrario al bene e quindi alla santità, era “accovacciato alla porta” della mente di Caino in attesa di prenderne possesso e solo lui avrebbe potuto tenerlo fuori, dominandolo, vale a dire non dandogli ascolto, non lasciando che pensieri egocentrici e ciechi prendessero il sopravvento su di lui. Con quelle parole Caino fu posto di fronte a un bivio: proseguire nel suo senso di ostilità e delusione, oppure cambiare modo di agire ponendo un freno ai suoi istinti, avrebbe dovuto accompagnare ciò che offriva ad una vita coerente mettendo al primo posto il rapporto con Dio anziché la propria istintività.

Alle parole di verità che gli erano state rivolte, Caino preferì la propria e ritenne di risolvere il problema eliminando fisicamente il proprio fratello, premeditandone l’omicidio: lo portò nei campi, quindi dove nessuno li vedesse – tranne Dio, ma non gli importava perché per Caino veniva prima di tutto la materia – e lo uccise. Quando fu giudicato è scritto che, invece di pentirsi, “Si allontanò dalla presenza dell’Eterno”, cioè decise di vivere autonomamente escludendo il Creatore, dando origine a una stirpe che arrivò al proprio culmine negativo con Lamek che, accecato nell’orgoglio e soffocata definitivamente la propria coscienza, volle sostituirsi a Dio dicendo “Sì, io ho ucciso un uomo perché mi ha ferito e un giovane per avermi procurato un livido. Se Caino sarà vendicato sette volte, Lamek lo sarà settanta volte sette” (v.23,24), cioè all’infinito. Lamek, per questa delirante affermazione, utilizzò le parole che il Signore aveva detto al suo capostipite dopo l’omicidio del fratello, “Chiunque ucciderà Caino, sarà punito sette volte” (v.15).

In entrambi i casi, quello di Caino e di Lamek, abbiamo una progressione interiore negativa che fondamentalmente parte sì dal non aver imposto dei freni al loro agire, ma da una morale sostitutiva che li voleva vedere protagonisti del loro destino, da una volontà costante e assoluta del voler vivere difendendo la propria persona senza curarsi del proprio prossimo e soffocando quella coscienza che, per la dispensazione nella quale esistevano, Dio aveva posto in loro.

Caino e Lamek, che diede origine alla poligamia, sono gli esempi delle persone che, non volendo vigilare su loro stesse, mettono la propria natura corrotta al primo posto e sono disposti a difenderla con qualunque mezzo, sia questo “lecito” o meno. “Il peccato è accovacciato alla tua porta” è tradotto anche “sta spiando alla porta e i suoi desideri sono verso di te”, atteggiamenti che denotano che il peccato è un’idea, un pensiero che attende il momento propizio per agire. “Peccato” è una parola astratta che, pilotata dall’Avversario, dà conseguenze purtroppo concrete anche se nel verso che abbiamo letto viene presentato antropomorficamente. Anche oggi, come testimoniano le cronache che leggiamo quotidianamente, si uccide per questo, in un gesto primitivo per eliminare chi ostacola anche se di poco la sopravvivenza e la riuscita dei progetti dell’omicida, le sue esigenze, di un Ego che cresce smisuratamente. Si uccide per uno scatto d’ira che, per manifestarsi in quel modo, non è mai stata tenuta a freno dallo Spirito o anche solo dalla ragione. L’omicidio, crimine nelle leggi di tutte le nazioni, è sempre il risultato di un mancato dominio sulla carne che vorrebbe sempre e comunque, non conosce freni se abbandonata a se stessa e arriva ad eliminare tutto ciò che la ostacola. Ricordiamo le parole di Agur in Proverbi 30.12-16: “C’è gente che si crede pura, ma non si è lavata dalla sua lordura. C’è gente dagli occhi così alteri e dalle ciglia così altezzose! C’è gente i cui denti sono spade e i cui molari son coltelli per divorare gli umili ed eliminarli dalla terra e i poveri in mezzo agli uomini. La sanguisuga ha due figlie: «Dammi! Dammi!». Tre cose non si saziano mai, anzi quattro non dicono mai «Basta!»: gli inferi, il grembo sterile, la terra mai sazia d’acqua, e il fuoco che mai dice «Basta!»”.

In opposizione, così Agur parla di sé: “Sono stanco, o Dio, sono stanco e vengo meno, perché io sono il più ignorante degli uomini e non ho intelligenza umana; non ho imparato la sapienza e ignoro la scienza del Santo. Chi è salito al cielo e ne è sceso? Chi ha raccolto il vento nel suo pugno? Chi ha racchiuso acque nel suo mantello? Chi ha fissato tutti i confini della terra? Come si chiama? Qual è il nome di suo figlio, se lo sai? Ogni parola di Dio è appurata, egli è uno scudo per chi non ricorre a lui” (vv. 1-5).

È bello notare che, come Giobbe lamentava la mancanza di un simile che lo comprendesse e lo aiutasse nel suo dibattimento con Dio, Agur si chiede il nome del Figlio di Dio, che si rivelerà agli uomini alcune centinaia di anni più avanti. Caino, primo omicida della storia che trattava Dio e il suo rapporto con Lui con estrema sufficienza, è il rappresentante dei tanti che verranno nei secoli e le sue motivazioni, certo viste brevemente, saranno utili riferimenti quando vedremo le parole di Gesù in proposito.

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5.11 – NON PER ABOLIRE, MA PER ADEMPIERE (Matteo 5.17-20)

5.11 – Non per abolire (Matteo 5.17-20)

7Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento. 18In verità io vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto. 19Chi dunque trasgredirà uno solo di questi minimi precetti e insegnerà agli altri a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà, sarà considerato grande nel regno dei cieli.
20Io vi dico infatti: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli”.

Col discorso della montagna abbiamo per la prima volta  un’esposizione dottrinale organica sui contenuti espressi da Gesù alla folla, per quanto Matteo e Luca è certo abbiano inserito anche insegnamenti che non necessariamente furono impartiti in quell’occasione. Se finora abbiamo preso in esame solo la narrazione del primo evangelista è solo per rispettare una consecutio a mio giudizio logica per queste riflessioni, lasciando al parallelo lucano il compito di fare delle piccole pause citandolo nel momento in cui va ad integrare la narrazione di Matteo. Di certo, sul monte, Gesù confermò di essere in grado di dare quell’”acqua viva”, di cui parlò alla donna samaritana, che avrebbe potuto dissetare per sempre e di essere Lui in grado di far sgorgare. Un giorno lessi in un manuale di esegesi del Nuovo Testamento una frase che allora non condivisi immediatamente e sosteneva che senza tenere presente la mentalità del tempo e dell’autore si poteva correre il rischio di fraintendere il messaggio contenuto in uno o più versetti scadendo nel letteralismo. Ebbene, pronunciando le parole che abbiamo letto, Gesù, perfetto conoscitore dei pensieri, del carattere, delle intenzioni e della mentalità dei suoi uditori, spiega agli uomini del suo tempo il perché fosse in mezzo a loro, qual era lo scopo per cui era venuto al mondo; le Sue parole, poi, illuminano la Chiesa ancora oggi e da esse può trarre il suo nutrimento adattandole alla sua realtà.

Dobbiamo tenere presente che nessuno al tempo del sermone sul monte, e per qualche anno più avanti, aveva le idee chiare sul Cristo: i suoi avversari già avevano un progetto omicida nei Suoi confronti, i discepoli lo avevano conosciuto come in grado di fare miracoli e avevano provato, come Simon Pietro, la distanza spirituale intercorrente fra loro e Lui, ma le opinioni in merito erano quanto mai diverse. Ancora, l’idea che poteva avere l’uditorio di Gesù poteva non essere corretta tanto riguardo Sua identità e soprattutto su come Lui si poneva di fronte alla Legge e ai Profeti. Ad esempio aveva dichiarato che l’uomo non era stato creato per il sabato, ma viceversa. Essendosi qualificato come “Signore del sabato”, di fatto, secondo loro, o lo intendeva abolire o poteva farlo. Davvero c’era traccia di Lui nei Profeti? Aveva fatto specifico riferimento all’eccellenza della misericordia e dell’amare Dio sui sacrifici che si celebravano: forse questo significava che erano decaduti? E poi la remissione dei peccati: come sarebbe potuta avvenire da lì in poi?

Ecco allora che con quel “Non crediate” Gesù mette un freno alle supposizioni e agli interrogativi sulla sua missione: non era venuto ad abolire né la Legge, né i Profeti, “ma a dare pieno compimento”, originale greco pleròsaiche significa letteralmente “riempire fino all’orlo, fino a traboccare” quindi dando loro un significato pieno, totale, oltre il quale era impossibile andare, spingersi oltre. Occorre prestare attenzione al termine greco, che suggerisce molto di più di un adempimento cui la nostra traduzione aggiunge “pieno”. “Pleròsai ha la stessa radice di “pleròma”, termine usato dallo gnosticismo per indicare “la perfezione divina intesa come pienezza che comprende in sé tutti gli esseri che emanano da Dio”. E lo gnosticismo, che mescolava credenze pagane, ebraiche e cristiane, involontariamente sottolinea così la totalità dell’opera che Gesù avrebbe compiuto.

Fondamentale è che Nostro Signore citi non solo la Legge, ma aggiunga immediatamente “e i profeti”. Ecco, qui il ragionamento si fa ancora più estensivo perché coi due termini, “Legge e Profeti”, si allude al tutto e, nel nostro caso, non c’è anche un riferimento a Giobbe: anni fa un fratello mi fece notare un passaggio particolarissimo in cui quest’uomo, che non conosceva le ragioni della sua sofferenza morale e fisica, parlò così all’Iddio tre volte santo: “Se sono colpevole, perché affaticarmi invano? Anche se mi lavassi con la neve e pulissi con la soda le mie mani, allora tu mi tufferesti in un pantano e in orrore mi avrebbero le mie vesti. Poiché non è un uomo come me, al quale io possa replicare «Presentiamoci alla pari in giudizio». Non c’è fra noi due un arbitro che ponga la mano su di noi” (Giobbe 9.29,33).

Ebbene in questi versi, in cui Giobbe confessa la sua impossibilità a reggere un confronto con Dio nonostante tutto il suo essere fosse costantemente rivolto a Lui e le benedizioni ricevute, lamenta la mancanza di un “arbitro”, quindi un mediatore, un uomo come lui che lo potesse capire senza possedere le sue meschinità. Giobbe non sapeva che un giorno sarebbe arrivato Uno che, avendo “adempiuto” la Legge e i Profeti portandoli a pieno compimento, avrebbe potuto ricoprire quel ruolo che allora mancava, talché Paolo scrisse “C’è un solo Dio – il Santo, il Perfetto, l’Assoluto –e anche un solo mediatore fra Dio e gli uomini: Gesù Cristo uomo” (1 Timoteo 2.5). Due unicità rientranti in una sola, funzioni distinte, ma essenza identica perché, se così non fosse, quel mediatore non avrebbe alcuna possibilità di essere ascoltato da chi è Santo per natura, essenza, definizione. Credo che questo verso di Paolo, oggi, abbia molto da dire a quella cristianità che non si limita a prendere i Santi come oggetto di interesse per ciò che hanno fatto e detto, ma li eleva a rango di intercessori o mediatori presso Dio quasi che possano “mettere una buona parola” a sostegno delle loro preghiere.

Ecco, l’apostolo Paolo specificava “uomo” perché senza la Sua umanità Gesù non avrebbe potuto portare a compimento la Legge e i Profeti. E qui ci raccordiamo all’incenso, che Zaccaria stava per offrire, che doveva essere costituito da parti uguali in cui, ora, possiamo distinguere l’umanità, la perfezione, la santità e la missione del Cristo.

A questo punto, tornando al nostro testo, abbiamo il primo “Amen”, cioè “In verità”, parola che molti pronunciano senza pensare al suo significato di attestazione, certificazione responsabile di un qualcosa di vero. L’Amen di Gesù qui riguarda uno spazio temporale del pieno adempimento delle sue parole: “Io vi dico”, tre elementi che qualificano il mittente, l’Unico vero Inviato di Dio, e i destinatari, gli uomini là presenti e tutti quelli che nei secoli avrebbero letto le Sue parole; “In verità”, rafforzativo che poi è un invito a riflettere e credere stante l’autorevolezza di quell’ “Io” che sta parlando, “che, finché sia passato il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un trattino della legge, senza che tutto questo sia avvenuto”.

Anche con la citazione del “cielo” e della “terra” Gesù si raccorda agli scritti dei profeti, che mettono l’uomo in guardia dal ritenere questi due elementi come eterni: già abbiamo visto, in una precedente riflessione,  la figura della terra che si “logorerà come un vestito” – cosa già in atto -, già sappiamo che “i cieli e la terra passeranno con fragore” – altri traducono “stridendo”, e in Salmo 102. 25,26 si legge “Anticamente tu hai stabilito la terra e i cieli come opera delle tue mani; essi periranno, ma tu rimarrai; si logoreranno tutti come un vestito– citazione di Isaia 51.6 -, tu li muterai come una veste ed essi saranno cambiati”. Conosciamo anche il verso di Marco 13 “I cieli e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno”, ma qui Gesù vuol porre l’accento sull’immutabilità del piano di Dio e degli adempimenti che avrebbe fatto visti nella citazione dello “iota” e del “trattino”, rispettivamente la più piccola consonante ebraica, lo yod, e quel piccolo segno a forma di corno che serviva per distinguere quelle consonanti che, nella scrittura quadrata, sarebbero state tra loro identiche.

Nelle parole del verso 18, “senza che tutto questo sia avvenuto”, c’è poi un’importante indicazione sulla scadenza temporale di tutta l’opera di Gesù, che sappiamo disse sulla croce “Tutto è compiuto”: nulla restava di incompleto alla luce del ministero terreno che aveva svolto, la Legge era stata completata nella sua pienezza, il Suo sacrificio quale Agnello di Dio era stato fatto, ma alcuni avvenimenti descritti dai Profeti dovevano e devono ancora verificarsi ed ecco il perché della frase “Senza che tutto questo sia avvenuto”. Pensiamo alle parole del Salmo che abbiamo letto “…tu li muterai come una veste ed essi saranno cambiati”.

Con i versi che seguono abbiamo poi un aggiornamento sulla condotta e la responsabilità che hanno coloro che la Legge la insegnano, anche se oggi l’esempio è perfetto per tutti coloro che, nella Chiesa, si adoperano in base ai doni ricevuti. Il messaggio si sposta così dagli uditori a “chiunque trasgredirà uno solo di questi minimi precetti e insegnerà agli altri a fare altrettanto”: c’è parentela verbale tra l’abolire del verso 17 (“non per abolire, ma per dare compimento”) e questo “trasgredire”, ma mentre nel primo caso i sinonimi del verbo sono “abbattere, annullare, abrogare” con riferimento a un sistema, qui si tratta di un’azione tesa a indebolire la forza di qualcosa, nello specifico un comandamento “minimo”, probabile riferimento all’insegnamento dei dottori della Legge che distinguevano i precetti in maggiori e minori poi giungendo, come sappiamo, al ridurre il giudaismo all’osservanza di una serie di norme indipendentemente dall’atteggiamento spirituale della persona.

Esiste una responsabilità però anche a dirsi cristiani e soprattutto nel modo di presentare Cristo e la Sua dottrina che non può basarsi su posizioni erronee a livello di essenza, di sostanza, del modo di porsi di fronte a Dio perché, ad esempio, va rimossa la trave nel nostro occhio prima di vedere la pagliuzza in quello dell’altro: là dove s’instaura il sentimento religioso che tende ad adattare la ritualità e la procedura alle vere esigenze dello Spirito – e quindi di Dio – si ha l’ingresso del fariseismo anche nella Comunità cristiana. E qui viene automatico citare i rimproveri che Gesù mosse, sempre ai suoi antagonisti, in varie forme, ad esempio “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pagate la decima della menta, dell’anèto e del cumìno, e trasgredite le prescrizioni più gravi della legge: la giustizia, la misericordia e la fedeltà. Queste cose bisognava praticare, senza omettere quelle. Guide cieche, che filtrate il moscerino e ingoiate il cammello! Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pulite l’esterno del bicchiere e del piatto mentre all’interno sono pieni di rapina e d’intemperanza. Fariseo cieco, pulisci prima l’interno del bicchiere, perché anche l’esterno diventi netto! Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che rassomigliate a sepolcri imbiancati: essi all’esterno son belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume. Così anche voi apparite giusti all’esterno davanti agli uomini, ma dentro siete pieni d’ipocrisia e d’iniquità. Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che innalzate i sepolcri ai profeti e adornate le tombe dei giusti, e dite: Se fossimo vissuti al tempo dei nostri padri, non ci saremmo associati a loro per versare il sangue dei profeti; e così testimoniate, contro voi stessi, di essere figli degli uccisori dei profeti. Ebbene, colmate la misura dei vostri padri!” (Matteo 23. 23-29). Gesù, tornando al suo discorso, a conferma del riferimento alla Chiesa futura, parla della considerazione nella quale sarà tenuto nel “Regno dei cieli” chi si sarà comportato in un modo piuttosto che in un altro.

Si parla di “giustizia”, termine di cui ci siamo già occupati non solo recentemente con le beatitudini, ma anche quando abbiamo esaminato Giovanni e altri personaggi considerati giusti: c’è una giustizia che viene da Dio e ce n’è una che l’uomo si può costruire, illusoria, ipocrita, assolutamente fine a se stessa e quindi utile alla propria carne, come quella dei personaggi che Gesù prende a riferimento, appunto gli Scribi e i Farisei. Se ci vestiamo della nostra giustizia, della presunzione di essere tali solo perché crediamo, se guardiamo il nostro prossimo disprezzandolo perché non appartiene alla nostra cerchia qualunque essa sia, ecco che a nulla vale la fede: non è luce, non è una città posta sul monte, ma è piuttosto un’impalcatura, un atteggiamento, un palazzo in cui la mente può trovare rifugio. Ma è un palazzo destinato a crollare. E il parallelo col “sepolcro imbiancato” è inevitabile così come lo è il riconoscere una persona dal frutto che produce: “Guardatevi dai falsi profeti – non chi predice il futuro, ma chi parla di Dio – che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro sono lupi rapaci. Li riconoscerete dai loro frutti: si raccoglie forse uva dalle spine, o fichi dai rovi? Così ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi; un albero buono non può produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produrre frutti buoni. Ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco. Dai loro frutti dunque li potrete riconoscere”.

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5.10 – IL SALE DELLA TERRA (Matteo 5.13-16)

5.10 – Il sale della terra (Matteo 5.13-16)

  • 13Voi siete il sale della terra; ma se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente. 14Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città che sta sopra un monte, 15né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa. 16Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli.”.
  • Con queste parole ci troviamo di fronte per la prima volta a una definizione che Gesù fa sul suo uditorio, vedendo i discepoli e quelli che avrebbero creduto in Lui come “sale della terra” e “luce del mondo”. Nel definirli così fa seguire poi tre esempi – l’insipidirsi del sale, la città sul monte e la lampada – per concludere con un imperativo al verso 16: “Coì’ risplenda la vostra luce davanti agli uomini”. Se poco prima il discorso delle beatitudini ha riguardato anche i trattamenti inflitti dal mondo ai discepoli, qui c’è un ribaltamento: sono loro ad influire sul mondo come vediamo dalla metafora del sale, sostanza tanto comune quanto necessaria.
  • Il sale è una sostanza da sempre conosciuta come esaltatore di sapidità ampiamente usato in cucina, ma è anche fondamentale per lo svolgersi di meccanismi fisiologici vitali come la trasmissione degli impulsi nervosi, lo scambio dei liquidi e la regolazione della pressione anche se è pericoloso superare la dose di più di 5 grammi giornalieri perché, in questo caso, può causare problemi ai reni e cardiaci. Qui però Gesù parla di sale “della terra”, alludendo alla testimonianza e capacità di annunciare il Vangelo al mondo una volta ricevuto lo Spirito Santo oppure, nel caso dei suoi uditori di allora, all’annunciare agli altri che era finalmente giunto il Regno di Dio nella Sua persona. In pratica, con quella definizione ai presenti, Nostro Signore indica loro il ruolo che avrebbero avuto se si fossero riconosciuti nelle Sue parole. Ciascun cristiano è potenzialmente “sale della terra” perché ciò che ha ricevuto può e deve – non per costrizione, ma come atto spontaneo e inevitabile – essere trasmesso, annunciato agli altri. Occorre prestare però attenzione: essere “sale della terra” non significa necessariamente diventare, essere dei predicatori come molti pensano o per far proseliti, ma possedere una proprietà fisica al nostro interno esattamente come ce l’ha il sale naturale, che dà sapore.
  • Data la definizione, Gesù contempla la possibilità che questo elemento perda le sue proprietà, riferendosi all’esperienza di allora: il sale veniva ricavato per evaporazione dal mare o da paludi, ma occorreva la massima attenzione perché il procedimento per la sua estrazione era primitivo e col sale potevano venire raccolte terra e impurità che lo facevano scadere a tal punto da tramutarlo in una polvere inservibile che veniva gettata sulla strada, non certo in un campo perché lo avrebbe fortemente impoverito. Ricordiamo che nelle antiche guerre, una volta distrutte e rase al suolo le città nemiche, vi si passava un aratro versando del sale nei solchi affinché non crescesse più nulla: non solo lo fecero i romani con Cartagine, ma lo troviamo anche nella Bibbia: “Abimelec combatté contro la città (Sichem) tutto quel giorno, la prese e uccise il popolo che vi si trovava, poi la distrusse e la cosparse di sale” (Giudici 9.45). “Terra salata” è anche una definizione usata frequentemente nella Scrittura per indicare un territorio arido e deserto.
  • Il sale, a parte il riferimento ai suoi effetti sul suolo, lo troviamo presente nella Legge: “Dovrai salare ogni offerta di oblazione: nella tua offerta non lascerai mancare il sale dell’alleanza del tuo Dio; sopra ogni offerta porrai del sale” (Levitico 2.13). Questo composto allora, come abbiamo letto, raffigurava l’alleanza di Dio con l’uomo: quale? Certo quella della Legge, ma anche le altre, in particolare quella che il Cristo portava con sé, a quel tempo non ancora rivelata. Eccoci giunti al punto: il sale che andava posto sopra ogni offerta lo ha dentro di sé chi crede nell’Agnello di Dio, che addirittura viene a lui paragonato, “voi siete”. Abbiamo questa proprietà, ma corriamo il rischio di perderla non rimanendo fedeli, dimenticandocene: essere il “sale della terra” non può costituire motivo di orgoglio perché, se si diventa insipidi, non si è più utili a nulla. La domanda “con che cosa lo si salerà” va letta come “In che modo potrà riacquistare il suo sapore?”. Ricordiamoci che i discepoli non sapevano di avere questa caratteristica, è Gesù che lo rivela, li avverte: “Fai attenzione, guarda che tu sei il sale della terra”, responsabilizzandoli e collegandosi alle beatitudini. Purtroppo la dimensione che subiamo ci costringe a dividere il discorso sul monte in blocchi come se fossero delle stanze da attraversare, ma ciò che Nostro Signore disse ai discepoli e alla gente venuta da ogni parte era un fiume che scorreva, non uno studio a puntate come il mio.
  • Questo primo paragone di Gesù è quindi un invito alla riflessione: dapprima informa i suoi discepoli del loro privilegio, dello scopo che hanno, quindi del fatto che portano dentro di sé l’alleanza che Dio ha fatto con loro e che non possono tenerla per sé. Poi, per la caratteristica che è stata loro data, essi sono il “sale del mondo” cioè danno un senso alla sua esistenza con la loro opera.
  • Il sale è anche riferito all’intelligenza spirituale: “Abbiate sale in voi stessi e siate in pace gli uni con gli altri” (Marco 9.50) e “Il vostro parlare sia sempre con grazia, condito con sale, per sapere come dovete rispondere a ciascuno” (Colossesi 4.6) là dove alcuni lo traducono con “senno”, quindi è l’intelligenza spirituale che dovrebbe caratterizzare i rapporti del cristiano coi fratelli e con gli altri uomini.
  • La parte finale del verso, sulle conseguenze del sale che perde le proprietà, viene espressa dall’autore della lettera agli Ebrei con queste parole: “Una terra imbevuta della pioggia che cade su di essa, se produce erbe utili a quanti la coltivano, riceve benedizione da Dio; ma se produce spine e rovi, non vale nulla ed è vicina alla maledizione: finirà bruciata” (6.7,8). Anche l’apostolo Pietro spiega questo concetto riferendosi a coloro che, dopo aver conosciuto Dio, si allontanano da Lui senza preoccuparsi delle conseguenze: “L’uomo è schiavo di ciò che lo domina. Se infatti, dopo essere sfuggiti alle corruzioni del mondo per mezzo della conoscenza del nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo, rimangono di nuovo in esse invischiati e vinti – quindi arrivano ad una condizione definitiva, una scelta deliberata senza possibilità di appello – la loro ultima condizione è diventata peggiore della prima” (2 Pietro 2.19,20).
  • La seconda definizione che dà Gesù ai discepoli è “La luce del mondo”, posizione che il cristiano dovrebbe occupare all’interno della società degli uomini. Salomone scrisse che “La strada dei giusti è come la luce dell’alba che aumenta lo splendore fino al pieno giorno. La via degli empi è come l’oscurità; essi non scorgono ciò che li farà cadere” (Proverbi 4.18,19). Sono entrambe strade visibili da chiunque, ma se quella del giusto non si vede, è impossibile notare la differenza. Ecco perché chi crede non brilla di luce propria, ma di quella di Cristo ed è chiamato a svilupparla, curarla tenendo ben presente quello che era prima dell’incontro con Lui e della sua conversione. “Un tempo eravate tenebre – notiamo che manca “nelle” -, ora siete luce del Signore. Comportatevi perciò come figli della luce. Ora il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità. Cercate di capire – la necessità del sale – ciò che è gradito al Signore” (Efesi 5.5-10). Quindi quel “Voi siete la luce del mondo” allude a un dono ricevuto e i primi passi da compiere – e sono tanti – devono riguardare proprio la formazione spirituale attraverso quel “cercate di capire”, operazione impegnativa e attenta, preoccupandosi di essere fedeli nelle piccole cose in vista, se verranno, di quelle grandi. Solo così si potrà essere un riferimento per gli altri perché la luce di Dio è prima di tutto interiore: illumina l’uomo sulla sua condizione di peccato, punto di partenza che, se accolto con la volontà di una vita nuova, crea già di per sé una festa nel cielo: “Ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di redenzione” (Luca 15. 7). “Cercate di capire” perché senza lo Spirito resteremmo nell’ignoranza. Troppo spesso il cristianesimo vorrebbe basarsi su una bontà generica e la comprensione degli altri, dimenticando che si cresce con la dottrina e non con le buone intenzioni.
  • Nostro Signore, allora come oggi, invita con le Sue parole alla responsabilità individuale, essendo invitati ad essere “…figli di Dio innocenti in mezzo a una generazione malvagia e perversa – alla quale appartenevamo anche noi comunque -. In mezzo a loro voi risplendete come astri nel mondo, tenendo salda la parola di vita” (Filippesi 2. 14,15). Già avendo un comportamento consono alla Parola di Dio il cristiano testimonia di non appartenere alla “generazione” di prima, quela in cui rientrava a tutti gli effetti prima della sua conversione. Egli ha un senso anche se è una piccola stella nel cielo notturno. Brilla nel buio. È una presenza, si riconosce, illumina per quanto gli è stato dato ed è per questo che il messaggio di Cristo è universale: pietre diverse formano la Chiesa, “pietre vive” come membra e organi distinti, che da soli non servirebbero a nulla, ma che formano il Corpo di Cristo.
  • Dopo la definizione di “Luce del mondo”, ecco i paragoni esplicativi: le città, i paesi costruiti su una montagna sono visibili e orientano il viaggiatore non solo nei suoi spostamenti, ma anche e soprattutto quando deve ricoverarsi in esse per la notte. Comunque sia, si vedono, “sono là”, è fisicamente impossibile non notarle. C’è chi prende atto della loro esistenza, e chi le visita.
  • La metafora della lampada, poi, è un’estensione del concetto di “luce” espresso poco prima: se la si accende, non la si mette sotto il moggio, antica unità di misura per le granaglie, costituito da una specie di secchio (conteneva circa 8 litri e mezzo). Mettere il lume sotto il moggio, evidentemente rovesciato, significava commettere un gesto assurdo, visto che la lampada si accendeva per illuminare l’ambiente e non per nasconderlo alla vista. Non di può quindi vivere contemporaneamente per se stessi, auto illuminandosi e finendo per godere di una luce a noi riservata, ma occorre porsi nella condizione di illuminare gli altri, cosa che diventa possibile quando si ha acquisito l’esperienza necessaria vista nella figura di un vaso che trabocca. Non può esserci luce se prima non si è illuminati, non può esserci comunicazione degna di tale nome se prima non la si è ricevuta e assimilata, come vediamo nei profeti dell’Antico Patto, che parlarono solo quando Dio li autorizzò a farlo.
  • La lampada sul candeliere significa anche avere una vita trasparente, santa e conforme al Vangelo perché in tal modo chi tra il mondo cerca o si pone delle domande sulla propria esistenza, la veda, ne sia attratto – se ha dentro di sé uno spirito non avverso – e accolga il messaggio d’amore del Cristo da cui sono escluse le regole del marketing “spirituale” caro a chi fa proseliti nella Chiesa e fuori.
  • Il fine della luce che risplende è “affinché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli”, frase che si riferisce all’inevitabile considerare che siamo figli della Luce a prescindere dal fatto che gli uomini si interessino di ciò che Dio ha loro da proporre. Un giorno ho sentito una persona dire “devo convertire qualcuno”: è concetto privo di senso, come se ci fosse dato il potere di salvare. Il cristiano che riconosce il suo Maestro è una luce, qui finisce il suo compito perché già esistendo come tale lo ha adempiuto; sono piuttosto gli altri cui spetta la scelta se dirigersi verso di lui, o evitarlo. Certo dobbiamo avere un carattere spirituale che ci contraddistingua, certo non può essere simulato pena l’incapacità a gestire le situazioni, per non parlare di ulteriori danni fatti a noi stessi e agli altri. Perché il cristianesimo è qualcosa di più che l’essere battezzati e il limitarsi a frequentare le Assemblee di una Chiesa. Amen.
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5.09 – LE BEATITUDINI 8: I PERSEGUITATI PER LA GIUSTIZIA (Matteo 5.3-12)

5.9 – Il sermone sul monte : le beatitudini VIII (Matteo 5.3-12)

 

3«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. 4Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. 5Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. 6Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. 7Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. 8Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. 9Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. 10Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.11Beati voi, quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia.12Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti perseguitarono i profeti che furono prima di voi”.

 

BEATI I PERSEGUITATI PER LA GIUSTIZIA

È l’ultima beatitudine, che termina come la prima, “perché di essi è il regno dei cieli”, che però per gli uditori di Gesù era di significato più oscuro e, infatti, Lui stesso si preoccuperà di spiegarla nei due versetti successivi. Due beatitudini sono al presente, le altre al futuro, segno che c’è continuità fra loro e che il cristiano non ne possiede una soltanto; l’ottava è però particolarmente complessa perché riguarda il compiersi di avvenimenti che, al momento dell’esposizione, non si erano ancora verificati. Nessuno di loro era stato ancora perseguitato.

Se ci soffermiamo sulla parola “giustizia”, sappiamo già che l’esserne affamati e assetati comporta l’esserne saziati in futuro, che questa viene data a chi crede nell’Iddio Vivente rivelato: i “giusti” dell’Antico Patto erano coloro che affiancavano alla Legge un sentimento di profondo essere un tutt’uno con YHWH e la ritenevano un mezzo per essere uniti a lui, non il fine. C’era una giustizia esteriore vista nell’osservanza e nel rimedio a fronte di una trasgressione, ma sarebbe stata inutile senza il riconoscimento dell’unicità di Dio dentro di sé, l’acquisire coscienza del fatto di appartenere al popolo eletto, composto da più individui che, in quanto tali, potevano avere un rapporto unico con Colui che aveva progettato un cammino per ciascuno. Abbiamo letto, per quanto riguarda il Vangelo, di persone considerate giuste: pensiamo a Zaccaria ed Elisabetta, a Giuseppe marito di Maria, a Simeone, Anna, Natanaele ed altri che avevano in comune proprio l’attesa consapevole del Consolatore di Israele, sentimento impossibile da possedere senza un riconoscersi mancanti di un’identità, di avere bisogno di Lui.

Ora, però, quella moltitudine radunata sul monte aveva davanti a lei la Giustizia di Dio vista nel quel Gesù di Nazareth che predicava, l’unico che avrebbe soddisfatto le esigenze di santità del Padre: credendo in Lui, questi avrebbero prodotto una profonda rottura con le credenze sulle quali i giudei che Lo avrebbero rifiutato si sarebbero arroccati. Anni più tardi l’apostolo Paolo scriverà ai romani “Il desiderio del mio cuore e la mia preghiera salgono a Dio per la loro – dei giudei-salvezza. Infatti rendo loro testimonianza che hanno zelo per Dio, ma non secondo una retta conoscenza. Perché, ignorando la giustizia di Dio e cercando di stabilire la propria, non si sono sottomessi alla giustizia di Dio. Ora, il termine della Legge è Cristo, perché la giustizia sia data a chiunque crede”. Gesù sostituiva la Legge ed era Lui stesso giustizia, unico mezzo sicuro per mantenersi in rapporto con Dio, messaggio rivoluzionario divenuto per gli ebrei inaccettabile e infatti i cristiani, come testimonia lo stesso libro degli Atti, saranno perseguitati da loro per primi.

Pensiamo alla giustizia di Dio, alla perfetta conoscenza che ha di ogni essere umano, al fatto che lo vede come realmente è, e poniamo questo dato in relazione all’episodio del paralitico che a Capernaum quattro uomini avevano fatto calare dal tetto della casa in cui si trovava Gesù: alla presenza dei farisei fu detto “Che cosa è più facile, dire al paralitico «I tuoi peccati ti sono perdonati», oppure dirgli «Alzati, prendi il tuo lettino e cammina?» Ma, affinché sappiate il che il Figlio dell’uomo ha sulla terra autorità di perdonare i peccati, io ti dico, disse al paralitico, «Alzati, prendi il tuo lettino e vattene a casa tua»” (Marco 2. 9-11). Se pensiamo che prima di quel miracolo i farisei avevano appena finito di dire “Chi può perdonare i peccati, se non solo Dio?”, non ci vuole molto a riconoscere in Gesù quel Dio che loro affermavano di servire e seguire. Difficilmente potremmo sostenere che il perdono, o la remissione di un peccato, non sia cosa che coinvolga la giustizia di Dio che così decide secondo il suo giudizio insindacabile.

Torniamo però di nuovo ai farisei, che espressero una verità: in un altro episodio, non sapendo cosa rispondere, dichiararono che Gesù scacciava i demoni con l’aiuto di Baal-zebub loro principe, cosa impossibile perché “Ogni regno diviso in parti contrarie sarà ridotto in deserto ed ogni città o casa divisa in parti contrarie non potrà reggere. E se Satana caccia Satana, egli è diviso contro se stesso; come dunque potrà sussistere il suo regno? (…) Ma, se è per l’aiuto dello Spirito di Dio che io caccio i demoni, è dunque pervenuto fino a voi il regno di Dio” (Matteo 12.24-28).

Altra osservazione utile per queste riflessioni la fa Paolo nella sua lettera ai Colossesi, che risentiva dottrinalmente delle influenze del giudaismo legale, e pagane: “Badate che nessuno vi inganni con la sua filosofia e con vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo. È in Cristo che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità e voi avete in lui parte alla sua pienezza, di lui cioè che è il capo di ogni Principato e di ogni Potestà” (2. 8-10). “Tutta la pienezza” tra le quali non possiamo non contare la giustizia e, infatti, è in lui che vengono saziati tutti coloro che sono affamati ed assetati di essa.

In un simile quadro allora, ecco che la giustizia sotto l’ottica di Gesù causerà persecuzione, e sarà caratterizzata dall’ insulto, dalla persecuzione e dalla menzogna, cose che Lui patì prima di tutti gli altri che lo avrebbero seguito credendo nella Sua persona ed opera. L’insultoè un’offesa grave e volontaria ai sentimenti e alla dignità della persona arrecata con parole ingiuriose, con atti di spregio volgare o anche con un contegno intenzionalmente offensivo e umiliante; nel caso di Nostro Signore, lo vediamo soprattutto alla crocifissione, con le percosse alle quali seguiva la frase “Indovina chi ti ha colpito”, con gli sputi e le prese in giro dei capi dei sacerdoti, scribi e anziani “Ha salvato gli altri e non può salvare se stesso”. La persecuzioneallude a un complesso di sistematiche azioni di forza intese a stroncare una persona o un movimento politico o religioso, a ridurre o addirittura ad eliminare una minoranza etnica o sociale. Che Gesù sia stato perseguitato, e con lui i primi cristiani (ma anche oggi nel mondo i cristiani perseguitati sono milioni) credo non sia un mistero per nessuno; però è indicativo che alla persecuzione si sia sempre accompagnata la menzogna, cioè un’affermazione contraria a ciò che si sa o si crede sia vero, o anche contraria a ciò che si pensa, alterazione (o negazione o anche occultamento) consapevole e intenzionale della verità. Ricordiamo ad esempio quanto concordarono i sacerdoti e gli anziani del popolo assieme ai soldati romani che testimoniarono loro di avere visto l’angelo che rotolava la pietra del sepolcro: “…dopo essersi consultati, diedero una buona somma di denaro ai soldati dicendo «Dite così: i suoi discepoli sono venuti di notte e l’hanno rubato, mentre noi dormivamo. E se mai la cosa venisse all’orecchio del governatore, noi lo persuaderemo e vi libereremo da ogni preoccupazione». Quelli presero il denaro e fecero secondo le istruzioni ricevute. Così questo racconto si è divulgato fra i giudei fino ad oggi” (Matteo 28.13-15). Furono quindi sordi al racconto di quegli uomini e anteposero la loro volontà di sopravvivenza assieme alle proprie dottrine evidentemente decadute. Così infatti era avvenuto: “Un angelo del Signore, sceso dal cielo, si avvicinò, rotolò la pietra e si pose a sedere sopra di essa. Il suo aspetto era come folgore e il suo vestito bianco come neve. Per lo spavento che ebbero di lui, le guardie furono scosse e rimasero come morte” (Ibidem, 2-4).

Lo stesso processo a Gesù, che esamineremo a suo tempo, studiato da un punto di vista strettamente legale, presentò una serie infinita di irregolarità alla luce della Legge che il popolo di Israele aveva ricevuto, ma qui ci occuperemo di pochi versi: “I capi dei sacerdoti e tutto il sinedrio cercavano una falsa testimonianza contro Gesù, per metterlo a morte; ma non la trovarono, sebbene si fossero presentati molti falsi testimoni. Finalmente se ne presentarono due, che affermarono «Costui ha dichiarato: posso distruggere il tempio di Dio e ricostruirlo in tre giorni»”(Matteo 26.59-61): si noti la sottigliezza del metodo vista nel fatto che si cercavano falsi testimoni ma, non trovandosene, si trovò il modo di estrapolare una frase che Gesù aveva effettivamente detto riferendosi al suo corpo, per piegarla ai loro scopi.

Questo è stato fatto a Nostro Signore. Per chi avrebbe creduto in Lui, possiamo citare le persecuzioni subite da Pietro, Giovanni, dall’apostolo Paolo e da Stefano, primo martire cristiano che troviamo al capitolo sesto del libro degli Atti che, “Pieno di grazia e di potenza, faceva grandi prodigi e segni fra il popolo. Allora alcuni della sinagoga detta dei Liberti, dei Cirenei, degli Alessandrini e di quelli della Cilicia e dell’Asia, si alzarono a discutere con Stefano, ma non riuscivano a resistere alla sapienza e allo Spirito con cui egli parlava. Allora istigarono alcuni di loro perché dicessero «Lo abbiamo udito pronunciare parole blasfeme contro Mosè e contro Dio». E così sollevarono il popolo e gli scribi gli piombarono addosso, lo catturarono e lo condussero davanti al sinedrio. Presentarono quindi dei falsi testimoni, che dissero «Costui non fa altro che parlare contro questo luogo santo e contro la legge. Lo abbiamo infatti udito dichiarare che Gesù, questo nazareno, distruggerà questo luogo e sovvertirà le usanze che Mosè ci ha tramandato” (Atti 6.8-14).

Ecco la menzogna organizzata, ma ecco anche la beatitudine di Stefano: prima è scritto che “Tutti quelli che sedevano nel sinedrio, fissando gli occhi su di lui, videro il suo volto come quello di un angelo” (v.15), ma poi quello che ha attirato la mia attenzione è stato il modo in cui concluse la sua esistenza terrena, poiché dopo aver esposto le sue ragioni con una predicazione toccante, leggiamo “Ma egli, pieno di Spirito Santo, fissando il cielo, vide la gloria di Dio e Gesù che stava alla destra di Dio e disse «Ecco, contemplo i cieli aperti e il Figlio dell’uomo che sta alla destra di Dio”(Ibidem, 7.15). Fu poi lapidato fuori Gerusalemme, pregando “Signore, non imputare loro questo peccato”.

Credo che la visione di Stefano fu il modo che ebbe Iddio per rincuorarlo e consentirgli di affrontare la morte serenamente e metterlo in condizione di andare oltre il dolore per quelle pietre che lo colpivano. Fu anche l’adempimento pratico delle parole che abbiamo letto, “Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli”, che appunto Stefano intravide. Gesù disse che “I nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa” (Matteo 10.36) alludendo proprio a quella di Israele, persecutrice prima di Roma di fronte ai cui metodi inorridiamo, dimenticando che invece i primi persecutori furono, appunto, quegli ebrei che, a differenza dei pagani superstiziosamente religiosi, avrebbero avuto tutti gli elementi per credere in Gesù Cristo e tutt’ora lo rifiutano.

Per ultima, abbiamo la frase “Così infatti perseguitarono i profeti che furono prima di voi”: pensiamo a Geremia, gettato nella cisterna di Malchia (Geremia 38), o prima di lui Elia, che Gezabele moglie del re Acab voleva uccidere (1 Re 19 e ss.). Ancora Isaia, arrestato e condannato a morte da Manasse secondo una tradizione ebraica, re di Giuda e figlio di Ezechia, oppure Uzia, perseguitato dal re Ioiachim (Geremia 26.21) oltre che Zaccaria, lapidato “nel cortile del Tempio del Signore” (2 Cronache 24.21), episodio  sconcertante: “Dopo la morte di Ioiadà, i comandanti di Giuda andarono a prostrarsi davanti al re, che diede loro ascolto. Costoro trascurarono il tempio del Signore, Dio dei loro padri, per venerare i pali sacri e gli idoli. Per questa loro colpa l’ira di Dio fu su Giuda e su Gerusalemme. Il Signore mandò loro dei profeti perché li facessero tornare a lui. Questi testimoniarono contro di loro, ma non furono ascoltati. Allora lo spirito di Dio investì Zaccaria, figlio del sacerdote Ioiadà, che si alzò in mezzo al popolo e disse «Dice Dio: «Perché trasgredite i comandi del Signore? Per questo non avete successo; poiché avete abbandonato il Signore, anch’egli vi abbandona». Ma congiurarono contro di lui e per ordine del re lo lapidarono nel cortile del tempio del Signore. Il re Ioas non si ricordò del favore fattogli da Ioiadà, padre di Zaccaria, ma ne uccise il figlio, che morendo disse «Il Signore veda e ne chieda conto!” (2 Cronache 24.17-22).

Ci sono poi le parole di quello Stefano che abbiamo citato: “Testardi e incirconcisi nel cuore e nelle orecchie, voi opponete sempre resistenza allo Spirito Santo. Come i vostri padri, acosì siete anche voi. Quale dei profeti i vostri padri non hanno perseguitato? Essi uccisero quelli che preannunciavano la venuta del Giusto, del quale voi ora siete diventati traditori e uccisori, voi che avete ricevuto la Legge mediante ordini dati dagli angeli e non l’avete osservata». All’udire queste cose, erano furibondi in cuor loro e digrignavano i denti contro Stefano” (Atti 7.51-53).

Chiedersi il significato dell’ultima beatitudine per noi è giusto, per quanti sono convinto che Gesù, con le parole sui “perseguitati per causa di giustizia”, si riferisse all’immediatezza di quanto sarebbe avvenuto a quanti lo avessero seguito. Credo che sia l’apostolo Pietro ad aggiornarci quando scrive “Nella misura in cui partecipate alle sofferenze di Cristo, rallegratevi perché anche nella rivelazione della sua gloria possiate rallegrarvi ed esultare. Beati voi, se venite insultati nel nome di Cristo, perché lo Spirito della gloria, che è Spirito di Dio, riposa su di voi. Nessuno di voi abbia a soffrire come omicida o ladro, malfattore o delatore. Ma se uno soffre come cristiano, non se ne vergogni, ma anzi dia gloria a Dio” (1 Pietro 4.13-16), parole indirizzate a tutti quei fratelli o sorelle che, anche in questo tempo definito “civile” in cui viviamo, in molte zone della terra sono attuali e vive. Amen.

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5.08 – LE BEATITUDINI 7: GLI OPERATORI DI PACE (Matteo 5.3-10)

5.8 – Il sermone sul monte : le beatitudini VII (Matteo 5.3-10)

3«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. 4Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. 5Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. 6Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. 7Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. 8Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. 9Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. 10Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli”.

 

BEATI GLI OPERATORI DI PACE

Più che “pacifici” come in alcune traduzione, è corretta quella di “operatori di pace” o “coloro che si adoperano per la pace” nel senso che si impegnano per costituirla. La parola greca, letteralmente è, è “coloro che pongono la pace”, cioè non tanto quelli che sono di indole pacifica, istintivamente contrari alle dispute, ai litigi e alle lotte, ma quegli uomini che compiono sforzi per riconciliare coloro che sono nemici, o per prevenire i dissidi. Si tratta di una beatitudine particolare, raccordabile a quella dei mansueti e dei misericordiosi, che comporta l’essere chiamati “figli di Dio”, cioè avere un riconoscimento. Può sembrare scontato, ma non è così perché l’operatore di pace non è un diplomatico, chi appende alla finestra una bandiera con i colori dell’arcobaleno, chi rifiuta aprioristicamente l’uso delle armi o che pretende di insegnare la pace agli altri come stato d’animo interiore o esteriore, ma chi l’ha trovata in Cristo e per questo ha deposto il contendere, innato in lui, come metodo di espressione. La pace altrimenti è irraggiungibile e ciò può avvenire anche nel cristianesimo quando, più che difendere l’essenza del Vangelo dentro di noi, ci preoccupiamo delle nostre posizioni e coltiviamo l’orgoglio: nel momento in cui la fede diventa un alibi, e quindi è uno degli scopi della carne per apparire o salvaguardare “l’uomo vecchio”, ecco che viene a mancare.

Anche questa beatitudine viene pronunciata da Gesù per il suo uditorio guardando sia il presente, ma soprattutto il futuro: la folla sul monte poteva facilmente ricordarsi di Davide, al quale Iddio non consentì di costruirgli il Tempio, come leggiamo in 1 Cronache 22.7-10: “Davide disse a Salomone: «Figlio mio, io stesso avevo in cuore di costruire una casa al nome dell’Eterno, il mio Dio. Ma la parola dell’Eterno mi fu rivolta dicendo «Tu hai versato molto sangue e hai fatto molte guerre; perciò non costruirai una casa al mio nome, perché hai versato molto sangue sulla terra davanti a me. Ma ecco ti nascerà un figlio che sarà uomo pacifico e io gli darò riposo da parte di tutti i suoi nemici tutt’intorno. Egli si chiamerà Salomone e nei suoi giorni darò pace e tranquillità ad Israele. Egli costruirà una casa al mio nome: egli sarà per me un figlio e io sarò per lui un padre, e renderò stabile il suo trono su Israele per sempre”.

Il brano letto è indubbiamente interessante: Davide fece molte guerre e sparse molto sangue, anche se ciò serviva per la stabilità e la sussistenza di Israele, fu un servitore utile che tuttavia aveva messo in luce un aspetto di Dio in cui non si compiace, preferendo sempre la pace al dar luogo ai suoi giudizi e ricorrendo ad essi solo quando l’uomo lo pone nelle condizioni di non agire altrimenti. È questo un modo sbrigativo per accennare l’argomento, ma affrontando la severità di Dio andremmo fuori tema. Davide non era idoneo alla costruzione del tempio non perché “cattivo”, ma perché l’utilità che aveva avuto sconfiggendo tutti quei popoli descritti nei libri storici si era esaurita e un uomo come lui non poteva edificare un Tempio all’Iddio misericordioso e lento all’ira. Questo naturalmente in estrema sintesi. Per costruire il Tempio ci voleva un uomo come Salomone, appunto dall’ebraico šalôm, pace. E il suo regno ebbe una pace – a parte lievi interruzioni – praticamente continua che portarono ricchezza, prosperità, aumenti nel commercio e costruzioni.

Nella storia di Davide e in quella di suo figlio abbiamo un forte insegnamento sulla natura umana poiché il primo, nonostante la protezione di Dio in tutte le fasi più determinanti della sua vita e un continuo avere di fronte concretamente la sua assistenza, fu adultero e omicida. Anche Salomone, con tutta la sua saggezza divenuta proverbiale e la sua storia edificante, finì in una condizione triste vista in 1 Re 11.1-11: “Il re Salomone amò molte donne straniere, oltre alla figlia del faraone: moabite, edomite, sidònie e ittite, provenienti dai popoli di cui aveva detto il Signore agli israeliti «Non andate da loro ed essi non vengano da voi, perché certo faranno deviare i vostri cuori dietro i loro dèi». Salomone si legò a loro per amore. Aveva 700 principesse per mogli e 300 concubine; le sue donne gli fecero deviare il cuore. Quando Salomone fu vecchio, le sue donne gli fecero deviare il cuore per seguire altri dèi e il suo cuore non restò integro con il Signore, suo Dio, come il cuore di Davide, suo padre. Salomone seguì Astarte, dea di quelli di Sidone, e Milcom, obbrobrio degli ammoniti. Salomone commise il male agli occhi del Signore e non seguì pienamente il Signore come Davide, suo padre. Salomone costruì un’altura per Camos, obbrobrio dei Moabiti, suo monte che è di fronte a Gerusalemme, e anche per Moloc, obbrobrio degli Ammoniti. Allo stesso modo fece per tutte le sue donne straniere che offrivano incenso e sacrifici ai loro dèi. Il Signore, perciò, si sdegnò contro Salomone, perché aveva deviato il suo cuore dal Signore, Dio d’Israele, che gli era apparso due volte e gli aveva comandato di non seguire altri dèi, ma Salomone non osservò quanto gli era stato comandato”.

Un uomo integro, Davide, non poté costruire il Tempio, ma un uomo pacifico e saggio, Salomone, giunse al punto da seguire dèi immaginari e a costruire templi per gli “obbrobri” degli Ammoniti, cioè gli idoli. Se, come scrive l’apostolo Paolo, queste cose sono state scritte per nostro insegnamento, consideriamo ciò che quel re aveva ricevuto: “Dio concesse a Salomone sapienza, una grandissima intelligenza e una mente vasta come la sabbia che è sulla riva del mare. E la sapienza di Salomone superò la sapienza di tutti i figli di Oriente e tutta la sapienza degli Egiziani. Da tutti i popoli veniva gente per udire la sapienza di Salomone, mandati da tutti i re della terra che avevano sentito parlare della sua sapienza” (1 Re 4.29-30,34). Questo re, quindi, è l’esempio più eclatante di chi, permettendo a ciò che è impuro di svilupparsi dentro di lui, finisce per corromperlo. Siamo sempre al solito tema, quello del peccato che raramente fa nell’essere umano una brutale irruzione, ma si presenta sempre come qualcosa di apparentemente trascurabile, di “quasi innocuo”, naturale. Ma che poi presenta il conto quando è troppo tardi e chi si trova a pagarne le conseguenze è proprio chi ha sottovalutato il problema.

Ecco quindi il perché della citazione di Davide, uomo di guerra, e di Salomone, uomo di pace: il primo fu considerato come una persona che seguì Iddio “pienamente” e con il cuore “integro” nonostante il peccato commesso con Uria e sua moglie, il secondo invece fu un uomo a cui molto fu dato, ma diede prova di non saper gestire quanto ricevuto e fu giudicato per questo. Allora va da sé che col termine “operatori di pace” Gesù alluda agli uomini che si adoperano per essa utilizzando uno strumento la cui gestione corretta è possibile solo se guidata dallo Spirito Santo, dato ai figli di Dio che ne hanno la responsabilità.

Della pace, come esseri umani, abbiamo due idee, quella interiore e quella tra gli uomini o i popoli, entrambe irraggiungibili, possibili solo per un certo periodo tempo; basta poco a rompere il loro equilibrio. Il cristiano deve tenere presente sempre che ci sono due ambiti in cui vive, quello terreno e quello spirituale e che è nella misura in cui si dedica all’uno piuttosto che all’altro che realizza l’una o l’altra pace. Un caro fratello raffigurava la vita del credente in una “L” affermando che se la sua base era dominante sull’altezza, questi avrebbe vissuto una vita dominata dalla carne, dalla terra, dal proprio “io”; ecco perché nella preghiera del “Padre Nostro” leggiamo “dacci oggi il nostro pane quotidiano”, meglio tradotto con “necessario”, alludendo sì al cibo per il naturale sostentamento del nostro corpo, ma ancor di più a quello spirituale. Gesù disse “Vi lascio la pace, vi dò la mia pace. Non la dò come il mondo la dà a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbiate timore” (Giovanni 14.27). Chiedersi ogni giorno cosa facciamo della pace che Cristo ci ha lasciato, è importante.

In contrapposizione, a proposito di pace umana, va tenuto presente l’insegnamento di Paolo ai credenti di Tessalonica, la cui Chiesa si riuniva in casa di un certo Giasone. Tra gli interrogativi cui era necessario dare una risposta, vi erano quelli relativi alla destinazione finale di coloro che morivano e sul tempo in cui Gesù Cristo sarebbe ritornato: Paolo scrive “Riguardo poi ai tempi e ai momenti, non avete bisogno che ve lo scriva, perché sapete bene che il giorno del Signore verrà come un ladro di notte. E quando la gente dirà «C’è pace e sicurezza» allora d’improvviso la rovina li colpirà, come le doglie una donna incinta e non potranno sfuggire. Ma voi, fratelli, non siate nelle tenebre, cosicché quel giorno possa sorprendervi come un ladro. Infatti siete tutti figli della luce e figli del giorno; noi non apparteniamo alla notte, né alle tenebre” (1 Tessalonicesi 5.1-4). Pace e sicurezza irraggiungibili, posticci, effimeri su cui l’uomo cerca di costruire lasciando da parte quelle che solo il Cristo risorto può dare.

Chi appartiene a Dio e lo segue, non può che essere un portatore di pace, tanto dentro di sé quanto nei suoi rapporti con gli altri, non può non adoperarsi ad essa tanto più in seno alla Chiesa di cui fa parte perché Cristo stesso è stato un riconciliatore: “È piaciuto infatti a Dio che abiti in lui tutta la pienezza e che per mezzo di lui e in vista di lui siano riconciliate tutte le cose, avendo pacificato con il sangue della sua croce sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli” (Colossesi 1.19, 20).

Chi davvero crede, ha avuto la sua persona lavata e santificata dal sangue di Gesù, deve fare altrettanto: “Chi è tra voi saggio e intelligente? Con la buona condotta mostri che le sue opere sono ispirate a mitezza e sapienza. Ma se avete nel vostro cuore gelosia amara e spirito di contesa, non vantatevi e non dite menzogne contro la verità. Non è questa la sapienza che viene dall’alto: è terrestre, materiale, diabolica; perché dove c’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di cattive azioni. Invece la sapienza che viene dall’alto è pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera. Per coloro che fanno opera di pace viene seminato nella pace un frutto di giustizia” (Giacomo 3.13-18).

Ecco gli operatori di pace: saranno chiamati, riconosciuti da Dio stesso come suoi figli. Amen.

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5.07 – LE BEATITUDINI 6: I PURI DI CUORE (Matteo 5.3-10)

05.07 – Il sermone sul monte : le beatitudini VI (Matteo 5.3-10)

 

3«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. 4Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. 5Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. 6Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. 7Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. 8Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. 9Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. 10Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli”.

BEATI I PURI DI CUORE

E arriviamo al cuore, argomento molto vasto cui anche la letteratura ha dato uno spazio enorme in tutte le epoche: quest’organo, così complesso e fondamentale per la vita non solo degli esseri umani, è stato da sempre visto come la sede dei sentimenti e dei pensieri, mutando i propri battiti in base alle emozioni e non solo allo sforzo fisico. Il cuore, assieme allo stomaco e al fegato, è suscettibile allo stress anche cronico e, se prolungato, può danneggiare in modo grave tutto il sistema cardiovascolare tramite l’ipertensione, a sua volta causa di inconvenienti anche gravi. Nella Bibbia il cuore è visto come l’organo che risponde alle emozioni e che arriva a influenzare fortemente quello che dovrebbe essere teoricamente, asetticamente, un altro ente del tutto autonomo, cioè il cervello dal quale scaturiscono tutti gli impulsi, spesso automatici, per la nostra vita e sopravvivenza. Allora non si sapeva che il cuore possiede dei neuroni che lo abilitano ad agire indipendentemente dal cervello che in alcuni casi, come dimostrano le ricerche del californiano HearthMath Insitute, gli obbedisce.

La conoscenza della fisiologia del muscolo cardiaco, tanto ai tempi del Nuovo che dell’Antico Patto, nonostante allora fosse elementare, aveva individuato comunque delle linee di base valide ancora oggi: pensiamo solo a Proverbi 14.30 “Un cuore calmo è vita per il corpo, ma l’invidia è il tarlo delle ossa”, o a 4.23 “Custodisci il tuo cuore più di ogni altra cosa, perché da esso sgorgano le sorgenti della vita”. Collegato a questo verso, che troviamo in 14.30 possiamo citare 17.22 “Un cuore allegro è una buona medicina, ma uno spirito abbattuto inaridisce le ossa”.

La “cardiologia biblica”, però, al di là di questi esempi e molti altri che si possono trovare in cui il cuore è citato nelle situazioni più disparate, si occupa fondamentalmente di lui come motore delle azioni e delle scelte della persona e la prima volta in cui viene nominato in tal senso la troviamo poco prima del terzo giudizio di Dio sull’uomo mediante il Diluvio: “Ora Iddio vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che tutti i disegni dei pensieri del loro cuore non erano altro che male in ogni tempo” (Genesi 6.5). Era un’umanità che pensava esclusivamente a se stessa, che si preoccupava della propria sopravvivenza materiale cercando di riempire il proprio tempo senza interrogarsi su come affrontare degnamente la propria vita e la propria morte in vista dell’eternità di cui conosceva l’esistenza; leggiamo infatti che “Dio ha fatto ogni cosa bella al suo tempo: egli ha messo la nozione dell’eternità nel loro cuore, senza però che gli uomini possano capire l’opera compiuta da Dio dal principio alla fine” (Ecclesiaste 3,11). Per questo le religioni sono un tentativo umano per sopperire a questo senso innato. Per questo, quando un uomo muore, se non è illuminato dallo Spirito Santo, ha paura.

Il cuore, quindi, caratterizza la vita dell’essere umano ed è visto come sede del vero motore delle scelte che poi effettivamente andrà a compiere perché, attratto dalle emozioni che lo stimolano in positivo, tenderà ad agire e progettare affinché durino il più possibile o si realizzino in futuro. “Cuore” è una parola che nella Scrittura è usata circa mille volte e solo in una parte, il 20 per cento, si allude al muscolo vero e proprio; per il resto la sua applicazione è figurata ed è connessa tanto all’uomo naturale che tutti conosciamo, quello che “non comprende le cose di Dio, perché per lui sono follia, e non è capace di intenderle, perché possono essere giudicate solo per mezzo dello Spirito” (1 Corinzi 2.14), quanto a quello spirituale, tale perché Dio stesso è intervenuto personalmente a renderlo così. Sono realtà tra le quali c’è un baratro, un mondo differente per modo di vita, aspirazioni e prospettive perché nessuno sarebbe mai in grado di essere un “puro di cuore” senza un intervento di Colui che lo ha creato e accolto.

Sotto questo aspetto sono gli scritti dell’Antico Patto a illuminarci per primi, tutta la storia del popolo di Israele che, nonostante l’assistenza continua di Dio dal momento in cui lo chiamò fuori dall’Egitto fino ad arrivare alla venuta di Gesù Cristo, si sviò provando su di sé giudizi anche terribili. Precisazione obbligatoria: se il verso che abbiamo citato molte volte, “Questo popolo mi onora con le labbra, ma suo cuore è lontano da me”, è riferito al popolo eletto, questo non vuol dire che non possa applicarsi anche al cristianesimo quando questo lascia che sia l’abitudine e la ritualità a prevalere sulla coscienza, sul cuore, come recita il proverbio profano “passata la festa, gabbato il santo”; solo perché si crede, non siamo autorizzati a fare qualsiasi cosa perché “tanto siamo salvati” o “tanto Dio ci protegge”. C’è una diffusa opinione in base alla quale ciò che è scritto nell’Antico Patto siano cose passate e non ci riguardino perché viviamo nella dispensazione della grazia, ma non è così: ricordiamoci sempre che Gesù non venne per abolire la Legge, ma per adempierla e che essa è e rimane il metro per misurare il bene e il male.

Nella sua prima lettera ai Corinzi Paolo di Tarso fa una lunga esposizione invitando i cristiani di quella Chiesa a considerare l’esempio di Israele e i suoi errori pagati a caro prezzo, con queste parole: “Ciò avvenne come esempio per noi, perché non desiderassimo cose cattive, come le desiderarono loro. Non diventate idolatri come alcuni di loro, secondo quanto sta scritto: «Il popolo sedette a mangiare e a bere e poi si alzò per divertirsi». Non abbandoniamoci all’impurità come si abbandonarono alcuni di loro e in un solo giorno ne caddero ventitremila. Non mettiamo alla prova il Signore, come lo misero alla prova alcuni di loro e caddero vittime dei serpenti. Non mormorate, come mormorarono alcuni di loro, e caddero vittime dello sterminatore. Tutte queste cose però accaddero a loro come esempio, e sono state scritte per nostro ammonimento, di noi per i quali è arrivata la fine dei tempi. Quindi, chi crede di stare in piedi, stia attento a non cadere” (10.5-11).

Paolo qui si guarda bene dal dichiarare che lo sviarsi per noi è impossibile; certo Gesù ha pagato per i peccati che possiamo sempre commettere nella carne, ma una cosa è camminare uniti a Lui e cadere per un incidente di percorso, altra cosa è desiderare cose cattive nel proprio intimo, cioè non porre freno a ciò che sappiamo essere male, o cadere nell’idolatria, cioè sostituire una persona o uno stile di vita diverso a quello ricevuto o rivelatoci un giorno, mettere Dio alla prova con una condotta che rientri nel comandamento “Non tentare il Signore Iddio tuo”.

Rientrando ora in tema, il cuore è un problema sia a livello di corpo, perché soggetto ad ammalarsi come tutti gli altri organi, sia a livello spirituale e di questo se ne accorsero molti, soprattutto quanto a motore delle azioni, positive o negative: ricordiamo ad esempio Davide che, conscio del proprio peccato e del fatto che da solo non avrebbe mai potuto fare nulla per mutare la propria condizione, scrisse nel Salmo 50: “Pietà di me, o Dio, nel tuo amore: nella tua grande misericordia cancella la mia iniquità. Lavami tutto dalla mia colpa, dal mio peccato rendimi puro. Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo. Non scacciarmi dalla tua presenza e non privarmi del tuo santo spirito. Rendimi la gioia della tua salvezza, sostienimi con uno spirito generoso. Insegnerò ai ribelli le tue vie e i peccatori a te ritorneranno”. Ricordiamoci che quella che abbiamo letto è la preghiera di un re costituito su Israele che non si assolse, ma si prostrò riconoscendo di avere bisogno dell’intervento di Dio nella sua vita per poter sussistere.

Ancora, sono determinanti le parole di Ezechiele che sottolineano l’impossibilità fisica di un rinnovamento umano senza un preciso operare di Dio: “Vi aspergerò di acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre iniquità e da tutti i vostri idoli; vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo le mie leggi e vi farò osservare e mettere in pratica le mie norme” (Ezechiele 36.25-27). Un rinnovamento, dunque, un miracolo.

A questo punto è inevitabile chiedersi se su quell’altopiano in cui Gesù proclamò le beatitudini ci fossero dei puri di cuore. Potremmo azzardare che Nostro Signore, facendo un collegamento estensivo, si rivolgesse a degli israeliti come Natanaele, uomo in cui non c’era “alcuna frode”, ma sbaglieremmo perché la chiave di lettura corretta risiede in due parole, “puri” e “cuore”.

I farisei avevano strutturato rigidamente il concetto di purezza, esasperandolo e vedendolo come l’osservanza di una serie di precetti, per non contaminarsi, che prendevano dalla Legge trasmessa al popolo da Mosè. In questo caso Gesù fa riferimento alla purezza levitica esteriore ottenuta mediante l’abluzione rituale, che vedeva in quel caso l’uomo “puro” se applicava alcune norme di comportamento. Leggiamo in proposito Marco 7.14,15: “Chiamata di nuovo la folla, diceva loro «Ascoltatemi tutti e comprendete bene! Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro, ma sono le cose che escono dall’uomo che lo rendono impuro”. Ora, dopo queste parole, fu interrogato dai discepoli che non avevano capito. Disse loro “«Così neanche voi siete capaci di comprendere? Non capite che tutto ciò che entra nell’uomo dal di fuori non può renderlo impuro, perché non gli entra nel cuore, ma nel ventre e va nella fogna?». Così rendeva puri tutti gli alimenti. E diceva: «Ciò che esce dall’uomo è ciò che lo rende impuro. Dal di dentro, infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultéri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono l’uomo impuro»” (Marco 7. 18-23).

E vediamo allora che il cuore ritorna, e vediamo che Gesù elenca ciò che sono le vere impurità che contaminano la sua creatura e da dove provengono. Ecco quindi che essere “puri” legalmente è una cosa, esserlo “di cuore” è un’altra. “Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio”, espressione che nel linguaggio dell’Antico Patto si riferiva ai membri della corte, quelli che vedevano la faccia del re. “Vedranno Dio” è poi un’espressione che si rifà alle parole che Lui stesso disse a Mosè che gli chiedeva di vedere il Suo volto: “L’uomo non può vedermi e vivere”.

Saranno quindi i puri di cuore a vedere Dio, cioè tutti coloro che rientreranno nella categoria descritta in 1 Corinzi 6-9,11: “Non sapete che gli ingiusti non erediteranno il regno di Dio? Non illudetevi: né immorali, né idolatri, né adulteri, né depravati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né calunniatori, né rapinatori erediteranno il regno di Dio. E tali eravate alcuni di voi! Ma siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio”.

Una degna conclusione di questa beatitudine possono essere le parole di Giovanni nella sua prima lettera: “Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando Egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come Egli è” (3.2). Amen.

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5.06 – LE BEATITUDINI 5: I MISERICORDIOSI (Matteo 5.3-10)

5.6 – Il sermone sul monte : le beatitudini V (Matteo 5.3-10)

3«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. 4Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. 5Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. 6Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. 7Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. 8Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. 9Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. 10Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli”.

BEATI I MISERICORDIOSI

Altra beatitudine, terza per la condizione dello spirito e quinta in ordine cronologico. L’aggettivo si riferisce a chi prova un sentimento di compassione per l’infelicità altrui che spinge ad agire per alleviarla, ma anche alla pietà che muove a soccorrere, a perdonare, a desistere dal punire. Il misericordioso è colui che antepone l’altro a se stesso nel senso che partecipa alle sue sofferenze, vede le condizioni in cui versa il suo prossimo e si preoccupa di lenirle, di comprendere; in poche parole, è una persona caritatevole nel senso spirituale del termine. La misericordia, del resto, è la prima azione con la quale Iddio si caratterizzò dopo la trasgressione e il conseguente giudizio dei nostri progenitori in Eden, poiché leggiamo “Poi l’Eterno Dio fece ad Adamo e sua moglie delle tuniche di pelle, e li vestì” (Genesi 3.21): solo con quelle tuniche e non con le foglie di fico con le quali i nostri progenitori avevano cercato di coprirsi sarebbero stati in grado di affrontare la vita nuova che li attendeva al di là di quel giardino protetto da qualsiasi contaminazione. Dio non inferì, non chiuse i rapporti con la sua creatura, ma si preoccupò di fornirle un abito che potesse proteggerlo nel nuovo mondo in cui andava ad abitare. Inoltre, continuò a comunicare con loro nonostante il peccato, per quanto non come prima, come deduciamo dal fatto che dimostrava di gradivre le offerte di Abele e non quelle di Caino.

La dichiarazione della beatitudine per i mansueti era ed è però rivolta a uomini particolari che anteponevano la misericordia al sacrificio. Guardiamo brevemente le queste parole: “Seminate per voi secondo giustizia e mietete secondo misericordia; dissodatevi un campo nuovo, perché è tempo di cercare il Signore finché Egli venga e diffonda su di voi la giustizia” (…) “Preparate le parole da dire, tornate al Signore e ditegli «Togli ogni iniquità. Accetta ciò che è bene: non offerta di tori immolati, ma la lode dalle nostre labbra»” (Osea 10.12; 14.3). Tanto le parole di Osea che quelle di Gesù erano rivolte a uomini che vivevano ancora l’Antico Patto, ma vediamo espressi dei concetti molto importanti e che si raccordano tra loro: il popolo viene esortato a seminare “secondo giustizia”, cioè mettere le basi per una condotta nuova che non cercasse più la facilità dello sviare dal cammino preparato per loro e mietere “secondo misericordia”, cioè con la disposizione d’animo dell’umile che ringrazia per l’esaudimento e non quella dell’orgoglioso perché “ha fatto un buon lavoro” e raccoglie il frutto delle sue fatiche perché se lo merita. È l’orgoglio che pretende, non l’umiltà.

C’è poi l’invito a dissodarsi “un campo nuovo”, cioè se stessi, la propria anima paragonata a un campo – vedi la parabola dei terreni, da quello arido a quello che porta frutto – che va dissodato. Se un terreno va dissodato è segno che non è mai stato interessato da un uso agricolo oppure è rimasto incolto per molti anni. Dissodare un terreno è un’azione che passa attraverso varie fasi: prima va ripulito disboscandolo e decespugliandolo – attività faticosa – e poi bisogna rompere la compattezza del suolo anche in profondità per metterlo in condizione di fare attecchire le nuove coltivazioni. Questo tipo di lavoro è necessario “perché è tempo di cercare il Signore finché Egli venga e diffonda su di voi la giustizia”, cioè quella vera, quella che non si ha per natura. Il secondo verso poi, con le parole “Preparate le parole da dire” non vuole consigliare l’ipocrita costruzione di un discorso da fare, ma un esame sincero della propria coscienza, delle cose dette e non dette, fatte e non fatte, è un consiglio perché “tornate al Signore” è l’unica possibilità che gli uomini hanno per poter sussistere come persone, come esseri bisognosi di una dignità che altrimenti non potrebbe concretarsi.

La preghiera è “Togli ogni iniquità”: solo Lui lo può fare, agire, togliere. E in quell’ ”ogni” c’è tutto il nostro limite perché spesso non vediamo il nostro peccato, come quello commesso per ignoranza. Ricordiamo le parole della Legge: “Se uno pecca e, senza rendersene conto, commette qualunque cosa che l’Eterno Dio ha vietato di fare, è ugualmente colpevole e ne porta la pena” (Levitico 5.17).

Ecco allora che non gli uomini di allora, non noi, siamo quelli che ci possiamo l’autoassolvere: questo è impensabile, la colpa resta e ce la si porta dietro a meno che Dio stesso intervenga per toglierla. E “Ogni iniquità” si riferisce proprio alla Sua misericordia e onnipotenza. Infine la preghiera dell’accettare “ciò che è bene” esclude la formalità del sacrificio, ma richiede la lode delle labbra come frutto di un cuore rinnovato. Conosciamo il detto “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me”che Gesù disse un giorno,manon si pensa che il verso che cita prosegue con“…e il timore che ha di me non è altro che un comandamento imparato dagli uomini” (Isaia 29.13): non è altro che un comandamento, quindi una tradizione, un’abitudine che va avanti per forza di inerzia, qualcosa di accettato passivamente, perché così si deve fare, ma la cui ragione non è stata assimilata. Se nei radunamenti delle varie Chiese cristiane se pensasse a questo verso, forse sorgerebbero degli interrogativi sui motivi della presenza in esse. L’abitudine porta alla disgregazione del proprio essere, in tutti i campi. Non può esserci avvicinamento dell’uomo a Dio senza una demolizione dei preconcetti e dei metodi che ne hanno contrassegnato l’esistenza.

Abbiamo citato poco fa Abele e Caino; guardiamo le parole che Dio rivolse al futuro fratricida: “Perché tu sei irritato e il tuo volto è abbattuto? Se fai bene, non sarai tu accettato? Ma se fai il male, il peccato sta spiandoti alla porta e i suoi desideri sono rivolti a te. Ma tu, devi dominarlo” (Genesi 4.6,7). Ecco, Caino era stato invitato con una semplicità e una verità disarmanti, a esaminare ciò che gli impediva di essere come Abele. Gli sarebbe bastato poco per cambiare, ma non volle.

Dissodarsi un campo nuovo, quindi, vuol dire distruggere tutto ciò che abbiamo di inutile, che non serve, che non possiamo portare con noi quando verremo chiamati attraverso la morte o quella trasformazione vista nel “batter d’occhio” di cui si parla in 1 Corinti 15.52. E in questo lavoro non saremmo mai lasciati soli.

Per dissodare un campo, nello specifico noi stessi, ci vuole tempo, bisogna capire profondamente le ragioni e la necessità di farlo, si tratta di agire nel proprio interesse perché “Il misericordioso fa bene a se stesso, ma il crudele tormenta la sua stessa carne” (Proverbi 11.17). Tutto ritorna indietro, tutto viene messo in conto di giustizia o di condanna a tal punto che “Chi ha pietà del povero presta all’Eterno, che gli contraccambierà ciò che egli ha dato” (Proverbi 19.17) ed ecco perché Gesù disse “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, lo avete fatto a me” (Matteo 25.31). Tanto nel bene quanto nel male, attenzione! La sintesi assoluta del discorso giunge poi con l’imperativo “Siate misericordiosi come misericordioso è il Padre vostro”, parole riportate in Luca 6.36 nella sua versione dello stesso sermone sul monte.

A questo punto, dopo aver dato una panoramica generale che credo possa portare a diverse riflessioni personali, scendiamo un po’ più sul concreto, sul concetto già espresso nell’introduzione alle beatitudini che rappresentano il contrario di quello che il mondo spesso ritiene, tendendo ad ammirare chi ha costruito imperi versando sangue innocente e dolore in ogni epoca. Possiamo dire che, nelle beatitudini dichiarate da Gesù ci siano gli esatti contrari di quelle sataniche e che con la frase “…perché troveranno misericordia” viene anticipato ciò che il misericordioso troverà un giorno quando si troverà di fronte a Lui. E qui si apre un mondo di possibilità e di riferimenti tanto per il Suo uditorio di allora quanto per quello di oggi: i misericordiosi la troveranno perché “Se voi perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi; ma se non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe” (Matteo 6.14,15). Un perdono che non si può generalizzare, ma che può venire solo di fronte al pentimento della persona che ha offeso con parole o atti. “State attenti a voi stessi! Se un tuo fratello pecca, rimproveralo, ma se si pente, perdonagli. E se pecca sette volte al giorno contro di te e sette volte ti dice «Mi pento», tu gli perdonerai”  (Luca 17.3,4).

C’è un confine tra la misericordia e la debolezza esattamente come l’essere mite o mansueto: sono caratteristiche, qualità, che non possono essere a senso unico, che non possono manifestarsi, contrassegnare l’individuo “a prescindere” perché altrimenti Dio stesso, che misericordioso lo è, non potrebbe essere il Giudice perfetto, che per l’ebraico è sia l’amministrazione del giudizio obiettivo e imparziale, ma include anche il provvedere a, difendere e punire. In altri termini, la misericordia non può venire data sempre e comunque, ma richiede il pentimento perché si possa innescare.

Parole illuminanti sulla differenza tra uomini e uomini le troviamo in due episodi nei Vangeli; le prime sono riferite a quanti seguivano Gesù: “Sceso dalla barca, vide una grande folla ed ebbe compassione di loro perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise ad insegnare loro molte cose” (Marco 6.34). Erano lì, non sapevano e non avevano nulla al di fuori della loro ignoranza. Bisognosi di tutto, di sapere, di conoscere, di avere un’identità, chi li guidasse perché la pecora, senza un pastore che la guidi e se ne prenda cura, è inevitabile che vada nel pericolo. Ma erano disposti ad ascoltarlo. Per gli scribi i farisei e il popolo a lui contrario disse però “Serpenti, razza di vipere, come potrete sfuggire alla condanna della Geènna? Perciò ecco, io mando a voi profeti, sapienti e scribi: di questi, alcuni li ucciderete e crocifiggerete, altri li flagellerete nelle vostre sinagoghe e li perseguiterete di città in città;perché ricada su di voi tutto il sangue innocente versato sulla terra, dal sangue di Abele il giusto fino al sangue di Zaccaria, figlio di Barachia, che avete ucciso tra il santuario e l’altare. In verità io vi dico: tutte queste cose ricadranno su questa generazione”.(Matteo 23.33-36).

Dio, pur volendo che tutti gli uomini siano salvati, non si rivela a tutti, ma a un tipo di persone di indole – non di merito – precisa: “Con l’uomo buono tu sei buono, con l’uomo integro tu sei integro, con l’uomo puro tu sei puro e dal perverso non ti fai ingannare” (2 Samuele 22.26,27) e “il giudizio sarà senza misericordia contro chi non avrà avuto misericordia” (Giacomo 2.13). Perché? Perché chi è privo di pietà prende posizioni opposte a quelle del Creatore che si è rivelato come misericordioso attraverso i secoli a tal punto da dare il Figlio Unigenito “affinché chiunque creda in lui non perisca, ma abbia vita eterna”.

I requisiti della quinta beatitudine si possono acquisire poi non con la pratica, cioè con lo sforzo, ma con l’acquisizione e la sperimentazione di quanto Dio ha fatto e fa con noi, con il confronto personale con Lui, chiamati come siamo a non guardare gli errori degli altri, ma i nostri prima di tutto, come rileviamo dall’insegnamento della pagliuzza e della trave nell’occhio. Chi guarda agli errori e ai peccati altrui, è persona che spesso ha paura di esaminare i propri, si rifugia spesso nell’integralismo, figlio prediletto dell’ignoranza, e tende a prendere posizioni estreme che altro non possono fare se non generare contese e risentimento. Così scrive l’apostolo Paolo agli Efesi: ““Sia rimossa da voi ogni amarezza, ira, cruccio, tumulto e maldicenza con ogni malizia. Siate invece benigni e misericordiosi gli uni verso gli altri, perdonandovi a vicenda, come anche Dio vi ha perdonato in Cristo” (4.32).

Abbiamo citato l’apostolo Paolo: l’intervento di Dio verso di lui fu a dir poco sorprendente perché era un persecutore della Chiesa ed era consenziente alla lapidazione di Stefano e quindi, se lo possiamo definire versato nella Legge (era fariseo), certo qualificarlo come misericordioso è quanto meno azzardato. Eppure fu chiamato direttamente in visione da Gesù e più volte nelle sue lettere parla del suo passato riconoscendo i propri errori. In 1 Timoteo 1.12-17 leggiamo la sua esperienza di uomo trasformato dall’amore di Cristo: “Rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me,che prima ero un bestemmiatore, un persecutoree un violento. Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo per ignoranza, lontano dalla fede, e così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù. Questa parola è degna di fede e di essere accolta da tutti: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io. Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Cristo Gesù ha voluto in me, per primo, dimostrare tutta quanta la sua magnanimità, e io fossi di esempio a quelli che avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna. Al Re dei secoli, incorruttibile, invisibile e unico Dio, onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen”.

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5.05 – LE BEATITUDINI 4: FAME E SETE DI GIUSTIZIA (Matteo 5.3-10)

5.5 – Il sermone sul monte : le beatitudini IV (Matteo 5.3-10)

3«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. 4Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. 5Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. 6Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. 7Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. 8Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. 9Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. 10Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli”.

BEATI QUELLI CHE HANNO FAME E SETE DELLA GIUSTIZIA

Condizione che denota l’impossibilità di sfamarsi e dissetarsi nonostante se ne avvertano i sintomi. Chi ha fame e sete cerca di soddisfare questo bisogno primario cercandolo ovunque possa, ma se permane in questa condizione vuol dire che ciò che ha eventualmente assunto ha fallito il suo scopo, non ha risolto il suo problema e cerca di sfamarsi e dissetarsi a sazieà. Questa applicazione è però più adatta alla nostra visione che a quella dell’uditorio di Gesù, che poneva il riferimento, come già avvenuto nelle sue precedenti enunciazioni, a passi che erano, o potevano essere, noti, primo fra tutti il Salmo 89.14 che recita “Giustizia e diritto formano la base del tuo trono, benignità e verità vanno davanti al tuo volto” e la conseguente supplica di Davide, conscio di essere in difetto: “Vivificami nella tua giustizia” (Salmo 112.40), parola che nella Scrittura indica la giustificazione davanti a Dio e la santità della vita vista nel perfetta conformità al Suo volere.

Credo che in questa fame e in questa sete si riassuma tutto il vissuto di quanti tra il popolo di Israele attendevano l’Unto del Signore di cui Isaia scrisse “La giustizia sarà fascia delle sue reni e la fedeltà la cintura dei suoi fianchi” (11.5) perché consci non solo si non averne, ma che neppure essa poteva trovarsi sulla terra, altro grande tema compreso in questa beatitudine. Davide scriveva “La mia anima è assetata di Dio, del Dio vivente” (Salmo 42.2), quindi non di un dio qualunque inventato o presunto: si tratta di quel Dio vivente, Unico e vero che legge nel cuore umano che chiama anche attraverso una fame e sete così particolare che non tutti provano. Essere “affamati e assetati di giustizia” significa escludere la propria, così facile e immediata, soprattutto così su misura per l’uomo naturale, sempre pronto a giudicare e condannare il proprio simile non pensando, non sapendo e spesso volutamente ignorando di compiere le stesse cose di chi condanna.

E ancora una volta qui si aprono due mondi, quello terreno e quello spirituale che proprio nell’uomo affamato e assetato di giustizia trovano il loro punto di incontro, una base, una possibilità, vista prima di tutto nel credere in Lui. Andiamo alle origini, in Genesi 15 che contiene un passo che tutti i lettori della Bibbia conoscono per essere stato citato dall’apostolo Paolo nella sua lettera ai Romani a proposito della giustificazione per fede. Troviamo Abamo a colloquio con Dio, in uno dei tanti avuti con Lui in cui già aveva avuto modo di illustrargli il Suo progetto anche sulla sua discendenza. “…la parola dell’Eterno fu rivolta in visione ad Abramo, dicendo: «Non temere, Abramo, io sono il tuo scudo e la tua ricompensa sarà grandissima». Ma Abramo disse «Signore, Eterno, che mi darai, perché io sono senza figli e l’erede della mia casa è Eliezer di Damasco? (…) Tu non mi hai dato alcuna discendenza; ora ecco, uno nato in casa mia sarà mio erede». Allora la parola dell’Eterno gli fu rivolta, dicendo «Questi non sarà tuo erede, ma colui che uscirà dalle tue viscere sarà tuo erede». Poi lo condusse fuori e gli disse «Guarda il cielo e conta le stelle, se le puoi contare» quindi aggiunse «Così sarà la tua discendenza». Ed egli credette a Dio, che glielo mise in conto di giustizia” (Genesi 15.1,6).

Ebbene, il “credere” di Abramo gli fu messo “in conto di giustizia” non solo perché aveva fatto sua la promessa fattagli in quel momento, ma soprattutto perché non dubitò nonostante gli anni che aveva, che erano 86 (Genesi 16.16), in cui avere figli è impossibile. “Credere a Dio” in questo caso è riconoscerlo come tale, tacere nel momento in cui Lui parla, non porre barriere, non rispondere con un “ma” alle Sue parole. Abramo sapeva che, come disse Gesù, “Ciò che è impossibile per gli uomini, è possibile per Dio”. Il credere di Abramo indicava una mente e un cuore a Lui rivolto indipendentemente dalla condizione di peccatore, quindi di inferiorità assoluta, in cui si trovava. Dobbiamo infatti sottolineare che il testo di Genesi nulla ci dice di quello che fece tra i suoi 86 e i 99 anni, età che aveva quando “…l’Eterno gli apparve e gli disse «Io sono il Dio onnipotente, cammina alla mia presenza e sii integro; e io stabilirò il mio patto fra me e te, e ti moltiplicherò grandemente»” (17.1,2), ben 13 anni dopo. E 13 anni di silenzio sono umanamente tanti. Abramo esteriormente era una persona come molte, eppure fu eletto, chiamato da Dio che lo scelse. Guardando alla storia di quest’uomo, vediamo che il suo nome compare alla fine dell’elenco della discendenza di Sem e poi a un certo punto Dio irrompe nella sua vita, quando aveva 75 anni, con una chiamata: “Vattene dal tuo paese, dal tuo parentado e dalla casa di tuo padre nel paese che io ti mostrerò, e io farò di te una grande nazione e ti benedirò grandemente e renderò grande il tuo nome e tu sarai una benedizione” (12.1). Abramo avrebbe potuto benissimo rimanere dov’era, rispondere “No, grazie” perché non credo non si trovasse a suo agio circondato dai parenti con cui i legami, nella realtà tribale di allora, erano molto stretti. Eppure se ne andò, lasciò il suo ambiente, ritenendo le benedizioni che gli venivano promesse migliori.

Ora, sappiamo che fu il “credere” e il conseguente agire che gli fece avere l’accreditamento in giustizia di cui abbiamo letto. Fu una scelta naturale così come altrettanto naturale, conseguente, fu il modo con cui Iddio lo considerò, cioè “giusto” nonostante i suoi errori anteriori e posteriori, che troviamo documentati in Genesi. Abramo fu una delle persone descritte in Salmo 25.9 “Buono e retto è il Signore: indica ai peccatori la via giusta, guida i mansueti secondo giustizia, insegna agli umili la sua via”, là dove i peccatori sono tutti gli uomini senza distinzione. Basta solo che questa via essi la vogliano riconoscere e seguire per rimediare alla condizione che, in quanto tali, non avrebbero mai modo di modificare. Ai peccatori indica la via giusta, la sola che li possa salvare, in alternativa alle tante che possono percorrere sospinti dalla loro natura. Chi è peccatore non sa dove andare, fa percorsi a caso in base ai propri sensi che lo dominano al momento e cambia strada nell’attimo stesso in cui questi mutano. Non compie scelte libere perché nessuna delle direzioni che prende è dominata dalla ragione, ma dal suo sentire momentaneo.

Eppure, se la destinazione finale è l’eternità, la via, la verità e la vita non possono che essere una sola. I mansueti, i docili al suo volere, vengono guidati secondo giustizia perché tutti i sentieri di Dio lo sono. E agli umili, tradotti anche “poveri” con evidente richiamo a quelli di spirito, insegna la Sua via: “insegnare” significa etimologicamente “mettere segni nella mente”, dal latino “in-signare”, cioè “mettere un segno dentro” e, da vocabolario, “In genere, colui che insegna fa sì, con le parole, con spiegazioni, o anche solo con l’esempio, che qualcun altro acquisti una o più cognizioni, un’esperienza, un’abitudine, la capacità di compiere un’operazione o apprenda modo di fare un lavoro”.

Ogni essere umano sa fare qualcosa per averlo appreso da qualcun altro, ma nessuno è in grado per natura di conoscere le cose di Dio, salvo che Lui glielo insegni, gli imprima nella mente se non altro i fondamenti di cosa voglia dire camminare secondo la Sua volontà. Il resto viene col tempo.

Ecco, credo che su questi principi si basi la fame e la sete della giustizia, che per la moltitudine che ascoltava Gesù si riferiva a un concetto preciso, così diverso da quello degli scribi e dei farisei che ritenevano di possederla già per i loro meriti di studio e abnegazione alla legge formale che si erano costruiti: “Se la vostra giustizia non supera quella degli scribi e dei farisei, voi non entrerete affatto nel regno dei cieli” (Matteo 5.20). La folla che era lì, che penso fosse composta da molti che cercavano nel Cristo la fonte della giustizia o volevano anche solo sentirlo parlare, viene così messa in condizione, nello stesso frangente, di valutare da sola cosa cercasse, domanda che fu la prima rivolta a Giovanni e Andrea: “Cosa cercate?”.

Ci vuole quindi fame e sete di giustizia per rivolgersi a Gesù, sapendo che in lui e in nessun altro la si può trovare. Abbiamo letto nel Salmo 25 che “il Signore indica ai peccatori la via giusta, guida i mansueti secondo giustizia, insegna agli umili la sua via”, azioni al presente ma che denotano continuità nel tempo perché la giustizia di cui si ha fame e sete comprende un percorso visto prima di tutto nella giustificazione davanti a Dio, poi nel condurre una vita santa nonostante la nostra imperfezione e le cadute purtroppo inevitabili. E qui è automatico inserire il verso di Paolo che dice “Giustificati dunque per fede, abbiamo pace con Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore” (Romani 5.1). Pace con Dio significa non essere più visti da Lui come ostili ed estranee per cui, altro verso molto conosciuto, “Voi non siete più stranieri né ospiti, ma concittadini dei santi, e membri della famiglia di Dio, edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti, e avendo come pietra angolare lo stesso Cristo Gesù” (Efesi 2.19,20).

È questo un aspetto dell’essere saziati, che raggiungerà la sua pienezza con la cittadinanza eterna, che già abbiamo, del Regno che sarà instaurato nella nuova terra. Vediamo però il verso di Efesi: “Non siete più stranieri né ospiti”. C’è un presente, non un futuro. Poi, una condizione che è cessata, quella di essere “straniero o ospite”, termini che suggeriscono una temporaneità: lo straniero è chi non appartiene al Paese in cui vive perché a lui estraneo per cultura e origine; l’ospite poi è qualcuno con cui si condivide un periodo “da” ”a” e poi tutto torna come prima. L’ospite è colui che condivide con noi, nella nostra casa o a tavola, un tempo limitato perché destinato a scadere. “Voi non siete più” è qualcosa riferito al passato, come dire “una volta eravate stranieri e ospiti”. Una volta, adesso no. Dimenticate quello che eravate perché questo non conta più, oggi siete persone diverse.

Se hai creduto in Gesù Cristo, se Dio ti ha giustificato per fede, non sei più né uno straniero né un ospite, ma un concittadino dei Santi e un membro della famiglia di Dio, concetto sconosciuto nell’Antico Patto, ma dichiarato nel Nuovo perché Gesù è chiamato “il primogenito fra molti fratelli” (Romani 8.29): è la trasformazione operata dalla Grazia. Io che credo, tu che credi, sono e siamo fratelli di Gesù, cioè apparteniamo alla stessa famiglia e a Lui abbiamo la possibilità di rivolgerci per ogni cosa. “Concittadini dei santi”, cioè di quelli che popolano e popoleranno la “Santa città”, la Gerusalemme che ha da venire, quella nuova, e “membri della famiglia di Dio”, condizione possibile tramite il sublime, perfetto sacrificio del Figlio. Sono prospettive nuove per un peccatore che, se perdonato, ha trovato pace con Dio, cioè ha visto rimuovere la sua condizione di peccato che prima impediva un rapporto con Lui. A volte il cristiano può dimenticarsi di questa comunione che si è venuta a creare, se in essa non si nutre, se ad essa non pensa, se perde di vista la sua cittadinanza vera, se dimentica che, visto il verso che abbiamo letto, ha una carta di identità con su scritto il proprio nome e cognome che lo qualifica come individuo. Può accadere che ci si dimentichi di quanto siamo costati, la morte di quel “Figlio” che è morto e risorto per noi, di essere una persona, un individuo unico e irripetibile per il quale Cristo stesso ha dato la sua vita per salvarlo.

Il credente ha una identità e una dignità che gli altri, quelli che vivono il mondo e per il mondo, non hanno e non possono avere, è radicato su un fondamento che è quello che hanno posto gli apostoli e che ha Cristo come pietra angolare cioè quella che sostiene tutta la costruzione, il corpo, la Chiesa vera che gli apostoli hanno fondato a prezzo di sofferenze e fatiche; alcuni di loro hanno affrontato il martirio non tanto per essere di esempio, ma in quanto non potevano rinnegare quello che avevano ricevuto come elezione, mandato, salvezza, amore.

Poi c’è la promessa, “saranno saziati”: come? Questo avviene sia sulla terra, al presente, che in cielo, in futuro, per la caparra dello Spirito Santo che ci è stato dato, quello che ora attenua la fame e la sete e che in futuro sazierà pienamente. E vengono in mente le parole di Gesù alla donna samaritana: “Chiunque bene di quest’acqua avrà di nuovo sete, ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno”. Amen.

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5.04 – LE BEATITUDINI 3: I MITI (Matteo 5.3-10)

5.4 – Il sermone sul monte : le beatitudini III (Matteo 5.3-10)

3«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. 4Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. 5Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. 6Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. 7Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. 8Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. 9Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. 10Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli”.

BEATI I MITI

Terza beatitudine cronologica, seconda riferita al futuro dopo gli afflitti, dove i “miti” sono tradotti anche con “mansueti”. Il termine è riferito a persone che hanno un carattere dolce e umano, disposto alla pazienza e all’indulgenza, che si comportano con umanità e clemenza, senza severità, durezza o aggressività. Il suo contrario è l’essere impaziente, inesorabile, intransigente, aggressivo, violento, eccessivo.

Nella Scrittura gli esempi che vengono spontanei sono due: Mosè, di cui in Numeri 12.3 è detto che “…era un uomo molto mansueto, più di qualunque altro sulla terra”, e Gesù, che dà di sé questa definizione: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò riposo. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mansueto ed umile di cuore, e darò riposo alle anime vostre” (Matteo 11.28,29). Sempre Matteo connette l’episodio in cui Gesù fece in suo ingresso in Gerusalemme seduto su un’asina allo scritto di Zaccaria 9.9 in cui si legge “Ecco, a te viene il tuo Re. Egli è giusto e vittorioso, mansueto, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina” e quando l’apostolo Paolo dovette trattare il tema dei requisiti del vescovo di una Chiesa, cioè chi ne è responsabile – non può non venire in mente l’Angelo delle sette chiese dell’Apocalisse – ebbe a dire “Ora questa parola è sicura: se uno desidera l’ufficio di vescovo, desidera un buon lavoro. Bisogna dunque che il vescovo sia irreprensibile, marito di una sola moglie, sobrio, assennato, prudente, ospitale, atto ad insegnare, non dedito al vino, non violento, non avaro, ma sia mite, non litigioso, non amante del denaro” (1 Timoteo 3.1-3).

Va detto, dai passi citati, che il mansueto, il mite, è tale per indole ma rappresenta solo una parte della personalità e se fosse presente come caratteristica esclusiva, farebbe dell’individuo una persona debole e priva di possibilità di reazione o difesa. Mosè abbiamo letto che era l’uomo più mansueto di chiunque altro, eppure uccise un egiziano che colpiva un ebreo, evidentemente perché non aveva altro modo per farlo smettere e quelle percosse ne avrebbero causato la morte (Esodo 2.11,12). Va ricordato che tra ebrei ed egiziani c’era un rapporto schiavo – padrone e da parte dei primi non c’era alcuna possibilità di reagire pena punizioni ancora più dure. Per questo, dopo averlo ucciso ed evitare conseguenze, Mosè seppellì quell’uomo nella sabbia. Gesù era mansueto ed umile, ma non si lasciava intimidire dagli Scribi e dai Farisei che lo attaccavano, e cacciò i mercanti dal Tempio anche se non a frustate come molti sostengono. Anche il Suo ingresso in Gerusalemme non avvenne a cavallo, animale possente e sempre associato alla guerra, ai re o principi potenti e gonfi d’orgoglio, ma su un asino, la cavalcatura dei profeti, animale forte, paziente, controllato, mite e socievole. La mansuetudine è pazienza nel sopportare, ma non è cessione dei diritti o vigliaccheria come purtroppo viene scambiata nel mondo che divide le persone nelle categorie di chi subisce o fa subire, ammirando spesso i secondi.

L’apostolo Paolo scrive in Efesi 4.25,26 “Perciò, messa da parte la menzogna, ciascuno dica la verità al suo prossimo, perché siamo membra gli uni degli altri. Adiratevi e non peccate perché il sole non tramonti sopra il vostro cruccio. E non date spazio al diavolo” e nello stesso sermone sul monte, nel passo tradotto “Chiunque si adira contro il suo fratello sarà sottoposto al giudizio” (Matteo 5.22), molti preferiscono ignorare quei manoscritti che specificano “senza ragione”, travisando in questo modo la vera essenza della mansuetudine che non può essere l’unica caratteristica della persona “beata”. È la prevenzione e il controllo di sé che è raccomandato, ma ciò non toglie che vi siano occasioni in cui questa possa avere luogo: “Adiratevi e non peccate”, cioè non eccedete, non comportatevi in modo tale da infierire vendicandovi perché nessun sentimento che possa portare a una condizione di ostilità nei confronti del prossimo può essere coltivato. Già nei tempi antichi era raccomandato “Non ti associare a un collerico e non praticare un uomo iracondo, per non abituarti alle sue maniere e procurarti una trappola per la tua vita” (Proverbi 22.24,25). Anche qui la traduzione, che ho scelto perché più scorrevole in italiano, non rispecchia fedelmente il testo che riporta “…e procurarti un laccio per la tua anima” cioè qualcosa di fortemente penalizzante: il laccio è qualcosa che lega, intrappola, impedisce i movimenti, tiene fermo chi ne viene intrappolato, vincola a un luogo, in questo caso dell’anima. Già la cosiddetta saggezza popolare che ha coniato l’adagio “chi va con lo zoppo impara a zoppicare” aveva capito che una persona normale potesse venire deviata dagli usi altrui e non per nulla il popolo di Israele, entrato in Canaan, non poteva stringere alleanze con gli altri popoli, anzi: “Quando il Signore Iddio tuo ti avrà introdotto nel paese che vai a prendere in possesso e ne avrà scacciate davanti a te molte nazioni,(…)sette nazioni più grandi e più potenti di te, quando il Signore tuo Dio le avrà messe in tuo potere e tu le avrai sconfitte, tu le voterai allo sterminio, non farai con esse alleanza né farai loro grazia. Non ti imparenterai con loro, non darai le tue figlie ai loro figli e non prenderai le loro figlie per i tuoi figli, perché allontanerebbero i tuoi figli dal seguire me, per farti servire a dèi stranieri e l’ira del Signore si accenderebbe contro di voi e ben presto vi distruggerebbe” (Deuteronomio 7.1-4). È un passo indubbiamente forte, riferito ad altri tempi e per un popolo per il quale la testimonianza sarebbe stata fondamentale a tal punto da giustificare uno sterminio per evitare la perdita di un popolo eletto della propria identità. Un popolo che si fa strumento del giudizio insindacabile di Dio. Soprattutto, Israele avrebbe finito per assorbire una cultura estranea che lo avrebbe corrotto, spingendolo all’adorazione di dèi non veri.

Ci sono persone che leggono questo passo e restano inorridite, c’è chi ha scritto articoli e libri sulle “atrocità della Bibbia”, ma si dimentica che il valore della vita umana risiede nella misura in cui questa si rapporta con Dio e lo cerca, non sull’adagio “ogni uomo è mio fratello”, frutto di un equivoco tra chi è uomo e pone la propria sopravvivenza fisica al centro di ogni sua azione – spesso prevaricante sugli altri – e chi è tale perché ha fondato il suo esistere sull’amore e la dipendenza da Dio. Certo la questione è molto più ampia e non credo possa essere affrontata in questa sede.

Mi piace ricordare ancora una volta le parole dell’apostolo Pietro che riconobbe in Gesù “il Figlio dell’Iddio vivente”: un Dio che vive, non immaginato e creato dall’uomo come quello dei sette popoli citati nel passo che abbiamo letto prima. Credo che questa distinzione sia estremamente importante. È molto bello vedere come Pietro, in seguito, dette prova di aver compreso la profondità delle verità dettegli dal suo Maestro, scrivendo due lettere dense di significati e dottrina alle quali sicuramente non sarebbe arrivato senza l’assistenza dello Spirito Santo.

Tornando al nostro tema, il mansueto, il mite, è la persona che più di altre può imparare da Lui, “mansueto ed umile di cuore,” là dove l’imparare è rinunciare a se stessi per provare  quel “giogo” definito “dolce” e il suo carico “leggero”: perché? Il giogo è uno strumento per attaccare i buoi usati come bestie da tiro ed è diventato sinonimo di un dominio oppressivo spesso di un re o di una popolazione su un’altra. Ebbene, Gesù riferendosi agli animali da tiro definisce il suo giogo “dolce” e il suo carico di trasporto “leggero”. Con il possessivo “mio”, poi, dichiara implicitamente che ne esiste un altro e che non ci può essere uomo che non ne sia soggetto: non può esservi giogo alternativo a quello di Gesù che non venga dall’Avversario. E con l’aggettivo “leggero” viene posto l’accento sulla sostanza delle cose, sul fine delle azioni e delle scelte che siamo chiamati a fare in nome di quell’eredità che ci è stata promessa e a cui ogni cristiano tende. Anche qui non si tratta di aderire a una religione per essere qualcuno, per avere un’identità: la vera Chiesa non è un’associazione di volontariato, un circolo più o meno privato, ma un insieme, un corpo di persone diverse per carattere e provenienza storica e sociale che ha compiuto una scelta perché ha aderito a un invito e si ritrova perché unita da un vincolo di fratellanza, salvati dall’amore di Cristo.

Avere su di sé il gioco dell’Avversario significa dipendere in tutto e per tutto dalla casualità della vita, dai propri bisogni, dalla schiavitù della terra intesa come il suolo che ci àncora ad essa senza possibilità di una vera realizzazione ed appagamento spirituale. Ecco perché il “giogo” di Cristo e il carico da portare sono leggeri. E questo ci porta ad estendere il termine di “mansueto” e “mite” perché tendiamo a dimenticare che le caratteristiche esteriori di una persona, quanto al presentarsi agli altri, hanno in realtà radici ben più profonde: il mansueto è una persona interiormente disponibile non solo agli altri, ma nei confronti di tutti quegli “input” che gli vengono dalla Scrittura, trova la sua realizzazione di fronte a quanto scopre, o gli viene rivelato, dalla Parola di Dio. Esiste connessione tra la mansuetudine e la carità che “è magnanima, benevole. Non è invidiosa. Non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede– della Parola di Dio – tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno, il dono delle lingue cesserà e la conoscenza svanirà. Infatti in modo imperfetto noi conosciamo e in modo imperfetto profetizziamo. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà” (1 Corinti 13. 4-9).

Ecco, credo che questi versi di Paolo siano un ottimo raccordo all’enunciazione di Gesù “Beati i mansueti”, parole dette a persone che già le conoscevano, se non tutti alcuni di loro, perché scritte da Davide nei suoi Salmi e i punti di connessione sono due: il primo in 25.9 “Egli guiderà i mansueti nella giustizia e insegnerà la sua via agli uomini” (25.9) ed il secondo in 37.10,11 “Ancora un po’ e l’empio non sarà più; sì, tu cercherai attentamente il suo posto e non ci sarà più. Ma i mansueti possederanno la terra e godranno di una grande pace”.

Ancora un po’”, è un’ espressione che indica sia un tempo generico, sia preciso, assoluto, quello che Dio ha decretato e che viene ricordato alla moltitudine dei Santi in Apocalisse 6.9-11: “Quando l’Agnello aprì il quinto sigillo, vidi un altare sotto cui stavano le anime di quelli che erano stati uccisi per la loro fedeltà alla Parola di Dio e per la loro testimonianza. Essi chiamavano il Signore a gran voce e dicevano «Fino a quando, o Sovrano vero e santo, aspetterai a giudicare gli abitanti della terra per quello che ci hanno fatto?» Quando chiederai loro conto del nostro sangue?». Ad ognuno di loro fu data una veste bianca e fu detto di aspettare ancora un po’ di tempo, finché non fosse completo il numero dei loro compagni di fede, cioè dei loro fratelli che dovevano essere messi a morte come loro”.

Questi versi testimoniano la differenza del concetto del tempo posseduto dagli uomini e quello di Dio, per cui “un giorno è come mille anni e mille anni sono come un giorno” (2 Pietro 3.8): se ci fossero stati dei “mansueti”, si sarebbero riconosciuti nella Sua promessa: avrebbero ereditato la terra, non quella corrotta del peccato, ma quella a venire. Ed è sempre Pietro a proseguire: “Il Signore non ritarda a compiere la sua promessa: alcuni pensano che sia in ritardo– perché prendevano alla lettera quell’ancora un po’ e credevano che il tempo fosse “vicino” usando i loro parametri umani -, ma non è vero. Piuttosto egli è paziente con voi, perché vuole che nessuno di voi si perda e che tutti abbiano modo di pentirsi” (v. 9).

Riassumendo abbiamo quindi:

  1. “Beati i poveri di spirito, perché di essi è il Regno dei cieli” (perché “il Regno dei cieli è vicino”, ma anche “dentro di voi”;
  2. Beati quelli che fanno cordoglio, perché saranno consolati” (prima beatitudine del primo gruppo di tre riferito alla condizione e al futuro)
  3. Beati i mansueti, perché erediteranno la terra(prima beatitudine del secondo gruppo di tre riferito allo spirito che caratterizza la persona e al futuro).

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5.03 – LE BEATITUDINI 2: QUELLI CHE SONO NEL PIANTO (Matteo 5.3-10)

5.3 – Il sermone sul monte : le beatitudini II (Matteo 5.3-10)

3«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. 4Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati.5Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. 6Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. 7Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. 8Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. 9Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. 10Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli”.

Prima di esaminare la seconda beatitudine occorre una brevissima premessa: stiamo leggendo un testo che riporta le parole di Gesù che, in quel momento, sta parlando a tre categorie di persone: coloro che erano venuti per ascoltarlo e farsi guarire, in gran parte israeliti, i discepoli, in numero ben maggiore rispetto ai dodici che conosciamo, e sicuramente qualche pagano, probabilmente rientrante in quei tanti provenienti dal “litorale di Tiro e Sidone” ebrei e pagani. Ricordiamo le parole di Luca già citate la volta scorsa: “C’era una gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e Sidone che erano venuti per ascoltarlo ed essere guariti dalle loro malattie” (Luca 6.17,18).

Il sermone sul monte ha quindi una doppia possibilità di lettura: una per i presenti e l’altra per tutti coloro che sarebbero venuti dopo di loro e avrebbero preso costruttivamente atto delle Sue parole, quelli di cui parlò Gesù a Tommaso e agli altri quando disse “Tu hai creduto perché hai visto; beati quelli che, pur non avendo visto, crederanno” (Giovanni 20.28).

Pensiamo a chi era su quel monte: si trovava lì dopo aver faticato, percorso molti chilometri perché bisognoso di soddisfare chi la propria sete di parole di vita, chi la propria curiosità, chi perché confidava nel fatto di venire guarito, ma avendo una base culturale diversa dalla nostra che si basava sull’ascolto della Legge e dei Profeti commentati nella sinagoga. Dichiarando la prima beatitudine ai “Poveri in spirito perché di essi è il Regno dei cieli”, Gesù fece una prima distinzione tra coloro che si ritenevano già “ricchi”, e quindi non avevano bisogno di Lui, e i “poveri”, che avrebbero ottenuto la cittadinanza in un regno a loro riservato. Certamente con quella prima frase fu compreso immediatamente, mentre noi abbiamo bisogno di riflettere di più prima di capire, stante le molte interferenze che abbiamo dal nostro tempo, con le sue consuetudini, che inevitabilmente ci condiziona.

BEATI QUELLI CHE SONO NEL PIANTO

Ecco, questa è una traduzione che, se applicata a un testo normale sarebbe accettabile, ma non lo è altrettanto in quello di Matteo perché ci indirizza immediatamente a una manifestazione specifica del dolore, diversa da persona a persona, che più propriamente altri hanno tradotto con “gli afflitti”, o “coloro che sono nell’afflizione” o “che fanno cordoglio”. Per gli israeliti l’afflizione poteva essere certamente individuale, ma c’era un forte senso collettivo come popolo che attendeva il Messia, certo con aspettative diverse da come lui si sarebbe rivelato. Eppure non tutti attendevano un re potente, ma un consolatore. Vediamo ancora il passo di Isaia 61.1-3 che abbiamo citato la volta scorsa: “Lo Spirito del Signore è sopra di me, perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione per recare una buona novella– ecco il Vangelo – agli umili, mi ha inviato a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà agli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l’anno di grazia del Signore, il giorno di vendetta del nostro Dio, per consolare tutti gli afflitti, per dare agli afflitti di Sion una corona invece della cenere, olio di letizia invece di abito da lutto, veste di lode invece di uno spirito mesto”.

Ecco allora la beatitudine: era arrivato il consolatore e anche qui, per accoglierlo e realizzarla, era necessario riconoscere Colui che  era stato consacrato con l’unzione per annunciare il vangelo destinato, riservato agli umili, cioè tutti coloro che avrebbero riconosciuto la propria inferiorità “naturale” espressa nelle parole del Salmo ottavo “Quando io considero i tuoi cieli, opera delle tue dita; la luna e le stelle che tu hai disposte; che cos’è l’uomo, che tu ne abbia memoria? E il figlio dell’uomo, che tu ne prenda cura?”. Ricordiamo che il cielo che vedeva il salmista non era inquinato come oggi, per cui appariva in tutta la sua vastità. Vediamo, sempre nel verso di Isaia, il “fasciare le piaghe dei cuori spezzati”, di cui troviamo traccia nella parabola detta del “buon samaritano” in Luca 10. 25-37 che “Vide – l’uomo mal ridotto dai suoi assalitori, i briganti figura del peccato nelle sue multiformi oppressioni – e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite versandovi olio e vino, poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in albergo e si prese cura di lui”. “Vide” come tutti gli altri che passarono, il sacerdote e il levita, ma al contrario di loro “ne ebbe compassione”, attivandosi perché guarisse. Il Consolatore avrebbe proclamato la libertà agli schiavi, cioè a chi non era considerato nemmeno una persona, e la “scarcerazione” ai prigionieri, termine che può essere tradotto anche con “luce” perché chi era carcerato stava in grotte buie e malsane nella quale la luce non entrava mai. Ricordiamo la prima prigione menzionata dalla Bibbia in Genesi 37.23,24: “Quando Giuseppe fu arrivato presso i suoi fratelli, essi lo spogliarono della sua tunica, quella tunica con maniche lunghe che egli indossava, lo afferrarono e lo gettarono nella cisterna: era una cisterna vuota, senz’acqua”.

“Gli “afflitti di Sion”, coloro che aspettavano consci della loro condizione di schiavitù e per questo portavano la cenere sul capo in segno di penitenza e dolore, avrebbero ricevuto una corona, olio di letizia al posto dell’abito da lutto, cioè una sorta di sacco composto da pelli di capra e cammello, e veste di lode al posto di uno spirito mesto. Tutto questo stava per realizzarsi: beato chi si trovava in questa condizione perché la sua consolazione era giunta.

Possiamo dire che all’umile, al mansueto, all’afflitto e al povero di spirito non interessava avere un re potente che rovesciasse una situazione politica, ma la stabilità e la libertà interiore, ricevere la “buona notizia” che solo l’Emanuele “Dio con noi” poteva dare; quei miracoli che la folla aveva visto erano solo una pallida anticipazione di quello che sarebbe venuto dopo, con il possesso di un Regno che sarebbe stato “dei cieli” e non “della terra” il cui principato è lasciato a Satana. Un altro regno per gente diversa, che sa e si trova mancante nel proprio intimo, che ha bisogno non di un dio, ma di Dio e lo aspetta pronta a riconoscerlo.

Saranno consolati” è poi un termine ampio. C’è la consolazione che si prova nel momento in cui avviene l’incontro con Dio e l’accettazione di appartenergli come figlio, e c’è quella quotidiana, continua, perché nonostante una parte del cristianesimo voglia vedere il credente come perennemente guidato dallo Spirito e quindi in una condizione di continua letizia vista nell’espressione “pace nel cuore”, in realtà è soggetto come tutti gli altri uomini al dolore fisico e morale, al quale si aggiunge quello spirituale, in particolare al conflitto tra la propria natura sempre disposta a cedere alle tentazioni che variano a seconda della propria personalità, e all’astenersene.

Va sottolineato che, se il cammino cristiano fosse semplice, non sarebbe paragonato all’opposto di quella via “larga e spaziosa” che conduce alla perdizione. Ecco perché del Consolatore abbiamo bisogno sempre! Ciascuno di noi si scontra con la propria fragilità e il constatare quanto sia esteso il divario tra ciò che siamo e ciò che vorremmo-dovremmo essere, alla luce della perfezione che ci è richiesta, può a volte essere frustrante. È una perfezione ideale vista nella frase che Gesù dirà proprio in questo discorso sul monte: “Siate dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (v.48). Un cammino verso la perfezione è l’attivazione delle nostre forze per tendere ad essa, il curare noi stessi sapendo che non siamo lasciati soli perché, appunto, c’è un Consolatore che veglia su di noi.

Ecco allora che iniziamo a delineare la figura dell’afflitto del nostro tempo, che poi è quello di tutti coloro che sono vissuti prima di noi da quando lo Spirito Santo è stato dato ai membri della Chiesa di Gerusalemme, destinati ad incontrare ostacoli spirituali di ogni tipo proprio a causa della loro natura umana: “Siate sobri, vegliate. Il vostro nemico, il diavolo, come un leone ruggente va in giro cercando chi divorare. Resistetegli saldi nella fede, sapendo che le medesime sofferenze sono imposte ai vostri fratelli sparsi per il mondo” (1 Pietro 5.8,9).

Attenzione però a vedere queste parole e a vivere il concetto dell’afflitto con fatalità filosofica, guardando a questa condizione come se fosse stabile, perché Pietro continua dicendo “E il Dio di ogni grazia, il quale vi ha chiamati alla sua gloria eterna in Cristo Gesù, egli stesso, dopo che avrete un poco sofferto, vi ristabilirà, vi confermerà, vi rafforzerà, vi darà solide fondamenta” (v.10). È un ricordo, un’esortazione a vivere tenendo presente la prospettiva che ogni cristiano dovrebbe conoscere. E qui ci troviamo di fronte alla vera consolazione, così diversa dal conforto che un uomo può dare al proprio simile, momentaneo: quando finisce lascia la persona nella stessa condizione di prima. “Consolare” implica eliminare radicalmente il problema che causa l’afflizione, un cambiamento di stato, non ci può essere cristiano che non testimoni questa azione di Gesù Cristo nella propria vita, di questa sua opera continua nonostante i propri sbagli, il suo cammino a volte incerto.

Se Gesù si indirizza all’afflitto, significa che c’è chi non lo è, o meglio affronta il dolore in modo sbagliato escludendo Lui che desidera chinarsi per soccorrere (vedi la suocera di Pietro) e lo fa, nel caso del sermone sul monte, proprio dopo aver guarito e liberato persone da infermità e malattie sottolineando che, al ristabilimento del corpo a lungo desiderato, avrebbe fatto seguito quello dell’anima.

Ci chiediamo: di fronte a un dolore, si può solo aspettare che passi? Ci si può solo rassegnare, rinchiudere in uno stoicismo assoluto che indurisce? È una possibilità, un’alternativa che però non porta da nessuna parte perché esclude Cristo dalla nostra vita, quando questo è un mezzo per arrivare a lui o provare il suo sostegno lungo il cammino.

Ricordo le parole di un fratello a proposito di un bambino appena nato: “conoscerà il dolore e si chiederà perché”. Ecco, il perché è nella vita stessa nel senso che occorre accettarlo, non rifiutarlo come se non ci appartenesse. Va accolto, vissuto e posseduto ma, se questo lo faremo da soli, ci tormenterà senza uno scopo, non risolverà in consolazione, ma finirà eventualmente in un archivio disturbante, pronto ad emergere nei momenti più impensati; se sarà un mezzo per arrivare a Cristo, ecco che questo avrà una consolazione, l’unica possibile perché ciò che attende l’afflitto non è un incontro con un generico essere superiore che nella sua magnanimità assoluta risponderà a una preghiera, ma prima di tutto con la Parola fatta carne che, in quanto uomo, ha patito al di là del sopportabile conoscendo fatica e sofferenza in modo perfetto e totale. Ricordiamo quello che scrive l’autore della lettera agli Ebrei: “Perciò doveva rendersi in tutto simile ai fratelli, per diventare un Sommo Sacerdote misericordioso e degno di fede nelle cose che riguardano Dio, allo scopo di espiare i peccati del popolo. Infatti, proprio per essere stato messo alla prova e avere sofferto personalmente, egli è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova” (2.17,18).

Gesù Cristo è quindi “in grado” prima di tutto non perché è onnipotente, ma per essere stato “messo alla prova e avere sofferto personalmente”. Lui tutt’uno col Padre, Unico, perfetto e totale intercessore che abbiamo, benedetto in eterno. Amen.

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5.02 – LE BEATITUDINI 1. I POVERI IN SPIRITO (Matteo 5.3-10)

5.2 – Il sermone sul monte : le beatitudini 1 (Matteo 5.3-10)

3«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. 4Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. 5Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. 6Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. 7Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. 8Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. 9Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. 10Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli”.

 BEATI I POVERI IN SPIRITO

Poveri in spirito” o “di spirito” sono le traduzioni dall’originale “per lo spirito” ed è opinione di alcuni che la precisazione sul tipo di povertà sia stato un inserimento nel testo greco fatta da un ignoto traduttore dall’aramaico per rendere più compiuto e distinguibile il senso delle parole di Gesù. Va detto però che orientarsi sulle origini del testo di Matteo non è facile: opinione diffusa è che sia stato scritto in aramaico e poi tradotto, basandosi sulle parole di Papia vescovo di Ierapoli nel 130 che scrisse “Matteo raccolse quindi i detti nella lingua degli ebrei, traducendoli ognuno come poteva”. In base agli studi che si intraprendono e quali testi si consultano le opinioni in proposito sono differenti anche sulla data e su chi materialmente abbia compilato il suo Vangelo. Fatto sta che Luca scrive “Beati i poveri” senza specificare altro, ma se prendessimo questa a condizione a senso unico rischieremmo di rendere l’essere poveri materialmente la sola condizione possibile per poter realizzare questa beatitudine. La precisazione che troviamo in Matteo è quindi fondamentale per la tipologia delle persone cui si riferisce.

Parlando di povertà in senso letterale, oggi è suddivisa in assoluta e relativa: la prima è riferita all’estrema difficoltà della sopravvivenza, vale a dire che la vita di chi versa in tale condizione è tale da metterlo in pericolo: non ha da mangiare, non è in grado di provvedere al proprio vestiario, non ha un alloggio, non ha dove lavarsi. Questo stato esclude il poter fruire di beni e/o servizi essenziali per la sopravvivenza. La povertà relativa è invece un parametro che esprime le difficoltà economiche nelle fruizione di beni e servizi in rapporto al livello economico medio di vita dell’ambiente o della nazione.

Soffermiamoci brevemente su questa condizione: chi è povero, assoluto o relativo, sa di esserlo, conosce le difficoltà che incontra e molto spesso ne è angosciato, soprattutto se si ritrova così dopo non aver conosciuto questo tipo di preoccupazioni, quindi aveva una vita tranquilla, normale o agiata e il caso dei molti imprenditori che si sono suicidati in Italia lo conferma. La mancanza di denaro per soddisfare le esigenze elementari o a che fanno da contorno all’esistenza è vissuta da molti come un fallimento e un’umiliazione anche di fronte a se stessi.

La condizione di povertà spirituale, invece, è molto più subdola da ammettere perché si riferisce all’interiorità dell’essere umano. C’è un senso di vuoto, connesso alla “carne” che si cerca di riempire in tutti i modi andando a sopperire i deficit interni e la religione, intesa come pratica che lo riempia, può aiutare a tal punto da essere definita come “l’oppio dei popoli”. Così accade che, praticandola anche nel cristianesimo, l’uomo si senta appagato e perciò si ritenga ricco esattamente come l’angelo (e i componenti) della Chiesa di Laodicea che dice “Io sono ricco, mi sono arricchito e non ho bisogno di nulla” (Apocalisse 3.17).

Il povero materiale è distinguibile e soprattutto sa di esserlo ma il povero in spirito, se non è onesto con se stesso, può mascherarsi, è disposto inconsapevolmente a tutto pur di sentirsi ricco davanti a sé e poi pur di apparirlo di fronte agli altri. Chi è “ricco in spirito” lo è perché così si è voluto definire, ha cercato quest’autodeterminazione e gli esempi nella scrittura sono tanti, primo fra tutti quel fariseo che pregava nel Tempio, ringraziando Dio di non essere come gli altri uomini perché digiunava due volte alla settimana e pagava le decime su quanto possedeva. Il cosiddetto “ricco in spirito” non ha bisogno di nulla, basta a se stesso, è convinto di essere sano e da qui le parole di Nostro Signore “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati”. Il fariseo che abbiamo citato pregava in piedi, il pubblicano stava “a distanza”, in solitudine, è scritto che “non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo”, cioè verso quel luogo da lui incommensurabilmente così distante.

Ecco, qui abbiamo in modo perfettamente reale due atteggiamenti: uno è “ricco”, l’altro è “povero”. Uno ha rimediato coi suoi mezzi alla propria povertà, diventandolo così ancora di più, l’altro ne è conscio e sa di avere nella preghiera di perdono l’unico rimedio a disposizione: “O Dio, sii placato verso di me, peccatore”. Ecco allora che solo chi sa di essere povero di spirito, cioè di non avere mezzi per la sua sopravvivenza spirituale, è beato: dipende da Dio in tutto e per tutto, ammette di avere dentro di sé quella fame che non può soddisfarsi in altro modo se non accettandoLo accogliendoLo dentro di lui.

Il sapere nel profondo di essere dei “Poveri in spirito”, cioè il riconoscersi tali perché si sa o si è sperimentato che le alternative e gli atteggiamenti che la vita può offrire non sono sufficienti né possono garantire stabilità, è il primo passo per il “Regno dei cieli” perché questi poveri lo cercheranno e lo troveranno. Al “ricco in spirito” interessa star bene godendo delle cose effimere che ha a disposizione, al “povero” non interessa la sopravvivenza apparente, qualcosa di generico in cui credere, una ricchezza secondo il mondo o una stabilità incerta, ma sarà attento a come porre rimedio alla sua condizione: non cercherà la compagnia delle persone per sentirsi meno solo, non aderirà a correnti politiche o filosofiche perché dovrà dimostrare a se stesso e agli altri di avere bisogno di qualcosa o di qualcuno a cui credere. Se mai, questi saranno dei passaggi per sperimentare, ma non trovando ciò che realmente cerca, finirà per arrivare a Gesù Cristo perché la sua povertà cessi definitivamente.

Il vero cristiano quindi porta in sé questo dualismo, quello della povertà assoluta quando porta avanti sé stesso, quello della ricchezza quando vive in compagnia di Dio, amandolo. Una ricchezza che non possiede. La parabola dell’uomo ricco di Luca 12.16,21 ci presenta un possidente che aveva avuto un raccolto ottimale dalla sua campagna e progettava una vita esente da preoccupazioni, ma si sentì dire “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?” Notiamo il commento di Gesù: “Così è di chi accumula tesori per sé, e non arricchisce davanti a Dio”.

C’è quindi un cammino da fare, e il riconoscersi poveri nel profondo è la condizione indispensabile per arricchire dentro, come abbiamo letto, “davanti – o “in” a seconda della traduzione – a Dio”; sono due mondi diversi, opposti, per la vita che conta, quella eterna. Chi crede, nel vero senso della parola, non lo fa perché ha bisogno di una religione, ma per diventare e conoscere cose che sa essere irraggiungibile senza una grazia, una rivelazione. Cercherà le promesse per lui e sperimenterà su di sé la loro realizzazione, altrimenti la propria vita non avrebbe scopo. Ricordiamo le parole di Pietro “Signore, a chi ce ne andremmo noi? Tu solo hai parole di vita eterna”: quest’uomo aveva sperimentato la quotidianità della vita, aveva un lavoro, una moglie. Aveva ascoltato da chissà quanto tempo i rabbini nelle sinagoghe e poi Giovanni Battista che preparava il popolo alla venuta di Gesù, ma nessuna di queste cose lo aveva mai arricchito, placato la sua sete interiore, quella di spirito. Pietro sapeva che le uniche parole da ascoltare, per la prospettiva futura che gli venivano garantite, erano quelle di Colui che un giorno lo aveva chiamato con gli altri discepoli e poi lo aveva reso apostolo.

La beatitudine dei poveri in spirito è quindi la descrizione di una condizione base per essere accolti dal Padre ed equivale al senso di sete spirituale che alcuni avvertivano quando Gesù, alzandosi in piedi, gridò “Se qualcuno ha sete, venga a me e beva” (Giovanni 7.37). Non era venuto per vendere qualcosa, ma per dare gratuitamente e invitò gli apostoli a fare altrettanto con il suo “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”. Tutta la Scrittura, Antico e Nuovo patto, sono piene di passi che attestano sia l’attenzione che Dio dà ai poveri, anche quelli materiali, tenuti a cercarlo secondo Isaia 55,6,7 “mentre si trova”, a invocarlo “mentre è vicino”. Ricordiamo l’invito “venite e comprate senza denari e senza prezzo” perché la Grazia non può essere comprata avendo un valore inestimabile.

E possiamo citare anche parole di Isaia 1.18 “Su, venite e discutiamo insieme, dice il Signore. Anche se i vostri peccati fossero come lo scarlatto, diventeranno bianchi più che neve”. In questo passo rileviamo che è Dio a invitare l’uomo addirittura ponendosi sul loro stesso piano, non certo quello del peccato, ma dello Spirito che è nell’uomo, quel “soffio vitale” che inalò nelle narici di Adamo. Qui c’è un incontro tra il Santo e la creatura che certo così non è, anzi è invitata nel verso 16 a lavarsi, purificarsi, ad allontanare dai Suoi occhi il male delle loro azioni. Dio invita l’uomo a discutere assieme dando la Sua piena disponibilità al perdono con un intervento che nessun essere terreno sarebbe stato mai in grado di compiere, smacchiare lo scarlatto, cioè un rosso intenso e brillante, a tal punto da farlo diventare più bianco della neve. È l’impossibile che appartiene al Padre, alla trinità, a quel plurale che un giorno disse “Facciamo l’uomo”.

Dio, soprattutto nel tempo in cui la Grazia è aperta non convoca imperiosamente, ma invita a discutere con lui. Dichiara la propria benevolenza, ma non costringe a subirla. E, riferendoci a questi versi, non tutti cessarono di fare il male e non tutti andarono a Lui, consapevoli del valore di quell’invito, a discutere assieme. Oggi il verbo “discutere” è usato per indicare una lite, uno scontro acceso in cui ogni parte difende strenuamente le proprie posizioni, ma ciò solo perché si è perso il senso reale del termine che, al contrario, implica il trattare, esaminare un tema confrontando opinioni diverse, dialogare alla ricerca di una soluzione.

Beati i poveri in spirito” è allora un annuncio importante, una dichiarazione in base alla quale chi appartiene alla categoria dei poveri non è lasciato solo, ma può entrare a far parte di un piano che va oltre le sue aspettative. Infatti, “di loro è il Regno dei cieli”. “Di loro” e di nessun altro. Ecco perché questa beatitudine è al primo posto: esprime quello che potremmo definire un requisito base, quello di chi non ha nulla mentre gli altri pensano di avere chi molto, chi tutto. Il ricco sta bene in questo mondo a prescindere da quale sia la ricchezza su cui fonda la propria vita, il povero certamente soffre e non sa come porvi rimedio, è costantemente in bilico tra la realtà che vorrebbe cambiare e i mezzi che non ha. Ed è beato perché si trova nella sola condizione che gli può consentire l’accettazione di Cristo come proprio Salvatore e fornitore di quella cittadinanza eterna che il ricco certamente non può avere.

Le beatitudini che seguono (gli afflitti, i miti, quelli che hanno fame e sete di giustizia, i misericordiosi, i puri di cuore, gli operatori di giustizia e i perseguitati per – e non “da” – essa), sono tutte riferite alla conseguenza della povertà di spirito proprio alla luce di quanto abbiamo detto all’inizio: chi in questo mondo si trova a proprio agio, parla già di sé disprezzando chi appartiene a categorie diverse dalla sua perché già umanamente beato, possedendo non la “makaria”, ma l’”òlbia”, come abbiamo visto nel capitolo precedente.

Nostro Signore sappiamo che aveva da poco guarito tutti quelli che gli si erano presentati a lui: quei miracoli erano per tutti e per tutti erano quelle parole di vita perché non potevano esservi dei sordi tra loro – se c’erano, questo era prima di incontrarlo -, ma nel momento in cui iniziò a parlare disse “Beati i”, cioè “quanti tra voi si riconoscono nella mia descrizione”. Il resto del Vangelo, la “buona notizia” rivelata agli uomini, è proprio la ricchezza in Dio che il povero in spirito trova e che arriverà al culmine con il possesso di quel “Regno dei cieli”, o “Regno di Dio” concepito fin dalla creazione dell’universo. Possiamo concludere con le parole dell’apostolo Paolo in Efesi 1.3 “Benedetto sia Dio, Padre del Signor nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti di ogni benedizione spirituale nei luoghi celesti in Cristo”.

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3.12 – IL SERVO CHE HO SCELTO (Matteo 12.15-21)

3.12 – Il servo che ho scelto (Matteo 12.15-21)

 

 15Gesù però, avendolo saputo, si allontanò di là. Molti lo seguirono ed egli li guarì tutti 16e impose loro di non divulgarlo, 17perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaia: 18Ecco il mio servo, che io ho scelto; il mio amato, nel quale ho posto il mio compiacimento. Porrò il mio spirito sopra di lui e annuncerà alle nazioni la giustizia. 19Non contesterà né griderà né si udrà nelle piazze la sua voce. 20Non spezzerà una canna già incrinata, non spegnerà una fiamma smorta, finché non abbia fattotrionfare lagiustizia; 21nel suo nome spereranno le nazioni.

Riconosciamo subito lo stile di Matteo che ci presenta un adempimento della profezia di Isaia che cercheremo di analizzare non senza sottolineare che quanto scritto sia da lui che da Marco, che mette più particolari, avviene poco prima dell’elezione dei dodici ad apostoli. Quanto abbiamo letto si verifica dopo l’ultimo insegnamento sul sabato culminato con la guarigione della mano rattrappita di un uomo presente nella sinagoga, probabilmente di Capernaum.

L’allontanamento di Gesù da quel luogo avvenne per vari motivi, primo fra tutti lo stesso che lo aveva visto spostarsi da Gerusalemme a Capernaum: non creare i presupposti perché fosse catturato prima del tempo e perché il campo da seminare con la Sua Parola era veramente enorme. Inoltre con il suo insegnamento sul sabato aveva esposto dei concetti talmente chiari che altro non avrebbe avuto da dire ai suoi detrattori che, volendo, avrebbero avuto tutti gli elementi per “andare e imparare”, cioè procedere ad una revisione del loro sapere.

Possiamo rilevare che la guarigione di quella mano paralizzata, oltre che l’applicazione spirituale sul sabato fatta da Gesù, abbia suscitato due reazioni, viste prima di tutto nel delineare il piano omicida nei suoi confronti, e poi nel fatto che molti fra il popolo iniziarono a seguirLo: “Gesù, intanto, con i suoi discepoli si ritirò presso il mare e lo seguì molta folla dalla Galilea. Dalla Giudea e da Gerusalemme, dall’Idumea e da oltre il Giordano e dalle parti di Tiro e Sidone, una grande folla, sentendo quanto faceva, andò da lui. Allora egli disse ai suoi discepoli di tenergli pronta una barca, a causa della folla, perché non lo schiacciassero. Infatti aveva guarito molti, cosicché quanti avevano qualche male si gettavano su di lui per toccarlo. Gli spiriti impuri, quando lo vedevano, cadevano ai suoi piedi e gridavano: «Tu sei il Figlio di Dio!». Ma egli imponeva loro severamente di non svelare chi egli fosse”. (Marco 3.7-12).

Notiamo la zone di provenienza di coloro che seguivano Gesù: venivano dalla Galilea, dalla Giudea e da Gerusalemme, quindi erano ebrei, ma vi erano anche molti che non lo erano: gli Idumei (dai quali proveniva la famiglia di Erode il Grande) che discendevano da Esaù, e genti dalle parti di Tiro e Sidone, cioè fenici oltre ad ebrei che risiedevano in quelle città. Tutti costoro erano compresi nella “gran folla che, sentendo quello che faceva, andò a lui”. Stando il fatto che Nostro Signore predicava e guariva, viene da pensare che andassero da lui per vedere e ascoltare e non a caso la loro presenza produrrà la predicazione totale che sfocerà nel cosiddetto “discorso della montagna”. Non si trattava di ascoltare un rabbi, ma uno che confermava la veridicità dei suoi insegnamenti con miracoli e, guarendo e cacciando i demoni, dimostrava di avere autorità su di loro e di essere in grado di annunciare la verità: le parole conclusive di Matteo che cita Isaia, “nel suo nome spereranno le nazioni”, è qui applicato agli idumei e ai fenici che le rappresentano poiché è da quei popoli, oltre ai samaritani che abbiamo visto tempo fa, che si riconoscono tutti gli altri che verranno.

Prendiamo ora in esame il testo di Isaia, che troviamo nel capitolo 42 dai versi 1 a 4, cercando di sottolineare i termini che vengono impiegati: “Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto in cui mi compiaccio. Ho posto il mio spirito su di lui; egli porterà il diritto alle nazioni. Non griderà né alzerà il tono, non farà udire in piazza la sua voce, non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta; proclamerà il diritto con verità. Non verrà meno e non si abbatterà finché non avrà stabilito il diritto sulla terra, e le isole attendono il suo insegnamento“.

“Ecco” è la prima parola della profezia ed esprime la presenza di qualcosa, o di qualcuno, nel momento esatto in cui se ne parla o appare. Ci sarebbe stato allora un tempo preciso, unico e irripetibile in cui sarebbe venuto “il mio servo”, primo riferimento possessivo e/o personale di quattro – numero di stabilità nell’Universo e nel mondo creato per l’uomo –  assieme a “io ho eletto”, “mio amato”, “mio compiacimento”. In Zaccaria 3.8 YHWH dirà “Ecco, io faccio giungere il mio servo, il Germoglio”. Il termine “servo” qui usato da Matteo, che non trascrive il passo di Isaia ma lo traduce dall’ebraico, è lo stesso da lui impiegato in 8.6 nel raccontare la guarigione del servitore di un anonimo centurione romano per il quale lo stesso provava un amore praticamente filiale: “Signore, il mio servo è in casa, a letto, paralizzato, e soffre grandemente”. Il “mio servo” di cui Dio parla in Isaia aveva allora questa caratteristica di doppio rapporto, “servo” quanto a ruolo e “figlio” quanto a dignità. L’inviato di YHWH però doveva essere perfetto e una sola definizione non poteva bastare: ne abbiamo contate quattro, oltre una che viene dopo: quel “servo” che avrebbe avuto su di lui lo spirito del Creatore. Immaginiamoci allora un quadrato, che chiude un’area, o una casa composta da quattro pareti e da un tetto. Il primo lato, o parete, è lo stato di servo, non generico, che a parte l’implicazione filiale ha quella del riferimento diretto a Dio, cioè rispondere unicamente a Lui. Secondo, questo servo lo ha scelto il Creatore, il Progettista tanto dell’Universo quanto del piano di salvezza per l’uomo; “che io ho scelto” o, in altra traduzione, “che io ho eletto” garantisce la perfezione perché operata dall’Onnisciente che non poteva fare altro che operare un’elezione perfetta, al tempo stesso analoga e diversa da quella che lui stesso aveva fatto con Isaia dopo averlo valutato e purificato. L’episodio è ricordato così in 6.4-6: “Vibravano gli stipiti delle porte al risuonare di quella voce, mentre il tempio si riempiva di fumo. E dissi “Ohime! Io sono perduto, perché sono un uomo dalle labbra impure e abito in mezzo a un popolo dalle labbra impure, eppure i miei occhi hanno visto il re, il Signore degli eserciti– quelli angelici, non quelli umani come molti fraintendono -. Allora uno dei serafini volò verso di me; teneva in mano un carbone ardente che aveva preso con le molle dall’altare. Egli mi toccò la bocca e disse: «Ecco, questo ha toccato le tua labbra, perciò è scomparsa la tua colpa e il tuo peccato è espiato». Poi io udii la voce del Signore che diceva «Chi manderò, e chi andrà per noi?» ed io dissi «Eccomi, manda me». Egli disse “Va’ e riferisci a questo popolo… (segue)”. Se Isaia, per portare il messaggio di Dio al popolo, doveva essere santificato, il nuovo inviato era stato scelto per un’opera a carattere perfetto e definitivo; il suo messaggio sarebbe stato non quello della venuta imminente di un servitore perfetto, ma quello della Scrittura adempiuta, come ebbe a dire Gesù ai nazareni nella loro sinagoga: “Oggi si è compiuta questa scrittura che avete ascoltato” (Luca 4.21). Pietro scrive che Gesù è quella “pietra viva, rifiutata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio” (1 Pietro 2.4).

Dobbiamo notare che Matteo, scrivendo “Ecco il servo che ho scelto” usa un termine che, oltre al concetto immediato di elezione, usa un verbo che significa anche “tenere forte, sostenere”. Sono convinto che, nelle Sue preghiere al Padre, Gesù facesse riferimento anche a questa promessa.

Terzo lato, parete, terza caratteristica del servo scelto è “il mio amato”. Anche qui c’è un’indicazione inequivocabile, unica, di fronte alla quale la comprensione umana può perdersi perché è esclusiva e allude a un rapporto reciproco: Dio ama il suo servo-figlio a tal punto da definirlo “amato” pubblicamente, nel senso che non avrebbe avuto alcuna importanza se fosse stato odiato da molti. Qui avvertiamo tutta l’inutilità del sentimento di ostilità nei suoi confronti: le attenzioni amorevoli di Dio Padre sarebbero state su di lui, condizione determinante assieme alle altre. Se Gesù non avesse avuto tutte le quattro caratteristiche più una di cui Isaia ha parlato, la Sua opera non sarebbe stata perfetta: togliendone anche una sola, non avremmo avuto il quadrato, figura della chiusura di un discorso, di completezza e pienezza e la casa, la stanza di cui abbiamo parlato, non avrebbe potuto definirsi tale. Paolo scrivendo ai Colossesi dice “Ringraziate con gioia il Padre che vi ha resi capaci di partecipare alla sorte dei santi nella luce. È lui che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del Figlio del suo amore, per mezzo del quale abbiamo la redenzione, il perdono dei peccati” (Colossesi 1.13).

Quarta caratteristica è “nel quale ho posto il mio compiacimento”, cioè soddisfazione, piacere provato per qualcosa, soddisfazione, sentimento che sappiamo sia impossibile far provare a Dio da parte di qualsiasi uomo al quale, al massimo, può guardare con favore. Qui parliamo del compiacimento dell’Autore, del Responsabile di quegli equilibri perfetti che ancora sussistono in natura nonostante il peccato, delle Sue esigenze e dei Suoi calcoli, della Sua essenza: ha posto il suo compiacimento in Lui e lo dichiarò non solo tramite Isaia ma, come sappiamo, al battesimo di Gesù e non solo: “Tu sei il mio figlio, l’amato, in te ho posto il mio compiacimento” (Luca 3. 22). Ricordiamo la stessa frase nell’episodio della trasfigurazione, che però termina con l’esortazione “Ascoltatelo” (Marco 9.6).

Se con queste caratteristiche, viste anche se brevemente ma quanto basta per una panoramica generale, si chiude il nostro “quadrato”, ecco ora la conclusione che paragono alla firma di Dio, o al tetto della casa: “Porrò il mio spirito sopra di lui e annuncerà alle nazioni la giustizia”, frase più correttamente traducibile con “e annuncerà il giudizio alle genti”. Quello “Spirito” fu messo su Nostro Signore al suo battesimo quando uscì dall’acqua identificandosi completamente nell’uomo che aveva bisogno dell’adempiersi nell’opera di Dio. Quel battesimo era il simbolo del ravvedimento di cui Gesù non necessitava, ma lo accomunava a quanti lo praticavano confessando pubblicamente di attenderlo, di voler ripensare la loro condotta ed esistenza. Perché lo Spirito scese su di Gesù solo allora? Perché possiamo dire che, battezzandosi nelle acque del Giordano, Gesù dichiarava di voler prendere ufficialmente possesso dell’incarico ricevuto, che comportava condividere la vita umana in tutto fuorché nel peccato. Era come se quel battesimo fosse una dichiarazione ufficiale: uomo come gli altri, li avrebbe condotti come l’unico pastore al solo ovile possibile, quello di Dio.

Nell’annuncio del giudizio alle genti, alle nazioni, vediamo l’universalità del messaggio che non esclude nessun essere umano indipendentemente dalla razza o dalla condizione sociale oltre che la profezia in base alla quale l’opera dell’Inviato di Dio non sarebbe stata solo per il popolo eletto. Egli avrebbe predicato per mezzo dello Spirito Santo, l’unico a poter convincere l’uomo di peccato, giustizia e giudizio. L’uomo deve sapere che dovrà incontrare il proprio Creatore, in salvezza o in condanna, deve sapere che cos’è il giudizio e cosa sia effettivamente la giustizia, quella cui a modo suo tende come dimostrano tutti quei codici che, almeno nei tempi antichi, erano stati studiati e scritti a tutela della persona e non per la sua umiliazione, come oggi.

Con la deposizione dello Spirito Servo amato termina la prima parte dei versi di Isaia: se questa riguarda le caratteristiche, le credenziali del servo, la seconda ne illustra i metodi. “Non contesterà, non griderà e non si udrà la sua voce nelle piazze”, caratteristiche che si riferiscono a quelle che Paolo definisce “la dolcezza e la mansuetudine di Cristo” (2 Corinti 10.1) e al suo metodo che sarà sempre volto a voler recuperare e non condannare l’uomo agendo individualmente senza irrompere con grandi manifestazioni pubbliche facendo comizi per promuovere l’appartenenza a un partito.

Gesù cercò sempre l’essere umano che andrò da lui per ascoltarlo, seguirlo, farsi guarire. Se Salomone diceva che “la sapienza grida nelle piazze” alludeva al fatto che anche in un luogo come quello era possibile trarre considerazioni utili per riflettere, che questa era ovunque tranne nelle manifestazioni sguaiate, coreografiche o imposte come fanno alcuni regimi.

A questo metodo, che il servo farà proprio per tutta la sua vita terrena, si aggiungono altri esempi: “Non spezzerà una canna già incrinata, non spegnerà una fiamma smorta, finché non abbia fatto trionfare la giustizia”: qui “canna” e “fiamma” sono figure per indicare l’uomo per il quale c’è ancora una speranza di vita. La canna incrinata, o ammaccata che altri spezzerebbero ritenendola inutile, potrebbe tornare a vivere e produrre frutto se rialzata e legata a un sostegno e la “fiamma smorta”, o “lucignolo fumante”, se ravvivata con sostanze opportune, potrebbe tornare a fare luce. Gesù stesso illustra questo metodo nella parabola del lavoratore della vigna in Luca 13. 6-9: “Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarne dei frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo «Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Taglialo, dunque! Perché deve sfruttare il terreno?». Ma quello gli rispose: «Padrone, lascialo stare ancora quest’anno, finché gli avrò zappato intorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai»”.

Anche qui vediamo l’intercessione del vignaiolo, figura di Gesù pronto non ad abbattere l’albero infruttifero, ma a mettere in atto a favore dell’albero, figura dell’uomo, tutto quanto è in suo favore per porlo nella condizione di diventare produttivo. Senza la sua intercessione ed opera, alla quale nessuno può sostituirsi, ci sarebbe solo la morte. Per questo “Nel suo nome spereranno le nazioni”.

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3.10 – LE SPIGHE STRAPPATE (Matteo 12.1-8)

3.10 – Le spighe strappate (Matteo 12.1-8)

In quel tempo Gesù passò, in giorno di sabato, fra campi di grano e i suoi discepoli ebbero fame e cominciarono a cogliere delle spighe e a mangiarle. 2Vedendo ciò, i farisei gli dissero: «Ecco, i tuoi discepoli stanno facendo quello che non è lecito fare di sabato». 3Ma egli rispose loro: «Non avete letto quello che fece Davide, quando lui e i suoi compagni ebbero fame? 4Egli entrò nella casa di Dio e mangiarono i pani dell’offerta, che né a lui né ai suoi compagni era lecito mangiare, ma ai soli sacerdoti. 5O non avete letto nella Legge che nei giorni di sabato i sacerdoti nel tempio vìolano il sabato e tuttavia sono senza colpa? 6Ora io vi dico che qui vi è uno più grande del tempio. 7Se aveste compreso che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrifici, non avreste condannato persone senza colpa. 8Perché il Figlio dell’uomo è signore del sabato».”

Fra le tre versioni di questo episodio, la più accurata è quella di Matteo che utilizzeremo per le nostre riflessioni per quanto la collochi più avanti rispetto agli altri, che preferiscono porla dopo la questione sollevata dai discepoli di Giovanni e dai farisei sul digiuno. Luca è quello che colloca l’avvenimento temporalmente, anche se di questa sua annotazione in diverse traduzioni non v’è traccia: leggendo infatti 6.1 troviamo che “Un sabato Gesù passava tra i campi di grano e i suoi discepoli coglievano e mangiavano le spighe”. Alcuni testi dai quali diversi traduttori hanno attinto, primo fra tutti San Girolamo (317-420 d.C.), riportano “E avvenne che nel sabato secondo primo, passando egli per i seminati, i suoi discepoli coglievano spighe, e stritolatele con le mani, le mangiavano”. Diodati nel 1600, chiarisce cosa fosse quel “secondo primo” traducendo “nel primo sabato dal dì dopo la Pasqua”, come in effetti è. Di questa precisazione rimangono tracce sia nella Diodati riveduta, “”Ora avvenne che in giorno di sabato, dopo il gran sabato”, quanto nella Bibbia tradotta dall’abate Giuseppe Ricciotti (1949), sostanzialmente identica a quella di San Girolamo. La differenza è dovuta ai diversi codici greci presi in esame in cui il “sabato secondo primo” manca.

Fatta questa precisazione, doverosa perché chi legge Luca potrebbe chiedersi il perché di una differenza piuttosto rilevante tra i testi, entriamo nell’oggetto della presunta infrazione alla Legge che i discepoli di Gesù avrebbero compiuto. Era sabato, giorno di riposo, per il quale i Farisei avevano stabilito e aggiunto ben 39 azioni proibite tra le quali il mietere, che era indubbiamente un lavoro, ma anche stropicciare le spighe fra le mani. Per i farisei, per i quali era lavoro di sabato anche raccogliere un frutto caduto spontaneamente da un albero oppure mangiare un uovo, l’accusa bastava. Leggiamo invece in Deuteronomio 23.26 quanto segue: “Se passi tra la messe del tuo prossimo, potrai coglierne le spighe con la mano, ma non potrai mettere la falce nella messe dei tuo prossimo”, quindi di mietitura non se ne poteva parlare e la Legge, che proibiva il furto ma consentiva la spigolatura, faceva sì che e il proprietario del campo, indipendentemente dal fatto dal tipo di coltivazione, nel raccoglierne i frutti non ripassasse mai a cercare quelli rimasti indietro, ma li lasciasse ai poveri che avrebbero potuto raccoglierli. “Quando bacchierai i tuoi ulivi, non tornare a ripassare i rami. Sarà per il forestiero, per l’orfano e per la vedova. Quando vendemmierai la tua vigna, non tornerai indietro a racimolare. Sarà per il forestiero, per l’orfano e per la vedova. Ricordati che sei stato schiavo nella terra d’Egitto; perciò ti comando di fare questo” (Deuteronomio 24.20-22). Ancora: “Quando mieterete la messe della vostra terra, non mieterete fino ai margini del campo, né raccoglierete ciò che resta da spigolare della messe; quanto alla vigna, non coglierai i racimoli e non raccoglierai gli acini caduti: li lascerai per il povero e per il forestiero. Io sono YHWH, vostro Dio” (Levitico 19.9,10).

Quindi i discepoli, che presumiamo percorressero il “cammino di sabato” perché nulla in proposito rilevano gli oppositori di Gesù, non infrangevano le prescrizioni stabilite per quel giorno perché non solo non mietevano, ma neppure commettevano un furto. Gesù però non fa osservare loro questo, non li segue né apre una dissertazione su ciò che era o meno concesso di sabato, ma li riconduce allo spirito della Legge e li richiama a riconsiderare un episodio che dovevano conoscere molto bene. In casi come questo, in cui Lui cita episodi descritti nell’Antico Patto, mi viene sempre in mente che il Figlio di Dio era là, presente e testimone degli avvenimenti.

Ebbene Davide, perseguitato da Saulle che, accecato dall’invidia a seguito delle parole del canto delle donne israelite “Saul ha abbattuto i suoi mille, ma Davide i suoi diecimila”, voleva ucciderlo, giunse in fuga a Nob, città sacerdotale appartenente alla tribù di Beniamino. Nob era popolata da sacerdoti che, come membri della tribù di Levi, non possedevano una regione precisa ma si trovavano sparsi tra i vari centri della terra di Israele. Davide arriva così da Achimelech che, non avendo pane comune, alla sua richiesta di averne, gli dà quello sacro, cioè le dodici focacce che dovevano essere conservate davanti al luogo santo del tempio e rinnovate ogni sabato.

È un episodio al quale bisogna prestare molta attenzione perché contiene insegnamenti che vanno oltre le parole di Gesù a quei farisei: citando l’episodio, Nostro Signore implicitamente ricorda loro le verità nascoste bell’episodio che avrebbero dovuto e potuto meritare se solo avessero voluto. Ora Davide, e i suoi che lo attendevano in un luogo precedentemente concordato, era stremato dopo tre giorni di viaggio per cui la fame sua e degli altri era grave. Il fatto poi che il sacerdote non avesse pane e abbia scelto di dargli quello sacro, non trovandosi isolato in mezzo al deserto e potendo quindi cucinargli del pane normale, lascia supporre che fosse sabato e che quei pani, detti “di presentazione” fossero gli unici che gli fosse lecito preparare. Certo la Legge prescriveva che nessuno li potesse toccare o mangiare, ma se il sacerdote non avesse deciso di sfamare Davide e i suoi con quelli, li avrebbe debilitati visto che erano in fuga e sarebbero potuti morire. Erano uomini stremati. Inoltre Davide, quando si presenta ad Achimelech, non gli dice che stava scappando da Saul, ma “Il re mi ha ordinato e mi ha detto «Nessuno sappia di questa cosa per la quale io ti mando e di cui ti ho dato incarico»”, sempre per proteggere la propria vita. L’episodio è raccontato al capitolo 21 del primo libro di Samuele.

A proposito dei pani di presentazione, leggiamo Esodo 25.30: “Sulla tavola collocherai i pani della presentazione, saranno sempre alla mia presenza”. È un comandamento non da poco le cui parole “sempre” e “mia presenza” ci danno l’idea della continuità e di quanto quest’ordine fosse assoluto e il termine stesso “pane di presentazione” letteralmente dall’ebraico si traduce con “pane di facce” a motivo del fatto che dovesse restare davanti a Dio.

Se andiamo in Levitico 24.5-9, poi, abbiamo una visione ancora più esaustiva di quanto fosse seria la funzione di quei pani: “Prenderai anche fior di farina e ne farai cuocere dodici focacce. (…) Le disporrai su due pile, sei per pila, sulla tavola d’oro puro davanti al Signore, sempre. Porrai incenso puro sopra ogni pila, perché serva da memoriale per il pane, come sacrificio consumato dal fuoco in onore del Signore. Ogni giorno di sabato lo si disporrà davanti al Signore perennemente da parte degli israeliti: è un’alleanza eterna. Sarà riservato ad Aaronne e ai suoi figli: essi lo mangeranno in luogo santo, perché sarà per loro una cosa santissima tra i sacrifici da bruciare in onore del Signore. È una legge perenne”. Anche qui il redattore del libro del Levitico usa termini che poco spazio lasciano all’interpretazione: “in onore del Signore” – “perennemente” – “alleanza eterna” – “riservato” – “luogo santo” – “cosa santissima” – “in onore del Signore“ (per la seconda volta) – “legge perenne” (per la seconda volta).

Ebbene, queste istruzioni così particolareggiate vengono temporaneamente abolite dietro un’iniziativa non contemplata dalla Legge per salvare una vita umana e Dio non ne chiederà conto né ad Achimelech, né a Davide quando il solo annusare l’incenso preparato per il servizio sacerdotale o il fabbricarne di simile, era punito con la morte. Tutto questo abbatteva il formalismo esasperato – oggi lo chiameremmo radicalismo – di quei farisei ancora una volta chiamati a considerare da Gesù che la misericordia valeva più del sacrificio. Ancora una volta viene citato Osea, ancora una volta si sottolinea il principio in base al quale quando la misericordia – vedasi l’amore – e il sacrificio, cioè la parte esterna della religione, vengono in conflitto, Dio nella sua benignità sceglie la prima.

È indubbiamente questa una verità che dovrebbe molto insegnare a quei cristiani che si arroccano su posizioni che tendono a dividere il mondo in bianco e nero senza possibilità di grigio e dimenticano che Dio ha creato il colore. Camminare in mezzo a un bosco in estate equivale a vedere non del verde, ma sue sfumature infinite tutte riferite alla vita, così come guardare il cielo non significa vedere solo un azzurro uniforme che si trova, solo e al limite, in quei cartoni animati in cui i disegnatori devono produrre fotogrammi dipendenti da costi di produzione.

Marco scrive che Gesù disse nell’occasione che “il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato”, cioè: l’uomo aveva bisogno di riposo per rigenerare le proprie energie e per questo era stata imposta l’astensione dal lavoro dandogli modo di far propria e meditare l’opera di Dio che in quel giorno contemplò il suo lavoro minato da Satana attraverso la disubbidienza dei nostri progenitori. Il sabato di Dio doveva essere eterno, santificato dalla reciprocità di amore tra lui e l’uomo, suo vero capolavoro protagonista in un creato perfetto e puro. L’uomo non era stato creato per osservare il sabato, ma per vivere pienamente condividendo con il suo Creatore giorno di eternità e beatitudine. Dopo la caduta, era chiamato ad osservarlo anche per riflettere sulla sua condizione consacrando il suo tempo al Signore.

Per questo Gesù, “Figlio dell’uomo” indicato nei testi profetici, era “Signore del sabato” e anche “più grande del Tempio”, cosa che i farisei non potevano accettare perché, in quel caso, tutto il loro castello di teoremi e il loro stesso modo di vivere, con il rispetto che avevano presso il popolo, sarebbe crollato. Avrebbero dovuto rinunciare a loro stessi, porre tutto in discussione da capo. In poche parole, avrebbero dovuto ubbidire a quell’esortazione detta loro qualche giorno prima, “Andate e imparate cosa vuol dire «Voglio misericordia e non sacrificio»”. Là dove il termine allude, da dizionario, a un “sentimento di compassione e pietà per l’infelicità e la sventura altrui che induce a soccorrere, a perdonare e a non infierire”. E l’episodio successivo sarà proprio un nuovo miracolo, il terzo operato da Gesù in giorno di sabato.

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3.09 – LA DISCUSSIONE SUL DIGIUNO (Matteo 9.18-22)

3.09 – La discussione sul digiuno (Matteo 9.18-22)

 

14Allora gli si avvicinarono i discepoli di Giovanni e gli dissero: «Perché noi e i farisei digiuniamo molte volte, mentre i tuoi discepoli non digiunano?». 15E Gesù disse loro: «Possono forse gli invitati a nozze essere in lutto finché lo sposo è con loro? Ma verranno giorni quando lo sposo sarà loro tolto, e allora digiuneranno. 16Nessuno mette un pezzo di stoffa grezza su un vestito vecchio, perché il rattoppo porta via qualcosa dal vestito e lo strappo diventa peggiore. 17Né si versa vino nuovo in otri vecchi, altrimenti si spaccano gli otri e il vino si spande e gli otri vanno perduti. Ma si versa vino nuovo in otri nuovi, e così l’uno e gli altri si conservano»”.

 

Questo episodio viene integrato da Marco con una precisazione importante vista nella frase di apertura “I discepoli di Giovanni e i farisei stavano facendo un digiuno” (2.18), mentre Matteo (che era presente) e Luca lo collocano subito dopo le parole di Gesù ai farisei e ai loro discepoli che abbiamo esaminato la volta scorsa. Qui c’è però un cambio di interlocutori perché i farisei erano stati ridotti al silenzio. Non sapevano più cosa rispondere anche perché, citando Osea, Nostro Signore era risalito ai tempi in cui la tradizione rabbinica ancora non esisteva e, con le Sue parole, si era collegato alla sintesi degli antichi profeti che avevano mirato molto più alla formazione spirituale che alle formalità rituali, cosa che aveva fatto anche Giovanni Battista, l’ultimo profeta dell’Antico Patto.

È a questo punto che intervengono i discepoli di Giovanni, che con il loro rimanere ancorati al loro maestro dimostravano di non aver capito nulla né delle sue parole, né di che cosa aveva significato il suo battesimo, anzi, con la frase “Perché noi e i farisei digiuniamo molte volte, mentre i tuoi discepoli non digiunano?” (v.14) si associano a loro. È come se volessero dire “Noi e i farisei abbiamo questa tradizione che ha radici nella Legge, perché tu non dici ai tuoi discepoli di fare altrettanto?”. È triste considerare quanto, nella pratica, quelli che seguivano il Battista fossero distanti dal loro maestro che, nella sua predicazione, si era sempre distinto da Gesù per ruolo e funzione: aveva detto di non essere il Cristo, che dopo di lui sarebbe venuto uno cui non era degno di sciogliere neppure il laccio dei sandali, lo aveva indicato come “l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo” e aveva spiegato ai suoi discepoli che chi doveva “crescere” non era l’amico dello sposo, ma lo sposo stesso: meglio di così, non poteva parlare per spiegare ai suoi che il suo compito volgeva ormai al termine.

Il voler rimanere fedeli a Giovanni da parte dei suoi discepoli denotava allora che non solo non avevano capito la differenza tra i due inviati di Dio, ma che rimanevano ancorati a vecchi preconcetti: non avevano realizzato il fatto che Giovanni era e sarebbe stato l’ultimo dei profeti secondo le parole “La Legge durò fino a Giovanni”, ponte tra le due dispensazioni della Legge e della Grazia. Ora che Gesù aveva iniziato a predicare dimostrando di essere Colui che avrebbe rivelato il Padre, erano le Sue parole che gli uomini avrebbero dovuto conoscere, ascoltare e mettere in pratica, era Lui che avrebbero dovuto seguire. Invece tutti avevano una grande confusione in merito, compreso più avanti lo stesso Battista che, come abbiamo già ricordato, gli mandò a chiedere se era lui quello che avrebbe dovuto arrivare oppure avrebbero dovuto aspettarne un altro. Queste parole dimostrano che Giovanni, pur avendolo riconosciuto nelle modalità che abbiamo visto a suo tempo, era ancora ancorato all’idea secondo la quale il Messia avrebbe agito con potenza sui suoi nemici e quindi lo avrebbe liberato dalla prigione del Macheronte in cui certamente soffriva.

I discepoli del Battista, quindi, a vedere quell’abbondante convito, si scandalizzarono, ritenendo il digiuno meritevole davanti a Dio e l’agire dei discepoli di Gesù in contrasto con la loro posizione. Il digiuno: non lo troviamo comandato in modo chiaro e assoluto nella Legge, ma lo vediamo la prima volta come forma esteriore di penitenza nel caso di Mosè, che a fronte dei peccati del popolo stette senza mangiare né bere per un certo periodo (Deuteronomio 9.17-19). È probabile che il digiuno sia citato con l’espressione “affliggerete le vostre persone”, tradotto anche con “vi umilierete” in Levitico 16.28-34: in questo caso il digiuno è comandato una volta all’anno nel gran giorno dell’espiazione nel quale si compendiavano tutte le cerimonie espiatorie. Dice il testo “29Questa sarà per voi una legge perenne: nel settimo mese, nel decimo giorno del mese, affliggerete le vostre persone, vi asterrete da qualsiasi lavoro, sia colui che è nativo del paese sia il forestiero che soggiorna in mezzo a voi, 30poiché in quel giorno si compirà il rito espiatorio per voi, al fine di purificarvi da tutti i vostri peccati. Sarete purificati davanti al Signore. 31Sarà per voi un sabato di riposo assoluto e voi vi umilierete; è una legge perenne. 32Compirà il rito espiatorio il sacerdote che ha ricevuto l’unzione e l’investitura per succedere nel sacerdozio al posto di suo padre; si vestirà delle vesti di lino, delle vesti sacre. 33Purificherà la parte più santa del santuario, purificherà la tenda del convegno e l’altare; farà l’espiazione per i sacerdoti e per tutto il popolo della comunità. 34Questa sarà per voi una legge perenne: una volta all’anno si compirà il rito espiatorio in favore degli Israeliti, per tutti i loro peccati».

Fu nel corso del tempo che il digiuno assunse valore come pratica di penitenza e soprattutto con l’intento di mortificare gli appetiti della carne concentrandosi sullo spirito in grado di dominarla. Sappiamo che Gesù digiunava spesso e che non lo proibì, ma nel nostro episodio siamo di fronte a una realtà diversa: Marco ci spiega l’origine di quella contesa con le parole “I discepoli di Giovanni e i farisei stavano facendo un digiuno” (v.18); si trattava quindi di un’astinenza tradizionale, quella di cui, per lo meno i farisei, abusavano spacciandola come mezzo per essere giustificati davanti a Dio, ma facendo in modo di farlo notare agli altri. Gesù commentò così questo atteggiamento: “E quando digiunate, non diventate malinconici come gli ipocriti, che assumono un’aria disfatta per far vedere agli altri che digiunano. In verità vi dico che hanno già ricevuto la loro ricompensa. Invece, quando tu digiuni, profumati la testa e làvati il volto, perché la gente non veda che tu digiuni, ma solo il Padre tuo, che è nel segreto. E il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà” (Matteo 6.16-18).

Anche prendendo il digiuno a prescindere da quanto abbiamo letto, a questo punto Gesù usa un termine che i discepoli di Giovanni dovevano conoscere molto bene perché lo avevano già sentito dal loro maestro, quello dello sposo: “Possono forse gli invitati a nozze essere in lutto finché lo sposo è con loro?”. E, parlando della Sua morte imminente, aggiunge “Ma verranno giorni quando lo sposo sarà loro tolto, e allora digiuneranno”. Giovanni non era lo sposo, ma il suo amico, che si “rallegra grandemente alla sua voce”. Il digiuno quindi, emblema del cordoglio, era lì fuori luogo.

Gesù si definisce quindi come “lo sposo” e i presenti al banchetto come “gli invitati alle nozze”, o meglio “gli amici della camera nuziale”, in questo caso quei pubblicani e i peccatori ai quali aveva o avrebbe predicato invitandoli a condividere, credendo in lui, la partecipazione alle nozze future, quelle che si sarebbero celebrate quando la Chiesa, sposa di Cristo, avrebbe potuto essere presentata a lui completa, con tutti i suoi membri.

Già negli scritti dell’Antico Patto i profeti avevano parlato dello sposo, fra i molti Isaia che scrive “…poiché il tuo sposo è il tuo creatore, Signore degli eserciti – angelici – è il suo nome; tuo redentore è il santo di Israele, è chiamato Dio di tutta la terra” (Isaia 54.5), parole che Paolo accosta alla Gerusalemme che deve venire in cui dimoreranno tutti i credenti: “La Gerusalemme attuale è di fatto schiava assieme ai suoi figli. Invece la Gerusalemme di lassù è libera ed è la madre di tutti noi” (Galati 4.25,26).

Lo sposo però, tornando al presente cui Gesù fa riferimento, “sarà tolto”, termine che esprime violenza e sta ad indicare il dolore e la paura che si impossesserà dei discepoli dal Suo alla resurrezione.

A questo punto Gesù pone i suoi uditori innanzi a due paragoni, quello del panno e degli otri: c’è un vestito, termine che nella Scrittura si riferisce sempre a una condizione (giustizia, perdono, purezza, vendetta, gioia e lode) e c’è un rattoppo, cioè una parte nuova, ma grezza, non gestibile perché il rammendo provocherebbe al primo lavaggio il restringersi dal tessuto vecchio lacerandolo e ottenendo un effetto ancora peggiore. Ci sono poi gli otri vecchi che, già indeboliti e irrigiditi dalla fermentazione del vino precedente, scoppierebbero di fronte alla forza del nuovo: Gesù allora non parla di uomini, ma di sistemi e, come scrive Robert Stewart, “Nel vino nuovo è simboleggiato il Vangelo con la sua energia viva e spirituale, negli otri vecchi la dispensazione cerimoniale giudaica”. L’insegnamento di Gesù in questo caso è che l’energia, la potenza del Vangelo, non può essere limitata dall’osservanza della lettera, ma deve svilupparsi con lo Spirito perché è scritto che la prima uccide, mentre lo spirito vivifica. Mescolando tra loro le due dispensazioni e i loro contenuti entrambe non potrebbero reggere e verrebbero sfigurate, svuotate, si distruggerebbero per quanto non siano tra loro in antitesi. Un vestito è vecchio, ma c’è un panno nuovo che in comune col primo ha solo la composizione del tessuto. Gli otri sono vecchi, hanno già svolto il loro compito, hanno già dato, non sono in grado di reggere un vino nuovo. Sappiamo che l’apostolo Paolo, nonostante il suo passato di dottore della Legge, scrive in proposito:“8Dio infatti, biasimando il suo popolo, dice: Ecco: vengono giorni, dice il Signore, quando io concluderò un’alleanza nuova con la casa d’Israele e con la casa di Giuda. 9Non sarà come l’alleanza che feci con i loro padri, nel giorno in cui li presi per mano per farli uscire dalla terra d’Egitto; poiché essi non rimasero fedeli alla mia alleanza, anch’io non ebbi più cura di loro, dice il Signore. 10E questa è l’alleanza che io stipulerò con la casa d’Israele dopo quei giorni, dice il Signore: porrò le mie leggi nella loro mente e le imprimerò nei loro cuori; sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo. 11Né alcuno avrà più da istruire il suo concittadino, né alcuno il proprio fratello, dicendo: «Conosci il Signore!». Tutti infatti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande di loro. 12Perché io perdonerò le loro iniquità e non mi ricorderò più dei loro peccati. 13Dicendo alleanza nuova, Dio ha dichiarato antica la prima: ma, ciò che diventa antico e invecchia, è prossimo a scomparire.” (Ebrei 8.8-13). I versi che Paolo cita, riferiti al capitolo 31 di Geremia, li pone in una prospettiva che deve ancora venire.

Torniamo al nostro episodio e facciamo ora riferimento a Luca, il solo a fare un’aggiunta dopo il paragone dei rattoppo e degli otri: “Nessuno poi che beve il vino vecchio desidera il nuovo, perché dice «Il vecchio è gradevole»” (5.39). Gesù fa qui una considerazione amara su quanti, abituati al sapore del vino vecchio, non gradiscono il nuovo. I farisei e i discepoli di Giovanni erano abituati, affezionati alle loro antiche abitudini, dottrine e tradizioni e in queste si ritenevano al sicuro perché “si è sempre fatto così”, come sentiamo dire da molti. Così avevano ereditato le tradizioni, c’erano rabbini che su di esse costruivano interpretazioni e teoremi, la Legge cerimoniale era una condizione di vita alla quale attingere, ma anche sulla quale sostare in pace con la propria coscienza, convinti di essere nel giusto, che a tutto ci fosse rimedio. Ne erano però prigionieri, nulla vedevano al di là di essa né volevano alcunché di nuovo per cui la dottrina di Cristo era malvista nonostante fosse accompagnata da segni volti a far capire che il Regno di Dio era giunto a loro dopo millenni di deserto, pur con qualche speranza data da profeti troppo spesso rimasti inascoltati. Diversi furono però i samaritani, che dissero “Noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo”. Vino nuovo in otri nuovi.

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3.08 – LEVI MATTEO (Matteo 9.9-13)

3.08 – La chiamata di Levi Matteo (Matteo 9.9-13)

9Andando via di là, Gesù vide un uomo, chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: «Seguimi». Ed egli si alzò e lo seguì. 10Mentre sedeva a tavola nella casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e se ne stavano a tavola con Gesù e con i suoi discepoli. 11Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: «Come mai il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?». 12Udito questo, disse: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. 13Andate a imparare che cosa vuol dire: Misericordia io voglio e non sacrifici. Io non sono venuto infatti a chiamare i giusti, ma i peccatori»”

Levi Matteo è il settimo ad essere chiamato personalmente da Gesù nel gruppo dei suoi discepoli. Ricordiamo cronologicamente gli altri, che verranno disposti più avanti in ordine di funzione e carattere: i primi incontrati furono Giovanni con Andrea, quindi Simon Pietro, Filippo e Natanaele, chiamato Bartimeo. A seguirlo dopo la pesca sulle rive del lago di Galilea furono Pietro col fratello Andrea e subito dopo Giacomo con Giovanni. Matteo fu quindi il quinto di cui è espressamente scritta la chiamata, settimo se si contano i discepoli, poi chiamati apostoli, che incontrarono Gesù. Tutti i sinottici concordano nel collocare l’episodio dopo quello della guarigione del paralitico di Capernaum, di modo che il filo cronologico temporaneamente perduto o dubbio si riannoda. Marco scrive che “Uscì di nuovo lungo il mare, tutta la folla veniva a lui ed egli insegnava loro. Passando, vide Levi, figlio di Alfeo, seduto al banco delle imposte, e gli disse «Seguimi»” (2.13,14). Capernaum infatti, posta sulla via principale tra l’Egitto e Damasco, aveva una dogana posta dai romani per la riscossione delle tasse sulle merci che transitavano.

Matteo è chiamato da Marco “Levi, figlio di Alfeo” (2.14) e semplicemente “Levi” da Luca (5.29) perché, come molti stante la situazione politica del tempo, aveva un nome ebreo (Levi, cioè “Congiunzione”) e uno romano (Matteo, comunque di derivazione greca, “Dono del Signore”): coi romani, considerato il lavoro che faceva, si relazionava molto in quanto dipendente del loro governo. I pubblicani erano considerati dei “venduti” e disprezzati al pari delle prostitute e sappiamo che il fariseo di una nota parabola ringraziava Dio di non essere “come gli altri uomini e neppure come quel pubblicano” che era salito al Tempio con lui a pregare.

Levi Matteo era una persona colta e benestante, che conosceva già Nostro Signore perché era un suo parente. Matteo, lo abbiamo visto in Marco, è chiamato “Figlio di Alfeo” che in aramaico diventa “Cleopa”, o “Cleofa”, probabile marito di quella “Maria di Cleofa” presente alla crocifissione assieme ad altre donne, sorella di Maria madre di Gesù. Stante l’impossibilità di avere certezze assolute in proposito, è stato supposto che Alfeo–Cleofa fosse lo zio di Gesù e Matteo suo cugino, fratello di quel Giacomo detto “il minore” che rientrerà nel gruppo dei dodici. Va detto che lo studio delle relazioni parentali si presenta assai arduo sia per la doppia valenza che ha il termine “fratello”, che nell’antichità indicava anche una parentela prossima, ma anche per il “di” che poteva riferirsi a un rapporto di paternità come a un vincolo matrimoniale. Inoltre uno scritto di un autore esegetico importante pubblicato nei primi anni del ‘900 arriva a sostenere che non vi siano prove dell’equivalenza “Alfeo – Cleopa”. Personalmente ritengo che quel “figlio di Alfeo” non compaia a caso e che effettivamente vi fosse un legame tra i personaggi citati, per quanto non dimostrabile con assoluta certezza.

A prescindere da questi rapporti che nulla vanno a modificare nella dottrina, cerchiamo di capire Matteo più da vicino: era una persona che viveva col guadagno del suo lavoro e non faceva la cresta sulle tasse come molti suoi colleghi. Il fatto che sapesse benissimo di essere disprezzato dai suoi correligionari e che non se ne facesse un cruccio, è indice di autonomia decisionale e maturità. Evidentemente Matteo era giunto alla conclusione che fosse meglio lavorare onestamente e dignitosamente senza infrangere il comandamento “Non rubare”. Era poi una persona attenta alla realtà che lo circondava: sicuramente, per il suo lavoro e le conoscenze di persone che gli raccontavano le cronache dei dintorni, aveva avuto modo di ragionare molto su quel Gesù da Narareth che già aveva operato miracoli di ogni tipo in Capernaum e nella Galilea, oltre che sui contenuti dei discorsi alla gente. Questo apostolo dai due nomi si rivelerà come “Congiunzione” nello scrivere in suo Vangelo, particolarmente accurato nell’analizzare le profezie che riguardano Gesù come Cristo – ne cita 60 -, e “Dono di Dio” per la sua opera scritta, che da sempre ha aiutato i credenti nel corso della storia per la comprensione dell’opera di Nostro Signore. Gesù quindi sapeva di poter contare su di lui esattamente come era successo con gli altri, Simone e Andrea, Giacomo e Giovanni, Filippo e Natanaele-Bartolomeo. Se così non fosse, non gli avrebbe mai detto “Seguimi” e se Matteo non avesse concluso, non sappiamo quanto tempo prima, che la vita che conduceva quotidianamente non poteva avere nulla a che fare con quella spirituale ed eterna, o anche solo il voler vivere vicino a quel Maestro, non avrebbe mai abbandonato il suo lavoro: Luca scrive infatti “Ed egli, lasciando tutto, si alzò e lo seguì” (5.28). Fu una reazione immediata, colse al volo un’occasione irripetibile non preoccupandosi di altro, il che ci dice molto della considerazione nella quale teneva la propria vita fino ad allora tranquilla e ordinata nonostante il disprezzo in cui era tenuta la sua professione.

In lui vi dovette essere molta gioia poiché organizzò poco dopo “un grande banchetto nella sua casa” non penso per festeggiare l’avvenimento della sua chiamata, ma piuttosto per permettere alle persone che conosceva di avere il privilegio di ascoltare Gesù, di stare con lui, di condividere la sua presenza. Esattamente come dovrebbe accadere nelle riunioni di Chiesa in cui occhi e orecchie spirituali dovrebbero essere centrate su Cristo, presente secondo la Sua promessa dei “due o tre” radunati nel Suo nome.

Matteo quindi organizza un convito importante non solo quanto a numero e tipo di partecipanti e invitando le persone che conosceva: tutto questo suscitò l’indignazione dei farisei (“Gli scribi dei farisei” secondo Marco): come poteva, quel Rabbi che faceva miracoli cacciando demoni e insegnando nelle sinagoghe, stare a tavola con “pubblicani e peccatori”, termine quest’ultimo riferito ai trasgressori della legge morale e cerimoniale di Israele?

La risposta di Gesù, che sentì la domanda, fu duplice: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati”, alludendo al fatto che, se fosse vissuto separato dai peccatori non avrebbe mai potuto parlare loro. Egli li vedeva soli nella loro condizione spirituale, ma non arroganti e presuntuosi nell’anima e nello spirito come quei farisei, malati pure loro, ma nella condizione di chi il medico lo rifiuta perché convinto di essere sano. La frase che segue subito dopo, “Io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori”, allude proprio a questo perché era tutto l’impianto morale dei farisei ad essere in difetto per cui li invita ad “andare” e a “imparare” (un modo per dire che avrebbero dovuto tornare a scuola) cosa volesse dire “Io voglio misericordia e non sacrifici”. Tra l’altro, proprio “Va’ e impara” era un’espressione che i Farisei utilizzavano molto spesso a conclusione di un discorso per far pesare sugli altri la superiorità che pensavano di avere.

Da sempre i farisei – allora come oggi – facevano e fanno interminabili dissertazioni su qualunque versetto biblico andando ben oltre l’esegesi con un metodo che Gesù definirà con queste parole: “Guai a voi, scribi e farisei, ipocriti, (…) che filtrate il moscerino e ingoiate il cammello”, un paragone che illustra molto bene il loro metodo di guardare alle minuzie perdendo di vista ciò che effettivamente era ed è la sostanza delle cose. Solo la conversione avrebbe potuto guarire quei malati che si credevano sani, e per questo Gesù li invita a considerare il passo di Osea 6.6 che conoscevano molto bene, ma che viene loro ripetuto a voce: la misericordia “piuttosto che” – traduzione più corretta di “e non” – sacrifici, quindi la parte cerimoniale della Legge a loro tanto cara. Anche oggi molti per conversione intendono una rinuncia, un abbandono di azioni e comportamenti che caratterizzavano la loro vita di peccatori prima del loro incontro personale col Signore: se questo non è di per sé sbagliato, va detto che senza una profonda rivisitazione della propria vita e un’assimilazione della Parola di Dio che porta alla rinuncia, il loro gesto può essere un’azione che può lasciare dei rimpianti e dei residui all’interno dei loro cuori che a lungo andare possono sempre esplodere con conseguenze destabilizzanti. Matteo, e prima di lui gli altri, avevano lasciato le loro cose, quindi il loro modo di vivere, solo nel momento in cui avevano capito sì che quella era l’unica cosa che potessero fare, ma che tutto ciò che possedevano si era svuotato di significato. Non fu una rinuncia dolorosa, ma la scelta tra ciò che era prezioso e ciò che non aveva più valore. Purtroppo molti anche oggi intendono il cristianesimo come un’applicazione di norme e comandamenti, dimenticando che è una libera espressione di un sé che si manifesta attraverso l’applicazione di principi etici.

Tornando all’episodio, guardare alla Legge cerimoniale da parte dei farisei e dei loro scribi significava osservare una religione che consisteva soltanto nell’aderire alla lettera a quanto era comandato da Dio, ma trascurandone totalmente lo spirito. Anche ai tempi di Osea (VII secolo a.C.) si credeva che la cosa più gradita a Dio fosse il sacrificio esteriore e materiale perché era molto più facile far pagare i propri peccati a una vittima innocente, l’animale, piuttosto che esaminarsi profondamente per mutare radicalmente il proprio interno. Anche Samuele, ancora prima, aveva detto “Il Signore gradisce gli olocausti e i sacrifici come chi ubbidisce alla sua voce? Ecco, ubbidire è più prezioso che il sacrificio, e attendere più del grasso dei montoni” (1 Samuele 15.22). Possiamo dire che questo tipo di ragionamento avviene anche oggi nel cristianesimo nel momento in cui, ad esempio, si fa di Dio una persona che dovrebbe essere sempre attenta ad esaudire le preghiere che pongono sempre e costantemente al centro le necessità materiali dell’individuo anziché una richiesta di aiuto e soccorso per eliminare ciò che ritarda il cammino con lui. Sono queste preghiere che vengono costantemente disattese perché, come disse l’apostolo Giacomo, “Non avete perché non chiedete; chiedete e non ottenete perché chiedete male, per soddisfare cioè le vostre passioni. Gente infedele! Non sapete che l’amore per il mondo è nemico di Dio?” (Giacomo 4.2,3).

Alla base dell’atteggiamento farisaico esiste sempre una presunzione che ha santificato l’orgoglio, che nulla sa dell’amore che non sia per se stessi. Invece pochi versi dopo quelli che abbiamo citato, Giacomo scrive “Dio resiste ai superbi, ma dà la sua grazia agli umili. Sottomettetevi dunque a Dio; resistete al diavolo, ed egli fuggirà da voi. Avvicinatevi a Dio ed Egli si avvicinerà a voi. Peccatori, purificate le vostre mani. Uomini dall’animo indeciso, santificate i vostri cuori. Riconoscete la vostra miseria, fate lutto e piangete; le vostre risa si cambino in lutto e la vostra allegria in tristezza. Umiliatevi davanti al Signore ed egli vi esalterà”. (4.6-10).

 

Gesù dichiara quindi di non essere venuto a chiamare chi si ritiene giusto, ma chi sa di avere bisogno di lui, cosa possibile solo se è consapevole di essere un peccatore, una persona in antitesi a lui e quindi soggetta ad essere respinta da parte Sua. In pratica, chi è malato chiama il medico perché si rende conto della sua condizione, ne avverte i sintomi e quindi si rivolge a lo può guarire, anzi, se è grave cerca il medico migliore. Per tutti i cosiddetti “sani” valgono invece le parole, tra le innumerevoli, di Proverbi 1.30,31: “Vi ho chiamati, ma avete rifiutato, ho steso la mano e nessuno se ne è accorto. Avete trascurato ogni mio consiglio e i miei rimproveri non li avete accolti; anch’io riderò delle vostre sventure, mi farò beffe quando su di voi verrà la paura, quando come una tempesta vi piomberà addosso il terrore, quando la disgrazia vi raggiungerà come un uragano, quando vi colpiranno angoscia e tribolazione. Allora mi invocheranno, ma io non risponderò, mi cercheranno, ma non mi troveranno. Perché hanno odiato la sapienza e non hanno preferito il timore del Signore e non hanno accettato il mio consiglio e hanno disprezzato ogni mio rimprovero; mangeranno perciò il frutto della loro condotta e si sazieranno dei loro consigli”.

Se quindi una persona è consapevole di essere un peccatore, riconoscendosi in tal modo malato, ha bisogno di confrontarsi con Dio e Gesù Cristo, la Sua diretta Parola. Solo allora potrà essere guarito ed instaurare con Lui un rapporto unico di dipendenza e bisogno continuo; viceversa potrà solo rimanere nelle propria convinzione, umanamente sazio nella propria coscienza. Si tratta di un pericolo che tutti possono correre, anche i cristiani che perdono di vista la loro chiamata e lo scopo per cui vivono il loro pellegrinaggio terreno in vista dei “nuovi cieli e nuova terra dove dimora stabile la Giustizia” promessi e preparati per loro. Ricordiamo le parole all’angelo della Chiesa di Laodicea: “Tu dici «Sono ricco, mi sono arricchito, non ho bisogno di nulla». Ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo” (Apocalisse 3.17). Perché, questo è il punto, “Non c’è nessun giusto, neppure uno” (Romani 3.9). Amen.

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3.05 – IL LEBBROSO GUARITO (Matteo 8.1-4 e riferimenti)

3.05 – Il lebbroso guarito (Matteo 8.1-4, Marco 1.40-45, Luca 5.12-15)

 

Dalla chiamata di Simone, Andrea, Giacomo e Giovanni, per un certo tempo, stabilire una cronologia di avvenimenti diventa praticamente impossibile ed è probabile che i sinottici mettano i miracoli che Gesù fece in Galilea senza preoccuparsi di indicarne la reale successione stante il fatto che i loro Vangeli sono un libro di testimonianza e non si preoccupano della successione temporale. Se gli Autori avessero dovuto e/o voluto scrivere un trattato storico, si sarebbero comportati diversamente ma, stante il profondo significato che rivestono i miracoli, ce ne presentano alcuni fra quelli compiuti in Galilea. In particolare la guarigione del lebbroso, il primo a venire narrato da Marco e Luca dopo la chiamata dei quattro, avvenne forse dopo il sermone di Gesù detto “della montagna”, stante la precisione con la quale Matteo lo colloca. Leggiamo infatti al suo capitolo ottavo:

1 Scese dal monte e molta folla lo seguì. 2Ed ecco, si avvicinò un lebbroso, si prostrò davanti a lui e disse: «Signore, se vuoi, puoi purificarmi». 3Tese la mano e lo toccò dicendo: «Lo voglio: sii purificato!». E subito la sua lebbra fu guarita. 4Poi Gesù gli disse: «Guàrdati bene dal dirlo a qualcuno; va’ invece a mostrarti al sacerdote e presenta l’offerta prescritta da Mosè come testimonianza per loro»” (Matteo 8.1-4)”.

Leggiamo Marco, che fornisce qualche particolare in più, con Luca che concorda interamente con lui:

“40Venne da lui un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi purificarmi!». 41Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, sii purificato!». 42E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato. 43E, ammonendolo severamente, lo cacciò via subito 44e gli disse: «Guarda di non dire niente a nessuno; va’, invece, a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha prescritto, come testimonianza per loro». 45Ma quello si allontanò e si mise a proclamare e a divulgare il fatto, tanto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti; e venivano a lui da ogni parte”. “ (1.40-45)

Prima di analizzare l’episodio, occorre dare delle indicazioni sulla lebbra, malattia terribile che, nella Bibbia, non indica necessariamente quella oggi conosciuta dalla medicina, ma anche altre irritazioni patologiche infettive della pelle. Alcune traduzioni antiche infatti la chiamano vitiligine (che però non è infettiva e non corrisponde alle caratteristiche riportate nel levitico), Tacito ne parla come “consunzione che contamina i corpi”, altri la paragonano alla tigna. In realtà, nei testi riguardo alla lebbra, è fuor di dubbio che la si citi nelle sue due forme, a macchie o a noduli. C’è anche, come abbiamo fatto per la febbre, da stabilire un preciso distinguo sul significato che aveva per Israele e per gli altri popoli perché, come abbiamo ricordato in un altro episodio, se la malattia per i pagani altro non era che la conseguenza del peccato in Adamo, quindi facente parte degli eventi che rientravano nella esclusione da Eden in cui non esisteva, per Israele era un evento che avrebbe potuto essere evitato con l’osservanza della Legge e dei suoi comandamenti secondo il capitolo 28 del Deuteronomio.

La lebbra così come è stata e viene studiata, quella che flagellò l’Europa medievale, si distingue in tubercoloide o lepromatosa: nel primo caso si presenta con alcune macule o placche ipopigmentate o eritematose, a volte con lesioni papulose raggruppate. Alcune possono diventare ipoanestetiche. La terminazione nervosa appare edematosa e ispessita, con possibile danno neurologico attorno ad esse. La seconda è invece molto più invalidante: dal naso chiuso con epistassi si passa a macchie ipocromiche seguite da lesioni di ogni tipo sui tessuti molli: pustole, noduli, placche, la pelle del volto si ispessisce con lesioni che poi portano alla deformazione o distruzione della cartilagine, del setto e delle ossa nasali. Si modificano le ossa, la pelle delle gambe si ispessisce e viene interessata da ulcere che causano deformazioni, infezioni, necrosi e non di rado si rendono necessarie le amputazioni delle estremità.

Vediamo come è descritta nell’Antico Testamento. Il capitolo 13 del libro del Levitico dà istruzioni minuziose al sacerdote per distinguerla ed in Deuteronomio 24.8, per evitare contagi, leggiamo “In caso di lebbra, bada bene ad osservare diligentemente e fare quanto i sacerdoti leviti vi insegneranno”: spettava infatti solo al sacerdote fare la diagnosi e dichiarare il lebbroso guarito o meno.

Il lebbroso perdeva qualunque tipo di ruolo e di contatto con la società, come fu nel caso del re Ozia, detto anche Azaria, punito con quella malattia perché voleva offrire l’incenso sull’altare al posto dei sacerdoti consacrati a quel compito: “18Questi si opposero al re Ozia, dicendogli: «Non tocca a te, Ozia, offrire l’incenso al Signore, ma ai sacerdoti figli di Aronne, che sono stati consacrati per offrire l’incenso. Esci dal santuario, perché hai prevaricato. Non hai diritto alla gloria che viene dal Signore Dio». 19Ozia, che teneva in mano il braciere per offrire l’incenso, si adirò. Mentre sfogava la sua collera contro i sacerdoti, gli spuntò la lebbra sulla fronte davanti ai sacerdoti nel tempio del Signore, presso l’altare dell’incenso. 20Azaria, sommo sacerdote, e tutti i sacerdoti si voltarono verso di lui, che apparve con la lebbra sulla fronte. Lo fecero uscire in fretta di là; anch’egli si precipitò per uscire, poiché il Signore l’aveva colpito. 21Il re Ozia rimase lebbroso fino al giorno della sua morte. Egli abitò in una casa d’isolamento, come lebbroso, escluso dal tempio del Signore. Suo figlio Iotam era a capo della reggia e governava il popolo della terra.22Le altre gesta di Ozia, dalle prime alle ultime, le ha descritte il profeta Isaia, figlio di Amoz. 23Ozia si addormentò con i suoi padri e lo seppellirono con i suoi padri nel campo presso le tombe dei re, perché si diceva: «È un lebbroso»” (2 Cronache 26.18-23).

Il caso di Azaria è anche raccontato così: “2Quando divenne re aveva sedici anni; regnò a Gerusalemme cinquantadue anni. Sua madre era di Gerusalemme e si chiamava Iecolia. 3Egli fece ciò che è retto agli occhi del Signore, come aveva fatto Amasia, suo padre. 4Ma non scomparvero le alture. Il popolo ancora sacrificava e offriva incenso sulle alture. 5Il Signore colpì il re, che divenne lebbroso fino al giorno della sua morte e abitò in una casa d’isolamento” (2 Re 15.2-5).

Lo stato psicologico dei lebbrosi è descritto in 2 Re 7.3-4, erano persone che non avevano nulla da perdere perché nulla possedevano, neppure la loro vita: “3Ora c’erano quattro lebbrosi sulla soglia della porta. Essi dicevano fra di loro: «Perché stiamo seduti qui ad aspettare la morte? 4Se decidiamo di andare in città, in città c’è la carestia e vi moriremo. Se stiamo qui, moriremo. Ora, su, passiamo all’accampamento degli Aramei: se ci lasceranno in vita, vivremo; se ci faranno morire, moriremo».

Possiamo anche ricordare in opposizione il generale siriano Naaman, lebbroso, che guarì dalla malattia dopo essersi bagnato sette volte nel giordano dietro ordine di Eliseo (2 Re 5.1-14).

Ai tempi di Gesù molti erano i lebbrosi e quando ciò capitava, ricordando la malattia che aveva colpito Maria, sorella di Mosé che lo aveva criticato, dicevano “Il dito di Dio ha colpito ancora”. Allo stesso modo la guarigione di un lebbroso era attribuita ad un intervento benevolo di Dio, ricordando proprio Naaman, oppure l’episodio di Mosé nel suo colloquio con YHWH, per quanto con significato diverso: “6Il Signore gli disse ancora: «Introduci la mano nel seno!». Egli si mise in seno la mano e poi la ritirò: ecco, la sua mano era diventata lebbrosa, bianca come la neve. 7Egli disse: «Rimetti la mano nel seno!». Rimise in seno la mano e la tirò fuori: ecco, era tornata come il resto della sua carne” (Esodo 4.6,7).

I lebbrosi vivevano lontani dal popolo, non potevano avere contatti con nessuno e sopravvivevano con cibo che persone caritatevoli lasciavano loro nei pressi delle loro dimore. Erano vestiti con un sacco o stracci, erano a volte dotati di un campanello che facevano suonare agitandolo o facendo rumore con altri oggetti e dovevano gridare, nel caso si avvicinassero altre persone, “L’immondo! L’immondo!”. Quando lungo il cammino incrociavano una o più persone, dovevano cedere loro il passo, velarsi le labbra e porsi sempre controvento senza mai parlare di fronte a una persona sana. La vita dei lebbrosi era di stenti anche morali, perdendo i loro affetti più cari, di emarginazione e sofferenze: non c’erano cure né gli antibiotici che hanno reso oggi la malattia curabile.

Ora, in questa città o villaggio innominato, un lebbroso arriva, la folla gli fa largo con un sentimento misto a repulsione e curiosità di vedere quale atteggiamento avrebbe tenuto il Maestro, che si trova di fronte a lui quest’uomo che gli si inginocchia davanti, poi gli si stende a terra davanti a lui (“si prostrò”) in segno di sottomissione e adorazione talché alcune traduzioni riportano “lo adorò” riassumendo i due atteggiamenti che assunse. Quel lebbroso non gli chiede di guarirlo come faranno altri supplicandolo, ma gli dice “Signore se tu vuoi, puoi guarirmi”, cioè si rimette alla sua volontà e soprattutto alla sua conoscenza dell’uomo perché un conto è chiedere di essere guariti anteponendo la propria persona, altro è rivolgersi lasciando libero chi può guarire dal farlo o meno. Quel “Signore” col quale si rivolge a Gesù denota la fede che aveva: non sapeva chi fosse, cioè non lo adora come Figlio di Dio come faranno i cristiani in seguito, ma sa che in Lui c’è la Sua potenza. È questo un passo molto delicato e importante, perché sono convinto che in quel “se vuoi” sia compreso il sapere, da parte di quell’uomo, che solo Gesù avrebbe potuto capirlo e valutare se meritasse o no la guarigione alla luce della fede che poneva in lui, che al pari di molti aveva sentito parlare dei miracoli e degli insegnamenti fatti nella regione.

Due quindi erano le convinzioni di quel lebbroso: la prima era che lui fosse qualcuno superiore a tutti, la seconda che avrebbe potuto guarirlo se solo avesse voluto, concetto che altri nel corso della narrazione evangelica esporranno dimostrando umiltà e fede. L’atteggiamento esterno del lebbroso fu assolutamente corrispondente a quello interno, perché altrimenti non sarebbe stato esaudito: non era Gesù ad avere bisogno di quel miracolo, ma quell’uomo che, con quella frase, non solo si pone in secondo piano rispetto a Lui, ma gli rimette ogni decisione conscio di una valutazione divina sull’operare o meno: “Se tu vuoi, puoi”, in altri termini “Io sono nulla per poterti suggerire come operare”. Possiamo dire che quelle parole fossero un modo, da parte del lebbroso, di riconoscersi peccatore. Quelli come lui, inoltre, erano soliti chiedere l’elemosina agli altri, cosa che nel nostro caso non avviene.

Abbiamo letto il risultato di quella preghiera così singolare: il lebbroso guarì, Gesù gli disse “Lo voglio, sii guarito” e tese la mano verso di lui e lo toccò, cosa permessa solo al sacerdote. Chiunque toccava un lebbroso diventava automaticamente impuro, ma Gesù aveva già dimostrato, e lo avrebbe fatto ancora, che “chiunque” proprio non era: se chi, deputato a decretare tanto la presenza della lebbra quanto la sua guarigione non si contaminava, a maggior ragione non poteva infettarsi Colui che la malattia era in grado di guarire. E questo implicava il perdono, la liberazione dal peccato che l’aveva provocata.

Gesù, a guarigione avvenuta, lo ammonisce di non dir niente a nessuno: perché? Non spettava agli uomini comuni ammettere che era avvenuta la guarigione, ma al sacerdote, che gli rilasciava un attestato grazie al quale l’ex lebbroso ricuperava la propria libertà sociale e i diritti che aveva perso. Chi vuole approfondire, può leggere il capitolo 14 del Levitico, che illustra nei dettagli i passi che venivano effettuati dal sacerdote e dal lebbroso per recuperare la propria dignità sociale.

Il sacerdote di quella cittadina in cui si era verificato il miracolo, non solo avrebbe attestato la guarigione di quella persona, ma avrebbe dovuto ammettere che questa era stata procurata da Gesù in persona e, per quel tipo di malattia, era cosa non certo da poco visto che una delle caratteristiche del Messia promesso sarebbe stata quella di guarire i lebbrosi.

Abbiamo già citato Giovanni Battista in prigione che, anche provato dai mesi di prigionia nella fortezza di Erode, gli mandò a chiedere se era Gesù quello che doveva venire oppure dovevano aspettarne un altro: la Sua risposta fu “Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, è annunciato il Vangelo” (Matteo 11.2.5).

L’ammonizione di Gesù a quel lebbroso, che secondo Marco fu particolarmente severa, è probabile che poggiasse le sue ragioni sul fatto che il beneficiario di quell’intervento avesse un carattere particolarmente impulsivo – espansivo: infatti non fece come gli era stato comandato, ma divulgò il fatto a tutti e poi andò dal sacerdote. Il risultato fu un colossale fraintendimento da parte del popolo, che lo prese come guaritore formidabile, cioè risolutore di problemi umanamente invalidanti, senza guardare al reale scopo della Sua presenza in mezzo a loro: portare una dottrina utile allo spirito, in poche parole la “buona notizia” dell’amore di Dio finalmente dato e dichiarato agli uomini, al suo popolo. Leggiamo che Gesù non poteva più entrare in nessuna città, che era costretto a stare in luoghi deserti, ma che anche lì era raggiunto da gente che veniva da ogni parte. Ne approfitterà per insegnare nel suo “sermone sul monte” che esamineremo al termine di questa rassegna di miracoli.

Luca, che fino ad ora non abbiamo mai citato, descrive Gesù con queste parole: “Di lui si parlava sempre di più, e folle numerose venivano per ascoltarlo e farsi guarire dalle loro malattie. Ma Egli si ritirava in luoghi deserti a pregare” (Luca 5.15,16).

Concludo queste riflessioni con una domanda importante alla quale ho cercato di dare una risposta: se è chiaro e vero che Israele – e solo lui – aveva nelle malattie e nelle infermità una prova della riprensione di Dio nei cuoi confronti, come deve interpretare il credente – e solo lui – quanto gli avviene ogni giorno, poiché è scritto che i capelli del suo capo sono tutti contati? Credo che, se sia azzardato sostenere nel nostro caso che la malattia sia il castigo per una disubbidienza, sia anche vero che solo il diretto interessato, che conosce la propria storia e il proprio eventuale peccato, sia in grado di dare una risposta a questa domanda perché generalizzare come purtroppo molti fanno sia un’azione che porti alla superstizione e alla (purtroppo giusta e inevitabile) derisione da parte di quanti non credono. Per noi una malattia può essere un modo che ha il Signore di provare la nostra fede, il nostro comportamento nell’avversità, può essere anche un modo per affinare la nostra sensibilità per farci progredire e imparare perché non può esistere maturazione senza dolore: ricordando le parole di Paolo in Romani 5.3-5 “…ci vantiamo anche nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce pazienza, 4la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. 5La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato”.

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3.04 – PESCATORI DI UOMINI (Luca 5.1-11)

3.04 – Pescatori di uomini (Luca 5.1-11 con riferimenti a Matteo 4.18-22 e Marco 1.16-20)

L’episodio della chiamata dei quattro, Simone e Andrea con Giacomo e Giovanni è riportato dai tre sinottici ed è fondamentale considerarli nella loro unitarietà perché a prima vista, leggendo Matteo e Marco, si può essere indotti a pensare che questa sia avvenuta all’inizio del ministero di Gesù, dopo il suo battesimo e la tentazione nel deserto. La versione di Matteo, più essenziale, dice: “18Mentre camminava lungo il mare di Galilea, vide due fratelli, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello, che gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. 19E disse loro: «Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini». 20Ed essi subito lasciarono le reti e lo seguirono. 21Andando oltre, vide altri due fratelli, Giacomo, figlio di Zebedeo, e Giovanni suo fratello, che nella barca, insieme a Zebedeo loro padre, riparavano le loro reti, e li chiamò. 22Ed essi subito lasciarono la barca e il loro padre e lo seguirono” (Matteo 4.18-22).

            Marco, dalla narrazione molto simile, aggiunge che “lasciarono il loro padre Zebedeo nella barca con i garzoni e andarono dietro a lui” (1.2’), ma Luca, accurato redattore sulla base delle testimonianze che riuscì a raccogliere, colloca con precisione l’episodio ponendolo al termine di un percorso che Gesù compì da solo, dopo aver lasciato che i quattro tornassero al loro mestiere. Leggiamo infatti: “Egli però disse loro «È necessario che io annunci la buona notizia del regno di Dio anche nelle altre città; per questo sono stato mandato. E andava predicando nelle sinagoghe della Galilea” (vv.43, 44). C’è chi ha calcolato che questo sia stato un itinerario di predicazione durato dai tre ai quattro mesi, dopo di che ci fu il ritorno a verso Capernaum, che toccò Bethsaida, che tradotto significa “Casa del pescatore” o le sue immediate vicinanze. Qui comincia il quinto capitolo di Luca.

 

1Mentre la folla gli faceva ressa attorno per ascoltare la parola di Dio, Gesù, stando presso il lago di Gennèsaret, 2vide due barche accostate alla sponda. I pescatori erano scesi e lavavano le reti. 3Salì in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra. Sedette e insegnava alle folle dalla barca. 4Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: «Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca». 5Simone rispose: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti». 6Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano. 7Allora fecero cenno ai compagni dell’altra barca, che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche fino a farle quasi affondare. 8Al vedere questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: «Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore». 9Lo stupore infatti aveva invaso lui e tutti quelli che erano con lui, per la pesca che avevano fatto; 10così pure Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, che erano soci di Simone. Gesù disse a Simone: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini». 11E, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono.”

 

            Ricordiamo che l’itinerario scelto da Gesù per la sua predicazione, come abbiamo già visto nel suo passare per la Samaria, fu sempre compiuto per motivi di ordine spirituale, che non fece mai nulla a caso e che quindi il passare lungo le rive del lago avesse come scopo proprio quello di chiamare i primi quattro discepoli a seguirlo. Veniamo al contesto umano descritto da Luca: Gesù era ormai conosciuto e riconosciuto da molti che lo attorniarono per ascoltarlo. Per quelle persone comportarsi in quel modo non era inusuale essendo costume dei rabbini del tempo insegnare nei luoghi più disparati e chiunque poteva fermarsi ad ascoltarli, quando non erano nelle loro scuole. Le acque del lago di Galilea erano evidentemente molto calme e la scelta di scostarsi un poco da terra fu la soluzione per poter parlare alla gente che avrebbe potuto ascoltarlo meglio.

Anche qui non abbiamo il contenuto del discorso che Gesù fece alla folla, ma lo troveremo in parte nella sua “summa” riportata nel discorso detto “della montagna”: ciò che preme a Luca non è qui riportare gli insegnamenti del Maestro, ma descrivere come e perché Simone, Andrea, Giacomo e Giovanni, che fino ad allora lo avevano seguito nei suoi spostamenti occasionalmente, scelsero di lasciare tutto per far parte dei discepoli, che poi chiamerà “apostoli”, cioè “inviati, rappresentanti”, a tempo pieno. Tra loro esisteva già familiarità, i quattro sapevano chi era Gesù, erano già stati resi edotti su chi Lui fosse prima da Giovanni Battista prima poi e da Lui stesso; avevano visto dei miracoli come la liberazione dell’indemoniato nella sinagoga e la guarigione della suocera di Simone dalla febbre, lo avevano ascoltato – non sappiamo se tutti – nei due giorni passati coi samaritani e ora erano lì, non più a lavare le reti, ma a sentire i suoi insegnamenti con gli altri. Questo ci conferma che fosse mattino presto: i pescatori lavoravano di notte a motivo delle reti che usavano: erano spesse, del tipo a tramaglio cioè costituite da tre reti distinte che, se fossero state usate di giorno, sarebbero state viste dai pesci che le avrebbero potute evitare. Erano reti di corda, pesanti, adatte al fondale roccioso della zona, che andavano poi lavate una volta rientrati pena il loro marcire. E il lavoro dei pescatori era particolarmente duro perché non disponevano di attrezzi meccanici a motore, né di cerate a proteggerli dall’acqua come oggi. E le reti non erano di nylon.

Finito di parlare alle folle, le prime parole furono per Pietro: “Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca”, una richiesta quanto meno curiosa. Simone aveva lavorato tutta la notte, lui e i suoi erano stremati e la risposta “sulla tua parola getterò le reti”, rivela la deferenza e il riguardo verso il suo futuro Maestro più che pensare a una buona riuscita della pesca, che la sua esperienza di esperto pescatore dava per impossibile. Da notare che Simone sapeva che, una volta gettate, quelle reti avrebbero dovuto essere lavate di nuovo con un conseguente, ulteriore dispendio di energie. Pietro sapeva che doveva esservi un motivo per quella richiesta, ma lo ignorava: agì “sulla tua parola”, cioè gli ubbidì senza addurre motivi di stanchezza dovuta alla fatica notturna e alla frustrazione dell’insuccesso che comunque gli fece presente. Oltretutto, era giorno e i pesci quelle reti le avrebbero sicuramente evitate. Simone, obbedendo alle parole di Gesù, fa qualcosa di umanamente e professionalmente irrazionale che può essere spiegato solo col termine con cui gli si rivolge, “Maestro” che, traducibile dal greco Epìstrata anche come “Guida”, “Uno che ha autorità sopra un altro”, che rivela i sentimenti che nutriva nei Suoi confronti. Se poi Pietro era stato presente alle nozze di Cana – nulla ci vieta di ipotizzarlo – implica sicuramente che si ricordasse di quell’ordine “riempite di acqua i recipienti fino all’orlo” apparentemente senza senso al pari di quella richiesta di gettare in acqua le reti. Pietro quindi, obbedendo senza discutere, compie un atto di fede: “Gettate le vostre reti per pescare”.

Fu allora che si rivelò non la conoscenza umana, ma quella di Dio: arrivò un banco di pesci, di quelli di cui hanno parlato scrittori più o meno antichi, tutti concordi nel descrivere il lago di Galilea come estremamente pescoso. Non solo ne parla Giuseppe Flavio, ma anche Henry Baker Tristram, storico naturale e viaggiatore vissuto nel 1800, che scrisse che quel lago era talmente ricco di pesce da avere dei banchi che a volte occupavano una superficie di circa 2,5 kmq. Difficile pensare che Simone e i suoi non lo sapessero; solo che i loro tentativi umani di quella notte non avevano prodotto alcun risultato, mentre bastò obbedire alla voce di Gesù per avere un esito ben oltre le loro aspettative. Questo fu il primo, diretto significato di quel miracolo. Il pesce era lì, c’era già, non fu creato sul momento apposta per loro, ma quei pescatori non potevano saperlo. Questo ci parla della quantità enorme delle cose che spesso non vediamo e continueremmo a non vedere se non ci affidassimo alle parole di Cristo e agli insegnamenti spirituali che abbiamo davanti. Non troviamo scritto che la pesca fu fruttuosa, ma che addirittura si trovarono in difficoltà a gestirla: “Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano. Allora fecero cenni ai compagni dell’altra barca, che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche fino a farle quasi affondare” (vv.6,7).

Possiamo immaginare lo stupore e la meraviglia di Simone e degli altri, che erano professionisti, mentre cercavano di far fronte come potevano a tutta quell’abbondanza e questo portò Pietro a concludere che quanto avvenuto sarebbe stato impossibile senza che Gesù sapesse che avrebbero pescato così tanto. Non gli rimase che ammettere la propria condizione: “Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore”. Conscio della sua inadeguatezza, il futuro apostolo ha una reazione che abbiamo già trovato negli scritti dell’Antico Patto che, dopo la creazione, praticamente si apre con l’incompatibilità dell’uomo con Dio una volta trasgredito il Suo unico comandamento. Adamo ed Eva infatti persero la loro innocenza e avrebbero trasmesso questa loro condizione a tutti quelli che avrebbero generato e così via in una catena. Ricordiamo Mosè, che quando Dio si presentò a lui è scritto che “…si coprì il volto, perché aveva paura di guardare verso Dio” (Esodo 3.6), e Isaia stesso, i cui scritti sono fondamentali per individuare in Gesù il Messia promesso, che descrisse la sua reazione di fronte alla visione del Signore seduto sul trono e di tutta la Corte celeste: “E dissi «Ohimè, io sono perduto, perché sono un uomo dalle labbra impure e abito in mezzo a un popolo dalle labbra impure, eppure i miei occhi hanno visto il re, il Signore degli eserciti” (1.5).

            Pietro era cosciente della propria condizione, di quanto fosse distante e piccolo di fronte alla santità di Gesù. “Signore – non più “Maestro” – allontanati da me – conscio della sua condizione di fronte a lui, ne ha paura e si sente profondamente inadeguato – perché sono un peccatore – quindi non degno della tua presenza”. Simone temeva che, in quanto peccatore, la sua stessa vicinanza al Signore avrebbe potuto offenderlo, era conscio dei mondi, delle dimensioni che li separavano. Simone non alludeva a un peccato specifico commesso, ma alla sua intera natura fatta di peccato cioè di imperfezione, lontananza da Dio e incompatibilità con Lui a meno di una grazia, di un “favore immeritato”, di un’accettazione da parte Sua di cui dubitava fortemente. Certo aveva vissuto con Gesù dei momenti intensi, aveva visto dei miracoli, ma non si era mai forse posto il problema del perché di quelli, più attratto da quegli eventi e dalle reazioni dei beneficiati e dei testimoni, ma su quella barca le cose erano diverse: per la prima volta toccava con mano la realtà in un campo che conosceva benissimo, il suo mestiere. Capì senza saperlo, in una condizione di profondo turbamento emotivo, quello che Gesù dirà apertamente più avanti, “Senza di me non potete far nulla”. Simone e quelli che erano con lui leggiamo che non gioirono per il risultato di quella pesca come se fosse una vincita al lotto o similari, ma ne furono spaventati, capendo che quanto stava avvenendo non rientrava nell’ambito di fatti che, pur eccezionali, potevano sempre accadere in quel lago: era qualcosa di incomprensibile avvenuto dietro l’ottemperanza ad un semplice ordine ricevuto. Ma in Salmo 8.7-10 leggiamo “Gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto ai suoi piedi: tutte le greggi e gli armenti e anche le bestie della campagna, gli uccelli del cielo e i pesci del mare, ogni essere che percorre le vie dei mari. O Signore, Signore nostro, quanto è mirabile il tuo nome su tutta la terra!”.

È molto importante a questo punto precisare una differenza che si riscontra nei sinottici: in Luca Gesù dice a Pietro, spaventato, “Non temere, d’ora innanzi sarai pescatore di uomini”, ma Matteo e Marco scrivono “Seguitemi, e vi farò pescatori di uomini”. Perché? La frase di Luca fu detta a Simone quando erano sulla barca alla presenza, oltre che del futuro apostolo, di Andrea suo fratello e di altri perché su quei mezzi l’equipaggio era solitamente composto da quattro persone. Luca ci riporta quindi una chiamata individuale. “Non temere” sappiamo essere un’esortazione che nella Bibbia compare 365 volte: ogni giorno porta la sua pena, ogni volta abbiamo questa esortazione. Col diventare “pescatore di uomini” poi viene prospettato a Simone il suo futuro che si sarebbe realizzato attraverso la predicazione e il governo della Chiesa in Gerusalemme e poi in Roma, anche se da qui a vederlo come Papa o “Vicario di Cristo in terra” ce ne corre.

Restavano Andrea, Giacomo e Giovanni che non potevano certo essere esclusi dall’invito a seguirlo, che si verificherà una volta arrivati a riva. Con quella chiamata esplicita, Gesù li pose di fronte a una scelta tra l’approfittare del guadagno che avrebbe rappresentato tutto quel pesce o il rinunciarvi per una vita diversa, cosa che avvenne consapevolmente e senza dubbi: “Tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono” (Luca), mentre per Giovanni e Giacomo “soci di Simone” è detto che “Subito lasciarono la barca e il loro padre, e lo seguirono”. Non lasciarono quindi Zebedeo in difficoltà, perché aveva dei dipendenti e avrebbe rimpiazzato i figli con altri, cioè il loro non fu un abbandono irresponsabile.

Si può allora concludere l’episodio con due considerazioni che, per la personale esperienza avuta nella Chiesa, mi sento di fare: la prima è che i quattro accettarono di seguire Gesù e che Lui stesso rivolse a loro l’elezione dopo che ciascuno di essi aveva compiuto un percorso individuale e profondo. Egli dette loro il tempo per vedere, ascoltare, lasciare che sedimentassero i facili entusiasmi, analizzare i sentimenti che provavano e soprattutto, riflettere. Non li assillò, non li costrinse, non fece su di loro alcun lavoro di “marketing psicologico” attivo o passivo perché la scelta di seguire Cristo non può essere condizionata da facili impulsi sopravvalutando le proprie forze, ma da un confronto tra quello che può essere la vita con Lui o senza, tra l’andare avanti a pescare conoscendo i successi e gli insuccessi del mestiere, il condurre una vita benestante destinata un giorno a conoscere il suo termine, o diventare dei “pescatori di uomini”.

Seconda considerazione: cosa vuol dire oggi per il cristiano essere “pescatore di uomini”? In molte Chiese si pensa che sia la predicazione all’esterno il dovere di ogni credente, ma così facendo si rischia di fare dei proseliti, mentre credo che siamo chiamati a “pescare noi stessi” per primi, pur avendo già creduto ed essendo stati già salvati. Non si diventa pescatori senza un lungo tirocinio, senza acquisire conoscenza e soprattutto esperienza. Non esiste persona uguale all’altra, ciascuna ha attitudini precise e soprattutto funzioni diverse, come illustrato dal paragone col corpo e le sue membra: “Come infatti il corpo, pur essendo uno, ha molte membra e tutte le membra, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche Cristo. E in realtà noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti ci siamo abbeverati a un solo Spirito. Ora il corpo non risulta di un membro solo, ma di molte membra. Se il piede dicesse: «Poiché io non sono mano, non appartengo al corpo», non per questo non farebbe più parte del corpo. E se l’orecchio dicesse: «Poiché io non sono occhio, non appartengo al corpo», non per questo non farebbe più parte del corpo. Se il corpo fosse tutto occhio, dove sarebbe l’udito? Se fosse tutto udito, dove l’odorato? Ora, invece, Dio ha disposto le membra in modo distinto nel corpo, come egli ha voluto. Se poi tutto fosse un membro solo, dove sarebbe il corpo? Invece molte sono le membra, ma uno solo è il corpo. Non può l’occhio dire alla mano: «Non ho bisogno di te»; né la testa ai piedi: «Non ho bisogno di voi». Anzi quelle membra del corpo che sembrano più deboli sono più necessarie; e quelle parti del corpo che riteniamo meno onorevoli le circondiamo di maggior rispetto, e quelle indecorose sono trattate con maggior decenza, mentre quelle decenti non ne hanno bisogno. Ma Dio ha composto il corpo, conferendo maggior onore a ciò che ne mancava, perché non vi fosse disunione nel corpo, ma anzi le varie membra avessero cura le une delle altre. Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui. Ora voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte”. (1 Corinzi 12.12-27)

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3.01 – UN TEMPO NUOVO (Vari autori)

3.01 – Un tempo nuovo (vari).

 

Con la venuta di Gesù in Galilea ci raccordiamo a Marco 1.14,15 che dice “Ora, dopo che Giovanni fu messo in prigione, Gesù venne in Galilea predicando il Vangelo del Regno di Dio e dicendo «Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino. Ravvedetevi e credete al Vangelo”».

Matteo 4.13,17 scrive “Poi lasciò Nazareth e venne ad abitare a Capernaum, città posta sulla riva del mare, ai confini di Zabulon e Neftali. Affinché si adempisse ciò che fu detto dal profeta Isaia quando scrisse «Il paese di Zabulon, il paese di Neftali, sulla riva del mare, in regione al di là del Giordano, la Galilea dei Gentili, il popolo che giaceva nelle tenebre ha visto una gran luce, e su coloro che giacevano nella regione e nell’ombra della morte si è levata una gran luce». Da quel tempo Gesù cominciò a predicare e a dire: «Ravvedetevi, perché il regno dei cieli è vicino»”.

            Luca conferma l’attività di Gesù scrivendo che “…Gesù, nella potenza dello Spirito, se ne tornò in Galilea e la sua fama si sparse per tutta la regione circostante. Ed Egli insegnava nelle loro sinagoghe, essendo onorato da tutti” (4.14,15).

 

Entriamo in un nuovo periodo dell’attività di Gesù, un tempo nuovo che, almeno secondo la visione che ho avuto del Vangelo, inizia quando Gesù venne ad abitare a Capernaum, città posta sulle rive del lago, o mare di Galilea, detto anche di Tiberiade prendendo il nome dalla città costruita da Erode Antipa in onore di Tiberio Claudio Nerone nell’anno 20 circa. Capernaum era posta sulla riva del lago e da lei passavano le vie principali che dall’Egitto portavano in Siria e da Gerusalemme a Damasco. Gesù poteva così non solo incontrarsi con persone con cui non avrebbe mai potuto avere a che fare restando nella lontana Nazareth, ma da lì potevano essere diffuse nelle regioni circostanti le notizie dei suoi miracoli e i contenuti, seppur a grandi linee, della sua predicazione. Se nessuno poteva fare i segni che faceva se Dio non era con lui, come riconobbe Nicodemo, va da sé che alle notizie dei miracoli non si accompagnassero resoconti più o meno particolareggiati delle sue parole e dei suoi commenti alle Scritture esposti nelle Sinagoghe.

Da Capernaum, inoltre, Gesù poteva visitare più facilmente le città della Galilea senza contare che, usando una barca, poteva avere accesso alle città che si affacciavano sul lago e raggiungere così la Traconitide, la Perea e la Decapoli. Matteo, coprendo uno spazio temporale rilevante, ci dice “La Sua fama si diffuse per tutta la Siria e conducevano a lui tutti i malati tormentati da varie malattie e dolori, indemoniati, epilettici e paralitici, ed Egli li guarì. Grandi folle cominciarono a seguirlo dalla Galilea, dalla Decàpoli, da Gerusalemme, dalla Giudea e da oltre il Giordano” (4.24,25).

Matteo collega l’abitare di Gesù a Capernaum con l’adempimento della profezia di Isaia in 8.23 e 9.1,2 che quanti conoscevano non potevano non collegare al suo seguito, che l’evangelista non riporta: “Perché un bambino ci è nato, un figlio ci è stato dato. Sulle sue spalle è il potere e il suo nome sarà: Consigliere mirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace. Grande è il suo potere e la pace non avrà fine sul trono di Davide e sul suo regno, che egli viene a consolidare e rafforzare con il diritto e la giustizia, ora e per sempre” (Isaia 9.5,6). Notiamo i verbi, “nato” e “dato” che riassumono il periodo della vita di Gesù, “nato”, venuto al mondo come tutti gli altri uomini, e offerto, “dato”, in sacrificio per loro. Ai lettori ebrei che non ignoravano il libro di Isaia, Matteo offre un’altra possibilità di connessione, vale a dire con 11.2-4: “Su di lui si poserà lo Spirito del Signore – in forma di colomba e non solo – Spirito di sapienza e di intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e timore del Signore. Si compiacerà nel timore del Signore. Non giudicherà secondo le apparenze e non prenderà decisioni per sentito dire, ma giudicherà con giustizia i poveri e prenderà decisioni eque per gli oppressi del paese”.

 

Ho intitolato queste riflessioni “Un tempo nuovo”, preferendo “tempo” a “periodo”, parola forse più immediata ma che avrebbe definito in misura minore le implicazioni del prendere residenza in quella città. La profezia di Isaia riportata da Matteo che abbiamo letto è la settima usata in quel Vangelo, a sottolineare la pienezza dell’opera di Dio e a sottindendere che tutto quanto fatto da Gesù prima di allora era stato compiuto in maniera perfetta. Sappiamo che il settimo giorno, di riposo per quell’entità perfetta riassunta nel tetragramma YHWH, avvenne dopo la constatazione che “tutto era molto buono”. “Tempo nuovo” perché da Capernaum inizierà una predicazione pressoché ininterrotta consistente in insegnamenti, dottrina, miracoli e guarigioni.

Ricordiamo le profezie precedenti di Matteo:

 

  1. La nascita da una vergine, fatto tecnicamente impossibile senza l’opera dello Spirito Santo. Gesù non poteva avere un DNA unicamente umano, essere figlio carnale di Maria e Giuseppe, perché altrimenti non avrebbe potuto essere al tempo stesso Figlio dell’uomo e Figlio di Dio, vero Dio e vero uomo. Fu quello, oltre alla vittoria sul peccato, che lo fece risorgere. Il numero uno, come prima profezia, ci parla di un’esistenza autonoma, santa, non competente all’uomo che, piuttosto, trova la sua dimensione nei numeri pari. L’uno è l’esistere pieno, il tutto, l’autosufficienza, in poche parole l’“io sono colui che sono”;
  2. La nascita di Gesù a Betlehem, l’unica che avrebbe potuto dare i natali al “Capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele”. Non a caso abbiamo questo annuncio al secondo posto: è l’uomo Gesù che viene al mondo, perfetto connubio di due nature, umana e divina. Il due è condivisione e soccorso (“se uno cade l’altro lo rialza”), ma anche separazione vista nell’appartenere a Cristo oppure no, di scelta.
  3. Il ritorno in Israele dalla fuga in Egitto perché Erode il Grande voleva ucciderlo, “Dall’Egitto ho chiamato mio Figlio”. Terza profezia, tre come numero proprio di Dio e che ci questo caso ci parla di quanto sia inutile, oltre che controproducente, ostacolare i suoi piani che si realizzano e realizzeranno comunque;
  4. Il grido udito in Rama, la strage degli innocenti in cui Satana, cui Erode il Grande esattamente come col Faraone molti secoli prima aveva dato spazio nella sua persona, commise uno dei tanti suoi crimini. Il quattro è un numero che ha sempre riferimento alla materia e, in questo caso, a quanto avvenuto ad opera dell’avversario e quindi del peccato.
  5. L’abitare per circa 30 anni a Nazareth perché “Sarà chiamato Nazareno” con l’evidente riferimento, più che alla città dalla quale non poteva venire nulla di buono secondo le parole di Natanaele – Bartolomeo, al Germoglio che sarebbe uscito dal tronco di Jesse, padre di Davide da cui Gesù discendeva sia da parte di padre che di madre. Il cinque, numero intermedio, ci parla di uno stato che porta ad una progressione, ad uno sviluppo nelle mani di Dio e alla sua Grazia. Cinque è 4+1, cioè un dono di Dio aggiunto alla realtà dell’uomo.
  6. La persona e l’opera di Giovanni Battista, visto nella “Voce d’uno che grida nel deserto”. Da notare anche qui il numero sei, che sottintende l’uomo nella sua imperfezione e incompletezza se rimane da solo, dell’uomo che ha bisogno dell’”Uno” di Dio per completarsi. Solo se Giovanni avesse annunciato Gesù secondo l’insegnamento ricevuto nel deserto, come fece, avrebbe davvero assolto al compito lui affidatogli. Ricordiamo, a proposito della completezza, quel giovane ricco che voleva seguire Gesù che si sentì dire “Una cosa sola ti manca: va’, vendi ciò che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro nei cieli; poi vieni e seguimi” (Marco 10.21): al suo “6” mancava un “1” per essere perfetto.
  7. Terra di Zabulon e terra di Neftali, il popolo che giaceva nelle tenebre ha visto una gran luce”. Settimo passo citato, punto di arrivo e di partenza verso altre destinazioni spirituali. Arrivando a Capernaum Gesù conclude e inizia un periodo della sua vita, che fin qui ho cercato di sviluppare a grandi linee, per iniziarne uno nuovo e lo farà predicando nelle Sinagoghe e chiamando ufficialmente a sé coloro che diventeranno i suoi primi quattro apostoli (Natanaele in un certo senso era già stato chiamato nel breve dialogo riportato da Giovanni, “Vedrai cose più grandi di queste”).

 

Come tutta la creazione, l’universo, iniziò con la luce, allo stesso modo l’universo spirituale e nuovo iniziava con la “gran luce” vista dal popolo che abitava quelle terre, toccate in sorte alle due tribù di Zabulon e Neftali, rispettivamente la nona e la decima. Parte di questo territorio, quella settentrionale, era chiamato “La Galilea dei gentili” a motivo della sua prossimità con la Siria e la Fenicia e al fatto che pare che la popolazione fosse in parte un misto di ebrei e gentili. Ma in quali tenebre giaceva il popolo, a parte l’ovvio, inevitabile riferimento alla sua lontananza da Dio? Leggiamo due elementi negativi, “tenebre” e, da traduzione più corretta “nella regione e nell’ombra della morte”, riferita non alla Giudea, ma alla Galilea con particolare riguardo alle terre di Zabulon e Neftali. Le tenebre sono nella Scrittura una figura familiare per rappresentare non solo l’ignoranza e l’errore, ma la depravazione e la miseria morale e intellettiva di cui sono il frutto, la conseguenza: non possono esservi le une senza le altre. Ricordiamo le parole dell’apostolo Paolo che, con grande umiltà e verità, descrisse il suo passato: 12Rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me, 13che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento. Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo per ignoranza, lontano dalla fede, 14e così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù”. (1 Timoteo 1.12-14).

La luce si è levata su quel paese che, paradossalmente, avrebbe dovuto avere molte più difficoltà rispetto ai giudei nel riconoscerla, perché era lì che si era sviluppato lo studio della Legge, in Gerusalemme si esercitava il sacerdozio e si offrivano i sacrifici nel Tempio. I galilei erano considerati più corrotti e ignoranti dei giudei. “Una luce si è levata”, quella del Cristo, il solo a potere rivelare l’amore e la volontà del Padre e a compierla.

Proseguendo nella lettura di Matteo, questi riporta il senso della predicazione di Gesù, che sintetizza con parole familiari: “Ravvedetevi, perché il Regno dei cieli è vicino”, le stesse che diceva Giovanni Battista. Marco, invece, scrive “Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino: convertitevi e credete nel Vangelo”, frase che merita un breve approfondimento perché non può esservi conversione senza credere nel Vangelo nel suo senso etimologico di “buona notizia”, la sola di cui l’uomo ha bisogno. E la buona notizia era proprio che finalmente Dio recuperava ciò che altrimenti sarebbe stato perduto, la sua creatura. “Il tempo è compiuto” cioè “Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò suo Figlio, nato di donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli” (Galati 4.4). E “Il Regno di Dio è vicino” significa che sarebbe stato imminente, sarebbe stato prima “dentro di voi” e in futuro si sarebbe caratterizzato con la sconfitta di Satana, gettato nello stagno di fuoco coi suoi angeli, termine che ha riferimento sia con gli esseri spirituali che lo seguirono, ma anche con tutti quegli uomini che gli dettero spazio perché si potesse servire di loro. Ecco perché chi sentiva le parole di Gesù avrebbe dovuto credere nel Vangelo, quindi in Lui. Credere nel Vangelo implica un profondo ravvedimento, il sapere che così come si è, si agisce, si pensa, può condurre solo alla morte. Di qui il collegamento con le tenebre e la scelta di rimanere in loro fatta dalla maggior parte degli uomini: “Ma gli uomini hanno amato le tenebre più della luce”, verso su cui ci siamo già soffermati in breve.

Tornando ai versi che descrivono l’attività di Gesù in Galilea, che Matteo e Marco sintetizzano con l’accennare alla predicazione della necessità del ravvedersi e nel credere al Vangelo, Luca aggiunge un altro particolare: “Insegnava nelle loro sinagoghe, essendo onorato da tutti” (4.15). Perché è un particolare non marginale? Innanzitutto per la Sinagoga, parola che etimologicamente è formata da syn, insieme, e aghèin, condurre, portare. È un termine che quindi allude a un cammino comunitario e il verbo synàgo significa “radunare”. La sinagoga era ed è tuttora un luogo di preghiera e di istruzione religiosa; le sue adunanze si tenevano ogni sabato mattina e pomeriggio, ma anche in altri giorni; era proibito agli ebrei risiedere in luoghi ove la sinagoga non vi fosse e la sua esistenza era condizionata dalla presenza di non meno di dieci persone, al contrario della Chiesa che ne prevede dalle due o tre. Infatti “Dove due o tre sono radunati nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Matteo 18.20). Se la sinagoga era un luogo di preghiera e di lettura, la Chiesa radunata ha la presenza del Signore Gesù: è “in mezzo”, “tra” di loro come un familiare visto nella frase “Ecco, io sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Apocalisse 3.20). Si tratta di una frase particolare, detta all’Angelo della Chiesa di Laodicea sulla quale, se ci soffermassimo, andremmo fuori tema; tuttavia è interessante notare l’atteggiamento così diverso del Dio giudice inflessibile e tremendo dell’Antico Patto e quello aperto alla comprensione e al perdono del Nuovo: si tratta infatti di parole rivolte a quei credenti che hanno bisogno di ravvedersi ancora perché hanno contristato lo Spirito con una condotta non consona alla loro fede e vivono una condizione per cui sono definiti “tiepidi”.

Ma torniamo alla Sinagoga. La dinamica delle riunioni al suo interno era la seguente: prima vi era lo “Shemà”, (“Ascolta”) che si caratterizzava con la lettura di tre passi del Pentateuco, al quale seguivano una serie di diciotto brevi preghiere che esprimevano adorazione, sudditanza e speranza verso il Dio d’Israele, dopo di che si procedeva alla lettura e spiegazione dei testi sacri, vale a dire la Torà (il Pentateuco) suddivisa in 154 sezioni di modo che veniva letta integralmente in tre anni, e poi i Profeti, cioè i libri da Giosuè in poi. Terminata la lettura, in ebraico e nella lingua di allora che era l’aramaico, seguiva un commento istruttivo che poteva essere tenuto da chiunque tra i presenti giudicati più adatti dal responsabile locale.

Nella pratica chi svolgeva tale ufficio, visto che era richiesta una conoscenza dei testi, era uno scriba o un fariseo, ma Luca ci dice che era Nostro Signore a prendere la parola, o chiamato dal responsabile della Sinagoga o di sua iniziativa visto che ciò era consentito. L’adunanza terminava poi con la benedizione sacerdotale, che recitava il testo di Numeri 6.24-26: “Ti benedica il Signore e ti custodisca. Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia. Il Signore rivolga verso di te il suo volto e ti conceda pace”. I presenti rispondevano “Amen”. Proprio nella sinagoga di Capernaum Gesù compirà il suo primo miracolo dei sette in giorno di sabato, oggetto della nostra prossima riflessione.

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02.05 – LA TENTAZIONE NEL DESERTO II/II (Matteo 4.1-11)

La tentazione nel deserto II/II (Matteo 4.1-11)

1 Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. 2Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. 3Il tentatore gli si avvicinò e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane». 4Ma egli rispose: «Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio». 5Allora il diavolo lo portò nella città santa, lo pose sul punto più alto del tempio 6e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù; sta scritto infatti: Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo ed essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra». 7Gesù gli rispose: «Sta scritto anche: Non metterai alla prova il Signore Dio tuo». 8Di nuovo il diavolo lo portò sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria 9e gli disse: «Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai». 10Allora Gesù gli rispose: «Vattene, Satana! Sta scritto infatti: Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto». 11Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco, degli angeli gli si avvicinarono e lo servivano.

 

Matteo scrive per gli ebrei ed è forse per questo che pone le altre due tentazioni in modo diverso da Luca. Entrambi non spiegano come avvenne lo spostamento dal deserto alla città santa, se corporalmente o in spirito. Matteo, in una traduzione più corretta, collega il secondo episodio con l’avverbio “allora”: “Allora il diavolo lo portò con sé nella santa città e lo pose sul pinnacolo del tempio”; “Allora” che sta a indicare una conseguenza, “a quel punto”, “stando così le cose”.

Il pinnacolo del tempio era un punto particolare: il “portico di Salomone” si congiungeva al “portico regio” di Erode: lì c’era una grande torre che si innalzava di circa 213 metri sulla valle del torrente Kedron più in basso. Giuseppe Flavio narra nelle sue Antichità Giudaiche che era impossibile affacciarsi da essa senza provare un violento senso di vertigine.

Ancora una volta abbiamo il “Se tu sei Figlio di Dio” questa volta accompagnato da una citazione scritturale dal Salmo 91: “1Chi dimora nel riparo dell’Altissimo, riposa all’ombra dell’Onnipotente. 2Io dico all’Eterno: «Tu sei il mio rifugio e la mia fortezza, il mio Dio, in cui confido». 3Certo egli ti libererà dal laccio dell’uccellatore e dalla peste mortifera. 4Egli ti coprirà con le sue penne e sotto le sue ali troverai rifugio; la sua fedeltà ti sarà scudo e corazza. 5Tu non temerai lo spavento notturno, né la freccia che vola di giorno, 6né la peste che vaga nelle tenebre, né lo sterminio che imperversa a mezzodì. 7Mille cadranno al tuo fianco e diecimila alla tua destra, ma a te non si accosterà. 8Basta che tu osservi con gli occhi e vedrai la retribuzione degli empi. 9Poiché tu hai detto: «O Eterno, tu sei il mio rifugio», e hai fatto dell’Altissimo il tuo riparo, 10non ti accadrà alcun male, né piaga alcuna si accosterà alla tua tenda. 11Poiché egli comanderà ai suoi Angeli di custodirti in tutte le tue vie. 12Essi ti porteranno nelle loro mani, perché il tuo piede non inciampi in alcuna pietra. 13Tu camminerai sul leone e sull’aspide, calpesterai il leoncello e il dragone. 14Poiché egli ha riposto in me il suo amore, io lo libererò e lo leverò in alto al sicuro, perché conosce il mio nome. 15Egli mi invocherà e io gli risponderò; sarò con lui nell’avversità; lo libererò e lo glorificherò. 16Lo sazierò di lunga vita e gli farò vedere la mia salvezza”.

Qui Satana, che conosce quindi la Scrittura e la distorce a suo favore. cambia strategia: non più una tentazione diretta, ma un discorso scritturale: alla luce del testo che abbiamo letto, Gesù viene invitato a gettarsi da quella torre solo apparentemente perché tanto la custodia garantita dagli Angeli ne avrebbe impedito la morte; in realtà con quelle parole invita il Salvatore a compiere un miracolo eclatante perché il popolo potesse credere in lui. Il testo non dice se la tentazione sia avvenuta di notte o di giorno, ma siccome Satana non aveva bisogno di credere in Gesù perché già lo conosceva, mette in opera una strategia volta a fare sì che il suo bersaglio, indebolito dalla fame e quindi nella mente, scegliesse un’alternativa più comoda al dover predicare, guarire individualmente infermi e indemoniati: buttarsi giù dal pinnacolo e atterrare senza danno. Tutto questo anche perché la tradizione religiosa ebraica sosteneva che il Messia si sarebbe manifestato proprio sul pinnacolo. Qui, allora, la tentazione è quella di mettere Gesù nelle condizioni di compiere un miracolo che non convertisse nessuno, ma fosse spettacolare, grandioso, che mettesse il popolo nelle condizioni di credere a quel condottiero vittorioso e invincibile che aspettavano.

Tutti i miracoli compiuti da Gesù, invece, avvennero sempre e solo perché l’uomo capisse e lo riconoscesse. Anche quello della moltiplicazione dei pani e dei pesci, fatto per sfamare 5.000 persone (Matteo 15.32-39), fu la dimostrazione tanto della Sua compassione quanto della totalità dell’amore di Dio che non abbandona alla fame né terrena, né spirituale, la propria creatura.

Proprio riguardando ai miracoli compiuti va osservato che, se Gesù non ne fece mai uno per sé, non ne fece mai neppure per dimostrare con manifestazioni inutili di essere quello che era. L’essenzialità di Dio è tale per cui va creduto per quello che è e soprattutto per tutto quello che ha fatto più che per miracoli che può sempre fare ancora. Del resto, un miracolo come la creazione di qualsiasi forma di vita e l’equilibrio del sistema è già di per sé molto eloquente. Infatti l’apostolo Paolo scrive che “le sue perfezioni invisibili, ossia la sua eterna potenza e divinità, vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo attraverso le opere da Lui compiute” (Romani 1.20).

Un miracolo deve avere un perché, un’origine e un fine spirituale e non è, né può essere, una manifestazione di forza o potenza fine a se stessa. Ricordiamo le parole conclusive della parabola del ricco e Lazzaro in Luca 16.19-31: alla richiesta di una manifestazione miracolosa ai suoi fratelli ancora in vita “affinché non vengano in questo luogo di tormenti”, Abramo risponde “Hanno Mosè e i profeti, ascoltino quelli”.

Ecco perché la richiesta di Satana era assurda e soprattutto fuorviante ed ottenne la risposta “Non tentare il Signore Iddio tuo”, oppure come nella nostra traduzione “Non metterai alla prova”, cioè non chiedergli di agire senza un motivo valido, che poi è il “pregherò con intelligenza” dell’apostolo Paolo, visto che Dio non tenta, né può essere tentato da alcuno. Tentare nel senso di provocarlo, come in questo caso, sì. Man mano che si procede nella lettura dei vangeli, come stiamo facendo, scopro tutta la mia ignoranza e impotenza perché i temi che si possono affrontare e studiare sono innumerevoli: si tenta il Signore parlando di lui senza riflettere ed esaminare noi stessi per primi come fecero ad esempio gli amici di Giobbe. Si tenta il Signore riducendolo a persona che ci debba ascoltare a tutti i costi. Si tenta il Signore non procedendo nelle vie della carità pur nominandolo e confessandolo davanti agli altri percorrendo così la stessa via di Israele che, convinto di camminare sui sentieri di giustizia si sentì dire “Voglio misericordia e non sacrificio” perché credevano, coi loro sacrifici formali per i peccati commessi, di poter regolare i debiti che avevano con Lui.

 

L’ultima tentazione è interessante perché pone un dubbio: a che scopo mostrare tutti i regni della terra ad uno che re lo era già? Lo era, ma “non di questo mondo”. Gesù era prima di tutto un uomo stremato. La forza della terza tentazione, seconda secondo Luca, stava tutta nell’apparenza perché Satana gli mostra dei regni umani, temporanei, pieni di una gloria e una ricchezza che non avevano nulla a che vedere con quella che aveva e avrebbe avuto dopo la Sua resurrezione. Sono indicative le parole dell’Avversario che riferisce Luca in proposito: “Ti darò tutto questo potere e la loro gloria, perché a me è stata data e io la do a chi voglio. Perciò, se ti prostrerai davanti a me, tutto sarà tuo” (4,6).

A Satana è stato dato tutto il potere e la gloria dei regni della terra. Inutile aspettarsi giustizia da loro, solidarietà, comprensione, leggi che difendano i deboli. Sono regni che raggiungeranno il loro apice con quella “Babilonia la grande” che cadrà inevitabilmente, ma che produrrà ogni sofferenza ed empietà a danno di coloro che vorranno salvarsi da essa. Babilonia sarà il trionfo temporaneo di Satana, che la dominerà utilizzando dei suoi ministri come ha fatto da sempre. Fin’ora nella nostra lettura cronologica abbiamo incontrato Erode il Grande, prima di lui nell’Antico Testamento ve ne furono tanti altri e altri ancora ne verranno tanto nell’epoca della Scrittura quanto in quelli successivi. Satana, definito “Il principe” o “L’Iddio di questo mondo”, con questa tentazione, vorrebbe fare di Gesù un suo collaboratore.

Dio di questo mondo” è un’espressione terribile perché rivela che gli uomini che non appartengono al Dio Vero ed Eterno appartengono di fatto all’altro che li porta alla rovina. Rare sono le persone che si dichiarano satanisti, ricorrendo a rituali specifici di adorazione a lui, ma molti sono quelli che si comportano come se il Dio vero non esistesse, convinti di essere liberi pensatori e padroni del loro arbitrio e destino, ma che in realtà appartengono al “Dio di questo mondo” e, comportandosi così, lo servono. Servono e inconsapevolmente omaggiano un dio illusionista che fa loro credere che la vita che vivono sulla terra sia l’unica e che li illude su una morte che si sa esista, ma si crede che venga il più tardi possibile: c’è tempo.

Mentre il Dio Creatore si rivela e si vuol rivelare, quello di questo mondo spesso si mimetizza. Mentre il Dio Creatore offre a chi crede in lui la vita eterna, quello di questo mondo propone miraggi visti in attese che, si realizzino o meno, sono destinate a frantumarsi per poi sfociare nella distruzione dell’anima vista nell’espressione “pianto e stridore di denti” usata spesso da Nostro Signore. Un caro fratello diceva che chi vuol vivere la propria vita come se Dio non esistesse, in realtà la imposta sul modello di una favola.

La lettura del Salmo 2, allo stesso tempo profetico e attuale, può aiutare a riassumere quanto detto:

 

1Perché le genti sono in tumulto e i popoli cospirano invano 2 Insorgono i re della terra e i prìncipi congiurano insieme contro il Signore e il suo consacrato: 3 »Spezziamo le loro catene, gettiamo via da noi il loro giogo!».4 Ride colui che sta nei cieli, il Signore si fa beffe di loro. 5 Egli parla nella sua ira, li spaventa con la sua collera: 6 »Io stesso ho stabilito il mio sovrano sul Sion, mia santa montagna». 7 Voglio annunciare il decreto del Signore. Egli mi ha detto: «Tu sei mio figlio,
io oggi ti ho generato. 8 Chiedimi e ti darò in eredità le genti e in tuo dominio le terre più lontane. 9 Le spezzerai con scettro di ferro, come vaso di argilla le frantumerai». 10 E ora siate saggi, o sovrani; lasciatevi correggere, o giudici della terra; 11 servite il Signore con timore e rallegratevi con tremore. 12 Imparate la disciplina, perché non si adiri e voi perdiate la via: in un attimo divampa la sua ira. Beato chi in lui si rifugia”.

 

            Satana chiede a Gesù un segno esteriore di adorazione, il prostrarsi: un modo per dichiararsi vinto, inferiore. Possiamo pensare che questa sia l’ultima delle tre tentazioni perché è solo in questa che l’avversario si rivela pienamente come antagonista di Dio senza dire “Se tu sei il Figlio di Dio”. Chiede di essere adorato con la prostrazione, atto mediante il quale la persona esprime tutta la propria inferiorità ponendosi in una posizione di assoluta subordinazione.

La risposta fu “Vattene, Satana. Sta scritto infatti «Adora il Signore Iddio tuo, e a Lui solo rendi il culto»”. Fu a quel punto che il diavolo lo lasciò. Fu questo episodio che mise Gesù nella condizione di dire un giorno, a ragion veduta, “Fuggite il diavolo, ed egli fuggirà da voi”.

Giuseppe Ricciotti fa un’interessante osservazione sulle tre tentazioni scrivendo che tutte mostrano una chiara relazione con l’ufficio messianico di Gesù, al quale contrastano. La prima lo vorrebbe indurre ad un messianismo comodo ed agiato; la seconda, ad un messianismo raccomandato a vuote esibizioni taumaturgiche; la terza, ad un messianismo che si esaurisca nella gloria politica. Se ci pensiamo, sono le stesse richieste di quella parte del popolo ebraico che si pose in contrasto con Lui.

All’allontanamento dell’Avversario fa immediato seguito “Ed ecco, degli angeli vennero a lui e lo servivano”, cioè gli portarono del nutrimento, lo stesso verbo usato in Marco 1.31 quando parla della suocera di Pietro che Gesù guarì dalla febbre.

Con l’episodio della tentazione fu fatto un grande passo in avanti nel cammino verso la salvezza dell’uomo: Gesù aveva vinto sul peccato e poteva iniziare da lì a pochissimo tempo il Suo Ministero. Lo farà andando ad abitare in Capernaum, o Cafarnao, e scegliendo i primi discepoli. E Marco? Abbiamo letto che riporta un dato singolare cioè, oltre che parlare degli angeli che lo servivano, “stava con le bestie selvatiche”, sintomo dell’assenza di Satana e figura di quel periodo in cui sarà legato per mille anni e sulla terra non ci sarà nessuna forma di violenza neppure nel regno animale, quello in cui, in Isaia 11, viene detto 6Il lupo dimorerà insieme con l’agnello; il leopardo si sdraierà accanto al capretto; il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un piccolo fanciullo li guiderà. 7La mucca e l’orsa pascoleranno insieme; i loro piccoli si sdraieranno insieme. Il leone si ciberà di paglia, come il bue. 8Il lattante si trastullerà sulla buca della vipera; il bambino metterà la mano nel covo del serpente velenoso. 9Non agiranno più iniquamente né saccheggeranno in tutto il mio santo monte, perché la conoscenza del Signore riempirà la terra come le acque ricoprono il mare.”

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02.04 – LA TENTAZIONE NEL DESERTO I/II (Matteo 4.1-11)

La tentazione nel deserto I/II (Matteo 4.1-11)

1 Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. 2Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. 3Il tentatore gli si avvicinò e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane». 4Ma egli rispose: «Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio». 5Allora il diavolo lo portò nella città santa, lo pose sul punto più alto del tempio 6e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù; sta scritto infatti: Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo ed essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra». 7Gesù gli rispose: «Sta scritto anche: Non metterai alla prova il Signore Dio tuo». 8Di nuovo il diavolo lo portò sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria 9e gli disse: «Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai». 10Allora Gesù gli rispose: «Vattene, Satana! Sta scritto infatti: Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto». 11Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco, degli angeli gli si avvicinarono e lo servivano.

 

Questo episodio è narrato dai soli sinottici. Giovanni, dopo il battesimo di Gesù, passa a raccontare l’incontro con Filippo, fratello di Andrea, che diventerà suo discepolo. Marco accenna solamente a quanto abbiamo letto usando le parole “E subito lo Spirito lo sospinse nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana. Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano” (1.12.13. Luca, salvo un piccolo ma non trascurabile particolare che vedremo alla fine, è simile al racconto che abbiamo letto.

Riflessione preliminare: Satana è un nome a lui attribuito che ne designa la qualifica, il compito, e significa “l’avversario”. Di lui parlano il profeta Ezechiele (che ci racconta le sue origini e del ruolo che rivestiva fino a quando non si ribellò a Dio) e il libro di Giobbe nei cui primi due capitoli di Giobbe sono narrati i dialoghi tra Dio e il Tentatore tesi a provare questa persona che, per giustizia e riguardo al suo Creatore, aveva un comportamento irreprensibile. Dio disse di lui all’Avversario “Hai posto attenzione al mio servo Giobbe? Nessuno è come lui sulla terra, timorato di Dio e lontano dal male” (1.8).

Giobbe, per quei tempi e a differenza di Gesù, testimoniava con la sua ricchezza che le benedizioni di Dio erano sopra di lui stante il modo con cui si comportava rendendo grazie per ogni cosa, pregando continuamente per i suoi figli perché forse con il loro comportamento potevano avere fatto qualcosa di sgradito a Dio ed usava pietà verso il suo prossimo. Gesù, figlio di Dio e Dio stesso, venuto con una missione precisa, aveva fino ad allora esercitato la propria sottomissione alla Legge, fatto il suo primo atto pubblico ricevendo il battesimo di Giovanni ed era stato annunciato agli uomini con la discesa dello Spirito Santo sotto forma di colomba. Era figlio di Dio, ma anche uomo. E per questo Satana aveva chiesto che fosse provato (più avanti Gesù dirà ai suoi discepoli “Satana ha chiesto di vagliarvi come si vaglia il grano”).

L’avversario, dal latino adversus, è colui che si oppone a qualcuno o a un progetto, e fa tutto ciò che è in suo potere per conseguire una vittoria su di lei. In questo caso Gesù si trovò di fronte alla stessa persona che, profondo conoscitore dell’animo umano e delle sue debolezze, fu in grado di porre le strategie più opportune per rovinare irrimediabilmente, anche se fino a un tempo stabilito, il progetto che Dio aveva in origine per l’umanità di cui Adamo ed Eva erano i capostipiti. Così farà anche dopo, contrapponendo costantemente all’uomo desideroso di percorrere i sentieri del Bene, persone intente a seguire quelli del Male o comunque alternativi a quelli di Dio, come da Caino in poi. Nel nostro caso si tratta di un personaggio, l’Avversario, che aveva tutto l’interesse al fatto che anche solo una delle tentazioni da lui ordite avesse successo perché, in qual caso, la “progenie della donna” non gli avrebbe potuto schiacciare il capo. In pratica, se una sola delle tentazioni fosse andata in porto, Gesù non avrebbe più potuto essere l’Agnello di Dio, perché non innocente e senza difetto né macchia, e neppure avrebbe potuto togliere il peccato del mondo perché avrebbe perso, esattamente come il capostipite della razza umana, l’innocenza. E non a caso Gesù è definito “l’ultimo Adamo”. Infatti: “45il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente, ma l’ultimo Adamo divenne spirito datore di vita. 46Non vi fu prima il corpo spirituale, ma quello animale, e poi lo spirituale. 47Il primo uomo, tratto dalla terra, è fatto di terra; il secondo uomo viene dal cielo. 48Come è l’uomo terreno, così sono quelli di terra; e come è l’uomo celeste, così anche i celesti. 49E come eravamo simili all’uomo terreno, così saremo simili all’uomo celeste. 50Vi dico questo, o fratelli: carne e sangue non possono ereditare il regno di Dio, né ciò che si corrompe può ereditare l’incorruttibilità” (1 Corinti 15.45-50). La traduzione corretta del verso 1 è “Allora Gesù fu condotto nel deserto dallo Spirito per essere tentato dal diavolo (lett. Avversario/ingannatore)”, che pone l’accento su uno scopo preciso: venire provato prima di iniziare il suo ministero. Il tempo che Gesù passò nel deserto viene contato in quaranta giorni, numero che indica un periodo e non necessariamente una quantità precisa: ricordiamo il diluvio, in cui piovve per 40 giorni e altrettante notti (Genesi 7.4), Noè che aprì la finestra dell’arca dopo 40 giorni (Genesi 8.6), i giorni in cui Mosè rimase sul monte (Esodo 24.18), Elia, che camminò per lo stesso tempo (1 Re 19.8), i 40anni nel deserto del popolo di Israele, condannato a non trovare la strada per l’idolatria commessa e la fede, praticamente nulla, dimostrata.

Il tempo di Gesù nel deserto non fu facile, tormentato dalla compagnia del tentatore che, se leggiamo i particolari del testo, non rimase lì ad aspettare che il suo bersaglio avesse fame: ci fu tutta una serie ininterrotta di tentazioni di cui sono citate solo le più rappresentative; il numero tre sta ad indicare “tutto il possibile” e solo alla fine Luca scrive “Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al momento fissato”. Dopo aver esaurito ogni tentazione, cioè dopo avere fatto tutto ciò che era in suo potere per farlo cadere. E “Fino al momento fissato”, cioè alla croce, quando potrà ferire la progenie della donna al calcagno con la morte.

Il racconto di Matteo differisce da quello di Luca per la cronologia delle tentazioni, che sono però le stesse: Matteo mette nell’ordine (1) le pietre che avrebbero potuto diventare del pani, (2) il gettarsi giù dal pinnacolo del tempio e (3) i regni della terra, Luca inverte la 2 e la 3, ma ciò non cambia il senso delle iniziative portate avanti da Satana che, conoscendo l’umanità di Gesù, lo tenta nel modo più naturale, cioè lo prende per fame. C’è un particolare molto interessante visto nel modo con cui inizia il suo discorso: “Se tu sei Figlio di Dio”, cioè lo definisce allo stesso modo con cui il Padre lo presentò al battesimo di Giovanni, “Questi è il mio Figlio, l’amato, in lui ho posto il mio compiacimento” (Matteo 3.17), segno che, tra i tanti presenti, c’era anche lui. Ricordiamo ancora una volta il libro di Giobbe quando, alla domanda “Da dove vieni?”, Satana rispose “Da un giro sulla terra che ho percorso”. La terra, corrotta dal peccato, non può che essere il luogo ideale per questo essere che sta scritto “Si aggira come un leone che ruggisce cercando chi poter divorare”.

La prima tentazione fu quella per fame, cioè quella che coinvolgeva l’immediatezza umana di Gesù: fisiologicamente non gli era possibile sottrarsi alla necessità di mangiare e non aveva modo di soddisfarla. Dopo un lungo periodo senza alimentazione, la sensazione di fame si trasforma in uno stato progressivamente più grave, fino a diventare acutamente dolorosa. Satana non gli andò incontro, non comparve davanti a lui all’improvviso, ma gli si accostò, cioè gli andò vicino gradualmente quasi a non volerlo apparentemente disturbare per porsi nel modo più naturale possibile: “Se tu sei Figlio di Dio, dì che queste pietre diventino pani”, cioè in altri termini: “Visto che sei stato presentato come l’amato Figlio, puoi benissimo saziarti compiendo un miracolo”.

L’Avversario sapeva benissimo chi era Gesù e non chiede un miracolo per credere in Lui, ma cerca di sfruttare la Sua fame per indurlo a volgere a suo vantaggio il Suo essere Figlio di Dio compiendo un miracolo per sé, cosa che non fece mai. Vero è che nel testo evangelico leggiamo episodi apparentemente inspiegabili, come ad esempio quando a Gerusalemme volevano prenderlo per lapidarlo in cui è scritto “…ma egli sfuggì dalle loro mani” (Giovanni 10.39) oppure quando, prima di catturarlo, “indietreggiarono e caddero a terra” (Giovanni 18.16), ma questo è da attribuire al fatto che era stabilito un solo momento perché fosse dato “in mano agli uomini” e non altri.

Se Gesù avesse compiuto il miracolo del mutare le pietre in pani, avrebbe perso la sua identificazione con l’uomo che certamente non avrebbe potuto fare una cosa simile. Sappiamo infatti che Nostro Signore non fece mai un miracolo per sé stesso, come vediamo dalle parole di quelli che, di passaggio, lo insultavano quando era già sulla croce: “Tu che distruggi il tempio e in tre giorni lo ricostruisci, se sei Figlio di Dio, scendi dalla croce”; ricordiamo le parole degli scribi, degli anziani e dei capi sacerdoti: “Ha salvato gli altri e non può salvare se stesso. È il re d’Israele, scenda dalla croce, e crederemo in lui” (Matteo 27.39-42).

Tornando alla prima tentazione, Gesù risponde citando Deuteronomio 8.3: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”. C’è nutrimento e nutrimento, per la vita dell’uomo: quella materiale ha bisogno del pane, ma per vivere degnamente e in prospettiva, per ricuperare il proprio essere, l’uomo non può fare a meno della Parola di Dio, anzi, di “ogni parola”. L’uomo che vive di solo pane basa la propria vita su una realtà che crede sia l’unica, non avendo il coraggio di ammettere che questa è temporanea, illusoria, la stessa che videro i nostri progenitori provandone un’immensa vergogna.

Ecco allora che aggrapparsi a quell’”Ogni parola che esce dalla bocca di Dio” equivale a riappropriarsi di quell’eredità perduta che in realtà abbiamo parzialmente recuperato quando siamo divenuti figli di Dio avendo accolto Gesù nella nostra vita, ciascuno secondo le capacità e i talenti ricevuti. Spesso si pensa che, per ottenere la vita eterna, si debbano fare chissà quali opere perfette e grandi e ci si dimentica che il miracolo primario è già avvenuto: da peccatori, siamo stati fatti figli di Dio e siamo chiamati a gestire la vita terrena prendendola come un cammino illuminato dalla Parola che deve avere la precedenza sul quotidiano.

Andiamo ad esaminare il contesto del verso citato da Gesù leggendo Deuteronomio 8,1-5: 1 Abbiate cura di mettere in pratica tutti i comandi che oggi vi do, perché viviate, diveniate numerosi ed entriate in possesso della terra che il Signore ha giurato di dare ai vostri padri. 2Ricòrdati di tutto il cammino che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore, se tu avresti osservato o no i suoi comandi. 3Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore. 4Il tuo mantello non ti si è logorato addosso e il tuo piede non si è gonfiato durante questi quarant’anni. 5Riconosci dunque in cuor tuo che, come un uomo corregge il figlio, così il Signore, tuo Dio, corregge te.” Per approfondire il discorso sulla manna, Esodo 16

La citazione del verso che Gesù cita a Satana, allora, a parte le osservazioni fatte, aveva un significato ancora più chiaro: sfamandosi con quel pane che gli veniva suggerito di procurarsi trasformando le pietre, Gesù avrebbe commesso un’azione autonoma, slegata dal Padre, il solo che avrebbe potuto provvedere a Lui: se ci fosse stata la trasformazione delle pietre in pani, Satana avrebbe vinto.

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02.03 – IL BATTESIMO DI GESÙ (Matteo 3.13-17)

Il battesimo di Gesù (Matteo 3.13-17)

13Allora Gesù dalla Galilea venne al Giordano da Giovanni, per farsi battezzare da lui. 14Giovanni però voleva impedirglielo, dicendo: «Sono io che ho bisogno di essere battezzato da te, e tu vieni da me?». 15Ma Gesù gli rispose: «Lascia fare per ora, perché conviene che adempiamo ogni giustizia». Allora egli lo lasciò fare. 16Appena battezzato, Gesù uscì dall’acqua: ed ecco, si aprirono per lui i cieli ed egli vide lo Spirito di Dio discendere come una colomba e venire sopra di lui. 17Ed ecco una voce dal cielo che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento».

Tutti i Vangeli sottolineano che la predicazione del Battista aveva raggiunto il suo punto culminante e per questo Gesù, “dalla Galilea” e quindi da Nazareth, venne in Betania, quella al di là del Giordano. Del suo battesimo ne parlano tutti e quattro gli Evangelisti, ciascuno con un particolare proprio, utile a contestualizzarlo anche se cronologizzare gli avvenimenti di quel giorno non è così immediato.

Giovanni Battista e Gesù erano parenti e, se non sappiano se si conoscessero di persona come avviene per gli esseri umani, indubbiamente la conoscenza spirituale era molto forte. Di certo, ricordando l’episodio in cui, concepito da sei mesi, ebbe un sobbalzo nel ventre di sua madre quando Maria andò in visita da lei, lo riconobbe. Giovanni sapeva che Gesù non aveva certo bisogno di pentimento, di confessare dei peccati e del battesimo e per questo non si riteneva degno di amministrarglielo: “Sono io che ho bisogno di essere battezzato da te, e tu vieni a me?”. La risposta è illuminante: “Lascia fare per ora, perché conviene che adempiamo ogni giustizia” ed è proprio quell’ “ogni”, che si riferisce al non trascurare nulla, che ci spiega il perché Gesù voleva e doveva farsi battezzare pur non attendendo nessun salvatore essendolo lui stesso, pur non avendo peccati da confessare né essendo peccatore come tutti gli altri uomini, tali per natura a causa dell’eredità in Adamo a prescindere dai peccati specifici commessi.

Essere dei “peccatori” non indica un gruppo di persone dedite a crimini particolari contemplati da un codice penale, ma tutti coloro che, nati di donna, conducono o hanno condotto la propria vita senza avere beneficiato del perdono di Dio tramite la fede in Gesù Cristo. Il periodo in cui avvenne il battesimo di Gesù e intermedio, a cavallo tra la Dispensazione della Legge e quella della Grazia, “Legge” di cui dà un accenno Paolo in Romani 3.20-26: “20…in base alle opere della Legge nessun vivente sarà giustificato davanti a Dio, perché per mezzo della Legge si ha conoscenza del peccato. 21Ora invece, indipendentemente dalla Legge, si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla Legge e dai Profeti: 22giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono. Infatti non c’è differenza, 23perché tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, 24ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù. 25È lui che Dio ha stabilito apertamente come strumento di espiazione, per mezzo della fede, nel suo sangue, a manifestazione della sua giustizia per la remissione dei peccati passati 26mediante la clemenza di Dio, al fine di manifestare la sua giustizia nel tempo presente, così da risultare lui giusto e rendere giusto colui che si basa sulla fede in Gesù”.       Abbiamo letto “remissione dei peccati passati”: per quelli che il credente, come essere umano, può sempre commettere, c’è la confessione e il loro abbandono.

Torniamo al battesimo di Gesù: quando disse a Giovanni Battista “Lascia fare per ora, perché conviene che adempiamo ogni giustizia”, è scritto che “lo lasciò fare”, segno che comprese che il Cristo doveva condividere in tutto e per tutto la vita dell’uomo: fino ad ora sappiamo che fu circonciso, lui che non aveva bisogno di avere un segno esteriore della propria appartenenza al popolo di Dio. Sappiamo che fu osservante in tutto, restando sottomesso ai genitori per non incorrere neppure per un attimo nell’identificazione col “figlio ribelle” riportata in Deuteronomio 21.18 e segg., che la sua fu una crescita in sapienza e in grazia presso Dio e gli uomini: ricevendo il battesimo da Giovanni, iniziava il suo primo distinguersi tra coloro che, sensibili all’insegnamento ricevuto dalla Legge e dai Profeti, confessavano di avere bisogno del Messia promesso e accettavano di convertirsi, e coloro che lo rifiutavano. Battezzandosi, Gesù volle unirsi a quello che poi sarebbe diventato il Suo popolo, coloro che avrebbero creduto in lui riconoscendolo per le parole che avrebbe detto e i miracoli che avrebbe compiuto.

Chi infatti si estraniava dal battesimo di Giovanni, interrogandolo senza capire e restando in quella categorie di persone che lui stesso aveva definito “Razza – inteso come appartenenza ad esse, o “progenie” come altri traducono – di vipere”, ne rigetterà tanto gli insegnamenti che i miracoli, trovando ogni giustificazione e pretesa pur di negarli.

Gesù fu così battezzato pubblicamente. Quello che avvenne dopo lo riportano anche gli altri tre Vangeli, ma con piccole differenze: per Marco “Subito, uscendo dall’acqua, vide squarciarsi i cieli e lo Spirito discendere verso di lui come una colomba” (1.10), l’apostolo Giovanni fa dire al Battista, anche se in un momento successivo, “Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui” (1.12); Luca invece, in 3.21-22 21Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì 22e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento»”.

Gesù dunque, ricevuto il battesimo, si mise a pregare, ponendosi poco distante. Non ci è detto quanto, ma di certo era ben consapevole che da quel momento sarebbe iniziato per lui quel cammino di sofferenza e rinuncia che non aveva fatto prima: in Nazareth era cresciuto, spostandosi per i pellegrinaggi a Gerusalemme, aveva condiviso la vita di famiglia con i suoi fratelli e le sue sorelle, si era caratterizzato come una persona diversa crescendo come sappiamo, ma dal battesimo in poi sarebbe diventato un personaggio pubblico, avrebbe avuto davanti un’esistenza fatta di predicazione, miracoli e guarigioni, spostamenti da una città ad un’altra, si sarebbe scontrato con l’ottusità delle persone, avrebbe subìto una morte considerata ignominiosa e tutto questo lo sapeva. Così come sapeva la quantità enorme di anime che avrebbe salvato col suo sacrificio.

La preghiera al Padre era inevitabile e necessaria perché da Lui poteva ottenere la sola assistenza e approvazione di cui aveva bisogno. La risposta del Padre fu duplice: scese lo Spirito Santo su di lui sotto forma di colomba dopo che i cieli furono aperti. Giovanni Battista dirà “Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui” (Giovanni 1.32). Colomba, non le “lingue di fuoco” con cui si manifestò sui credenti della Chiesa di Gerusalemme: la colomba, lo stesso animale che Noè aveva mandato fuori dall’arca e che era tornata con un ramoscello di ulivo. La colomba che è collegata all’oppresso e all’indifeso: “Timore e spavento mi invadono e lo sgomento mi opprime. Chi mi darà ali come di colomba per volare e trovare riposo?” (Salmo 55.6-7). Colomba che si collega al ritorno degli esuli: “Accorreranno come uccelli dall’Egitto, come colombe dell’Assiria e li farò abitare nelle loro case” (Osea 7.11). Soprattutto, qui la colomba ha riferimento all’episodio di Noè: l’ulivo che gli portò era il segno ufficiale che l’ira di Dio, che aveva risparmiato lui e la sua famiglia ma aveva inesorabilmente condannato gli altri uomini che popolavano la terra, era finita ed era imminente la sua uscita dall’arca.

Allo stesso modo lo Spirito Santo, sceso “in forma di colomba” dal cielo e non da altre direzioni, stava a significare la benevolenza di Dio sull’uomo e che di lì a poco sarebbe giunta la salvezza per tutti coloro che l’avrebbero accolta: “…e a tutti coloro che l’hanno accolto, ha dato il potere di diventare figli di Dio”.

Giunse una voce dal cielo: chi l’avrà sentita? I presenti o solo Giovanni? Non ci è detto, manca la frase “E tutti si meravigliarono” alla quale chi ha letto i Vangeli fin qui è abituato, ma è probabile che, a un atto pubblico e ufficiale di Gesù, abbia fatto seguito un’altrettanto pubblica e ufficiale manifestazione del Padre e dello Spirito Santo.

Un particolare essenziale, a questo punto, lo riporta l’apostolo Giovanni in 1.29-34:

29Il giorno dopo, vedendo Gesù venire verso di lui, disse: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo! 30Egli è colui del quale ho detto: «Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me». 31Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare nell’acqua, perché egli fosse manifestato a Israele». 32Giovanni testimoniò dicendo: «Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui. 33Io non lo conoscevo, ma proprio colui che mi ha inviato a battezzare nell’acqua mi disse: «Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito Santo». 34E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio».

 

L’agnello di Dio. Così diverso da quello che veniva sacrificato per la Pasqua. Un uomo innocente a tal punto da essere paragonato a un agnello che, a differenza degli altri, toglie il peccato del – e non “dal” – mondo. Sono parole che ogni israelita avrebbe dovuto comprendere, poiché non solo avevano riferimento all’agnello che si sacrificava per la Pasqua, ma a quello che ogni sabato veniva offerto nel Santuario alla mattina e alla sera come sacrificio per il peccato (Esodo 29.38; Numeri 28.3-10). Se andiamo poi a prendere il verbo usato per “togliere”, vediamo che ha come significato anche quello di “prendere su di sé” e di “portare”. Pietro scrive nella sua seconda lettera “Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia; dalle sue piaghe siete stati guariti. Eravate erranti come pecore, ma ora siete stati ricondotti al pastore e custode delle vostre anime” (2.24,25). Sempre Giovanni nella sua prima lettera dice “Voi sapete che egli si manifestò per togliere i peccati e che in lui non vi è peccato” (3.5).

Nella lettera ai Galati 1.3 Paolo scrive “Grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo, che ha dato se stesso per i nostri peccati al fine di strapparci da questo mondo malvagio”, bellissimo ritratto che racchiude lo scopo del sacrificio dell’Agnello di Dio: per strapparci, cioè togliere, portare via con un movimento violento e rapido. Lo strappo si rende necessario quando occorre togliere in fretta qualcosa di ancorato ad una struttura. Chi quindi crede è strappato dal mondo, da tutte quelle cose alle quali dava un valore e che lo condizionavano. Strappato da una falsa morale, rispettabilità, tendenze, trapiantato in realtà nuove. Strappato al campo del mondo dominato da Satana, per essere impiantato nel campo di Dio. Nato di nuovo, d’acqua e di spirito.

Ma ancora di più, lo strappo si riferisce al destino che ha “questo mondo malvagio”, destinato a perire e ad essere distrutto assieme a tutti coloro che, a quell’Agnello di Dio, non avranno voluto guardare.

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01.19 – LA FUGA IN EGITTO (Matteo 2.13-15)

01.19 – La fuga in Egitto (Matteo 2.13-15)

 

13Essi erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: «Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo».14Egli si alzò, nella notte, prese il bambino e sua madre e si rifugiò in Egitto, 15dove rimase fino alla morte di Erode, perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: Dall’Egitto ho chiamato mio figlio. 16Quando Erode si accorse che i Magi si erano presi gioco di lui, si infuriò e mandò a uccidere tutti i bambini che stavano a Betlemme e in tutto il suo territorio e che avevano da due anni in giù, secondo il tempo che aveva appreso con esattezza dai Magi. 17Allora si compì ciò che era stato detto per mezzo del profeta Geremia: 18Un grido è stato udito in Rama, un pianto e un lamento grande: Rachele piange i suoi figli e non vuole essere consolata, perché non sono più.”.

 

I Magi, dopo la loro adorazione e aver lasciato i doni che consentiranno a Gesù e alla sua famiglia una vita dignitosa oltre al loro sostentamento nel periodo in Egitto, non verranno più nominati. Con la loro venuta e partenza da Betlehem si apre e si chiude una finestra su quella moltitudine di popoli che sarebbero stati chiamati e salvati in seguito. L’omaggio dei Magi, di cui non ci viene detto il nome né quanti fossero, è quello delle anime che aspettano l’adempimento del regno di Dio, di chi è conscio di un mistero che verrà rivelato un giorno. I Magi si basavano su pochi elementi, ma li seppero conservare con certezza aspettando quella stella ogni notte, in un buio solo apparente, amico. Metto sempre a confronto il mettersi in viaggio di quelle persone, che si fidarono solo della loro tradizione e fede, e il comportamento dei sapienti interpellati da Erode che, per nulla interessati dal racconto di quegli stranieri, risposero freddamente che il Messia sarebbe nato a Betlehem per poi tornarsene alle loro occupazioni, ai loro riti, alla gestione della propria ignoranza interiore, all’incapacità di distinguere, in quei testi davvero sacri orgogliosamente studiati, che era giunto il tempo in cui il regno di Dio sarebbe giunto a loro.

Il sogno dei Magi fu una rivelazione che dovette confortarli molto: tutti loro ricevettero lo stesso messaggio, ebbero la medesima visione, cosa umanamente impossibile; così, all’aver trovato la stella, al Re dei Giudei individuato e omaggiato, si aggiunse un ordine di Dio in sogno che osservarono. Considerata la continuità del triplice messaggio ricevuto – stella, Re e sogno -, alla parola data ad un re umano preferirono rispettare quella che il Re divino aveva rivolto a loro.

Subito dopo la partenza dei Magi abbiamo la quinta rivelazione dell’angelo, termine che non si riferisce ad un essere con ali e aureola, ma a un personaggio identificabile come un “messaggero”. Nessun profeta, tranne che nelle sue visioni riguardanti realtà soprannaturali che si svolgono in ambienti non umanamente raggiungibili, ha mai dato sugli angeli in terra descrizioni diverse da quelle di “uomini” talché l’autore della lettera agli Ebrei in 13.2 scrive “Non dimenticate l’ospitalità: alcuni, praticandola, hanno ospitato senza saperlo degli angeli”.

Rivelazioni angeliche precedenti al sogno di Giuseppe furono l’annunzio a Zaccaria, quello a Maria, a Giuseppe invitato a non lasciare la sua promessa sposa, quello ai pastori, e infine questo, che costituisce anche il secondo sogno di Giuseppe, che ebbe rivelata la volontà di Dio sempre in questo modo.

Va rilevato che la traduzione “sta cercando il bambino per ucciderlo” non è corretta ed è preferibile quella che recita “si accinge a cercare il bambino per eliminarlo” o, come traduce Diodati, “cercherà il bambino per farlo morire”. Anche Ricciotti scrive “sta per cercare il bambino”. La versione che ho scelto per il suo italiano più scorrevole, fa istintivamente pensare che Erode decise la “strage degli innocenti” a seguito di un attacco d’ira perché gabbato dai Magi. Dio invece, perfetto conoscitore degli eventi anche futuri, preavvisa il “padre” di Gesù quando ancora Erode progettava di eliminare il bambino e aspettava il rientro a palazzo della delegazione dei Magi.

La reazione di Giuseppe, uomo d’azione, è un esempio di fedeltà: destatosi, comprende la vitale importanza del sogno, sveglia la moglie, entrambi prendono le loro cose e partono in breve tempo affrontando una settimana circa di viaggio con un bimbo di pochi mesi raggiungendo a un certo punto l’antica strada carovaniera che costeggiava il Mediterraneo per poi raggiungere la Palestina e finalmente l’Egitto. Un viaggio duro ed estenuante caratterizzato dal caldo del deserto. È utile ricordare che lo stesso percorso, relativamente alla carovaniera, è citato da Plutarco che afferma che i soldati romani di Gabinio, una delle personalità più importanti del periodo che precedette la guerra civile tra Cesare e Pompeo, temevano quella traversata più della guerra che li aspettava in Egitto.

Giunti là, penso che la famiglia si sia stabilita vivendo dignitosamente perché aveva con sé l’oro portato in dono dai Magi venuti da oriente. Giuseppe, Maria e Gesù sarebbero rimasti in Egitto fino a quando il messaggero non fosse tornato, vale a dire alla morte di Erode il Grande, avvenuta pare per cancrena di Fournier. Scrive Giuseppe Flavio (Guerre Giudaiche 1,656) “…tutto il suo corpo fu preda della malattia, diviso tra varie forme di mali; aveva una febbre non violenta, un prurito insopportabile su tutta la pelle e continui dolori intestinali, gonfiori ai piedi come per idropisia, infiammazione all’addome e cancrena dei genitali con formazione di vermi, e inoltre difficoltà a respirare se non in posizione eretta, e spasmi di tutte le membra”.

Torniamo alla cronologia: Maria e Giuseppe erano partiti come i Magi prima di loro ed Erode attendeva, sempre più spazientito, fino a quando non comprese, di suo o perché informato dai suoi agenti sparsi ovunque – tra i quali c’erano anche persone “normali” che gli riferivano fatti e comportamenti dietro compenso – di essere stato ignorato. Credo che nulla possa fare infuriare di più un despota del non essere preso in considerazione. Credo che nulla possa preoccupare di più un simile personaggio del sapere della nascita di un rivale, a parte le considerazioni che abbiamo fatto nel precedente studio: la domanda che gli fu rivolta, “Dov’è il re dei giudei che è nato”, era un presagio nefasto che lo preoccupava e che vedeva abbattersi non solo su di sé, ma anche sulla sua discendenza, su tutto ciò che aveva fatto e costruito.

Erode, che allora non era ancora malato, è scritto che si infuriò e prese l’unica decisione per lui possibile, cioè uccidere tutti i bambini di Bethlehem dai due anni in giù e, non volendo sbagliare, abbondò nei calcoli possibili basandosi sui dati che i Magi gli avevano fornito sulla durata del loro viaggio e da quando avevano visto la stella. Ebbe così luogo quella conosciuta come “strage degli innocenti”, che è stato calcolato, in base agli abitanti di Bethlehem (un migliaio) e ai bambini maschi che potevano esservi, potesse avere fatto una ventina di vittime. Fu episodio che, per la scarsa rilevanza per la mentalità di allora e per le altre nefandezze di Erode, non fu riportato da nessuno storico, neppure da Giuseppe Flavio, nonostante gli fosse ostile.

Sicuramente possiamo dire che questa strage può costituire un primo segno di contraddizione, il primo “sasso su cui inciampare” di cui parlò Simeone: ci si può chiedere perché, se

Dio è tanto misericordioso, abbia permesso la morte di bambini innocenti trucidati, presumiamo, con la spada, causando tanto dolore in chi restava, le madri per prime. La domanda è simile a quella che molti si pongono ogni qualvolta avvengono fatti di cronaca che turbano la sensibilità e l’opinione pubblica, come i terremoti, le inondazioni, gli attentati in cui “pagano” persone innocenti. Ci si dimentica che il mondo, la vita che viviamo, da quando i nostri progenitori furono esclusi da Eden, non offre alcuna garanzia di sopravvivenza e che siamo soggetti a termine. Non abbiamo firmato, né noi, né chi per noi, un contratto che ci dice che la nostra vita sarà longeva e avrà una scadenza lontana nel tempo, che si concluderà quando saremo soddisfatti perché vedremo ogni nostro progetto realizzato, che ce ne andremo come Abrahamo, che morì “in felice canizie, vecchio e sazio di giorni” (Genesi 25.8). Al contrario, scrive Paolo ai romani, “Noi sappiamo che fino ad ora tutto il mondo creato geme insieme ed è in travaglio” (8.24). La vita che ogni essere umano vive non è esente da nessuna sofferenza: malattie più o meno gravi, progetti e intenti che naufragano, attitudini che raramente riescono ad esprimersi come vorremmo. La morte dell’innocente, che una volta ho sentito definire come “un mistero”, rientra purtroppo nei casi dell’esistenza di cui l’agente che la causa porterà la responsabilità, come in questo caso. Rientra nelle conseguenze del peccato, in quelle “spine e triboli” che avrebbe prodotto la terra ad Adamo, là dove per “terra” non si deve intendere solo il suolo, ma la vita sul pianeta in quanto tale che, dal momento in cui inizia, non può che finire. Solo in Eden, territorio che ricordiamo fu posto da Dio sulla terra e da lui stesso circondato con quattro fiumi, non vi era sofferenza né morte, così come non vi sarà nel Regno di Dio, nei “Nuovi cieli e nuova terra ove dimora stabile la giustizia”.

Quando leggo questo episodio mi viene solo in mente la speranza che chi abbia ucciso quei bambini sapesse come e dove colpire, anche se le guerre combattute da sempre conoscono orrori anche maggiori e penso che il peccato non può che produrre la morte. La morte, che non è detto sia rapida, può arrivare in qualunque momento e ad ogni età; è un aspetto di quel “giorno del Signore che arriva come un ladro di notte”: coglie di sorpresa. Così sarà il suo ritorno, così accade sempre per la sua chiamata attraverso il decesso: pochissimi sono quelli che si trovano preparati a riceverlo. Per noi quanto avvenuto in Betlehem è un fatto orribile, ma non per gli storici antichi i quali, rispetto alle nefandezze di cui si macchiò Erode, non lo riportarono neppure. C’è chi sostiene che l’episodio non sia avvenuto e che Matteo abbia voluto colorire il suo Vangelo con un racconto teso a dimostrare due profezie adducendo il pretesto che il re non avrebbe potuto emettere una condanna a morte senza l’approvazione del Sinedrio: di fatto, Giuseppe Flavio riferisce che, pochi istanti prima di morire, Erode fece uccidere molti insigni giudei nell’ippodromo di Gerico perché ci fosse chi piangesse nell’occasione della sua dipartita. E non chiese il permesso a nessuno.

La strage degli innocenti, a conferma della prudenza che il re ebbe nell’ordinarla, non avvenne solo a Betlemme, ma nel territorio circostante e Rama era nei pressi. Ecco perché il pianto di Rachele, moglie di Giacobbe e madre di Giuseppe e Beniamino che morì di parto e venne sepolta là, “sulla via di Efrata, cioè di Betlemme” (Genesi 35.19) è accomunato a quello delle madri degli innocenti; Rachele non era una donna comune, soffrì perché era sterile e non riusciva a dare una discendenza al marito, al contrario dell’altra di lui moglie Lea.

La permanenza in Egitto durò circa due anni, ed ecco il terzo sogno di Giuseppe col messaggero: aspettava l’angelo che gli aveva detto di restare in Egitto, dove c’erano comunque ebrei e sinagoghe, e che lo avrebbe avvertito di tornare. Ciò avvenne alla morte di Erode il Grande, avvenimento che adempie quel proverbio di Salomone che recita “L’empio è travolto dalla sua stessa malvagità, ma il giusto ha speranza nella sua stessa morte” (Prov. 14.32).

Ho chiamato mio figlio fuori dall’Egitto” è la profezia che Matteo ci ricorda e la troviamo in Osea 11.1, “Quando Israele era fanciullo, io l’amai e dall’Egitto chiamai mio figlio”: è un aggiornamento storico che ci offre il passaggio da quando il popolo si mosse da quel Paese avendo Mosè come conduttore, a quello attuale, il Cristo. Ricordiamo che Mosé si troverà a parlare con Gesù ed con Elia alla trasfigurazione (Matteo 17.1-13).

A questo punto leggiamo che Giuseppe, di cui non abbiamo tramandato nessuna parola, esecutore obbediente alle istruzioni ricevute da Dio, fu preso da timore quando seppe che, morto Erode, gli era succeduto Archelao, crudele come suo padre. Il regno di Erode, in forza del suo testamento poi ratificato e modificato da Augusto che non voleva che il titolo di re competesse ad alcuno dei suoi figli, fu diviso tra loro: ad Archelao toccarono Giudea, Idumea e Samaria; Antipa ebbe la quarta parte del regno con la Galilea e la Perea e a Filippo toccò la Batanea con l’Auranitide, la Traconide e una parte dell’Iturea. Un altro figlio di Erode, Filippo omonimo del precedente, non ebbe alcun governo ma visse a Roma da privato cittadino. Mentre Antipa e Filippo governarono il loro territorio per tutto il tempo della vita di Gesù ed oltre, Archelao fu accusato di tirannia presso Augusto che lo destituì esiliandolo a Vienna nelle Gallie.

Ecco, qui abbiamo il raccordo con Luca, che inserisce un versetto che fa da ponte tra le benedizioni di Simeone ed Anna e l’episodio che lo vede dodicenne tra i dottori della Legge: “Ora quando ebbero compiuto tutto quello che riguardava l’osservanza della legge del Signore, ritornarono in Galilea, nella loro città di Nazareth” (2.39). Interessante l’aggiunta che fa al verso successivo: “intanto il bambino cresceva e si fortificava nello spirito, essendo ripieno di sapienza, e la grazia di Dio era sopra di lui”.

Ecco, Matteo spiega come mai Maria e Giuseppe tornarono a Nazareth, un perché spirituale e non solo: Gesù sarebbe stato chiamato “Nazareno” sia perché proveniente da quel paese, sia perché la parola ebraica da cui deriva il nome, “netzer” (“germoglio, ramo”) ricorda Isaia 11.1 “Poi un ramoscello uscirà dal tronco d’Isai – padre di Davide – e un germoglio spunterà dalle sue radici. Lo Spirito dell’Eterno riposerà su di lui: spirito di sapienza e di intelligenza, spirito di consiglio e di potenza, spirito di conoscenza e di timor dell’Eterno”. Tutto iniziò da Nazareth, che ricordiamo come prima località visitata dall’angelo Gabriele quando annunciò a Maria che avrebbe avuto un figlio.

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01.18 – DINAMICHE (Matteo 2-7-12)

01.18 – Dinamiche (Matteo 2.7-12)

 

7Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire da loro con esattezza il tempo in cui era apparsa la stella 8e li inviò a Betlemme dicendo: «Andate e informatevi accuratamente sul bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo».
9Udito il re, essi partirono. Ed ecco, la stella, che avevano visto spuntare, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. 10Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima. 11Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. 12Avvertiti in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese.
”.

 

Satana, il calcolatore, il tecnico, lo psicologo per eccellenza che si prefigge come unico scopo quello di agire contro i progetti di Dio nei riguardi dell’uomo al fine di perderlo, doveva fare tutto ciò che era in suo potere pur di avere ragione su Colui che lo avrebbe sconfitto. Perché là dove c’è un piano di salvezza, ce n’è anche uno di perdizione ordito dal “principe di questo mondo”. Lo fa da sempre. Questo piano iniziò una volta constatata la libertà, gratuità e ricchezza di relazione che l’uomo aveva in Eden e proseguì di pari passo con le varie epoche: pensiamo alla dispensazione della coscienza quando suscitò il pensiero omicida in Caino, al rifiuto all’obbedienza in quella della Legge, a Erode quando nacque Gesù e poi via, attraverso tutti i persecutori della vera Chiesa; solo il giudizio definitivo su di lui e relativi angeli potrà fermarlo una volta per sempre.

Ora, a proposito di Erode, riflettiamo un attimo su quanto sappiamo sulla biografia di re, imperatori o dittatori piccoli e grandi indipendentemente dall’epoca in cui sono vissuti: tutti loro hanno sempre teso ad esaltare la loro immagine perché dotati di un ego smisurato, adoratori in primis di loro stessi e disposti a tutto pur di garantirsi la sopravvivenza, oltre che propria, di quanto hanno costruito. Nella lettura dei testi storici abbiamo incontrati tanti, eroi negativi tanto nella Bibbia quanto al di fuori. La tecnica di questo piccolo despota è stata la seguente: trovandosi di fronte una delegazione di persone autorevoli che non lo avevano cercato dando molta più importanza a quel re che sarebbe stato davvero vittorioso e liberatore, Erode ritenne di non allarmarli facendoli scortare dai suoi uomini fino a Betlehem, e li chiamo “segretamente” – il fare di nascosto le cose è già indice di cospirazione contro qualcuno – informandosi nei dettagli sul motivo della loro visita, su come avevano fatto a sapere di quella nascita, sul loro viaggio e soprattutto da quanto tempo era apparsa la stella. Erode aveva quindi un piano di riserva, come dimostrò successivamente, per uccidere il bambino. Il re voleva usare i magi come informatori inconsapevoli, ma soprattutto il reale disegno (satanico) prevedeva che il bambino Gesù fosse ucciso dagli uomini di Erode proprio grazie ai dati forniti da chi che era venuto da lontano a rendergli omaggio. Era questa una beffa che, per l’Avversario, avrebbe rappresentato una grande sottolineatura alla sua eventuale vittoria contro progetto di Dio.

Il verso della stella che “giunse e si fermò sul luogo dove si trovava il bambino” si potrebbe raccordare a quanto è riportato in Giosuè 10.12-15 che narra l’episodio in cui Israele sconfisse gli Amorrei che, come è noto, fu interpretato letteralmente dalla Chiesa del 1600 quando, tramite il Sant’Uffizio, condannò Galileo per eresia: “«Fermati, sole, su Gabaon, luna, sulla valle di Aialon». Si fermò il sole e la luna rimase immobile finché il popolo non si vendicò dei nemici. Non è forse scritto nel libro del Giusto? Stette fermo il sole nel mezzo del cielo, non corse al tramonto un giorno intero. Né prima, né poi vi fu un giorno come quello, in cui il Signore ascoltò la voce di un uomo, perché il Signore combatteva per Israele” (12-15). Se quindi in via teorica il Creatore non avrebbe avuto difficoltà a “fermare una stella”, in realtà non fece nulla del genere, ma semplicemente raccordò la dinamica del viaggio dei magi e del luogo in cui suo Figlio si trovava a quella della congiunzione dei pianeti, vista la volta scorsa, in cui termina il moto diretto “da – a” per iniziare quello retrogrado: in quel momento sembra, a chi lo osserva, che “la stella” si fermi. Sono perfettamente consapevole di usare termini primitivi, rudimentali; tuttavia chi volesse approfondire in merito esistono studi molto interessanti, reperibili in Rete, editi dall’Osservatorio Astronomico di Genova a cura di Giuseppe Veneziano e Marco Codebò sia riguardo alla “stella dei Magi”, ma ancor di più sull’astronomia nei testi biblici.

Giunti a quel punto e constatato il fenomeno, i Magi capirono di essere arrivati a destinazione: per loro era il coronamento non solo di un lungo viaggio (800 km), ma di attese secolari che si erano tramandati da generazioni e l’idea che avessero di un salvatore dell’umanità che sarebbe nato ci conferma quanto fosse andato in profondità nel cuore e nella mente di queste persone l’insegnamento di Daniele, tramandato nei secoli e che si raccordava ai profeti venuti prima di lui.

Non sappiamo dove “la stella si fermò”: c’è chi traduce con “casa”, chi con “luogo”, ma è evidente che i Magi arrivarono quando Maria non era più impura secondo la Legge e che quindi avesse potuto trovare ospitalità presso dei parenti, probabilmente gli stessi che non avevano potuto accoglierla quando stava per partorire. Giuseppe non era presente e i Magi si prostrarono – come davanti al re che attendevano – e lo adorarono – lui, non sua madre – vale adire esternarono tutto il loro sentimento reverenziale, riconoscendo in lui chi avrebbe esteso il suo dominio spirituale su tutti i popoli. La loro conoscenza era quella che si tramandavano da generazioni basata su forse poche, ma per loro certe profezie e sono certo che vadano riconosciuti anche nel Salmo 72.9-12 di Salomone: “A lui si pieghino le tribù del deserto, mordano la polvere i suoi nemici. I re di Tarsis e delle isole portino tributi, i re di Saba e di Seba portino doni. Tutti i re si prostrino a lui, lo servano tutte le genti, perché egli libererà il misero che lo invoca e il povero che non trova aiuto”. Adorare presuppone il fatto che si riconosca a chi riceve quel gesto una dignità e un potere unico, riconoscendo l’inferiorità assoluta di chi la porge. Al prostrarsi dei magi si accompagnava un profondo sentimento interiore e non escludo che, per le modalità con cui si manifestò loro “la stella”, riconoscessero in Lui anche il re del creato.

Mi sorge spontaneo paragonare i due sentimenti descritti al verso 3 (“All’udire questo Erode fu turbato e con lui tutta Gerusalemme”) e il 10 (“Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima”), due opposti. Citando le parole di un fratello, “Il turbamento cui il testo si riferisce non caratterizzò solo Erode, ma soprattutto le autorità religiose del popolo d’Israele che dimostrarono, con il loro stile di vita, di non aspettare affatto il promesso Messia e di avere una profonda ignoranza delle scritture profetiche malgrado la lettura continua nel Tempio e nelle Sinagoghe. Ancora oggi molti celebrano il Natale di Cristo, ma non fanno mai proprio il Suo Vangelo e la dottrina degli Apostoli. Natale dunque non è espressamente la giornata nella quale dimostrare di essere necessariamente buoni, dove le strette di mano accompagnate da frasi di circostanza trovano fondamento solo in tradizioni pagane: quelle stesse mani che si stringono diventano poi da calde a tiepide e quindi fredde, dure, violente”. I Magi furono annunciatori della nascita di Gesù a un popolo che a parole attendeva un Messia che avrebbe dovuto portarlo a una vittoria materiale, non certo spirituale.

Dopo l’adorazione, ecco i doni che non ebbero un significato umano, ma profetico, premesso che secondo l’uso del tempo i re non ricevevano delegazioni che non portassero con sé degli omaggi.

 

  1. 1. ORO

era probabilmente quello di Ofir, estratto nella regione di Avila, che aveva 24 carati. Il suo significato, come per gli altri doni, è fondamentale: l’Avila era bagnata dal fiume Pison, primo dei quattro che prendevano origine dall’unico fiume che usciva dal giardino di Eden e che significa “Primogenito”; il Pison anticipa e presenta la persona e la nascita di Cristo, definito anche “Il primogenito di ogni creatura”. L’oro poi aveva connessione “pratica” con lo stato regale del bambino che gli attribuivano i Magi riconoscendo in Lui la Sua presenza nel tempo: re era e sarebbe stato sempre e per sempre, come del resto l’oro, che è inattaccabile dagli agenti chimici. L’oro, nella Scrittura, ha sempre connessione con l’essere di Dio, mentre l’argento con quella dell’uomo.

 

  1. 2. INCENSO

il riferimento è alla divinità di Cristo e al tempo stesso è figura della preghiera che sale verso l’alto. Ricordiamo che Gesù, nella Sua vita terrena, rimase sempre in contatto col Padre anche per mezzo di lei. Non sappiamo la composizione dell’incenso che gli portarono i magi, ma quella che i sacerdoti bruciavano sull’altare a lui dedicato, quello detto anche dei profumi, era costituito da quattro componenti in parti uguali, che si bruciavano al mattino e alla sera. “Sarà da voi ritenuta cosa santissima, Non farete per vostro uso alcun profumo di composizione simile a quello che devi fare: lo riterrai una cosa santa in onore del Signore. Chi ne farà di simile, per sentirne il profumo, sia eliminato dal suo popolo. (Esodo 30.34). Non è azzardato, per estensione, paragonare ai componenti dell’incenso ai quattro Vangeli che solo amalgamati, connessi e armonizzati tra loro possono dare un quadro esaustivo del messaggio di Dio per l’uomo. È in questo incenso che risiede la verità come in Cristo ne abita tutta la pienezza. Essendo l’incenso un profumo, viene spontaneo paragonarlo al Suo sacrificio.

 

  1. 3. MIRRA

proveniente da Avila come i primi due doni, ha un significato diverso, ci parla di morte e di sofferenza. La mirra è una resina che esce dalla pianta spontaneamente o per incisione praticata sulla corteccia, per poi raccoglierla una volta essicata. Gli egiziani la usavano nella mummificazione, era uno dei componenti dell’olio per l’unzione sacra non solo dei componenti per il culto ebraico, (candelabro, tenda del convegno ed altri), ma anche dei sacerdoti. La mirra, oltre che profumo, è un disinfettante e un analgesico (vedi il vino mescolato alla mirra che i soldati romani offrirono a Gesù sulla croce); inoltre, sarà portata da Nicodemo per seppellire Gesù: “Vi andò anche Nicodèmo, quello che in precedenza era andato da lui di notte, e portò una mistura di mirra e di aloe di circa cento libbre. Essi presero allora il corpo di Gesù, e lo avvolsero in bende insieme con oli aromatici, com’è usanza seppellire per i Giudei.” (Giovanni 19: 39-40). Con quei doni, quindi, i magi resero al bambino anche un onore profetico.

 

Fu un sogno ad avvertire i magi di non passare da Erode, avvenimento che ci parla dell’universalità del messaggio che, da lì a trent’anni circa, sarebbe stato dato all’umanità: quei sapienti, che per manifestare i loro sentimenti di adorazione avevano percorso su carovana migliaia di chilometri, scelsero una strada diversa per tornarsene al loro paese, probabilmente costeggiando il Mar Morto.

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01.17 – DUE PROFEZIE (Matteo 2.4-6)

01.17 – Due profezie (Matteo 2.4-6)

 

4Riuniti tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Cristo. 5Gli risposero:«A Betlehem di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta: 6E tu, Betlehem, terra di giuda, non sei davvero l’ultima città delle principali di Giuda: da te infatti uscirà un capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele».”.

 

La nascita di Gesù, sommariamente trattata negli episodi precedenti, segna una tappa fondamentale nella storia di quell’umanità che ha scelto di porsi dalla parte di Dio. Sappiamo che ciò avvenne da Abele in poi, ma che ufficialmente fu da Enos, figlio di Set citato come terzogenito di Adamo, che si iniziò a designare uomini che si dedicassero alla preghiera e alle relazioni con YHWH (Genesi 4.26). A seconda delle traduzioni leggiamo “A quel tempo si cominciò ad invocare il nome del Signore” oppure “Allora si cominciò a nominare alcuni nel nome del Signore”. Un esempio di scelta lo troviamo poi in Giosuè che, parlando al popolo, disse “Ora dunque, temete il Signore e servitelo con integrità e fedeltà. Eliminate gli dèi che i vostri padri hanno servito oltre il Fiume e in Egitto, e servite il Signore. Se sembra male ai vostri occhi servire il Signore, sceglietevi oggi chi servire: se gli dèi che i vostri padri hanno servito oltre il Fiume oppure gli dèi degli Amorrei, nel cui territorio abitate. Quanto me e alla mia casa, serviremo il Signore” (Giosuè 24.14-15). Qui abbiamo una libertà di scelta che solo apparentemente è ideologica, poiché in realtà implica il destino di ciascuno nell’eternità.

Il verso di Giosuè ci parla di scelta tra ciò che è vivo e vero, o quanto che è costruito, inventato, adatto agli usi, credenze e ideali umani per poter trovare una giustificazione alle proprie azioni ed esistenza. Scegliere oggi a chi appartenere, scegliere il terreno su cui edificare come nella parabola della casa costruita sulla roccia o sulla sabbia.

Ebbene l’apostolo Paolo, scrivendo ai Galati, usa un’espressione particolare per indicare la venuta di Gesù sulla terra, data che non ci è stata tramandata nonostante fosse conosciuta dagli evangelisti: “Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò suo Figlio, nato di donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli” (4.4,5). E “la pienezza del tempo” è proprio quel periodo tra le 69ma e la 70ma settimana di Daniele cui abbiamo accennato nella scorsa riflessione.

Con questo nuovo studio non vorrei tanto esaminare quanto narrato da Matteo, ma dare un cenno anche ad altre profezie che i “capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo”, pur conoscendole, non affrontarono stante la richiesta impellente di Erode; leggiamo che li riunì facendo loro una richiesta precisa: dove sarebbe nato il Cristo secondo le loro scritture? Ecco, qui abbiamo un primo tratto del carattere del re, che riunisce il sommo sacerdote, il suo supplente, i capi delle 24 classi e gli scribi, quindi le persone più autorevoli, perché voleva sapere ciò che i Magi ignoravano. Erode quindi credette, o ritenne possibile, non escluse la possibilità che potesse davvero essere nato non un re nel senso terreno del termine, ma il Cristo, cioè l’Unto del Signore, il Messia che avrebbe liberato Israele, al contrario di lui che lo teneva soggiogato rispondendo comunque all’autorità di Roma. Ecco allora che non può essere accettata, stante il verso preciso di Matteo, la teoria in base alla quale Erode fosse geloso della nascita di un re che un giorno avrebbe minato il suo trono, ma piuttosto non poteva sopportare, tollerare la nascita del Cristo e credesse di poterlo contrastare, eliminare, uccidere. Erode allora fu uno strumento nelle mani non di quel Satana tanto sfruttato nella cinematografia e in un certo tipo di letteratura, ma del vero Avversario che, “micidiale fin dal principio” sapeva che con la nascita del Cristo sarebbe anche arrivato Colui che lo avrebbe annientato secondo il piano stabilito da Dio dalla Sua eternità.

E qui, tornando al nostro episodio, avviene un fatto davvero notevole, una testimonianza involontaria da parte dell’autorità religiosa, già da allora in combutta col potere politico: “In Betlemme di Giuda – per distinguerla dall’altra, quella di Zabulon – perché così è scritto per mezzo del profeta” (Michea). E gli lessero il testo: sarebbe nato “un capo”, quello che non vorranno riconoscere e al quale non daranno ascolto nonostante i miracoli, le implicazioni dottrinali che questi comportavano e i riferimenti all’Antico Patto che proprio loro studiavano e conoscevano.

Già dalle dinamiche di quel tempo possiamo trarre un principio fondamentale: non può esservi alcuna connessione tra potere politico e fede; se ciò accade abbiamo due elementi che, qualora si accordino, non possono che generare un sistema perverso perché la Chiesa non può avere interessi economici o di altra natura fuorché il servizio. Ricordiamo le parole “Non abbiate tra voi altro debito se non quello di amarvi gli uni gli altri” (Romani 13.8-10). La Chiesa è la comunità degli ekkletòi, dei “chiamati fuori” che, in quanto tali, con le dinamiche del mondo hanno ben poco a cui spartire.

Leggiamo la profezia di riferimento per gli interrogati da Erode in Michea 5.1-3: “E tu, Betlehem di Efrata, così piccola per essere tra i villaggi di Giuda, da te uscirà per me colui che dev’essere il dominatore in Israele; le sue origini sono dall’antichità, dai giorni più remoti. Perciò Dio li metterà in potere altrui fino a quando partorirà colei che deve partorire, e il resto dei tuoi fratelli ritornerà ai figli di Israele. Egli si leverà e pascerà con la forza del Signore, con la maestà del nome del Signore, suo Dio. Abiteranno sicuri, perché egli sarà grande, fino agli estremi confini della terra”. Avranno spiegato ad Erode i suoi sapienti qualcos’altro a parte fornirgli un’indicazione geografica? Matteo non lo dice, ma certo è che ben difficilmente il re si accontentò di questa e volle sapere chi sarebbe stato quel “re dei giudei” che era nato e cos’avrebbe fatto.

Ecco allora che da Betlehem sarebbe uscito “per me”, quindi per l’Iddio creatore, “colui”, cioè una persona precisa e unica dalle origini antiche che, con l’espressione “dai giorni più remoti”, alludono all’eternità, all’atto creativo di Dio col quale nacque anche il tempo. La seconda parte della profezia di Michea, poi, dà uno sguardo generale ad eventi che devono ancora verificarsi, ma illustra il risultato finale del piano eterno: “Abiteranno sicuri perché egli sarà grande, fino agli estremi confini della terra”, frase in cui possiamo intravedere la connessione intima anche a livello “pratico” tra il popolo di Dio e il loro Salvatore. Michea poi indica “gli estremi confini della terra” per rappresentare prima l’universalità del messaggio e della grazia, poi la vastità dei “Nuovi cieli e nuova terra” che verranno creati e che non contempleranno la presenza di nulla di impuro.

Di tutte queste parole che i sapienti di Erode gli lessero, due furono gli elementi che gli suonarono come un allarme: il potere che avrebbe avuto il Cristo, e il verso “Dio li metterà in potere altrui fino a quando partorirà colei che deve partorire”. Era quindi avvenuto il parto e il “potere altrui” in cui Erode il Grande si riconobbe, stava per finire. Temette per la fine del suo regno senza pensare a quella della propria anima.

Sono molti i passi dei profeti che parlano del Cristo; particolarmente interessante è quella di Isaia 52.13-15: “Ecco, il mio servo avrà successo, sarà onorato, esaltato e innalzato grandemente. Come molti si stupirono di lui – tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto e diversa la sua forma da quella dei figli dell’uomo –, così si meraviglieranno di lui molte nazioni; i re davanti a lui si chiuderanno la bocca, perché vedranno un fatto mai ad essi raccontato e comprenderanno ciò che mai avevano udito”. Qui Isaia ci dà un particolare: il servo del Signore “avrà successo”; siamo quindi autorizzati a pensare che prima di lui ci sia stato qualcun altro che ha fallito, quindi Adamo, che non fu in grado di adempiere nel tempo all’unico comandamento ricevuto.

Il “successo” di cui parla Isaia non allude tanto alla riuscita di una missione, a una vittoria sui nemici, ma al riscatto della vita umana: “Se per mezzo di un uomo – Adamo – venne la morte, per mezzo di un uomo – il servo vittorioso – verrà anche la resurrezione dei morti. Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita” (1 Corinti 15.21.22). Cristo, risorgendo, eliminò la morte come fine di tutto per trasformarla in passaggio da vita a vita per quelli che avrebbero creduto in lui. In questo stesso capitolo l’apostolo Paolo illustra la differenza tra le due esistenze dell’essere umano, la terrena e la futura, per poi passare a riconsiderare l’Adamo trasgressore e il Nuovo e Ultimo, Gesù: “…così anche la resurrezione dei morti: è seminato nella corruzione – il corpo – risorge nell’incorruttibilità; è seminato nella miseria, risorge nella gloria; è seminato nella debolezza, risorge nella potenza; è seminato corpo animale, risorge corpo spirituale. Se c’è un corpo animale, vi è anche un corpo spirituale. Sta scritto infatti che il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente, ma l’ultimo Adamo divenne spirito datore di vita” (Ibid. 42-45).

Ora il confronto tra i due “Adamo” e il “successo” che avrebbe avuto il Servo del Signore lo possiamo vedere mettendo a confronto i termini che contraddistinguono il nostro corpo e la nostra esistenza terrena con quello che avremo: per la prima condizione le parole sono “corruzione – miseria – debolezza – corpo animale”, per la seconda “incorruttibilità – gloria – potenza – corpo spirituale”, quattro qualità per ciascuna esistenza. C’è purtroppo un controsenso che ha sempre contraddistinto tutte le epoche attraverso le quali è vissuto l’uomo e a metterlo in risalto è la frase “Se c’è un corpo animale, c’è anche un corpo spirituale”: tutti ammettono l’esistenza del primo corpo che vede, sente, ascolta, parla e si muove, ma pochi riconoscono quella del corpo spirituale che esattamente allo stesso modo sente, ascolta, parla e si muove ma, negando l’esistenza di Dio e rifiutando di accogliere Gesù Cristo nella loro vita, lo oltraggiano e gli impediscono di agire. In questo modo il “corpo spirituale” resta ancorato a quello animale e non si distacca, non si innalza, non si salva. Resta immobile, paralizzato. E Cristo guarì i paralitici.

L’avere “successo” del Servo nato in Betlehem è sì personale e la resurrezione lo conferma, ma la sua grandiosità e mistero d’amore risiede proprio nel fatto che ha dato agli altri di seguire il suo stesso percorso glorioso nonostante la nostra caratteristica di peccatori. Chi rifiuta tutto questo rimane nei quattro ambiti che caratterizzano la condizione umana senza Cristo: corruzione – miseria – debolezza – corpo animale.

L’apostolo Giovanni, come sappiamo, scrive “A tutti quanti lo hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio”, quindi la corruzione – miseria – debolezza – corpo animale sono ciò che siamo ma in cui non possiamo vivere come condizione spirituale perché ciò che ci attende è qualcosa di esattamente opposto: incorruttibilità – gloria – potenza – corpo spirituale. Il vero cristiano è un essere in trasformazione, in cammino, tende alla perfezione nonostante sia imperfetto per sua natura.

Ma “Il primo uomo, tratto dalla terra, è fatto di terra; il secondo uomo viene dal cielo. Come è l’uomo terreno, così sono quelli di terra; e come è l’uomo celeste, così anche i celesti. E come eravamo simili all’uomo terreno, così saremo simili all’uomo celeste. Vi dico questo, fratelli: carne e sangue non possono ereditare il regno di Dio, né ciò che si corrompe può ereditare l’incorruttibilità” (1 Corinti 15.47-50).

E anche qui il richiamo a Giovanni è molto forte: “…a quelli che credono nel Suo Nome, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati” (1.12,13) perché “Quello che è nato dalla carne è carne e quello che è nato dallo spirito è spirito” (3.6). Amen.

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01.16 – ASTRONOMI (Matteo 2.1-3)

01.16 – ASTRONOMI (Matteo 2.1-3)

 

1Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme 2e dicevano: «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo.3All’udire questo, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme».”.

 

Dopo l’episodio di Simeone ed Anna, Luca scrive che “Quando ebbero tutto compiuto secondo la legge di Mosè, fecero ritorno alla loro città di Nazaret” (2.39). In realtà il loro ritorno a Nazareth avvenne dopo molto tempo perché Luca non riporta la visita dei Magi e il viaggio in Egitto intrapreso per sfuggire ai piani omicidi di Erode il Grande che ci racconta Matteo. Ecco allora che Luca vuole dirci che la Nazareth fu raggiunta dai tre non dopo il rito della circoncisione di Gesù, ma piuttosto che ci furono altri avvenimenti omessi, riassunti nel verso “Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era sopra di lui” (Luca 2.40). Mentre Matteo ci parla dei Magi e della fuga in Egitto, Luca pone tre tappe, circoncisione – Nazareth – Gesù che cresce, e quel “la grazia di Dio era sopra di lui” contempla la protezione a lui accordata nei due periodi di cui parla Matteo.

Venendo al testo in esame, possiamo dire che è più impegnativo di quanto possa sembrare e ci rimanda agli scritti e alla persona del profeta Daniele perché tra lui e i Magi c’è un rapporto di continuità: i Magi provenivano “da Oriente”, una zona molto vasta che comprendeva la Mesopotamia, la Persia e il deserto siro-arabico. I Magi costituivano la classe sociale più elevata dopo re e prìncipi ed erano sacerdoti dello zoroastrismo, versati nelle scienze di allora con particolare riguardo per l’astronomia che studiavano da secoli ogni notte suddivisi in turni. Nelle loro terre erano considerati i rappresentanti di un sapere superiore e ritenevano il cielo notturno una sorta di grande finestra attraverso la quale leggere il volere degli dèi. È stato detto che fossero astrologi, definizione che però non può raccordarsi ai nostri odierni, così esperti nel redigere prognostici assolutamente generici, quindi adattabili alla realtà di quelli che li consultan. I Magi di allora erano convinti che per ogni persona che nascesse vi fosse una stella – ricordiamo le parole “Abbiamo visto spuntare la sua stella” – che in qualche modo la guidava o proteggeva, ma la loro conoscenza di quell’astro così specifico che attendevano poggiava le sue basi proprio sulle profezie e gli insegnamenti di Daniele, attivo a Babilonia circa 600 anni prima di loro.

Il fatto che abbiano detto “La sua stella” testimonia che quei sapienti fossero assolutamente certi che il fenomeno che avevano osservato dovesse ricondursi alla nascita del Saošyant, il salvatore del mondo che aspettavano e sapevano doveva arrivare.

Credo che per capire il loro pensiero vada dato uno sguardo alle loro credenze: la religione che professavano era monoteista ed era stata fondata da Zarathustra prima del VI sec. a.C. (ma c’è chi la fa risalire al XVIII). Era riconosciuto un unico creatore, “Signore dell’esistenza e della vita attraverso il Suo operare” (Avesta Iasna 31.8) e si sosteneva un continuo confronto fra Bene e Male prevedendo la “Vita” e la “Migliore Esistenza” per chi avesse seguito il primo, o la “Non-Vita” e la “Peggiore Esistenza” (Ibid. 30.3,4) per chi avesse fatto la scelta opposta. Soprattutto Zarathustra, loro profeta, sosteneva che alla fine dei tempi sarebbe giunta una figura messianica che avrebbe guidato le forze del bene alla vittoria e alla redenzione del cosmo. I Magi quindi aspettavano, secondo i loro testi sacri, un redentore, un salvatore. Resta il perché cercassero proprio “il re dei giudei che è nato”, domanda rivolta agli abitanti di Gerusalemme con assoluta certezza. E qui entra il profeta Daniele.

Daniele, il profeta, il cui nome significa “Dio giudica”, o “Dio è mio giudice”: fu deportato a Babilonia da Nabucodonosor dopo la distruzione di Gerusalemme del 586 a.C. unitamente ai nobili della città e ai migliori giovani del regno di Giuda perché fossero al suo servizio. Daniele e altri giovani (Anania, Misael e Azaria che in seguito furono chiamati con nomi babilonesi) furono istruiti alla corte del re per tre anni, periodo che la Scrittura descrive così: “Dio concesse a questi quattro giovani – cioè i tre più Daniele – di conoscere e comprendere ogni scrittura e ogni sapienza, e rese Daniele interprete di visioni e sogni. (…) Su qualunque argomento in fatto di sapienza e di intelligenza il re li interrogasse, li trovava dieci volte superiori a tutti i maghi e indovini che c’erano in tutto il suo regno” (Daniele 1.17,20).

Percorrendo brevemente il libro di questo profeta, ci rendiamo conto che molti furono gli episodi tramandati dalla storia di corte e che interessarono i sapienti della sua epoca, i Magi di allora: pensiamo all’interpretazione dei sogni del re sul futuro del suo regno, l’episodio in cui i tre amici di Daniele furono gettati nella fornace senza subire alcun danno (3.46-50) oltre alle sue profezie che i Magi di allora tramandarono a quelli che poi si recheranno a Gerusalemme alla ricerca del “Re dei giudei che è nato”.

La prima profezia si trova in 7.13-14: “Guardando ancora nelle visioni notturne, ecco venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio d’uomo; giunse al vegliardo e fu presentato a lui. Gli furono dati potere, gloria e regno, tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano: il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai, e il suo regno non sarà mai distrutto”. La seconda è la profezia delle settanta settimane di anni che molti, Newton compreso, hanno cercato di comprendere; si tratta di pochi versi che riassumono tutta la storia umana dal tempo di Daniele fino alla fine del mondo che conosciamo e vanno letti a volte in termini matematici, in altre per simboli o per quadri.

Le “settanta settimane” vanno divise in varie sezioni, la prima delle quali è introduttiva: “Settanta settimane sono fissate per il tuo popolo e per la tua santa città per mettere fine all’empietà, mettere i sigilli ai peccati, espiare l’iniquità, stabilire una giustizia eterna, suggellare visione e profezia e ungere il Santo dei Santi” (9.24). Qui abbiamo l’annuncio del tempo che Dio ha stabilito sull’umanità prima che la totalità del Suo piano si compia. Si tratta di un tempo suddiviso in quattro periodi storici precisi: il primo, della durata di sette settimane, è descritto così dall’angelo Gabriele: “Sappi e intendi bene: da quando uscì la parola sul ritorno e la ricostruzione di Gerusalemme fino a un principe consacrato, vi saranno sette settimane” (v.25). Si tratta di un preciso riferimento all’editto di Artaserse II che, nel 445 a.C., autorizzò la ricostruzione della città santa e la ricostruzione delle sue mura. Il “principe consacrato” è poi identificabile in Esdra, sacerdote e scriba considerato dagli israeliti come il personaggio più importante dopo Mosè perché Esdra tornò a Gerusalemme con altri capi del popolo e costituì il nuovo stato ebraico.

Il secondo periodo storico è rappresentato da 62 settimane così descritte: “Durante sessantadue settimane saranno restaurati, riedificati piazze e fossati, e ciò in tempi angosciosi”; questo si riferisce a tutti gli avvenimenti che caratterizzarono lo sviluppo spirituale della città, non tanto quello materiale per il quale 434 anni (62×7) appaiono decisamente troppi.

Le 62 settimane, quindi 69 calcolando le 7 precedenti, terminano con la crocifissione di Gesù quando leggiamo “Dopo sessantadue settimane, un consacrato sarà soppresso senza colpa in lui; il popolo di un principe che verrà distruggerà la città e il santuario; la sua fine sarà un’inondazione e, fino alla fine, guerra e desolazioni decretate” (v.26). In questo verso viene citata anche la distruzione di Gerusalemme dalle truppe romane di Tito avvenuta nel 70 d.C.. Ora occorre fare una sottolineatura fondamentale, e cioè: mentre il testo ha una precisione pressoché chirurgica nel dividere le prime sette settimane dalle altre 62, così non avviene tra la 69ma e la 70ma. In questo “cuscinetto”, in questo spazio, si inserisce la dispensazione della grazia che è, come mi diceva un amico, “quel periodo in cui il peccatore ha il diritto, convinto dallo Spirito Santo di peccato, giustizia e giudizio, di essere salvato indipendentemente dal suo stato sociale, etnico o geografico”.

Notiamo la fine di Gerusalemme che avverrà, come altri traducono, “con un’inondazione” o “come per inondazione” a sottolineare la violenza e la moltitudine che si scatenerà su di essa. Leggendo il verso, poi, vediamo che c’è un’altra “fine” vista nell’espressione “fino alla fine, guerra e desolazioni decretate” che a mio parere sono il riassunto, in prospettiva, di tutte le sofferenze e vicissitudini che il popolo ebraico subirà nella storia.

L’ultima settimana, la 70ma, non è citata chiaramente, ma la si distingue con facilità perché caratterizzata da due periodi di uguale durata: “Egli stringerà una forte alleanza con molti per una settimana e, nello spazio di metà settimana, farà cessare il sacrificio e l’offerta; sull’ala del tempio porrà l’abominio della desolazione e ciò sarà fino alla fine, fino al termine segnato sul devastatore” (v.27). Trovo qui un accenno a quell’epoca di falsa pace mondiale proclamata dal “Figlio della perdizione” (tre anni e mezzo, la metà settimana) e all’altra, a lui seguente e opposto, di pari durata in cui avverranno i gravi giudizi che Dio manifesterà su tutta la terra che troviamo descritti nei capitoli da 6 a 18 dell’Apocalisse.

Mi rendo conto di aver aperto una finestra verso una trattazione dagli sviluppi enormi che qui non è possibile affrontare; parlare della profezia di Daniele ha qui senso perché questo profeta, citato molte volte anche nella letteratura ugaritica, quindi della Mesopotamia e per estensione d’Oriente, non parlava solo con il re, ma anche con gli alti membri della corte essendo lui stesso uno di loro. Con queste persone il profeta aveva un rapporto quotidiano e certo disse ben di più di quello che troviamo scritto nel suo libro. Ad esempio, non sappiamo quali furono le domande che il re rivolse a quei giovani per trovarli dieci volte più sapienti degli uomini validi di cui si era circondato.

Daniele era l’uomo della rivelazione, una persona in cui la sapienza divina non era disgiunta da quella umana e, a contatto con la cultura della corte, la estese e la ampliò, certamente estendendo la profezia di Balaam sul salvatore quando disse “Io lo vedo, ma non ora; io lo contemplo, ma non da vicino: una stella spunta da Giacobbe, uno scettro sorge da Israele” (Numeri 24.17). Teniamo presente che Daniele non svolse il suo ministero per poco tempo, ma rimase anche nelle corti di Baldassar, figlio di Nabucodonosor, e in quella di Dario il Medo, per cui i suoi insegnamenti orali furono certamente molti e vennero tramandati proprio dai sacerdoti e dai sapienti locali, i Magi appunto, che a loro si dedicarono cercando di trattenerli e comprenderli per quanto potessero. Sapevano che dovevano attendere la stella che sarebbe “spuntata da Giacobbe”.

I Magi che arrivarono a Gerusalemme avevano nel loro bagaglio culturale la nozione, presente nella cultura dell’epoca, di un radicale cambiamento politico e sociale derivato dalla nascita di un re che, secondo le profezie in loro possesso, doveva appartenere al popolo di Israele. Ecco quella che potremmo definire “L’eredità di Daniele”! Per questo osservavano il cielo ogni notte, sfruttando le loro conoscenze plurisecolari: erano persiani, forti delle tradizioni astronomiche babilonesi che per prime divisero in dodici – notare il numero – settori uguali le costellazioni attraversate dal sole e dal pianeti (lo zodiaco). Già nel I millennio a.C. i babilonesi avevano rappresentato graficamente la precessione degli equinozi, cioè lo spostamento dell’asse attorno al quale la terra compie la sua rotazione giornaliera.

Chi era profondamente interessato a questi fenomeni, non poteva essere un astrologo. Chi osservava le stelle come loro, sapeva vedere e soprattutto cercare in quel cielo notturno così diverso dal nostro, oggi inquinato tanto da sostanze quanto dalla luce artificiale. Sappiamo che i Magi videro “la sua stella” e qui si scatenarono molte ipotesi prima tra le quali una cometa, la cui idea comparve per la prima volta con Giotto, che vide quella di Halley nel 1301 e la dipinse nella cappella degli Scrovegni a Padova proprio nell’episodio dell’adorazione dei magi. Johannes Keplero nel 1604, per spiegare la stella, propose l’idea dell’esplosione di una nova e di una supernova perché ne vide una in quell’anno, ma per capire correttamente la “stella” vista dai Magi occorre considerare il fenomeno luminoso che si manifestò a seguito alla triplice congiunzione Giove – Saturno nella costellazione dei pesci che avvenne attorno al 7 a.C.: troppo presto? Troppo tardi? La data non deve turbare più di tanto perché Dionigi il Piccolo, cercando di stabilire l’anno 1 coincidente con la nascita di Cristo, fece un errore di calcolo sbagliando di qualche anno e non possiamo sapere quando Nostro Signore effettivamente nacque.

Una triplice congiunzione si ha quando un incrocio di pianeti si verifica per tre volte: nel cielo uno supera l’altro, poi torna indietro per il moto apparente della terra per poi superarlo nuovamente. Due astronomi dell’Università di Genova, Giuseppe Veneziano e Mario Codebò, hanno ricostruito al calcolatore il cielo che dovettero osservare i Magi a partire dal 4 giugno del 7 a.C.: appare chiaramente il moto retrogrado dei pianeti da Est verso Ovest e altrettanto chiaro è il fatto che, se quei sapienti si fossero mossi per seguirlo, sarebbero giunti in Palestina. Una cometa non avrebbe mai potuto “fermarsi”, mentre la congiunzione sì, nel caso in cui avesse terminato il suo moto retrogrado per riprendere quello diretto.

I Magi fecero un tragitto impegnativo e faticoso di circa 800 km dalla Persia a Gerusalemme, percorrendo la via della seta presumibilmente ad un ritmo di 30-35 km al giorno, portando doni che dimostrarono la comprensione del fatto che quel “potere, gloria e regno” che avrebbe avuto il “Re dei Giudei che è nato” era di natura spirituale e non politica.

C’è poi un secondo personaggio che già abbiamo incontrato, Erode il Grande. La carovana dei Magi era giunta a Gerusalemme e all’inizio non dovette avere fatto molto scalpore perché in città era frequente assistere all’arrivo di carovane e pellegrini in occasione delle feste comandate; c’era però quella domanda su dove fosse il re del giudei che era nato e soprattutto lo scopo dichiarato di quella ricerca: “abbiamo visto la sua stella e siamo venuti ad adorarlo”. Nessuno condivise il loro entusiasmo. Al contrario abbiamo letto che quel loro informarsi con insistenza generò turbamento tanto in Erode quanto negli abitanti della città, che più che far caso al ricercare dei Magi iniziarono a temere le conseguenze delle loro domande, gli effetti che quelle avrebbero avuto sul tiranno che, sentendosi minacciato nel suo potere, chissà quali rappresaglie o crudeli iniziative avrebbe potuto mettere in atto. Il verso successivo di Matteo infatti ci dice che Erode, saputo il motivo dell’arrivo dei Magi in città, riuniti “tutti – nessuno escluso – i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Cristo”. Poi, facendo in modo di non allarmarli, li convocò in segreto per approfondire ulteriormente con lo scopo di perfezionare il proprio piano per uccidere Gesù. Erode non s’interessò di quella nascita. Non lui, non gli abitanti di Gerusalemme. Ma degli estranei, rappresentanti di un sapere antico e lontano, figura dei popoli che Dio riunirà, sì.

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01.07 – GIUSEPPE (Matteo 1.18-25)

18Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. 19Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto. 20Mentre però stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; 21ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati». 22Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: 23Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele, che significa Dio con noi. 24Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa; 25senza che egli la conoscesse, ella diede alla luce un figlio ed egli lo chiamò Gesù”.

Matteo ci parla di Giuseppe, figura molto particolare dei Vangeli: non parla mai, ma fa tutto quello che gli viene ordinato operando un silenzioso servizio. Quel poco che sappiamo di lui è frutto, quando non chiaramente raccontato, di deduzioni, per quanto fondate. E chi farà da padre putativo a Gesù compare così, all’improvviso, quale promesso sposo di Maria. È importante tenere presente il primo verso di questo Vangelo: “Genealogia di Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abramo” perché Matteo, nel diciassette versi precedenti, ci ha tracciato una genealogia a partire da Abrahamo che, dopo essere stato vagliato con il sacrificio di Isacco, ricevette la promessa “Tutte le nazioni della terra saranno benedette nella tua discendenza, perché tu hai ubbidito alla mia voce” (Genesi 22.18). Anche a Davide, secondo personaggio menzionato, furono rivolte parole di conferma: “Stabilirò la tua progenie in eterno ed edificherò il tuo trono per ogni età” (Salmo 89.3,4). Così, la casata reale si era ridotta all’umile persona di un falegname.

Giuseppe è anche questo, un protagonista nella storia della salvezza che qui incontriamo per la prima volta, turbato, fortemente contrariato e amareggiato perché Maria gli aveva da poco dichiarato di essere gravida. Abbiamo letto “Prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo”, parole con le quali Matteo riassume ciò che Luca ha esposto nei dettagli e che ci consentono di dare uno sguardo al fidanzamento di allora, una promessa di matrimonio che veniva contratta quasi sempre tra i genitori degli sposi, soprattutto dal padre di lui, quando entrambi i giovani erano in età di circa 18 anni (per l’uomo) e dai 12 e mezzo in avanti per le donne. La durata del fidanzamento era di circa un anno, tempo durante il quale il futuro sposo doveva preparare la casa in cui sarebbero andati ad abitare, ma i fidanzati erano considerati marito e moglie a tutti gli effetti per cui, per interrompere la relazione, era richiesta la stessa procedura per il divorzio, vale a dire la lettera di ripudio e, nel caso il motivo del divorzio fosse stato l’infedeltà, la donna veniva lapidata secondo la legge di Mosè.

La frase “si trovò gravida”, ci lascia intuire una circostanza sicuramente drammatica per Giuseppe che ben difficilmente avrebbe potuto credere a Maria qualora gli avesse parlato dell’annuncio angelico: una gravidanza, da sempre, non poteva essere che la conseguenza di un rapporto carnale, consenziente o meno.

Di Giuseppe, come accennato, i Vangeli parlano poco, anzi, si può dire che il fatto che fosse un “uomo giusto” è l’unico che abbiamo: l’unico dato ufficiale sul suo carattere ce lo dà proprio quell’aggettivo che allude non tanto all’osservanza minuziosa della legge e dei suoi corollari, ma alla pietà che aveva e alla gestione della sua persona in sintonia con la fede che professava. Ricordiamo sempre che Abramo fu considerato “giusto” da Dio per aver creduto in Lui e nella sua promessa.

Giuseppe, come dimostra il comportamento che voleva tenere nei confronti di Maria, era un uomo compassionevole, non orgoglioso né desideroso di rivalersi su di lei con un gratuito spirito di vendetta: leggiamo che “non voleva accusarla pubblicamente”, cioè non voleva si scatenasse quanto previsto dalla Legge al riguardo cioè “Quando una fanciulla vergine è fidanzata e un uomo la trova in città e si corica con lei, li condurrete ambedue alla porta di quella città e li lapiderete con pietre, ed essi moriranno: la fanciulla perché, pur essendo in città, non ha gridato, e l’uomo perché ha disonorato la moglie del suo prossimo. Così estirperai il male di mezzo a te. Ma se l’uomo trova una fanciulla fidanzata in campagna, e le fa violenza e si corica con lei, allora morirà solamente l’uomo che si è coricato con lei; ma non farai niente alla fanciulla, non c’è alcun peccato che merita la morte, perché questo caso è come quando un uomo si leva contro il suo prossimo e l’uccide; egli infatti l’ha trovata in campagna; la fanciulla fidanzata ha gridato, ma non c’era nessuno che la potesse salvare” (Deuteronomio 22.23-27).

Giuseppe aveva quindi, in mancanza dell’uomo ipotetico che si era congiunto con la sua fidanzata, due possibilità per procedere contro Maria: accusarla pubblicamente davanti ai magistrati che l’avrebbero condannata alla lapidazione, oppure regolare la cosa privatamente consegnandole una lettera di divorzio in presenza di due o tre testimoni, lasciando a lei la possibilità di regolarsi come meglio potesse. Infatti: “Quando uno prende una donna e la sposa, se poi avviene che essa non gli è più gradita perché ha trovato per lei qualcosa di vergognoso, scriva per lei una lettera di ripudio, gliela dia in mano e la mandi via da casa sua” (Deuteronomio 24.1).

Abbiamo letto che un angelo del Signore gli apparve in sogno “mentre considerava tutte queste cose”, segno che Giuseppe era una persona che non agiva d’impulso, ma era pacato e riservato: l’amore per Maria implicava il rispetto per la sua persona nonostante il supposto tradimento ed escludeva il sentimento di una rivalsa, per quanto legale.

Abbiamo poi il terzo intervento angelico in cui viene usato un appellativo specifico, “Figlio di Davide”, a ricordare a Giuseppe non solo la sua discendenza, ma soprattutto l’adempimento della promessa secondo la quale il Messia sarebbe arrivato dalla discendenza di quel re e non da altre. Anche qui troviamo un “non temere”, ma diverso dai precedenti incontrati, tesi a rassicurare che la presenza angelica non avrebbe comportato un giudizio sulla persona: dicendo “Non temere di prendere con te Maria tua sposa”, l’angelo dichiarava a Giuseppe che tanto Maria quanto il figlio che aspettava, a prescindere dalle traversie che avrebbero incontrato, sarebbero sempre stati assistiti da Dio. Ciò che era accaduto in Maria era la conseguenza dell’opera Spirito Santo inteso come forza creatrice, cioè lo stesso “Spirito di Dio” che “aleggiava sulle acque” che troviamo in Genesi 1, tradotto anche con “si muoveva” da un verbo riferentesi all’atto del covare degli uccelli.

Ed ella partorirà un figlio e tu gli porrai nome Gesù”, nome che ha lo stesso significato di Giosuè, “Salvatore”, colui che introdusse il popolo nella terra di Canaan, la terra promessa. Il figlio di Maria sarebbe stato chiamato così “Perché è lui che salverà il suo popolo dai loro peccati”. Se il nome di un essere umano influenza la sua vita e lo caratterizza, quello del “figlio di Maria e Giuseppe” ha la sua ragione di essere non per la personalità, ma per scopo e ruolo: è lui – e nessun altro – che salverà il suo popolo che, come ci dice Giovanni, poi non lo accolse come avrebbe dovuto; “Egli è venuto in casa sua e i suoi non lo hanno ricevuto, ma a tutti coloro che l’hanno ricevuto ha dato l’autorità di diventare figli di Dio, a quelli che credono nel suo nome” (1.11,12). Come disse Pietro davanti al Sinedrio, l’organo ufficiale per l’emanazione delle leggi e dell’amministrazione della giustizia, “In nessun altro vi è la salvezza, poiché non c’è altro nome sotto il cielo che sia dato agli uomini per essere salvati” (Atti 4.12).

Gesù sarà il solo che, adempiendo interamente la legge, permetterà a tutti gli uomini e donne che avranno creduto in lui di essere idonei a presentarsi senza timore alla presenza di Dio: come già letto in Giovanni, Gesù è Colui che ha dato a tutti coloro che l’hanno accolto “l’autorità – o poteredi diventare figli di Dio”, quindi passare dallo stato di creatura, comune a tutti nel mondo, a quello di figli come scriverà poi l’apostolo Paolo nella sua lettera ai Romani, “Se siamo figli, siamo anche eredi, eredi di Dio e coeredi di Cristo, se pure soffriamo con lui per essere anche con lui glorificati” (8.17).

Il salvare dai peccati significa liberare l’uomo dal giogo della legge, aprire un canale di comunicazione con Dio Padre prima impensabile. È una questione di condizione, di prospettive, di comprensione e possiamo ricordare, a proposito della dispensazione della Legge, l’amara riflessione di Salomone nell’Ecclesiaste: “…tutto ciò che succede ai figli degli uomini succede alle bestie, a entrambi succede la stessa cosa: come muore l’uno, così muore l’altra. Sì, hanno tutti uno stesso soffio e l’uomo non ha alcuna superiorità rispetto alla bestia, perché tutto è vanità. Tutti vanno nello stesso luogo: tutti vengono dalla polvere e tutti ritornano alla polvere” (3.19,20).

È lui che salverà il suo popolo dai loro peccati”: l’apostolo Pietro dirà “Dio lo ha esaltato con la sua destra e lo ha fatto principe e salvatore per dare a Israele ravvedimento e perdono dei peccati” (Atti 5.31), senza considerare il discorso illuminante il di Paolo nella Sinagoga di Antiochia in Atti 14.13-23.

A conclusione del racconto dell’annuncio in sogno a Giuseppe, Matteo come sua consuetudine fa un raccordo con le parole dei profeti dell’Antico Testamento, in questo caso Isaia 7.14 che già allora dava le “istruzioni” per individuare l’Eletto in un bambino partorito da una vergine. Matteo nel suo citare Isaia va direttamente al nocciolo, senza trascrivere le prime parole di del verso che gli ebrei conoscevano molto bene: “Ecco, il Signore vi darà un segno”. Un segno certo inequivocabile vista l’impossibilità che una vergine possa dare alla luce un figlio.

Leggiamo che “Giuseppe, destatosi dal sonno, fece come l’angelo del Signore gli aveva ordinato, e ricevette la sua moglie”. La “giustizia” di Giuseppe si rivela anche in questo atto di obbedienza: sarebbe stato padre di un figlio non suo, ma certo non di un altro uomo.

Ma egli non la conobbe fino a quando ella non ebbe partorito il suo figlio primogenito, al quale pose nome Gesù” è il verso che ha generato più confusione in assoluto, ma solo a quanti hanno voluto sostenere il ruolo di Maria come solo madre e non anche moglie. L’originale greco, come la traduzione latina di San Girolamo, riportano “donec”, cioè “fino a quando”. Controversie ci sono anche sul “primogenito”, che alcuni manoscritti non riportano. Quello che è certo è che Giuseppe si astenne dai rapporti coniugali fino al parto di Maria attendendo i giorni prescritti dalla legge (40 secondo Levitico 12.2-4) prima di avere rapporti carnali con lei.

Ponendo il nome Gesù al bambino, sia lui che Maria accettarono ufficialmente il ruolo cui Dio li aveva destinati. Fu quella la loro “firma” al contratto di ubbidienza alla volontà di JHWH.

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