05.36 – PADRE NOSTRO 6/9 (Matteo 6.9-13)

05.36 – Padre nostro – VI (Matteo 6.9-13)

 

9Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome,10venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. 11Dacci oggi il nostro pane quotidiano, 12e rimetti a noi i nostri debiti  come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori, 13e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male.14Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi;15ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe.”.

…COME NOI LI RIMETTIAMO AI NOSTRI DEBITORI.

La volta scorsa abbiamo accennato alla differenza che intercorre tra “debito” e “debiti”, anticipando che, riguardo alla reciprocità che contraddistingue i cristiani, è impossibile che non si comportino tra loro utilizzando il perdono come uno dei principali metodi di rapporto interpersonale. Abbiamo anche citato come punto di orientamento fondamentale la parabola del “servitore spietato” che va necessariamente esaminata per comprendere la nostra posizione spirituale, cosa eravamo un tempo e chi siamo ora. La parabola, come amava precisare un fratello, non è una favoletta più o meno edificante, ma un racconto che presenta, tramite la descrizione di episodi di facile memorizzazione, delle profonde verità dottrinali. Nel caso della remissione dei debiti da parte di Dio e dell’azione conseguente da parte nostra, la parabola è quella detta del “servo spietato” che troviamo in Matteo 18.21-35, esposta a seguito di una domanda dell’apostolo Pietro che “gli si avvicinò, e gli disse «Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.A proposito, il regno dei cieli è simile a un re che volle fare i conti con i suoi servi. Incominciati i conti, gli fu presentato uno che gli era debitore di diecimila talenti. Non avendo però costui il denaro da restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, con i figli e con quanto possedeva, e saldasse così il debito. Allora quel servo, gettatosi a terra, lo supplicava: Signore, abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa. Impietositosi del servo, il padrone lo lasciò andare e gli condonò il debito. Appena uscito, quel servo trovò un altro servo come lui che gli doveva cento denari e, afferratolo, lo soffocava e diceva: Paga quel che devi! Il suo compagno, gettatosi a terra, lo supplicava dicendo: Abbi pazienza con me e ti rifonderò il debito. Ma egli non volle esaudirlo, andò e lo fece gettare in carcere, fino a che non avesse pagato il debito. Visto quel che accadeva, gli altri servi furono addolorati e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: Servo malvagio, io ti ho condonato tutto il debito perché mi hai pregato. Non dovevi forse anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te? E, sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non gli avesse restituito tutto il dovuto. Così anche il mio Padre celeste farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore al vostro fratello»”.

Anche se si tratta di un testo che esamineremo in futuro, si possono effettuare alcune sottolineature, prima fra tutte l’ammontare del debito che questo servitore, da individuare certamente in un dignitario di corte, aveva accumulato probabilmente distraendo delle somme a proprio vantaggio: il re della parabola “volle fare i conti” con i responsabili del suo patrimonio e, poco dopo aver iniziato le verifiche, ecco emergere questo personaggio e la frode a danno del suo signore. Va osservato che subito Pietro, ed eventualmente gli altri che ascoltavano Gesù parlare, si resero conto dell’enormità della somma poiché il talento di allora era l’equivalente di 32 kg circa d’argento. Il talento, però, poteva anche essere anche in oro per cui il debito accumulato era di 320 tonnellate a prescindere dal metallo distorto. È chiaro che quella persona non avrebbe mai potuto restituire la somma, ma secondo le leggi del tempo era possibile che pagasse comunque per la colpa venendo venduto unitamente alla sua famiglia come schiavo. Avrebbe cessato di esistere come individuo, non avrebbe avuto più nulla e lo stesso i suoi famigliari.

Contrariamente ad ogni previsione, però, quel re ebbe pietà di quel contabile e, ben sapendo che non avrebbe mai potuto mantenere quanto gli prometteva – ricordiamo le parole che gli disse dopo esserglisi gettato a terra, “Abbi pazienza con me e ti rifonderò il debito” – andando contro i suoi interessi, mosso unicamente da un sentimento di pietà, gli azzerò la somma che avrebbe dovuto restituire. Ora stupisce il comportamento che quest’uomo ebbe non appena incontrò una persona, che si suppone fosse un suo pari grado, debitore nei suoi confronti di 100 denari, somma rapportabile allo stipendio di poco più di tre mesi di un operaio: era un’inezia rispetto a quella che a lui era stata condonata. Ma rimase inflessibile e fu crudele verso di lui. Anche quel debitore si gettò a terra esattamente come aveva fatto l’altro col suo re, dicendo le stesse parole, questa volta però pronunciando una promessa plausibile. Eppure abbiamo letto che “non volle esaudirlo, andò e lo fece gettare in carcere, fino a che non avesse pagato il debito”. Questa azione ci dice molto sullo spirito che dominava il servitore spietato: per lui esisteva solo il proprio io: quando si era trovato davanti al suo signore il terrore che aveva provato all’emersione del debito, il sentirsi perduto, lo aveva spinto a gettarsi a terra e a chiedere sinceramente pietà, ma ogni paura era svanita una volta ottenuto il condono ed era tornato quello che era, un essere insensibile attento solo ai propri interessi. Abbiamo letto la sua fine: “Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non gli avesse restituito tutto il dovuto” cioè mai, vista l’enormità del debito.

È allora facile individuare nella somma che il servitore spietato avrebbe dovuto restituire al re, la condizione di peccato in cui versano tutti gli uomini che non hanno ricevuto il perdono di Dio. Quando un uomo scopre di essere nella condizione di quel servo, di non avere di che pagare ma soprattutto che per quanto farà non riuscirà mai a soddisfare le esigenze del Suo Signore e gli chiede pietà nonostante tutto, ottiene un perdono che non può non trasmettere agli altri. La sua persona, cioè, non può che venire trasformata da quell’atto di pietà e amore. Certo non possiamo salvare nessuno, ma gestire il perdono per quanto ci è dato, sicuramente sì. Ecco allora che ancora una volta ci troviamo di fronte a un “debito”, che riguarda la verticalità del rapporto uomo – Dio, e a dei “debiti” che rientrano invece nell’orizzontalità del rapporto tra esseri umani visti nei 100 denari della parabola: piccole cose, tranquillamente rifondibili, elementi che sappiamo che addirittura dovremmo aspettare ci venissero restituiti dalla persona senza chiederli indietro.

Il problema però è che non solo Gesù, ma tutta la Scrittura parla in larga parte per simboli e qui non si tratta solo di denaro, ma di offese, di torti, di azioni ingiuste che abbiamo eventualmente patito. Si potrebbero citare molti versi in proposito, di cui una parte sono già stati scritti in riflessioni precedenti quando abbiamo affrontato l’amore per i nemici, il porgere l’altra guancia e altri; qui credo però sia necessario andare al libro del Siracide, un deuterocanonico che, pur non avendo l’autorità spirituale di altri come i Proverbi o il Qoélet (Ecclesiaste), è interessante perché scritto da una persona che dedicò la propria vita a studiare anche i meccanismi psicologici che regolano i rapporti umani. Ben Sira, il suo autore, è scritto che chiese a Dio la sapienza e la ottenne. Conosciuto anche come “Ecclesiastico” è databile attorno al 180 a.C.. Scrive Aldo Moda che l’autore del libro era uno scriba ed espose il frutto del suo studio, intrapreso per grande passione per autentica vocazione fin dalla giovinezza, alla gioventù aristocratica di Gerusalemme che frequentava la sua scuola. Arricchì la sua cultura con numerosi viaggi all’estero, forse anche giovane entrò al servizio di un re straniero in qualità di funzionario. La sua professione di scriba gli permise di essere attento alla realtà sociale ed al culto nel Tempio. Alcuni studiosi lo avvicinano alla corrente sadducea, allora al suo sorgere.

Ebbene, nel grandissimo numero degli argomenti, Jehoshua Ben Shira affronta il tema dell’offesa e quindi dei “debiti” che gli uomini possono contrarre fra loro e il loro spontaneo regolarsi. Ben Shira non fa mai riferimento a tribunali o a terze persone che possano costringere a saldare i debiti, ma valuta indirettamente ed in modo tanto semplice quanto profondo le cause e gli effetti delle offese: “Se hai sguainato la spada contro un amico, non disperare, può esservi un ritorno. Se hai aperto la bocca contro un amico, non disperare, può esserci riconciliazione, tranne il caso di insulto e di arroganza, di segreti svelati e di un colpo a tradimento; in questi casi ogni amico scomparirà” (22.21,22). Perché? Perché in tutti questi casi viene a mancare il rispetto, il riguardo per la persona e la sua dignità in quanto amico e persona, per cui solo una radicale revisione del modo i pensare di chi si è comportato così può spingere a chiedere il perdono e trovarlo. Certo Ben Shira non conosceva la Grazia e parlava a livello umano, non sbagliando le sue valutazioni di base né contraddice a priori le parole di Gesù sul perdono, settanta volte sette. E non esiste perdono senza confessione e prima ancora ravvedimento, tra uomo e uomo e tra questi e Dio stesso.

Fatta questa parentesi necessaria, una delle tante che dimostrano la serietà del perdono che non può essere generalizzato e dato a prescindere, la frase conclusiva di Gesù alla parabola del servo spietato illumina su quanto sia attento lo sguardo di Dio sui suoi figli: “Così anche il mio Padre celeste farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore al vostro fratello”; questa si raccorda a quella pronunciata proprio a conclusione dell’esposizione del “Padre nostro”: “Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il padre vostro perdonerà le vostre colpe” (Matteo 6.14,15). Ecco la reciprocità. Ecco l’impensabilità dei doppi pesi e delle doppie misure che in un rapporto fraterno non possono esistere. Senza la reciprocità, non rimane che la religione che, in sintesi, altro non è se non la pretesa puerile di essere ascoltati a prescindere da quello che siamo veramente, nella nostra essenza, nel nostro cuore. Perché il perdono è l’espressione della partecipazione ad un progetto, di un cammino che non percorriamo da soli, ma con il Padre. Che, appunto, è nostro. Amen.

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05.35 – PADRE NOSTRO 5/9 (Matteo 6.9-13)

05.35 – Padre nostro – V (Matteo 6.9-13)

 

9Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome,10venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. 11Dacci oggi il nostro pane quotidiano, 12e rimetti a noi i nostri debiti  come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori, 13e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male.14Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi;15ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe.”.

 

RIMETTI A NOI I NOSTRI DEBITI…

Il verso 12 è molto chiaro e parrebbe non necessario di approfondimenti: si chiede al Padre la remissione dei debiti che abbiamo con Lui come noi ci impegniamo a fare altrettanto con chi li ha verso di noi o, meglio, perché abbiamo avuto, accettando il Vangelo, lo stesso trattamento da Lui. Anche se è così, possiamo dire che questo è un verso molto impegnativo e la comprensione di quanto esprime credo possa far del bene a tutti noi, stante il rapporto profondo e continuo esistente tra Antico e Nuovo Patto. Ancora una volta dobbiamo partire dalla realtà conosciuta dagli uditori di Gesù che, nell’attesa che la parola “debito” venisse spiegata con la parabola del servo spietato, potevano collegarsi alla preghiera che Salomone rivolse a YHWH quando l’Arca dell’alleanza fu trasferita nel tempio. La preghiera è contenuta in 1 Re 8.36-50 e ne riportiamo una parte: “Quando il tuo popolo Israele sarà sconfitto di fronte al nemico perché ha peccato contro di te, ma si converte a te, loda il tuo nome, ti prega e ti supplica in questo tempio, tu ascolta nel cielo, perdona il peccato del tuo popolo Israele e fallo tornare sul suolo che hai dato ai loro padri. Quando si chiuderà il cielo e non ci sarà pioggia perché hanno peccato contro di te, ma ti pregano in questo luogo, lodano il tuo nome e si convertono dal loro peccato perché tu li hai umiliati, tu ascolta nel cielo, perdona il peccato dei tuoi servi e del tuo popolo Israele, ai quali indicherai la strada buona su cui camminare, e concedi la pioggia alla terra che hai dato in eredità al tuo popolo. Quando sulla terra ci sarà fame o peste, carbonchio o ruggine, invasione di locuste o bruchi, quando il suo nemico lo assedierà nel territorio delle sue città o quando vi sarà piaga o infermità di ogni genere, ogni preghiera e ogni supplica di un solo individuo o di tutto il tuo popolo Israele, di chiunque abbia patito una piaga nel cuore e stenda le mani verso questo tempio, tu ascoltala nel cielo, luogo della tua dimora, perdona, agisci e da’ a ciascuno secondo la sua condotta, tu che conosci il suo cuore, poiché solo tu conosci il cuore di tutti gli uomini, perché ti temano tutti i giorni della loro vita sul suolo che hai dato ai nostri padri”.

Qui viene descritta una realtà che è presa d’atto di una sconfitta, di eventi che, per la dispensazione in cui si trovava il popolo, potevano essere chiaramente riconducibili ad un intervento di Dio teso a punire una condizione di peccato. Allo stato di cose descritto, cioè l’essere vinti dal nemico, la presenza della siccità, della malattia o altro, segue una vera richiesta di perdono dovuta a un forte dolore interiore. Il popolo, cioè, non avrebbe dovuto soltanto “chiedere perdono” come in un banale rito, ma convertirsi (ricordiamo le parole di Giovanni Battista, “ravvedetevi, perché il regno dei cieli è vicino”).  Salomone stesso dice “Se si convertono dal loro peccato”, ponendo la condizione, la sola in grado di testimoniare che il ravvedimento è avvenuto e che la richiesta di perdono è sincera. Possiamo dire che, relativamente alla remissione del peccato da parte di Dio, la stessa cosa avviene anche oggi: in questo tempo in cui le calamità naturali sono una conseguenza delle violenze che uomini scellerati hanno perpetrato su un pianeta prossimo al collasso, non possiamo certo fare gli stessi collegamenti dell’Israele allora; tuttavia per ogni uomo viene il momento in cui si ritrova a fare i conti con delle sconfitte di fronte alle quali è obbligato a chiedersi se queste derivino dal naturale svolgersi della vita, oppure siano un richiamo di Dio alla conversione e questo vale anche per i credenti.

Nell’ultima parte della preghiera di Salomone, poi, vediamo come veda il popolo come organismo di individui, passando ad esaminare il singolo perché facente parte di esso e per questo dotato di individualità e responsabilità: “Dà a ciascuno secondo la sua condotta, tu che conosci il suo cuore”. Lo stesso avviene anche oggi per noi.

Nel Padre nostro Gesù parla di “debiti”perché, come vedremo, esiste un “debito” con Dio, quello che non c’è uomo sulla terra che non abbia, e dei “debiti”. Il primo è quello che rendeva i cristiani incompatibili con Lui visto nella condizione di peccato ereditata alla nascita, i secondi sono quelli che come credenti possiamo sempre contrarre a causa di una mancata vigilanza sulle nostre azioni, cioè quelli che possiamo commettere nella carne perché siamo defettibili. Essere dei salvati non implica l’essere santi e puri a prescindere delle nostre azioni, cioè che siamo stati liberati dal peccato una volta per tutte e che quindi non peccheremo più, ma percorrere una strada fatta di astensione da ciò che offende la nostra dignità e posizione di credenti penalizzando anche fortemente il rapporto che abbiamo con Lui.

Cos’è il peccato? È un termine che si riferisce a qualsiasi azione che possiamo commettere estranea alla volontà e santità di Dio. Il “peccato” è prima di tutto un modo di ragionare, di essere e di vivere, quello di chi esiste ignorando più o meno deliberatamente la Sua presenza, le Sue aspettative nei confronti della creatura che si ritrova così abbandonata a se stessa e cerca di soddisfarsi da un punto di vista fisico e psichico raggiungendo lo scopo per brevi periodi. Ora sappiamo che, grazie al sacrificio di Cristo sulla croce, chiunque lo comprenda e lo accetti consapevolmente per la propria salvezza eterna, in tal modo accogliendolo, viene fatto figlio di Dio venendo liberato dalla sua condizione di peccatore: viene accolto così com’è, viene perdonato, cessa di essere straniero ed avventizio secondo versi che abbiamo citato diverse volte.

L’Agnello di Dio toglie il “peccato del mondo”, non “dal” mondo, non elimina la possibilità di compierlo anche da parte di chi è salvato e redento. E per “togliere” si intende prendere su di sé. C’è un’opinione diffusa in certe Chiese cristiane secondo la quale chi ha creduto, perdonato una volta per sempre dal sangue versato di Cristo, non abbia più bisogno di domandare il perdono dei suoi peccati quotidiani perché non può più peccare. Eppure Giovanni nella sua prima lettera sappiamo che scrive “…se qualcuno ha peccato, noi abbiamo un Avvocato presso il Padre: Gesù Cristo giusto“ (1 Giovanni 2.1).

Davide scrisse “Per il tuo nome, Signore, perdona la mia colpa, anche se grande” (Salmo 25.11), e “Liberaci e perdona i nostri peccati, a motivo del tuo nome” (Salmo 79.9), richieste rivolte a chi è tanto giusto quanto pietoso nei confronti della creatura che a Lui si rivolge. Possiamo dire che la preghiera del “Padre nostro” si occupa non del debito originale, ma di quelli che si accumulano o possono presentarsi lungo il nostro cammino terreno di cui chiediamo la remissione, possibile a due condizioni: perché ne abbiamo compreso la portata e perché li abbandoniamo, la sola azione che possa dimostrare, come già detto, l’avvenuto ravvedimento. Quando ero bambino e andavo a confessarmi, al termine c’era l’”atto di dolore” che si concludeva con le parole “propongo di non offendervi mai più, Signore misericordia perdonatemi”: col tempo, mi sono chiesto se pronunciare quelle parole a distanza di giorni non fosse un alibi, un modo per legittimare certi miei comportamenti perché tanto venivo perdonato e assolto comunque. La stessa cosa succede a molti anche oggi, che pongono in essere comportamenti liberi sapendo che tanto poi, andandosi a confessare, si pentono formalmente regolando così i propri “debiti”.

Nulla di più sbagliato. Si tratta di un modo di ragionare falso e distorto, utilitaristico, che non ha nulla a che vedere con lo Spirito e tutto ha a che fare con l’essere umano carnale, diabolico e ipocrita perché sapere che non esiste peccato che non possa essere rimesso non è una realtà che possiamo distorcere a nostro vantaggio, servircene per i nostri fini personali. Chi agisce così è una persona che, se non si ravvede, sarà solo un religioso, cioè uno che rientra nelle categorie di cui Gesù sappiamo disse “Questo è il premio che ne hanno”.

Utile in proposito un breve commento e relativa lettura su Efesi 4.17-32 che si apre con un paragone importante. L’apostolo Paolo si rivolge a dei credenti che avevano da poco abbandonato il paganesimo e quindi risentivano inevitabilmente dei suoi retaggi e per questo vengono invitati a meditare sulla loro condizione: “Vi dico dunque e vi scongiuro nel Signore: non comportatevi più come i pagani con i loro vani pensieri, accecati nella loro mente, estranei alla vita di Dio a causa dell’ignoranza che è in loro e della durezza del loro cuore. Così, diventati insensibili, si sono abbandonati alla dissolutezza e, insaziabili, commettono ogni sorta di impurità”. Qui vediamo che il paganesimo, la vita normale quotidiana, “orizzontale”, si caratterizza con vani pensieri, cioè “privi di consistenza, internamente vuoti”, cecità mentale, estraneità alla vita di quell’unico Dio che la vita può dare. Ignoranza e durezza del cuore, entrambe coltivate più o meno consapevolmente, hanno portato insensibilità spirituale e piena disposizione a ciò che è animale e terreno non dando loro altra scelta se non quella di rifugiarsi nella dissolutezza che va a tamponare l’insoddisfazione. I germi del paganesimo, che si concretano nell’anarchia spirituale, li porteremo sempre con noi, se non altro come bagaglio storico. C’è però un’avversativa lapidaria vista nel “Ma” che apre il verso 20: “Ma non così– cioè comportandovi in quel modo – voi avete imparato a conoscere il Cristo, sedavvero gli avete dato ascolto e sein lui siete stati istruiti, secondo la verità che è in Gesù, ad abbandonare con la sua condotta di prima l’uomo vecchio che si corrompe seguendo passioni ingannevoli, a rinnovarvi nello spirito della vostra mente e a rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità”.

Qui abbiamo un grande insegnamento: prima di tutto io noto dei “se”, che vanno idealmente a collegarsi alla preghiera di Salomone citata poco prima; è un “se” che fa la differenza, è una verifica, è un garanzia. Facile dire che si conosce Gesù Cristo e che si ha il Suo Spirito soprattutto in certi ambienti evangelici; molto meno agevole è dimostrare di avere abbandonato l’uomo vecchio che si corrompe seguendo passioni ingannevoli e ancor di più il suo metodo di giudicare. L’uomo vecchio segue le proprie passioni e si basa su di esse, ma alla fine queste crollano. Siamo chiamati a rinnovarci e a rivestire l’uomo nuovo. Siamo chiamati a non rimanere immobili nelle nostre posizioni perché la stasi non esiste e comprometterebbe gravemente la nostra realtà. Chi non si evolve, come ci dimostra la “parabola dei talenti”, in realtà va indietro e peggiora progressivamente senza rendersene conto.

Agire senza rinnovarsi, senza cercare di portare il nostro modo di pensare e di essere a un livello superiore coltivando lo Spirito ma continuando nelle azioni dell’ ”uomo vecchio”, equivale a contristarlo: “E non vogliate rattristare lo Spirito Santo di Dio, con il quale foste segnati per il giorno della redenzione. Scompaiano da voi ogni asprezza, sdegno, ira, grida e maldicenze con ogni sorta di malignità. Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato voi in Cristo”. Ecco un’altra applicazione col debito rimesso: lo Spirito Santo abbiamo letto che è un “segno” dato per il giorno della redenzione, ma la presenza dentro di noi di elementi dominanti estranei, come quelli che caratterizzano l’uomo vecchio che a volte torna a manifestarsi, fanno parte di quei tanti “debiti” che abbiamo il diritto dovere di chiedere al Padre che ci siano rimessi. E siccome le stesse azioni negative le possono compiere dei fratelli nei nostri confronti, chiedere che ci venga perdonato senza che noi perdoniamo, è un’assurdità. L’uomo che un giorno si è messo alla ricerca di Dio, trovandolo, non può venire lasciato solo nel proprio cammino di ricerca e edificazione spirituale.

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05.33 – PADRE NOSTRO 3/9 (Matteo 6.9-13)

05.33 – Padre nostro – III (Matteo 6.9-13)

 

9Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome,10venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. 11Dacci oggi il nostro pane quotidiano, 12e rimetti a noi i nostri debiti  come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori, 13e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male.14Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi;15ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe.”.

VENGA IL TUO REGNO

Siamo giunti al secondo dei tre “tuo”che, nel “Padre nostro”, indicano l’area di pertinenza di Dio. Così come è il Suo Nome che deve essere santificato, in opposizione a quello di altri, così deve venire il Suo Regno, non uno dei tanti che gli uomini hanno cercato di instaurare, a volte riuscendovi per quanto temporaneamente. Così, in questi “ultimi giorni” cui abbiamo accennato la volta scorsa, questa speranza, questo desiderio del nostro spirito, è inevitabile che si faccia più pressante stante la presenza di un altro regno, a lui opposto, che il “principe di questo mondo” sta realizzando ed è di imminente instaurazione: si tratta di un sistema che sarà costituito da un potere economico assolutamente immorale in mano a pochi, che richiederà totale adesione di coscienza e azione, che combatterà con tutti i mezzi a sua disposizione chi dissentirà da lui. Uno stato di cose che finirà con la distruzione del pianeta che, come sappiamo, è scritto che “si logorerà come un vestito”. Il Regno vero, quello di Dio, si realizzerà definitivamente quando avverrà ciò che l’apostolo Giovanni vide dopo il giudizio finale: “Poi vidi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il primo cielo e la prima terra erano passati e il mare non c’era più. E io, Giovanni, vidi la santa città, la nuova Gerusalemme, che scendeva dal cielo presso Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. E udii una gran voce dal cielo, che diceva «Ecco il tabernacolo di Dio con gli uomini! Ed Egli abiterà con loro, ed essi saranno suo popolo e Dio stesso sarà con loro e sarà il loro Dio. E Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi, e non ci sarà più la morte, né cordoglio, né grido né fatica, perché le cose di prima son passate»” (Apocalisse 21.1-4).

Va sempre tenuto presente il dualismo esistente in ogni elemento: il “regno“ ha come definizione quella di uno stato monarchico inteso come ente politico, come territorio e come insieme dei cittadini. Indica un ambito e un luogo più o meno grande su cui il potere viene esercitato e in cui qualcuno domina. Questa definizione non ci può far venire in mente l’impossibilità che ha l’essere umano di servire a due padroni e quindi di appartenere a un contesto piuttosto che a un altro. Del resto, sappiamo che Satana si trova a suo agio sulla terra, che percorre alla ricerca tanto di chi possa perdere, quando di chi possa tentare. Incontrando Dio in Giobbe, alla domanda “Da dove vieni?” risponderà “Da un giro sulla terra che ho percorso” o, come in un’altra versione, “Dall’andare avanti e indietro sulla terra e dal percorrerla su e giù” (Giobbe 1.7).

Il Regno di cui preghiamo la venuta deve ancora venire, ma chiunque crede e fa la volontà di Dio ne fa già parte, pur vedendolo ancora in lontananza. E qui si dovrebbe aprire una grande parentesi, perché dovremmo affrontare il tempo come dimensione in cui agiscono gli uomini a prescindere dall’epoca in cui sono vissuti. Leggiamo in Giovanni 8.56 “Abramo desiderò vedere il mio giorno; lo vide e ne gioì. Ancora in Matteo 13.17 “In verità vi dico: molti profeti e giusti hanno desiderato vedere ciò che voi vedete, e non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, e non lo ascoltarono”. Ricordiamo Ebrei 11.13 “Nella fede morirono tutti costoro, senza avere ottenuto i beni promessi, ma li videro e li salutarono da lontano, dichiarando di essere stranieri e pellegrini sulla terra”. Ecco perché il “Regno” è il tutto, come lo è Cristo presente alla creazione, che venne al mondo con un corpo simile al nostro, che tornerà a giudicare il mondo e a realizzare il compimento definitivo delle promesse. Molto belle le parole di San Girolamo in proposito: “Vedi qui dunque come l’Antico Testamento si unisce al Nuovo; poiché se i Profeti fossero stati servitori di un Dio estraneo o contrario a Cristo, mai avrebbero desiderato vederlo” (Catena aurea: glossa continua super Evangilia). Il “Regno” si realizza attraverso ogni singolo istante e in ogni anima che crede in Gesù e lo accoglie, cambiando vita e scopo di esistenza. Il Regno è quel luogo che Gesù descrisse con poche parole ai Suoi quando disse loro “Il vostro cuore non sia turbato: credete in Dio, e credete anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore; se no ve lo avrei detto. Io vado a prepararvi un posto. E quando sarò andato e vi avrò preparato il posto, ritornerò e vi accoglierò presso di me, affinché dove sono io siate anche voi. Voi sapete dove vado, e sapete anche la via” (Giovanni 24.1-4).

Il Regno che deve venire non fu rivelato in Eden, territorio in cui l’uomo, allora sì a immagine e somiglianza di Dio, poteva vederlo, parlargli e camminare assieme per il giardino nel fresco della sera. Con la catastrofe conseguente all’infrazione dell’unico comandamento ricevuto, l’uomo, divenuto incompatibile con quel luogo santo e la trasformazione della sua fisiologia da immortale a mortale, ascoltò la condanna del serpente e la promessa di un riscatto visto nella progenie della donna che gli avrebbe schiacciato il capo.

Ecco, lì fu annunciato per la prima volta, per quanto in modo velato, ma alla fine della dispensazione dell’innocenza, quando i nostri predecessori entrarono in quella della coscienza. Da lì in poi, attraverso quella della Legge e poi della Grazia nella quale viviamo tuttora, non mancarono mai le rivelazioni di Dio che promettevano un radicale cambiamento della condizione amara in cui erano soggetti subendo il male con persecuzioni umane o con le tentazioni mirate dell’Avversario.

Il Regno di Dio fu rivelato ed è tuttora in costruzione attraverso i tempi. Gesù Cristo, testimone nell’eternità e nel tempo umano, disse parlando alle subdole autorità religiose di allora “Abrahamo, vostro padre, giubilò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e se ne rallegrò” (Giovanni 8.56): questo avvenne probabilmente attraverso una visione profetica in uno dei colloqui con “l’Angelo del Signore”. La progressione del Regno attraverso i secoli la vediamo agli inizi della storia umana, anche quando, in Genesi 4.26, a proposito della posterità di Adamo, che dopo Abele generò Set, è scritto “Anche a Set nacque un figlio, e lo chiamò Enos. Questi cominciò a invocare il nome del Signore”. Il tutto mentre esistevano, come progenie di Caino, “i figli degli uomini”.

Il Regno di Dio, nel suo punto di svolta che vi sarebbe stato con la morte e resurrezione di Cristo, lo vediamo anche nell’incontro sul monte della trasfigurazione al quale parteciparono anche Mosè ed Elia che “parlavano con lui della sua dipartita che stava per compiersi a Gerusalemme” (Luca 9.31).

Il Regno di Dio, però, al di là della sua manifestazione definitiva di cui siamo in attesa, è anche qualcosa che permea: quando infatti Nostro Signore fu interrogato dai farisei “…su quando sarebbe venuto il Regno di Dio, rispose loro e disse «Il regno di Dio non viene in maniera che si possa osservare, né si dirà Eccolo qui o Eccolo là, poiché ecco, il regno di Dio è dentro di voi»” (Luca 17.20-21) là dove un’altra traduzione, ugualmente corretta stante l’ambivalenza del significato, recita “È già in mezzo a voi”. Si tratta di un regno spirituale che si manifesta in molte modalità: quante volte Gesù iniziò alcune sue parabole con le parole “Il regno dei cieli è simile a…”? Ricordiamo ad esempio:

il seme della senape (Matteo 13.32,32)

«Il regno dei cieli è simile a un granello di senape, che un uomo prese e seminò nel suo campo. 32Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande delle altre piante dell’orto e diventa un albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a fare il nido fra i suoi rami».

il mercante che trova una perla di enorme valore (Matteo 13.44-46)

“Il regno dei cieli è anche simile a un mercante che va in cerca di belle perle;
e, trovata una perla di gran valore, se n’è andato, ha venduto tutto quello che aveva, e l’ha comperata”.

la rete gettata nel mare (Matteo 13.47,48)

“Il regno dei cieli è simile anche a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci. Quando è piena, i pescatori la tirano a riva e poi, sedutisi, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi. Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti.”

al lievito nelle tre misure di farina (Matteo 13.33)

«Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata».

E ve ne sono molte altre che richiederebbero uno studio a parte stante la ricchezza di elementi che ne potrebbe scaturire. “Venga il tuo regno” allora è un’espressione che include tutti questi significati senza contare la nostra posizione che va vagliata continuamente perché sappiamo, in altre parabole, quanto sia importante la vigilanza del servo vista anche nelle vergini stolte e in quelle savie. Poter dire “venga il tuo regno”, per un cristiano, significa esprimere un desiderio forte di comunione col suo Signore e confermare al tempo stesso la sua appartenenza a lui. Viceversa, sarebbe un controsenso perché, per la generazione di Caino, la venuta del regno comporterà il giudizio: “Io sono l’Alfa e l’Omega, il principio e la fine. A chi ha sete darò in dono della fonte dell’acqua della vita. Chi vince erediterà tutte queste cose e io sarò per lui Dio ed egli sarà per me figlio. Ma per i codardi, gli increduli, gli immondi, gli omicidi, i fornicatori, i maghi, gli idolatri e tutti i bugiardi, la loro parte sarà nello stagno che arde con fuoco e zolfo, che è la morte seconda”(Apocalisse 21.6-8).

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05.32 – PADRE NOSTRO 2/9 (Matteo 6.9-13)

05.32 – Padre nostro – II (Matteo 6.9-13)

9Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome,10venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. 11Dacci oggi il nostro pane quotidiano, 12e rimetti a noi i nostri debiti  come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori, 13e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male.14Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi;15ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe.”.

 

SIA SANTIFICATO IL TUO NOME

Prima delle speranze o lodi espressa nella terna dei versi 9 e 10 che riguarda le aspettative spirituali. Teniamo presente che l’insegnamento di questa frase venne pronunciata in un tempo particolare, quando era imminente l’aperto rifiuto di Israele ad accettare Gesù come Messia e la Parola sarebbe stata predicata ai pagani. “Sia santificato”, cioè sia considerato come santo, riverito e glorificato da ogni creatura ragionevole, dotata di anima e libero arbitrio secondo la rivelazione di Cristo. Scrive l’apostolo Giovanni nel suo Vangelo “Dio nessuno lo ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” (1.18), di qui il fatto che nessuno può andare al Padre se non per mezzo di Lui, che è “l’immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura” (Colossesi 1.15).

Il primo elemento del “Padre nostro”, che qui consideriamo, ci parla di tempo e di scelta. Penso che si tratti di una frase sicuramente attuale dato che la dispensazione della grazia è ancora aperta, ma non si può non pensare ad alcune riflessioni sugli “ultimi tempi” che l’apostolo Pietro, guidato dallo Spirito Santo, già definiva consistere in quelli della venuta al mondo di Gesù facendo riferimento al fatto che, quando si esaurirà la Grazia, seguiranno eventi terribili per quell’umanità che non Lo avrà riconosciuto. C’è un periodo in cui l’accesso a Dio è aperto, ma ce ne sarà uno in cui sarà chiuso e già il profeta Isaia, nello scrivere l’invito del Messia a tutti gli assetati di giustizia, scriveva “Cercate l’Eterno mentre lo si può trovare, invocatelo mentre è vicino” (55.6). Ancora: “Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere innaffiato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare in modo da dare il seme al seminatore e pane da mangiare, così sarà la mia parola uscita dalla mia bocca: essa non ritornerà a me a vuoto senza aver compiuto ciò che desidero e realizzato ciò per cui l’ho mandata” (9-11). Ecco descritto il progetto di Dio per l’uomo: la Sua parola non torna a vuoto indipendentemente dal fatto che la creatura la accetti o meno, la scelga o la rifiuti. Un risultato lo produce in ogni caso, di benedizione o di esclusione.

I tempi in cui viviamo sono sia quelli di cui Paolo scrisse “…ci troviamo negli ultimi termini dei tempi” (1 Cor. 10.11): non erano importanti quanti anni o secoli mancassero, ma il fatto che erano gli “ultimi giorni” comunque: “Ora sappi questo: che negli ultimi giorni verranno tempi difficili, perché gli uomini saranno amanti di se stessi, avidi di denaro, vanagloriosi, superbi, bestemmiatori, disubbidienti ai genitori, ingrati, scellerati, senza affetto, implacabili, calunniatori, intemperanti, crudeli, senza amore per il bene, traditori, temerari, orgogliosi, amanti dei piaceri invece che amanti di Dio. Aventi l’apparenza della pietà, ma avendone rinnegata la potenza. Da costoro, allontànati” (2 Timoteo, 3.1-4). Ora le caratteristiche degli uomini degli “ultimi giorni” esistono da sempre. Pensiamo solo all’amara constatazione di Dio prima di procedere col diluvio: disse “L’uomo non è altro che carne”, ebraico “basar” che sta ad indicare non tanto il corpo fisico, appunto di ossa, muscoli, e organi, ma le forze mentali istintive che lo governano. L’uomo degli ultimi giorni però, a differenza dei suoi predecessori, è quello che cerca legittimazione e ufficializzazione a tutti i costi delle proprie azioni malvage a differenza del suo omologo di quelli antichi che, pur contravvenendo alle leggi della “comunità civile” o comunque fautore di infrazioni che la stessa avrebbe riprovato anche solo moralmente, agiva di nascosto e mai sarebbe stato portato come esempio. Questo accade oggi in cui, paradossalmente, i trasgressori sono coloro che cercano di vivere la loro vita e fede cristiana autentica, già minata all’interno dello stesso cristianesimo a prescindere dalla denominazione.

Pur non sopportando personalmente il moralismo, è fuor di dubbio che nostri sono i giorni in cui molte libertà e concetti elementari di regole di vita stanno stravolgendosi con un ritmo sempre più allarmante. Satana, che sa di avere poco tempo, fa sì che vengano minate proprio le identità cristiane precise e costituisce poco a poco una religione al servizio della politica e del governo mondiale che, salvo ormai dettagli, è realizzato. È questo il tempo in cui alla pietà e alla carità si sostituiscono opere di facciata e ai giovani è rivolta tutta una strategia di comunicazione mirante a renderli incapaci di riflettere a vantaggio della soddisfazione di qualunque istintività vista come un diritto da acquisire sempre e comunque.

Sia santificato il tuo nome”, lo ritengo allora un qualcosa di strettamente, urgentemente correlato ora più che mai ai successivi due elementi del Padre Nostro (“Venga il tuo Regno” e “Sia fatta la tua volontà”) affinché il disegno di Dio possa compiersi presto, fermo restando che i tempi sono, come sempre Suoi.

Sia santificato il tuo nome”, però, implica una collaborazione dell’uomo: senza una testimonianza attiva da parte di chi ha creduto, il “Nome” di Dio non sarebbe mai stato conosciuto. Ai tempi dell’Antico Testamento erano i prodigi e i giudizi, a volte sul singolo, altre sull’intero popolo d’Israele, altre ancora sui popoli che con lui avevano a che fare; ai tempi del Nuovo, a produrre questa santificazione del Nome, sono stati i miracoli fatti da Gesù e dagli apostoli e quindi la predicazione, la conversione e la testimonianza di coloro che, in virtù della loro fede, cambiavano vita spiegando agli altri le ragioni del loro comportamento, il perché di una scelta.

Nonostante quello che ho detto sui motivi che produssero in me la certezza che non vi fosse altro Dio all’infuori di quello annunciato da Cristo, la mia sarebbe stata solo una convinzione personale se non avessi trovato uomini e donne che avessero rivolto il loro cuore a Lui e che mi avessero dato l’esempio particolarissimo di persone che, nonostante i loro limiti e imperfezioni, avevano una meta, un obiettivo da raggiungere anche a costo di sforzi e scelte non facili. Persone che avevano messo da parte il loro io e si erano messe a cercare la santità.

Molto spesso si pensa, come cristiani, di essere chiamati a compiere grandi cose, ma ci si dimentica che dobbiamo esercitarci nelle piccole, perché “chi è fedele nel poco, è fedele anche nel molto e chi è ingiusto nel poco, lo è anche nel molto” (Luca 16.10); ricordiamoci del premio di quel servitore che si sentì dire “Bene, buono e fedele servo: tu sei stato fedele in poca cosa e io ti costituirò sopra molte cose; entra nella gioia del tuo Signore” (Matteo 25.21).

Ogni azione che il credente compie per Colui che lo ha salvato, la porta avanti anche per se stesso: si tratta di quel tesoro che mettiamo da parte quando tutto ciò che avremo fatto in vita verrà vagliato quando saremo alla Sua presenza. “Secondo la grazia di Dio che mi è stata data, come savio architetto io ho posto il fondamento ed altri vi costruisce sopra, perché nessuno può porre altro fondamento diverso da quello che è stato posto, cioè Gesù Cristo. Ora, se uno costruisce sopra questo fondamento con oro, pietre preziose, argento, legno, fieno, stoppa, l’opera di ciascuno sarà manifestata mediante il fuoco, e il fuoco proverà quale sia l’opera di ciascuno. Se l’opera che uno ha edificato sul fondamento resiste, egli ne riceverà una ricompensa, ma se la sua opera è arsa, egli ne subirà la perdita. Non di meno sarà salvato, ma come attraverso il fuoco” (1 Cor. 3.10-15).

Ecco, il cristiano e la Chiesa di cui fa parte sono coinvolti nella santificazione del Nome perché, senza la testimonianza di ciascuno, il concetto di Dio sarebbe assolutamente sterile, identico a quello di altre confessioni. Indubbiamente, nonostante Satana si sia dato da fare parecchio e purtroppo con successo anche all’interno della Chiesa, il “rimanente fedele” ha resistito e ha annunciato il Vangelo sia con la predicazione che con l’esempio di una vita dedicata a Colui che lo ha salvato. Il cristianesimo non è grido, funzioni solenni che attirano curiosi, grandi movimenti acclamanti o processioni che tanto fanno pensare al paganesimo, ma molto spesso è silenzio e servizio muto. E naturalmente fatti concreti.

Il “Nome” di Dio, fermo restando che non non ha uno come il nostro che usiamo per distinguerci gli uni dagli altri, credo che sia da ricercarsi nella terza persona del verbo essere, “Colui che è”. Non c’è bisogno di affannarsi per chiamarlo o definirlo perché quell’ “È” esclude la presenza di qualsiasi altro. Dio “è”, tempo presente che viene dall’eternità come Gesù ebbe a dire: “Prima che Adamo fosse nato, io sono” (Giovanni 8.58) e collegato a quel “Gesù Cristo è lo stesso di ieri, di oggi e in eterno” (Ebrei 13.8). Giovanni, in 8.58, non aggiunge altro. Forse nessuno osò chiedere ragguagli a Gesù sulla sua frase. Io di domande gliene avrei fatte molte. La pericope di Giovanni implica il fatto che presso di Lui non esiste interrogativo che non possa avere una risposta, un elemento che non possa avere un posto. L’ordine del tutto scaturito dal nulla, poiché prima del mondo, alla nostra portata, non esisteva niente.

Sia santificato il tuo nome”, allora, è frase che esprime la preghiera, o la speranza, per cui tutti possano riconoscerlo come unico Dio, vero risolutore del problema basilare della nostra origine e fine. L’unico, tra i tanti, troppi, falsi che il mondo ci propone.

Sia santificato il tuo nome”, quindi non quello di altri e qui non possiamo non fare un riferimento all’elemento che apre il decalogo contenuto sulle tavole che Dio e non Mosè scrisse: “Io sono il Signore Iddio tuo, che ti ho tratto fuori dal paese d’Egitto, dalla casa di servitù. Non avere altri dei nel mio cospetto”; come Israele fu liberato dal Paese in cui era schiavo, il cristiano è stato liberato dalla schiavitù del peccato nel senso che gli è stata data l’opportunità di vivere non più dominato da lui. Non avere altri dèi, per chi crede davvero e mette in pratica, ora significa non avere più dei riferimenti estranei per la sua realizzazione spirituale, non avere altri punti di riferimento. Questo significa, per il credente, santificare il nome del Padre suo. Del Padre nostro. Amen.

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05.30 – INTRODUZIONE AL PADRE NOSTRO II/II (Matteo 6.9-13)

05.31 – Padre nostro – Introduzione II (Matteo 6.9-13)

 

5E quando pregate, non siate simili agli ipocriti che, nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, amano pregare stando ritti, per essere visti dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. 6Invece, quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.7Pregando, non sprecate parole come i pagani: essi credono di venire ascoltati a forza di parole. 8Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate.9Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome,10venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. 11Dacci oggi il nostro pane quotidiano, 12e rimetti a noi i nostri debiti  come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori, 13e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male.14Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi;15ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe.”.

Siamo così arrivati al secondo incontro introduttivo sulla preghiera insegnata da Gesù, nel sermone sul monte, ai discepoli e a tutti quanti vollero incontrarlo. Il verso settimo prende in esame una categoria nuova di persone, cioè i pagani che vengono associati ai farisei e a chi pratica una vuota religiosità alla quale potevano affiancarsi anche manifestazioni di lesionismo corporali che estendevano il concetto di “mortificazione” che avveniva tramite il digiuno. È interessante il verbo greco che ha utilizzato forse lo stesso Matteo dall’aramaico, “Battologhéo”, riferito a Battos, poeta greco verboso e prolisso noto per le sue continue ripetizioni inutili e retoriche. È scritto che i pagani pensano di essere esauditi per la moltitudine delle loro parole: un riferimento (anche) a 1 Re 18.26 quando viene riportato che i profeti di Baal invocarono il nome del loro dio dal mattino fino a mezzogiorno, “26…ma non si udì alcuna voce e nessuno rispose. Intanto essi saltavano intorno all’altare che avevano fatto”. 27A mezzogiorno Elia cominciò a beffarsi di loro e a dire «Gridate più forte, perché egli è dio: forse sta meditando o è indaffarato o è in viaggio, o magari si è addormentato e dev’essere svegliato». 28Così essi si misero a gridare più forte e a farsi incisioni con spade e lance secondo le loro usanze finché grondavano di sangue. 29Passato mezzogiorno, essi profetizzarono fino al tempo di offrire l’oblazione, ma non si udì alcuna voce, nessuno rispose e nessuno diede loro retta”. Troviamo un riferimento interessante anche nel Nuovo Testamento, in Atti 19.34 quando, per circa due ore, tutti gridavano “Grande è la dea Diana degli Efesini”. È un mantra, la ripetizione infinita, cui non pochi tra i medici della psiche e purtroppo anche nel cristianesimo attribuiscono un valore.

Illuminanti le parole in Ecclesiaste 5.1-3 “1Bada ai tuoi passi quando vai alla casa di Dio: avvicinati per ascoltare piuttosto che per offrire il sacrificio degli stolti, i quali non sanno neppure di far male. 2Non essere precipitoso con la tua bocca e il tuo cuore non si affretti a proferire alcuna parola davanti a Dio, perché Dio è in cielo e tu sulla terra: perciò siano le tue parole poche. 3Poiché con le molte occupazioni vengono i sogni e con le molte parole la voce dello stolto”. È importante notare che, in questi versi, quando troviamo scritto “Dio” il testo originale abbia il plurale Elohim e quindi suggerisca il concetto trinitario che andrebbe tradotto “Iddio”. C’è però il pericolo di un fraintendimento, poiché la lettura di questi versi sembra esortare a una preghiera breve a prescindere: chi può quantificare il tempo giusto per farlo? Nel senso, vanno bene pochi secondi o pochi minuti? Se sì, quanti? Quante parole sono necessarie perché, come ha scritto Salomone, siano considerate “poche”?

In realtà Nostro Signore e il riferimento nell’Ecclesiaste non parla del pregare tanto o poco, ma all’intelligenza della persona: “pregherò con lo spirito, ma pregherò anche con intelligenza”, scrisse Paolo in 1 Corinti 14.15. È probabile che qui Gesù, che passava notti intere a pregare, abbia fatto un riferimento al non fare della ripetizione e della lunghezza della preghiera un obbligo con la speranza-garanzia che questa venga esaudita esattamente come speravano i profeti di Baal di cui abbiamo letto. È la preghiera del pagano che chiede segni, miracoli, manifestazioni soprannaturali o che la vita si svolga attraverso esaudimenti di richieste materiali; quella del cristiano, invece, deve avere intenti e origini opposte viste nel dialogo, nel confronto col Padre ora possibile grazie allo Spirito Santo e all’intercessione del Risorto.

Infatti il verso successivo parte con l’esortazione – comandamento: “Non siate come loro” e ne spiega il motivo, “perché il Padre vostro sa le cose di cui avete bisogno prima che gliele chiediate”. Se il pagano è convinto che il suo dio vada informato delle cose che gli necessitano, il cristiano è spinto alla preghiera fondamentalmente perché ha bisogno della comunione col Padre e che questo implica necessariamente un profondo esame di coscienza: ci presentiamo a lui consci delle nostre mancanze e ne chiediamo perdono? Abbiamo dei pesi che ostacolano il nostro cammino di comunione? Ci mettiamo davanti a Lui con onestà di cuore, rifuggendo le eventuali contaminazioni, siamo attenti? Abbiamo dei peccati non confessati e non lasciati?

Il Padre sa di cosa abbiamo bisogno prima che glielo domandiamo. Siamo qui a un bivio: il Creatore che sa cosa necessita realmente la Sua creatura, ma questa spesso non conosce le sue necessità spirituali, al contrario delle sollecitudini ansiose che ha ben presente: “Non cercate di che cosa mangerete o che cosa berrete e non ne siate in ansia, perché le genti del mondo cercano tutte queste cose, ma il Padre vostro sa che voi ne avete bisogno” (Luca 12.29-30).

 

Il sette, l’otto e altri numeri

Quello che mi ha stupito ed altrettanto edificato nell’esaminare il contesto di questa preghiera è la posizione che occupa il sostantivo “Padre” all’interno dei capitoli 5 e 6 del Vangelo di Matteo. Vediamo i versi che precedono il “Padre nostro”:

 

  1. “…affinché siate figli del Padre vostro” (5.45)
  2. “Voi dunque siate perfetti, come è perfetto il Padre vostro, che è nei cieli” (5.48)
  3. “…altrimenti voi non ne avrete ricompensa presso il Padre vostro, che è nei cieli” (6.1)
  4. “… e il Padre tuo, che vede nel segreto, te ne darà ricompensa palesemente” (6.4)
  5. “…chiudi la porta e prega il Padre tuo, che vede nel segreto” (6.6)
  6. “…e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà pubblicamente” (6.6)
  7. “…il Padre vostro sa le cose di cui avete bisogno prima che gliele chiediate” (6.8)
  8. “Padre nostro che sei nei cieli…” (6.9)

 

Le riflessioni che si possono fare a questo punto sono molte. Guardando ai primi sette versi che riportano la parola “Padre”, non si può ignorare che la loro quantità ha riferimento diretto a Dio, alla Sua opera, pienezza e perfezione. La presenza di questo numero è costante in tutta la Bibbia a partire dalla Genesi quando fu il settimo giorno a fare da sigillo alla creazione. Tra innumerevoli episodi citabili, sono particolarmente importanti le sette volte in cui il generale del re di Siria Naaman fu mandato a bagnarsi nel Giordano da Eliseo per guarire dalla lebbra, oltre ai sette anni impiegati da Salomone per costruire il Tempio, per non parlare della costante del numero nel libro dell’Apocalisse.

Forse può essere interessante, a proposito del Sette, citare la figura di Ivan Nikolayevich Panin (1855 – 1942), critico letterario nichilista e agnostico molto conosciuto in Canada e negli Stati Uniti d’America, che si convertì al Cristianesimo quando, analizzando numericamente i testi del Nuovo e Antico Testamento, dopo un lavoro durato otto anni ed aver riempito un totale di circa 40mila pagine, giunse alla conclusione che il numero 7 è alla base di tutta la struttura letteraria biblica a patto che questa non sia manipolata tramite l’inserimento di parole non presenti nell’originale. Ivan Panin dedicò i restanti 50anni della sua vita allo sviluppo della scienza dei numeri biblici rifiutando incarichi universitari anche prestigiosi.

Può essere interessante cercare in rete “Ivan Panin” dove i dati sulla sua ricerca abbondano. Mi limito a trascrivere la sua ricerca sul verso di Genesi 1.1 “Nel principio Iddio creò i cieli e la terra”.

La frase in ebraico è composta di sette parole, ciascuna delle quali ha il suo valore numerico complessivo, che si ottiene sommando il valore di ogni lettera:

– בראשית 913 (400+10+300+1+200+2) Nel principio

– ברא 203 (1+200+2) creò

– אלהים 86 (40+10+5+30+1) Dio

– את 401 (400+1) Articolo indefinito non traducibile

– השמים 395 (40+10+40+300+5) i cieli

– ואת 407 (400+1+6) e

– הארץ 296 (90+200+1+5) la terra

In questo breve versetto, il numero sette con i suoi multipli ricorre in decine di combinazioni di cui riportiamo solo alcuni esempi:

– Il numero delle parole del verso è 7.

– Vi sono tre importanti parole: Dio, cieli, terra che hanno valore 86, 395, 296. Sommati tra loro danno 777, cioè 111×7.

– Il numero delle lettere di queste tre parole (Dio, cieli, terra) è 14 (2×7).

– Il numero delle lettere delle quattro restanti parole è sempre 14 (2×7).

– Il numero totale delle lettere ebraiche in questa frase è dunque 28 (4×7).

– Le prime tre di queste sette parole ebraiche contengono il soggetto e il predicato della frase: “Nel principio Iddio creò”. Il numero delle lettere di queste tre parole è 14 (2×7).

– Le altre quattro parole contengono l’oggetto della frase: “i cieli e la terra”. Il numero delle lettere di queste quattro parole è anch’esso 14 (2×7).

– Il valore numerico del verbo “creò” è 203 (29×7).

– Il numero trovato sommando il valore numerico della prima e dell’ultima lettera di tutte e sette le parole che compongono questo versetto è 1393 (199×7).

– Il numero 1393 si divide nella seguente maniera:

  1. a) il numero che si ottiene sommando i valori numerici della prima e dell’ultima lettera della prima e della settima parola è un multiplo di 7: 497 (71×7)
  2. b) Il numero che si ottiene sommando i valori numerici della prima e dell’ultima lettera delle cinque parole rimaste in mezzo è anch’esso un multiplo di 7, cioè 896 (128×7),

– L’ultima lettera della prima e dell’ultima parola hanno un valore numerico totale di 490 (70×7)

– La più breve parola è al centro. Il numero ottenuto sommando le lettere di questa parola sommate con le lettere della parola alla sua sinistra è 7.

– Il numero ottenuto sommando le lettere di questa parola sommate con le lettere della parola alla sua destra è 7.

 

Le perfezioni del numero non ricorrono solo nell’AT, ma anche nel Nuovo. Ad esempio nella genealogia di Gesù riportata da Matteo (che non a caso scrive per gli ebrei) e, sempre nel primo capitolo, ai versi da 18 a 25 in cui si narra della visita dell’angelo a Maria e della nascita di Gesù. In questo caso abbiamo:

  • in numero delle parole greche è 161 (23×7)
  • il valore numerico di queste 161 parole è di 93.394 (13.342×7)
  • Il numero delle forme grammaticali in cui queste 161 parole ricorrono è 105 (15×7)
  • Il valore numerico di queste parole usate nelle 105 forme è 65.429 (9347×7)
  • Di queste 105 forme il numero dei verbi è 35 (5×7)
  • Di queste 105 forme il numero dei nomi propri è 7
  • Il numero delle lettere in questi 7 nomi propri è 42 (6×7)
  • Il numero delle forme trovate in questo brano, ma che non si trovano in nessun’altra parte del Vangelo di Matteo è 14 (2×7)
  • Il valore numerico di queste 14 forme è 8.715 (1.245×7)
  • Le sei parole greche trovate in questo brano e che non si trovano in nessun’altra parte del libro di Matteo hanno un valore numerico di 5.005 (715×7)
  • Il numero delle lettere di queste sei parole è esattamente 56 (8×7)
  • L’unica parola trovata qui, ma che non so trova in nessun’altra parte del NT è il nome “Emanuele” il cui valore numerico è 644 (92×7)
  • Il numero delle forme
  • Il valore numerico di tutte le parole usate dall’angelo è di 21.042 (3006×7)
  • Il numero delle forme usate dall’angelo è 35 (5×7)
  • Il numero delle lettere greche in queste 35 forme usate dall’angelo è 168 (24×7)
  • Il valore numerico delle 35 forme usate dall’angelo è di 189.397 (2.772×7).

Ho riportato questi dati unicamente per rendere un’idea della perfezione che esprime questo numero.

 

Torniamo al tema delle prime sette volte in cui compare la parola “Padre”: notiamo che, negli aggettivi accanto a questa parola, abbiamo quattro volte “Vostro” e tre “Tuo”, a mio giudizio una chiara allusione alla stabilità (il numero 4) della Chiesa che sarebbe nata (vista in quel “Vostro” che accomuna) e alla imminente, nuova perfezione del rapporto individuale (il numero 3) visto nel “Tuo”, possessivo che abbiamo già visto Maria di Magdala dichiarare splendidamente con le parole “…hanno portato via il mio Signore e non so dove l’abbiano posto” (Giovanni 20.13). Era il Signore di tutti, ma in questa espressione Maria volle dichiarare tutto l’amore individuale che aveva per Lui e Lui per lei, così come ogni credente dovrebbe testimoniare.

Ora il “Padre nostro” compare per l’ottava volta quanto a parola “Padre”, ma per la prima con il possessivo “nostro”, segno di un cambiamento profondo, lo stesso che comporterà la resurrezione di Cristo, avvenuta sì nel primo giorno della settimana, ma anche nell’ottavo così come è chiamato altrimenti. Il “Padre nostro” come posizione e definizione può essere considerato sia all’ottavo posto, sia al primo ciclico di una serie di altri che si trovano a seguire. L’otto è quindi abbinabile alla nuova vita, quella eterna a cui destina tutti coloro che Lo accolgono, Lui che ci ha dimostrato che non è la morte ad avere l’ultima parola per cui è chiamato anche “Il primogenito dai morti” (Apocalisse 1.5), ma ancor di più in Romani 8.29: “…poiché quelli che ha preconosciuto, li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Suo Figlio, sia da essere lui il primogenito fra molti fratelli”. Il numero otto ha riferimento con un’altra creazione, quella appunto della “Nuova creatura” di cui parla l’apostolo Paolo in 2 Corinzi 5.17: “Se dunque uno è in Cristo, è un nuova creatura; le cose vecchie son passate, ecco, tutte le cose sono diventate nuove”. È un ottavo giorno che ogni essere umano può sperimentare.

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05.28 – COME PREGARE (Matteo 6.5-8)

05.29 – Come pregare (Matteo 6.5-8)

5E quando pregate, non siate simili agli ipocriti che, nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, amano pregare stando ritti, per essere visti dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa.6Invece, quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.7Pregando, non sprecate parole come i pagani: essi credono di venire ascoltati a forza di parole. 8Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate.”.

Qui inizia il secondo insegnamento di Gesù sulla pratica della “giustizia” che, nel caso di specie, abbiamo visto essere tripartita in elemosina, preghiera e digiuno. Il gruppo di versi letto è molto particolare perché, secondo Matteo, precede l’esposizione del “Padre nostro” e, prima di insegnarla, Nostro Signore si preoccupa ancora una volta di far riflettere sulla differenza tra ciò che è ostentazione con fini non spirituali e il reale atteggiamento che deve contraddistinguere la preghiera. Ci troviamo su un terreno delicato perché, alla luce delle parole “hanno già ricevuto la loro ricompensa”, possiamo individuare uno stato d’animo che trova la sua soddisfazione nell’avere lo sguardo degli altri, che di se stessi: poltrone o palchi privati non si trovano solo a teatro, ma purtroppo sono numerosi anche in quel cristianesimo fatto di manifestazioni esteriori che alimentano costantemente quella “loro ricompensa” di cui parla Gesù.

Ci siamo già occupati del fatto che chiunque si colloca, o pretende di farlo, in una posizione spirituale dichiarando la propria fede agli uomini, da quel momento è inevitabile si ponga come esempio e quindi “insegni”: lo fa con le proprie azioni quotidiane indipendentemente dal fatto che si metta a predicare o a testimoniare in maniera più o meno dotta o ricercata. Abbiamo infatti letto “Chi dunque trasgredirà uno solo di questi precetti, anche minimi, e insegnerà agli uomini a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà agli uomini, sarà considerato grande nel regno dei cieli” (Matteo 5.19-20). Se leggiamo il verso successivo, poi, appare chiaro che esiste una profonda differenza tra l’ipocrisia e la pratica della verità, come dalle parole “Se la vostra giustizia non supererà– cioè non andrà oltre – quella degli scribi e dei farisei, voi non entrerete nel regno dei cieli” (v.21). Le due categorie di persone che Gesù cita così spesso, scribi e farisei, col loro esempio negativo avevano finito per insegnare agli altri “a fare altrettanto”, vale a dire avevano ridotto la preghiera a un atto formale, facendo sì che anche quella personale ne risentisse: tutti li vedevano e nella loro ignoranza, o umana “semplicità”, avevano finito per considerarli persone veramente devote ammirandoli e, inevitabilmente, quell’atteggiamento formale aveva finito per contagiarli.

La preghiera pubblica era quella che veniva fatta in tempi stabiliti del giorno e il giudeo devoto si fermava ovunque si trovasse (a meno che il luogo non fosse impuro) e recitava quanto prescritto stando in piedi. Lo faceva immedesimandosi nel testo, solitamente quello di un Salmo, facendolo proprio, perché ancora non era sceso lo Spirito Santo che, come scrive l’apostolo Paolo ai Romani “…viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con sospiri ineffabili” (8.26). Anche i musulmani pregano in pubblico a tempi prestabiliti e l’osservanza di questa pratica è considerata un segno di grande devozione.

Gesù, venuto “non per abolire, ma per adempiere” non intende demolire la preghiera pubblica, ma censura gli intenti diversi dalla sincerità con cui ci si dovrebbe approcciare ad essa e, con le parole “amano stare ritti in piedi”, smaschera quanti agivano in tal modo.

Ma cosa chiedere al Dio che ascolta e vede, come raccordare una posizione pubblica con il prossimo che ti guarda e considera, con l’accoglimento e l’esposizione reale dei contenuti? Nostro Signore non si occupa dell’orazione comunitaria della Chiesa in cui è inevitabile che i fratelli si ritrovino alla Sua presenza, ma ancora una volta si occupa della persona con quel “ma tu” sul quale ci siamo già soffermati tempo addietro. Gesù doveva spiegare ai presenti sul monte che tutto partiva dall’interno dell’uomo invitato a cercare prima di tutto il rapporto individuale con YHWH che lo avrebbe guidato e chiamato direttamente. Ricordiamo sempre che la Chiesa è comunità formata da individui, ciascuno con la sua funzione vista nel corpo di Cristo e nelle “molte membra”, o se vogliamo è un edificio composto da molte pietre, non mattoni cotti in una fornace, ciascuno con le stesse dimensioni e fattezze.

L’ipocrita recita una parte, ha un ruolo che è quello di impressionare un pubblico, nulla a che vedere con la verità e l’esaudimento che si ritrovano nel rapporto personale con Dio. Si tratta di scegliere. Vuoi una ricompensa? Scegli se avere quella dell’ammirazione umana da parte dei membri di una comunità religiosa, o quella che proviene dalla ricerca dell’incontro col tuo Signore, che Davide ha descritto in modo stupendo e poetico nel Salmo 139 citato la volta scorsa.

Nelle parole di Gesù però c’è molto di più, perché l’insegnamento sulla preghiera occupa una posizione centrale e si allarga notevolmente, essendo un “tu” al tempo stesso personale e comunitario. Ci possiamo infatti ricollegare alle parole di Maria di Magdala quando, piangente vicino al sepolcro vuoto, rispose ai due angeli che le chiedevano il motivo delle sue lacrime: “Hanno portato via il mio Signore e non so dove l’hanno posto” (Giovanni 20.13). Certo Maria non poteva avere l’esclusiva dell’appartenere a Cristo e viceversa, ma queste parole rappresentano il sentimento di totale aderenza a Lui. Quel Signore che umanamente non sapeva dove fosse nonostante avesse dichiarato che sarebbe risorto, dal punto di vista affettivo e del rapporto individuale era unicamente di quella donna e al tempo stesso degli altri coi quali aveva condiviso la vita di predicazione del Vangelo. Ma la prevalenza del rapporto è da vedersi con il “mio”: è lui che mi ama, mi parla, mi sostiene.

Ecco allora il “tu” che diventa “mio”, cioè non può che coinvolgere l’esterno e l’interno della persona e da lì riversarsi nella comunità, nella Chiesa. Ecco allora che il “mio” diventa poi “nostro”, un plurale che leggiamo nella preghiera del Padre nostro: “nostro” – “dacci oggi” – “rimetti a noi” – “non indurci” – “liberaci dal male”. Sono quattro richieste perché possiamo rimanere in equilibrio, per quanto il “non indurci” sia una traduzione errata e vada piuttosto intesa come “non esporci” o meglio ancora, come vedremo, “non abbandonarci”. Avremo modo di affrontare i plurali nelle prossime riflessioni; per ora è necessario sostare ancora sul singolare, che si riflette comunque nel plurale e viceversa perché è da lì che parte la costruzione della Chiesa, la Comunità dei salvati che Dio riunisce sulla terra in attesa di chiamarli a Lui per sempre.

La comunità beneficia sempre della preghiera del singolo, della persona spirituale che ben difficilmente si dichiarerà tale per avere una posizione d’onore sugli altri: agirà con l’obiettivo di camminare unito a Cristo, o a YHWH per gli uomini dell’Antico Patto. Pensiamo ad Abramo che fece intercessione per Sodoma, a Simeone “guardiano” del Tempio, al “rimanente fedele” degli ultimi tempi e al passo “Iddio conosce quelli che sono suoi”.

L’esortazione di Gesù è quindi quella di cercare la comunione col Padre “nel segreto”, di chiudersi in camera, concetto che esamineremo nel corso della trattazione del “Padre nostro”, là dove nel “chiudere la porta” individuiamo l’atto con cui lasciamo fuori tutto ciò che ci ha accompagnato fino a poco prima, non certo solo le persone: pensieri, idee, preoccupazioni, turbamenti, perché viceversa correremmo il rischio di ripetere le nostre richieste come una sorta di mantra oppure, attaccati al contingente, presenteremmo una “lista della spesa” esattamente come farebbero quei “pagani che credono di venire ascoltati a forza di parole”. È il bambino che vede solo le proprie necessità e si crede al centro del mondo, non l’adulto ed è per questo che abbiamo l’esortazione ad essere “bambini in malizia e uomini maturi in senno” (1 Corinti 14.20).

È l’equilibrio che può garantire un esaudimento, che non può essere insegnato ma va ricercato: molto spesso gli insegnamenti di Gesù sono solo un appello al buon senso spirituale che purtroppo non sempre l’uomo possiede e quindi cade in contraddizioni tremende; ricordiamo ad esempio l’offerta sull’altare che non può essere presentata nel momento in cui il nostro prossimo ha qualcosa contro di noi: il “debito” che abbiamo col fratello impedisce l’accoglimento di essa e, nel nostro caso, della preghiera.

Pensiamo ancora al “tu” di Gesù che invita il singolo, l’individuo, a presentarsi lasciando fuori dalla porta tutto quanto può interferire col rapporto col Padre: è quello il momento in cui si realizza il confronto tra due elementi, Dio che ascolta e l’uomo. La porta che tiene fuori ciò che disturba può metterci in condizione non tanto e solo di chiedere, ma di confrontarci, discorrere, fare il punto di situazioni più che chiedere aiuto per i fatti contingenti della vita di cui è detto “il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate” (v.8).

Quando ero giovane mi chiedevo, alla luce di queste parole, per quale motivo io dovessi pregare per le mie necessità se queste erano già conosciute dal Padre: la parte più importante del verso, però, è quella che informa dell’onniscienza di Dio che ci osserva; sa di cosa abbiamo bisogno realmente e non di ciò che noi riteniamo sia importante. E questo consola e illumina. A volte possiamo essere convinti di avere necessità della soluzione ad un problema e vediamo solo quello e purtroppo istintivamente, come i bambini, vorremmo che il suo appianamento fosse immediato: non è così. Non sempre, almeno. L’apostolo Pietro raccomanda di riversare “…su di Lui ogni preoccupazione, perché Egli ha cura di voi” (1 Pt 5.7): questa è una verità che dovrebbe spingerci, nella preghiera che rivolgiamo a Dio nella preoccupazione che talvolta si muta in angoscia, a chiedere quell’aiuto, ma anche l’accettazione di una Sua volontà diversa nei nostri confronti. Perché l’accoglimento della preghiera non è detto che avvenga secondo le nostre intenzioni. L’importante è avere una risposta, la soluzione di un dubbio e, sotto quest’ottica, un “sì” o un “no” hanno lo stesso valore.

Chi ebbe un’esperienza diversa da quella che si aspettava, cioè un esaudimento risolutivo di un problema, fu l’apostolo Paolo che, affetto da una malattia agli occhi provocatagli da schiaffi e pugni presi in carcere, pregò Dio che lo guarisse. Paolo passò del tempo a interrogarsi sul perché rimanesse così e, scrivendo ai Corinti, lo spiegò: “Perché  non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di Satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada in superbia. A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che lo allontanasse da me– ecco il rifiuto dell’usare molte parole come i pagani –. Ed Egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella tua debolezza». Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo” (2 Corinti 12.7-9). Da Dio una risposta arriva sempre anche se i suoi tempi non sono i nostri. Paolo accettò questa condizione, continuando a scrivere anche se il corpo dei suoi caratteri, a causa della vista, aumentò considerevolmente e, a un certo punto, dovette ricorrere all’aiuto di altri fratelli che redigessero alcune lettere (pensiamo a Terzio con la lettera ai Romani). Ma ebbe rivelazioni che non furono rivolte a nessun altro uomo.

Il credente è sempre nell’amore di Dio, tanto nella gioia sulla terra quanto nel suo opposto. Prende il dolore come parte integrante di essa. Sa di essere nelle Sue mani. A differenza degli altri uomini non salvati, può guardare a Lui. Sempre. Amen.

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05.27 – PRATICARE LA GIUSTIZIA II/II (Matteo 6.1-4)

05.28 –Praticare la Giustizia II/II (Matteo 6.1-4)

1State attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere ammirati da loro, altrimenti non c’è ricompensa per voi presso il Padre vostro che è nei cieli. 2Dunque, quando fai l’elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade, per essere lodati dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. 3Invece, mentre tu fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, 4perché la tua elemosina resti nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.”. 

Nella riflessione precedente abbiamo affrontato il tema delle “buone opere”, o della “giustizia”, partendo dall’aspetto negativo, quello di ciò che viene fatto per ostentazione. Abbiamo anche visto che col termine “giustizia”, in questo caso, si intendevano elemosina, preghiera e digiuno, elementi che si affiancavano alla legge cerimoniale praticata pubblicamente dagli Scribi e Farisei distorcendo così il valore spirituale di quellee azioni. Gesù, però, con il suo insegnamento non intendeva dare a chi Lo ascoltava delle “istruzioni su come ottenere i favori di Dio”, ma piuttosto far riflettere sulle motivazioni che spingono veramente ad agire chi si vuole porre in rapporto col Padre: siamo quello che facciamo e, in quanto esseri pensanti, c’è sempre l’invito a valutarci attentamente rispondendo sempre a una domanda che giunge puntuale: “perché?”. “Perché” è quel ritornello ossessivo che spesso un bambino, arrivato a una certa età, rivolge agli adulti, ma anche sarebbe un metodo che, se adottato in età consapevole, porterebbe a conclusioni senz’altro interessanti; sarebbe un andare alla radice, sarebbe un esame a vasto raggio su ciò che sentiamo sia nella vita quotidiana naturale che in quella spirituale. È un comportamento che raramente attuiamo, abituati come siamo al quotidiano e, soprattutto, a dare tutto per scontato nei rapporti coi nostri simili e con Dio. Chiedersi perché equivale a fermarsi, azione che soprattutto la società attuale fa di tutto per evitare che ciò accada.

Gesù, invece, proponendo due comportamenti tra loro opposti, cioè praticare la giustizia finta e quella vera, spinge i suoi uditori e chi legge le sue parole a riflettere sul valore di questi metodi, ma soprattutto a ricordare che Dio non può essere preso in giro da nessuno: sappiamo che il primo verso del capitolo 6 inizia con “State attenti”. Se nella prima parte di queste riflessioni ci siamo occupati dell’agire per avere l’altrui approvazione, qui esamineremo la verità secondo cui Dio guarda “in segreto” e quindi, alla radice, alla genesi delle nostre azioni.

 

  1. In segreto

C’è un particolare da tener presente non solo nel leggere questi versi, ma tutto il capitolo e cioè: se andiamo a leggere le indicazioni sulle “buone opere” troviamo sempre, a un certo punto, un bellissimo, interessante pronome: “Invece, mentre tu fai l’elemosina” (v.3), “Invece, quando tu preghi” (v.6), “Invece, quando tu digiuni” (v.17). Quando un essere umano incontra Cristo in salvezza e si pone in rapporto con Lui, quindi, esce dalla massa per farsi persona. Questo è il significato del “tu” citato per tre volte. Non è poco perché, se la massa fosse composta da individui pensanti, non sarebbe tale, non sarebbe folla, quella che gridava “crocifiggilo” dimenticando i miracoli e le guarigioni avvenute. La massa è pilotabile da sempre, fa sì che i movimenti politici diventino grandi, è quella che segue la Bestia e il falso profeta, che asseconda e si riconosce nelle mode, viene spinta a fare rivoluzioni da un’élite di “pensatori” perché tutto resti sostanzialmente come prima, dove le cose cambiano perché nulla cambi o, nella migliore delle ipotesi, vince una battaglia ma mai una guerra perché il potere momentaneamente sconfitto ritorna sempre e più forte di prima. E all’occorrenza, con forme diverse. La massa crede, si fa influenzare inconsapevolmente, obbedisce e non programma mai a lungo termine, dà per scontato, gli basta poco per sposare le opinioni che le vengono fornite perché non avendole ne ha bisogno, la massa si plasma col tempo e con strategia.

Il “tu” di Gesù invece chiama in causa direttamente, invita chi Lo ascolta a riconoscersi in Lui e, in caso di risposta affermativa, l’essere umano scopre che il suo nome è scritto nel libro della vita, nel “registro di Dio” come lo definì un giorno un fratello, quello che l’apostolo Giovanni vide in una visione che riporta in Apocalisse 5.1: “E vidi, nella mano destra di Colui che sedeva sul trono, un libro scritto sul lato interno e su quello esterno, sigillato con sette sigilli”, quelli che solo il Cristo vittorioso potrà aprire dopo che si saranno compiuti tutti gli avvenimenti descritti nei capitoli dal quinto a 20.12: “E vidi i morti, grandi e piccoli che stavano ritti davanti al trono. E i libri furono aperti. E fu aperto un altro libro, che è il libro della vita. E i morti furono giudicati dalle cose scritte nei libri, secondo le opere loro”. Puntualizzazione: i morti “grandi e piccoli” non sono adulti e bambini, ma persone che nella loro vita sono stati più o meno importanti, ma hanno avuto comunque tutti la responsabilità della gestione del bene più prezioso, la loro vita. Notare la distinzione fra “i libri”, contenenti metaforicamente le azioni di ciascuno di loro, folla, e “il libro” su cui sono scritti i nomi dei salvati, quelli del “tu”: ognuno di loro è conosciuto perché “Le mie pecore conoscono la mia voce ed esse mi seguono” (Giovanni 10.27). Ecco, i tre “Invece tu” sono lo sviluppo del cammino secondo Cristo, quello che compiono quelle “pecore” che conoscono la voce del pastore e quindi non seguono altri, non fidandosi. Chi non ha Lui come pastore, non potrà che perdersi perché ne avrà scelto inevitabilmente un altro, uno alternativo, quello che la vita per il suo gregge non l’avrà mai data.

E ci troviamo ancora alla divisione in due gruppi, ai due tagli della spada che qui divide chi è massa da chi è diventato persona. Non si tratta di presunzione, ma di condizione ben delineata nella Parola di Dio. Non esiste credente che sia tale perché ha avuto un’esperienza personale col Signore e che non sia protetto dall’ultimo, grande inganno degli “ultimi tempi” visto in quel sistema religioso, politico ed economico che precluderà qualunque possibilità di evasione e distinzione da lui: “E tutti gli abitanti della terra i cui nomi non sono scritti fin dalla fondazione del mondo, la adoreranno” (Apocalisse 13.8), riferito alla Bestia. Mi rendo conto di scrivere concetti che meriterebbero ben altri approfondimenti, ma è importante sapere che ogni azione che facciamo è sempre il frutto di una scelta e non c’è possibilità di essere neutrali nel nostro cammino terreno. Chi è massa segue gli altri, chi è persona – spiritualmente parlando – segue Cristo in un percorso che sarà sempre e solo individuale, per quanto condiviso con altri.

Torniamo però alla persona in genere: comunque sia, che appartenga alla massa o da lei si distingua – e non serve compiere azioni eclatanti per farlo – vale quanto leggiamo in Geremia 17.9,10: “Niente è più infido del cuore e difficilmente guarisce! Chi lo può conoscere? Io, il Signore, scruto la mente e saggio i cuori, per dare a ciascuno secondo la sua condotta, secondo il frutto delle sue azioni”. Ancora: “Sono forse Dio solo da vicino? (…) Non sono Dio anche da lontano? Può nascondersi un uomo nel suo nascondiglio senza che io lo veda?” (23.23,24). Infatti “Non vi è creatura che possa nascondersi davanti a Dio, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi di Colui al quale dobbiamo rendere conto” (Ebrei 4.13).

Ancora una volta abbiamo una distinzione molto importante sul rendiconto, diverso dal giudizio, risparmiato a chi crede: “In verità, in verità io vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita” (Giovanni 5.24). Piuttosto, il concetto del rendiconto è spiegato dall’apostolo Paolo con queste parole: “Nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo. E se, sopra questo fondamento, si costruisce con oro, argento, pietre preziose, legno, fieno, paglia, l’opera di ciascuno sarà ben visibile: la farà conoscere quel giorno che si manifesterà col fuoco, e il fuoco proverà la qualità dell’opera di ciascuno. Se l’opera che uno costruì sul fondamento resisterà, costui ne riceverà una ricompensa; ma se l’opera finirà bruciata, sarà punito: tuttavia egli si salverà, però come attraverso il fuoco” (1 Corinti 3.11-15).

In questi versi abbiamo prima di tutto la descrizione dell’impossibilità di costruire qualcosa senza Gesù Cristo come motivazione e soprattutto su di lui come fondamento, poi la prova del fuoco che brucerà tutto ciò che di inutile avremo realizzato lasciando soltanto ciò che avremo prodotto di veramente prezioso e accettevole a Dio. Come interpretare però le ultime parole “si salverà, però come attraverso il fuoco”? Il fuoco rovina, guasta, sfigura la persona, crea una sofferenza terribile. Per questo mi pare di capire che, per quanti si troveranno in quello stato, la loro vita nei “Nuovi cieli e nuova terra” sarà in qualche modo penalizzata come, nel quotidiano terreno, chi si ustiona al di là del primo grado incontra seri problemi per gli esiti cicatriziali e resta invalido, visto che la morte, che a volte sopraggiunge nei grandi ustionati, qui non è contemplata. Una cosa è vivere la dispensazione della grazia, data all’uomo per salvarsi e costruire, un’altra affrontare “il rendiconto”. Ecco uno dei perché del timor di Dio: è contemplato che uno sul fondamento costruisca con legno, fieno o paglia, materiali che non duraturi nel tempo e suscettibili ad essere distrutti nel giorno della retribuzione. Ricordiamoci che quando Giovanni vide in visione il Signore, lo descrisse come avente “occhi fiammeggianti” a sottolineare il suo discernimento tra ciò che resiste o no alla perfezione del suo sguardo.

Ecco allora che quel triplice “Invece tu”, indica il metodo, un aspetto del cammino che solo l’amore per Colui che ci ha salvato può spingerci a compiere.

Ho scritto della persona che si differenzia dalla massa: può aiutare l’esperienza di Davide nel Salmo 139 che illustra con parole di verità l’essenza di questo rapporto: “Signore, tu mi scruti e mi conosci, tu sai quando mi siedo e quando mi alzo, intendi da lontano i miei pensieri, osservi il mio cammino e il mio riposo, ti son note tutte le mie vie. La mia parola non è ancora sulla lingua ed ecco, Signore, già la conosci tutta. Alle spalle e di fronte mi circondi e poni su di me la tua mano. Meravigliosa per me la tua conoscenza, troppo alta, per me inaccessibile. Dove andare lontano dal tuo spirito? Dove fuggire dalla tua presenza? Se salgo in cielo, là tu sei; se scendo negli inferi, eccoti. Se prendo le ali dell’aurora per abitare all’estremità del mare, anche là mi guida la tua mano e mi afferra la tua destra”. Facciamo caso ai verbi: scrutare – conoscere – sapere – intendere – osservare – circondare – porre – essere – guidare – afferrare. Sono dieci, a significare la cura totale che Dio ha per l’uomo che ha chiamato. E che le esigenze che ha sono proporzionali alle cure che dà.

E abbiamo letto parole di Davide, nonostante abbia compiuto azioni non sempre degne di un individuo spirituale a tal punto che YHWH non gli consentirà di edificargli il tempio, scegliendo per questo Salomone suo figlio. Questo re conobbe momenti di formidabile comunione con Dio ed altri molto più carnali, quando si adagiò sui lussi della propria vita di corte. Questo ci consente di chiederci: quanto tempo della mia giornata trascorro col mio Dio onestamente? Pensiamo a Giovanni Battista, che stava nel deserto attendendo l’ora per cui era stato preparato. Certo, Davide scrisse questo Salmo gioendo per la possibilità di contemplazione che gli veniva data ed è proprio l’esperienza di essere ascoltato e conosciuto nel profondo a farlo parlare nel modo in cui abbiamo letto. Ecco ciò che è compreso nel “tu” e “in segreto”: un rapporto individuale che nessuno conosce al di fuori di due persone, quella di chi crede e Dio stesso.

Per questo il “tu” è anche una sorta di termometro, indica la nostra posizione spirituale. Davide descrive la conoscenza di Dio con le parole “Meravigliosa”, “troppo alta” e per lui “inaccessibile”, ma non si stancava di contemplarla sentendosi parte di lei e, nonostante fosse conscio di capirla in una quantità infinitesimale, ci ha lasciato come profeta delle verità molto profonde nei suoi Salmi. Davide sapeva di essere parte del piano per la redenzione dell’uomo. Per lui era importante quel “Tu” a prescindere dalla sua natura umana che purtroppo, come per tutti noi, era sempre lì, pronta a penalizzarlo. Chi è salvato entra in un mondo immenso, non potrebbe essere diversamente.

C’è poi la retribuzione, termine che nasconde realtà diverse e che consiste nel sostegno nella vita terrena nonostante le prove, i lutti o le malattie perché “piove sui giusti e sugli ingiusti”, ma anche nel risultato del rendiconto di cui troviamo una descrizione nella famosa parabola detta “dei talenti” (Matteo 24.14-30) in cui viene detto “Sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; entra nella gioia del tuo signore”. Sarà allora che ciò che è segreto diventerà palese ed eterno, mentre le opere di chi avrà agito per ostentazione saranno dimenticate e distrutte. Amen.

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05.26 – PRATICARE LA GIUSTIZIA (Matteo 6.1-4)

05.27– Praticare la GiustiziaI/II (Matteo 6.1-4)

1State attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere ammirati da loro, altrimenti non c’è ricompensa per voi presso il Padre vostro che è nei cieli. 2Dunque, quando fai l’elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade, per essere lodati dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. 3Invece, mentre tu fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, 4perché la tua elemosina resti nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.”.

Nonostante il contenuto semplice ed immediato, questi versi implicano e ampliano sinteticamente concetti che svilupperemo per lo spazio di due incontri, ponendo delle basi su cui costruire anche i successivi insegnamenti di Gesù sulla preghiera e il digiuno. La prima precisazione riguarda il termine “giustizia”, diverso da quello sviluppato a suo tempo con la quarta beatitudine, “Beati quelli che sono affamati e assetati di giustizia, perché saranno saziati”: “giustizia”, nel brano oggetto di riflessione, è reso in vari modi nelle traduzioni, cioè con “elemosina” o il generico “buone opere”. Ora il termine “vostra giustizia” è riferito effettivamente alle opere buone che ogni pio israelita era tenuto a compiere cioè l’elemosina, la preghiera e il digiuno, argomenti sui quali Nostro Signore si soffermerà non poco e sempre facendo una divisione netta tra il valore che si dà alle cose secondo parametri umani e quanto appartiene all’ambito spirituale. Umano e spirituale sono due mondi, due blocchi distinti che comportano realtà, dimensioni assolutamente incompatibili ovunque, tanto nel mondo tangibile quanto in quello della quarta dimensione.

Se andiamo alla parabola del ricco e Lazzaro, a un certo punto Abrahamo dice al ricco: “Tra voi e noi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a voi” (Luca 16.26). Ebbene queste parole hanno una valenza a largo raggio perché riassumono delle esistenze che, in realtà, erano già divise dal “grande abisso” anche quando si svolgevano in terra. Ricordiamo le parole “chi non crede è già condannato” (Giovanni 3.18) che, pur indicando uno stato non definitivo perché la persona può sempre ravvedersi, inseriscono il condannato in un ambito preciso, diverso da chi è giustificato per fede. Per quanto la parabola sarà oggetto di studio a suo tempo, va detto che le parole su“coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono”, non vogliono sottintendere che ci sia qualcuno che dal “seno di Abrahamo” vuol raggiungere chi è nei tormenti, ma sono la risposta alla richiesta del ricco che pretendeva di avere ancora autorità sul povero Lazzaro che in vita aveva costantemente umiliato.

Venendo ad testo, le prime due parole che incontriamo sono un avvertimento, “State attenti”, cui segue uno sviluppo sulla divisione tra il mondo della carne e quello dello spirito. Non si tratta solo della descrizione di una condizione, ma delle conseguenze cui porta aderire a un mondo piuttosto che a un altro, che non possono essere trascurate: “State attenti”. Essendo la Sua parola una spada a due tagli, tutto il messaggio di Gesù si basa sulla divisione che essa produce e in questo caso va a colpire la realtà storica del suo uditorio, abituato a manifestazioni eclatanti nella gestione delle “buone opere” da parte dei suoi maestri: l’elemosina elargita sempre in pubblico, preghiere esternate con atteggiamenti quasi teatrali, digiuno accompagnato da aspetto mesto e sofferente. Nostro Signore quindi affronta i punti cardini di quella “giustizia” individuale secondo l’insegnamento (ed esempio) che scribi e farisei davano al popolo, nonostante tutta la loro scienza scritturale che avrebbe potuto aiutarli in un’onesta relazione con Dio.

Pensiamo: conoscevano il passo “O voi tutti che siete assetati, venite alle acque” (Isaia 55.1). Ebbene, anziché aderire a quell’invito avevano finito per realizzare ancora una volta il lamento “Hanno abbandonato me, fonte di acqua viva, e si sono scavati cisterne piene di crepe, che non contengono acqua”(Geremia 2.13). Ogni volta che l’uomo abbandona la vera via, quella spirituale e diretta che gli concede un accesso a Dio, e vuole fare da solo, scava cisterne inidonee, inutili se c’è una fonte eterna, già crepate in partenza e, sempre da Geremia, corre dietro al nulla, e nulla diventa (2.5). L’uomo si trasforma sempre in ciò che ama, cerca, arriva a formare un tutt’uno con lui.

Il tema del primo intervento di Nostro Signore sulle “buone opere” riguarda l’elemosina, quell’azione che chi ha è tenuto a compiere nei confronti del povero. Già abbiamo incontrato nel sermone sul monte alcuni cenni al dare a chi chiede, ma qui è diverso, è un riferimento a Deuteronomio 15.11 in cui è scritto “Poiché i bisognosi non mancheranno mai nella terra, allora io ti do questo comando e ti dico: «Apri generosamente la mano al tuo fratello povero e bisognoso sulla terra». Giobbe stesso, in uno dei suoi ultimi discorsi ai cosiddetti “amici” venuti a consolarlo dice “…soccorrevo il povero che chiedeva aiuto e l’orfano che ne era privo. La benedizione del disperato scendeva su di me e al cuore della vedova infondevo la gioia” (Giobbe 29.11,12).

Colpisce in entrambi i versi come sia non il dovere, ma l’immedesimazione nel prossimo sofferente il motore dell’azione che porta all’aiuto economico. Colpisce il fatto che Giobbe, vissuto nella dispensazione della coscienza, ai suoi tempi il più ricco degli uomini in Oriente definito “Integro e retto, timorato di Dio e lontano dal male” (1.1), si immedesimasse a tal punto nella condizione di preoccupazione e sofferenza del suo prossimo indigente da rinunciare a parte dei suoi averi. Le sue non erano delle semplici offerte, che oggi ci sono e domani no, ma un sostentamento. E qui il confronto tra Giobbe e il ricco della parabola che abbiamo citato sorge spontaneo: l’uno teneva per sé ossessivamente, l’altro dava ritenendo ciò che possedeva uno strumento per aiutare l’altro. Anche qui, due mondi.

Quello dell’elemosina è per noi un tema delicato, essendo la realtà in cui viviamo molto più complessa di quella di allora: chi mendicava era realmente bisognoso mentre oggi sono molti quelli che vivono di espedienti, che oggi chiedono aiuto e domani rubano per cui aiutare in modo mirato chi veramente si trova in condizioni precarie è molto difficile; le stesse associazioni benefiche cui uno potrebbe far riferimento sono in realtà organizzazioni che cercano di trarre profitto anche dalla donazione più insignificante e le stesse strutture, anche religiose, che provvedono agli indigenti raramente rispettano il principio di sopperire prima ai bisogni dei poveri locali. E l’apostolo Paolo scrisse “Se uno non si prende cura dei suoi cari, soprattutto quelli della sua famiglia, costui ha rinnegato la fede ed è peggiore di un infedele” (1 Timoteo 5.8). Oggi ci sono delle congregazioni religiose che hanno sfrattato dalle loro strutture persone realmente povere, italiane, per ospitarne altre, straniere, confidando nell’aiuto economico dello Stato, cosa davvero molto triste e che di carità ha solo la parvenza esteriore.

Tornando alle parole di Gesù sull’elemosina, che nella sua forma corretta è un atteggiamento, uno spazio mentale e non un mero versare delle somme a qualcuno, vediamone lo sviluppo: c’è un’azione, l’esercizio della “giustizia” e poi due scopi, quello di guadagnarsi l’ammirazione altrui, oppure qualcosa compiuto in silenzio, nel segreto, che si esprime attraverso il naturale e semplice gesto del puro, disinteressato aiuto per il prossimo. Scegliere a quale aderire significa prendere una direzione che porta a conseguenzediametralmente opposte.

 

  1. Agire per avere l’altrui approvazione.

Chi cerca il pubblico è l’attore, cioè una persona che finge una condizione, uno stato d’animo che non gli appartiene, l’essere ciò che non è. Agisce per altri scopi, recita. E il greco, per indicare una simile persona, usa il sostantivo “ipocrita” adottato dalla lingua italiana che lo spiega con la definizione “simulatore di atteggiamenti o sentimenti esemplari”. Chi ha letto il Vangelo non può non associare l’ipocrita ai tradizionali oppositori di Gesù, gli Scribi e i Farisei, da lui così definiti in Matteo 23.27 e non solo: “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti! Perché rassomigliate a sepolcri imbiancati, che di fuori appaiono belli, ma dentro sono piedi di ossa di morti e di ogni putredine!”. Poiché i sepolcri e relativi monumenti venivano imbiancati ogni anno il 15 del mese di Adar (febbraio – marzo) per evitare che i viandanti contraessero impurità toccandoli inavvertitamente, Nostro Signore fa un paragone assolutamente esaustivo con la condizione spirituale di questi personaggi. Anzi, in Luca 11.44 va oltre, sottolineando la loro pericolosità: “Guai a voi, perché siete come quei sepolcri che non si vedono e la gente vi passa sopra senza saperlo”. Con il primo paragone, quello dei sepolcri imbiancati, abbiamo un riferimento alla persona che fa di tutto per sembrare “per bene” e non lo è; con il secondo, invece, si ha il ritratto di colui che pare innocuo, ma in realtà danneggia profondamente gli altri con il suo esempio.

La religione, con l’esercizio così spinto della forma e della ritualità, rende impossibile l’espressione sana e semplice della fede, insegna non troppo trasversalmente a chi vi prende parte ai suoi riti che è l’apparenza quello che conta. Quando da bambino sono stato cresimato e qualcuno interessato alla pecunia mi ha fatto una foto ricordo, prima di scattare mi ha detto “metti le mani giunte e fa’ finta di pregare”. Fare finta era l’importante, senza quella messa in scena il ritratto non avrebbe avuto valore. E allora ecco che anche nel cristianesimo esiste il rischio di ridurre tutto a qualcosa di falsamente rappresentativo che, nella migliore delle ipotesi, snatura il messaggio originale e nella peggiore insinua nella mente di quanti vi si accostano l’idea che tutto si basi su un atteggiamento, una veste di distinzione, un paramento, mani giunte o alzate, belle musiche e canti. In una parola, effetti speciali. Viene allora spontaneo l’accostamento alle parole di rimprovero rivolte sempre ai Farisei: “Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente: allargano i loro filatteri e allungano le frange; si compiacciono dei posti d’onore nei banchetti, dei primi seggi nelle sinagoghe, dei saluti nelle piazze, come anche di essere chiamati «Rabbi» dalla gente” (Matteo 23.3).

Avere l’ammirazione o l’approvazione degli uomini è qualcosa che conforta e soprattutto sazia la persona vanitosa che si sente realizzata quando gli altri le riconoscono un merito, ma oltre questo non si va. Non solo, ma ci si preclude la vera realizzazione spirituale come fecero quei capi del popolo che credettero in Gesù, ma senza rivelarsi: “Anche tra i capi, molti credettero in lui, ma a causa dei farisei non lo dichiaravano per non essere espulsi dalla sinagoga. Amavano infatti la gloria degli uomini più che la gloria di Dio” (Giovanni 12.42,43). Certo l’espulsione di cui parla Giovanni non era cosa da poco perché implicava l’esclusione dalla vita sociale di Israele: se quei capi de popolo di fossero rivelati, avrebbero perso la loro carica e ogni diritto.

Secondo le parole di Gesù, chi si comporta per avere l’approvazione altrui riceve il suo premio che consiste nell’ottenere ciò che cerca: l’altrui plauso.

Ecco però emergere ancora una volta in queste riflessioni la parabola che abbiamo già citato: il ricco, che aveva speso la sua vita per soddisfare la propria carne, si sentì dire “…lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti” (Luca 16.25): c’è un premio che si riscuote sulla terra e ce n’è un altro che si ottiene nella vita che viene dopo. Anche questi sono incompatibili, tra loro vi è “un profondo abisso”. Nella prossima parte esamineremo il secondo atteggiamento e cercheremo di sviluppare il significato del “vedere nel segreto”; per ora, vale l’avvertimento del primo verso, “State attenti”, teso a correggere l’idea che Dio sia costretto ad approvare e mettere “in conto di giustizia” qualunque buona azione che, in realtà, soddisfa esclusivamente la vanità personale. Sono i pochi centesimi dati come offerta nelle riunioni di Chiesa. Sono le donazioni anche cospicue in denaro date agli enti caritatevoli e pubblicizzate sui quotidiani o in televisione. Sono le ambulanze con su scritto “Dono della famiglia Tale”. È tutto ciò che viene fatto utilizzando la finta fede per avere un tornaconto personale, anche solo il cosiddetto “ritorno di immagine”. Perché le rivelazioni di Dio sono state sempre nel silenzio. Amen.

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05.24 – OCCHIO PER OCCHIO II/II (MATTEO 5.38-42)

5.24 – Occhio per occhio II (Matteo 5.38-42)

38Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente. 39Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l’altra, 40e a chi vuole portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. 41E se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due. 42Da’ a chi ti chiede, e a chi desidera un prestito da te non voltar le spalle”.

  Due mondi a confronto. Mondi diversi, incompatibili. Così distanti esattamente come la luce dalle tenebre. Ma sappiamo che la prima cosa a venire creata fu lei e ciò avvenne tramite un ordine di Dio, quindi essa, considerata come realtà fisica, non apparteneva alla condizione originaria, allo stato veramente naturale in cui si trovava il nulla, quel “deserto e vuoto” con “le tenebre che ricoprivano la faccia dell’abisso”; senza quel “sia la luce”, esse sarebbero ancora lì, nella loro immobilità e immutabilità. Si può dire allora che, con le parole che abbiamo letto in Matteo, Gesù contrappone il comportamento di chi appartiene alle tenebre a quello di chi si identifica nel loro esatto opposto. E vive.

Allora Nostro Signore esorta i suoi uditori a un comportamento non da persona pacifica, buona o debole, ma proporzionale all’acquisizione del principio di appartenergli. Attenzione che tutto questo riguarda la persona nella profondità del proprio essere, è qualcosa di individuale, a nessuno è ordinato di rinunciare a difendere i propri cari o il proprio legittimo ambito operativo; piuttosto a comportarsi tenendo sempre presente chi si è, la dignità acquisita come figli di Dio: apparteniamo alla Chiesa, cioè siamo stati fatti “concittadini dei santi, e membri della famiglia di Dio”? Il nostro vero mondo è un altro, forma un tutt’uno con la nostra destinazione, il nostro essere che, nel suo esprimersi, nel momento in cui vive spiritualmente, va da sé che si distacchi profondamente, anche nelle sue reazioni, dal sentire e dall’agire comune.

Le parole di Gesù sono indirizzate a persone che avevano una base culturale diversa dalla nostra: sapevano che doveva arrivare un inviato di Dio, la loro vita non aveva né i nostri ritmi né i nostri tempi, era diffusa la certezza dell’aiuto di Dio e del principio della responsabilità individuale nei rapporti con Lui, della benedizione o della maledizione a seconda di come si operava. Ecco allora che, citando la tunica che si portava sopra la camicia, e soprattutto il mantello, era implicito il riferimento alla Legge che ammoniva così: “Se prendi in pegno il mantello del tuo prossimo, glielo renderai prima del tramonto del sole perché è la sola sua coperta, è il mantello per la sua pelle: come potrebbe coprirsi dormendo? Altrimenti, quando griderà verso di me, io l’ascolterò, perché sono pietoso”(Esodo 22.6).

Notiamo da questo verso che c’è un principio di giustizia visto nel fatto che l’”Io sono”, rivelatosi al popolo d’Israele come il liberatore dalla schiavitù d’Egitto, quindi con “mano potente”, provvede di fronte alle rimostranze del povero che chiede giustizia. Rileggiamo il verso: “Altrimenti– se non ti comporti rispettando il tuo prossimo nelle sue esigenze elementari – quando griderà verso di me– perché mi riconoscerà come l’unico Giudice – io lo ascolterò– e tu ne subirai le conseguenze – perché sono pietoso– e imparerai a tue spese cosa vuol dire fargli violenza”.

Il fatto che Dio interviene a difesa è una cosa che raramente si tiene presente. Ci sono persone che sono sempre pronte a pregare unicamente per le proprie necessità quasi come per fare degli scongiuri, ma non riflettono su quanto è presente di Dio nella loro vita, su quale posto gli lasciano occupare, distratti come sono dalle problematiche quotidiane. Sono persone ancorate alla consuetudine, ma ancora di più alla loro storia umana, alle proprie vicissitudini perché sono costantemente sotto tensione. Non consentono alla Grazia di agire in loro trasformandoli.

Ricordiamo sempre che i comportamenti di cui parla Nostro Signore nel passo su cui riflettiamo hanno senso esclusivamente perché c’è promessa difesa da parte Sua e che comunque la Legge, molto spesso “maltrattata” negli studi cristiani cui le si attribuisce esclusivamente un peso, si preoccupava di regolare anche i rapporti tra le persone. Prendiamo ad esempio Numeri 5.6: “Quando un uomo o una donna commette qualsiasi offesa contro qualcuno, così facendo commette un peccato contro il Signore e questa persona si rende colpevole”. Possiamo vedere anche Deuteronomio 24.12-18 che trascrivo in parte: “Se quell’uomo è povero, non andrai a dormire col suo pegno. Dovrai assolutamente restituirgli il pegno al tramonto del sole, perché egli possa dormire col suo mantello e benedirti. Questo ti sarà contato come un atto di giustizia agli occhi del Signore, tuo dio. Non defrauderai il salariato povero e bisognoso, sia egli uno dei tuoi fratelli o uno dei forestieri che stanno nella tua terra, nelle tue città; gli darai il suo salario il giorno stesso, prima del tramonto del sole, perché egli è povero e a questo aspira. Così egli non griderà al Signore e tu non sarai in peccato. (…) Non lederai il diritto dello straniero e dell’orfano e non prenderai in pegno la veste della vedova. (…) Quando facendo la mietitura nel tuo campo, vi avrai dimenticato qualche mantello, non tornerai indietro a prenderlo: sarà per il forestiero, per l’orfano e per la vedova. Quando vendemmierai la tua vigna, non tornerai indietro a racimolare. Sarà per il forestiero, per l’orfano e per la vedova. Ricordati che sei stato schiavo nella terra d’Egitto, perciò ti comando di fare questo”. È un verso che è già stato citato, ma non fa male reinserirlo. E il motore di tutto qui è il ricordo della condizione in cui si versava un tempo, che provoca l’immedesimazione nella sofferenza del forestiero, dell’orfano e della vedova. E ciò che causa la reazione penalizzante di Dio è proprio il non ricordare ciò che eravamo rapportandolo a ciò che siamo, come nella parabola del creditore spietato.

È un verso, quello dell’immedesimazione nella altrui sofferenza e aspettative, che ci consente di rilevare la temperatura morale e spirituale del tempo in cui viviamo, poiché chi governa è andato molto oltre rispetto agli egoismi e alle nefandezze che i despoti del tempo biblico commettevano. Alla violenza primitiva, alle prepotenze chiaramente riconoscibili proprio perché si manifestavano attraverso di essa, se ne è sostituita una molto più apparentemente morbida, subdola, che non uccide ma spinge all’omicidio di sé o di altri. Annienta e falcia. È un processo irreversibile come i deterioramenti della terra su cui camminiamo, avvelenata e prossima ad esaurirsi, o della vera dignità della persona, a meno che non si rivolga all’Unico in grado di elevarla.

Rientro in tema e riporto le parole di un commento al passo sul “non resistere al malvagio” che stiamo meditando: “Le razionalizzazioni delle parole di Gesù non mostrano che le sue parole sono impraticabili o esagerate, ma semplicemente che il mondo cristiano non è mai stato disposto e non lo è tuttora a vivere secondo questa etica”. Sono parole che riflettono una condizione di malattia spirituale, poiché le esortazioni a comportarsi diversamente dall’umanamente ordinario non solo le troviamo scritte da Pietro e da Paolo, ma era un principio praticato nella Chiesa primitiva.

Arriviamo così al terzo caso, quello esposto al verso 41, che allude a un servizio forzato o alla presenza di un dominatore straniero. Il parallelo con l’Egitto è inevitabile: Israele non ottenne la libertà con una sommossa e neppure fu liberato da Mosè come condottiero “puro ed eroico”, ma da Dio che dispose gli eventi in modo tale che determinati avvenimenti si verificassero. Teniamo presente che la traduzione che usiamo in questo caso è molto sbrigativa: l’esempio non è di una persona prepotente che vuol costringere un’altra a percorrere un miglio, ma di chi requisisce arbitrariamente, in virtù della sua superiorità militare, uomini o bestiame per i suoi scopi. Chi aveva l’autorità per requisire era solitamente un corriere pubblico o un portatore di dispacci che si chiamava “Angàrios” da cui il verbo “Angaréuo” che significa “costringere qualcuno a fare un viaggio”. Da lì viene il nostro “angariare”. Ora gli ebrei, notoriamente, rifiutavano qualsiasi servizio al dominatore romano (teniamo presente come consideravano i pubblicani e le dispute sul fatto se fosse lecito o meno pagare le tasse) e quindi l’esortazione a percorrere due miglia anziché uno aveva molto da dire a chi aveva quel tipo di atteggiamento. E un miglio era l’equivalente di mille passi. È chiaro allora che impuntarsi per ragioni di principio non porta da nessuna parte, anzi, offrire un’assistenza per il doppio di quanto richiesto può costituire una testimonianza che vada a beneficio dell’angariante.

E arriviamo al quarto punto, quello del dare. Quattro sappiamo che è sinonimo di completezza umana e qui sono ritratti gli aspetti possibili del reagire. Come ci può essere chi è reattivo a fronte di un’aggressione perché forte di costituzione e chi invece è più incline a subire, così possiamo avere chi è attaccato alle proprie cose a tal punto da volerle tenere sempre per sé, accumularle. Purtroppo, “è mio” non lo dicono solo i bambini capricciosi, ma il voler possedere uomini o cose è una caratteristica del nostro genere. Anche qui gli ascoltatori di Gesù avevano un retroterra culturale che noi non abbiamo: “Il malvagio prende in prestito e non restituisce, ma il giusto ha compassione e dà in dono”(Proverbi 3.27,28). Ancora: “Chi ha pietà del povero fa un prestito al Signore, che gli darà la sua ricompensa”(19.17).

Viene così rinnovato per la quarta volta il principio della responsabilità. Siamo esortati a dare a chi ci chiede e a non voltar le spalle a chi desidera un prestito da noi, facendo però attenzione a non generalizzare il tutto sotto un falso buonismo, ma a considerare le necessità della persona: “A quelli che sono ricchi in questo mondo ordina di non essere orgogliosi, di non porre la speranza nell’instabilità delle ricchezze, ma in Dio, che tutto ci dà con abbondanza perché possiamo goderne. Facciano del bene, si arricchiscano di buone opere, siano pronti a dare e a condividere: così si metteranno da parte un buon capitale per il futuro, per acquistarsi la vera vita”(1 Timoteo 6.17,18).

Ecco, questo è un verso adatto per concludere queste riflessioni. Paolo scrive a Timoteo, suo discepolo e compagno d’opera, ricordandogli il tipo di esortazione da fare ai ricchi in denaro: non avrebbero dovuto essere orgogliosi, cioè ritenersi migliori di altri perché avevano una posizione sociale rilevante e quindi far leva sulle loro amicizie altolocate ed esclusive, né porre la speranza nella loro ricchezza, definita “instabile” perché può essere perduta (rubata, requisita, distrutta). Soprattutto Dio può chiamarli a sé senza dar loro l’opportunità per goderne, come nella parabola del ricco stolto. Avere ricchezze significa esserne dominati perché ci si deve adoperare affinché crescano, fruttino, non si svalutino e spesso il pensiero di perdere il denaro investito logora chi se ne occupa. La mentalità del mondo non comprende chi si comporta diversamente da lei perché chi appartiene al suo sistema si trova automaticamente inserito in una morale che non contempla favorire il prossimo, ma difendersi da lui a prescindere. È la legge della sopravvivenza espressa nell’antico adagio “mors tua, vita mea”.

Poi c’è qualcosa di illuminante, che riguarda la collettività a prescindere dalla eventuale ricchezza di ciascuno, cioè che la speranza va posta “in Dio, che tutto ci dà con abbondanza”, dove “tutto” e “abbondanza” dichiarano che quanto abbiamo come cristiani è progettato, costruito su misura per noi. C’è tutto un insegnamento riguardo alle sollecitudini ansiose sul mangiare, bere e vestirsi che Gesù tratterà proprio in questo sermone sul monte e verrà espresso in parte nel “Padre nostro” e in altri versi a seguire. Lo scopo del dare con abbondanza di Dio è “perché possiamo goderne” e ringraziare. Nessuno crederebbe in Cristo se non avvertisse su di sé le attenzioni e l’amore del Padre.

Ebbene, anche ai ricchi conosciuti da Timoteo è raccomandato di non considerare i loro averi come qualcosa di esclusivo, ma “siano pronti a dare e a condividere” là dove è quel “pronti” che qualifica la disposizione d’animo.

Gesù quindi dà ai suoi uditori e a noi, ancora una volta, gli elementi per crescere e mettere in pratica un altro aspetto della loro vita spirituale.

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5.20 – SETTIMO, NON COMMETTERE ADULTERIO VI (Matteo 5.27-32)

5.21 – Settimo, non commettere adulterio VI (Matteo 5.27-32)

27Avete inteso che fu detto: Non commetterai adulterio.28Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore. 29Se il tuo occhio destro ti è motivo di scandalo, cavalo e gettalo via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nella Geènna. 30E se la tua mano destra ti è motivo di scandalo, tagliala e gettala via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo vada a finire nella Geènna. 31Fu pure detto: «Chi ripudia la propria moglie, le dia l’atto del ripudio». 32Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, eccetto il caso di unione illegittima, la espone all’adulterio, e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio”.

Avevo pensato di finire questi interventi su divorzio e matrimonio con il quinto studio, ma avrei compiuto delle omissioni. Tutto ciò che Gesù dice nel nostro passo di Matteo è rivolto in primis ai giudei e quindi ai cristiani, per quanto sarà l’apostolo Paolo a sviluppare il tema soprattutto ai credenti della Chiesa di Corinto che, composta in maggioranza da greci convertiti, era soggetta alle influenze del pensiero non solo filosofico di allora; i costumi sessuali dell’epoca, inoltre, influivano sulla condotta di molti componenti della Comunità corinziana perché nel mondo greco la pederastia e l’amare indifferentemente uomini o donne rientravano nel concetto della ricerca del bello. Ricordiamo poi che in quei credenti si era fatta strada la convinzione secondo cui, se col sacrificio di Cristo erano stati liberati dal peccato, l’impegno a non commetterne altri non aveva senso.

È per questo motivo che Paolo, al fine di mettere ordine nei costumi e nelle idee di molti componenti di quella Chiesa, affronta il tema del matrimonio sotto due aspetti, quello della “sola carne”, quindi del corpo del singolo, e quello spirituale.

 

LA CARNE E IL CORPO

Voi dite spesso: «Tutto è lecito!”. D’accordo, ma tutto è utile? Certamente tutto è lecito, ma non mi lascerò mai dominare da qualsiasi desiderio. Voi dite anche: «Il cibo è fatto per lo stomaco e lo stomaco è fatto per il cibo». È vero, ma Dio distruggerà l’uno e l’altro. Il vostro corpo, però, non è  fatto per l’immoralità, perché appartenete al Signore, e il Signore è anche il Signore del vostro corpo. Ebbene, Dio che ha fatto risorgere il Signore, risusciterà anche noi con la sua potenza. Voi dovete sapere che appartenete a Cristo. E chi prenderebbe ciò che appartiene a Cristo per unirlo a una prostituta? Sapete benissimo che chi si unisce a una prostituta diventa un tutt’uno con lei. Infatti la Bibbia dice «I due saranno una sola carne». Ma chi si unisce al Signore diventa spiritualmente un solo essere con lui. Fuggite l’immoralità! Qualsiasi altro peccato che l’uomo commette resta esterno al suo corpo, ma chi si dà all’immoralità pecca contro se stesso. O avete dimenticato che voi stessi siete il tempio dello Spirito Santo? Dio ve lo ha dato ed Egli è in voi. Voi quindi non appartenete più a voi stessi, perché Dio vi ha fatti suoi, riscattandovi a caro prezzo. Rendete quindi gloria a Dio col vostro corpo” (1 Corinti 6.12-20).

Molto spesso pensiamo di appartenere a Dio ma dimentichiamo un’importante verità: in quanto salvati, redenti, eredi della promessa di eternità, siamo stati acquistati col prezzo del sangue di Gesù interamente, corpo compreso perché, quando si parla della nostra futura risurrezione, anch’esso verrà coinvolto. Ecco allora che, per un credente, l’unione con una prostituta causa un violento turbamento dell’equilibrio del corpo perché chi si unisce a lei “diventa un tutt’uno con lei” anziché un tutt’uno con Dio, compromettendo gravemente il suo rapporto col suo Signore. “Immoralità” è anche tradotto con “impurità”, ma andrebbe utilizzato più correttamente il termine “fornicazione” che deriva dal latino “fornix” cioè “sotterraneo a volta, sede di prostitute, postribolo”. La fornicazione è quindi un utilizzo improprio del nostro corpo, peccato che viene rimesso una volta abbandonato.

Ho scelto di partire dal corpo perché, iniziando un percorso dal basso, è più facile arrivare al concetto più alto, quello spirituale dell’essere “sola carne”. A questo punto è curioso osservare che uno degli aspetti del matrimonio è proprio porre le premesse perché la fornicazione non abbia luogo, e qui bisogna riflettere molto: “Rispondendo a quanto mi avete scritto, è cosa buona per l’uomo non toccar donna, ma, per evitare la fornicazione, ciascuno abbia la propria moglie e ogni donna il proprio marito. Il marito dia alla moglie ciò che le è dovuto e ugualmente anche la moglie al marito. La moglie non è padrona del proprio corpo, ma lo è il marito; allo stesso modo anche il marito non è padrone del proprio corpo, ma la moglie. Non rifiutatevi l’un l’altro, se non di comune accordo e temporaneamente, per dedicarvi alla preghiera. Poi tornate a stare insieme, perché satana non vi tenti mediante la vostra incontinenza” (1 Corinti 7.1-5).

Uno degli aspetti dell’unione tra uomo e donna, dell’essere “una sola carne” è quindi il prevenire una gestione disordinata della sessualità di entrambi, che porterebbe inevitabilmente alla fornicazione a tal punto che Paolo, al verso 8 scrive “Ai non sposati e alle vedove dico che è buona cosa per loro rimanere come sono io, ma se non sanno contenersi, si sposino, perché è meglio sposarsi che bruciare” non certo all’inferno, ma dentro di sé, espressione che non si riferisce solo alla sofferenza di chi non può avere una via di sfogo sessuale, ma soprattutto alle conseguenze alle quali essa può portare: la frustrazione che, se repressa per molto tempo, può condurre a manifestazioni che vanno oltre il “semplice” frequentare una prostituta. I casi in cui un uomo o una donna possono restare senza un compagno/a sono molto rari: Paolo ad esempio era uno di quelli e il suo stato non gli pesava; quando scrive “vorrei che tutti fossero come me” allude proprio alla sua condizione di uomo libero che non sentiva la necessità di un legame né affettivo né fisico, ma parla comunque della necessità di avere una donna come un diritto: “Non abbiamo noi il diritto di mangiare e di bere? Non abbiamo anche noi il diritto di portare con coi una moglie credente come l’hanno gli altri apostoli e i fratelli del Signore, o Cefa?” (1 Corinti 9.4,5).

Coi versi sull’appartenenza dei corpi al rispettivo coniuge, poi, viene posto l’accento sull’importanza dei rapporti sessuali fra entrambi, elemento che negli studi biblici viene messo in risalto raramente, per quanto intuibile, negli scritti delle precedenti dispensazioni in cui, a parte l’istinto naturale dell’uomo verso la donna e viceversa, la procreazione era il primo fine stante il fatto che in terra c’era posto per tutti: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela” (Genesi 1.28).

Anche qui però bisogna distinguere e riflettere sulla compatibilità fra gli individui, poiché se il legame non si basa su questa, è destinato a fallire anche sotto l’aspetto della sessualità che non può essere certo subita o lasciare insoddisfatte le parti perché, altrimenti, sarebbe come se l’unione non ci fosse. Il matrimonio è e deve essere un universo, un “hortus conclusus” cioè un giardino recintato sostenuto dall’amore reciproco che si manifesta nelle sue forme più disparate e trova nella comunione e nel sostegno dei coniugi l’uno verso l’altro il suo fondamento; viceversa, se visto a senso unico sotto l’aspetto dei rapporti fisici come purtroppo spesso capita, diventerebbe “una forma legale di prostituzione”, come Marx ebbe a scrivere un giorno.

 

LA RELAZIONE SPIRITUALE

Alla realtà terrena e fisica del matrimonio si accompagna inevitabilmente il suo aspetto spirituale di cui si occupa ancora una volta l’apostolo Paolo che spiega l’universo nuovo dei rapporti che si vengono a creare tra l’uomo e la donna: “E voi, mariti, amate le vostre mogli, come anche Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola con il lavacro dell’acqua mediante la parola, e per presentare a se stesso la Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata. Così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo: chi ama la propria moglie, ama se stesso. Nessuno infatti ha mai odiato la propria carne, anzi la nutre e la cura, come anche Cristo fa con la Chiesa, poiché siamo membra del suo corpo. Per questo l’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne.Questo mistero è grande: io lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa! Così anche voi: ciascuno da parte sua ami la propria moglie come se stesso, e la moglie sia rispettosa verso il marito” (Efesi 5.25-33).

Si tratta di rapporti equilibrati di dare e ricevere, che impegnano vicendevolmente come conseguenza del progetto originario: Cristo ha amato la Chiesa, l’ha scelta e ha dimostrato il suo amore dando sé stesso, non ha tralasciato e non tralascia nulla perché questo possa verificarsi. Nella visione ideale e al tempo stesso molto concreta di Paolo si verifica che “Nel timore di Cristo, siate sottomessi gli uni agli altri: le mogli lo siano ai loro mariti, come al Signore. Il marito infatti è il capo della moglie, così come Cristo è capo della Chiesa, lui che è salvatore del corpo. E come la Chiesa è sottomessa a Cristo, così anche le moglie lo siano ai loro mariti in tutto” (21-24): questa visione non allude al fatto che l’uomo sia un capo indiscusso come si potrebbe apparire, ma abbia una posizione di responsabilità spirituale vista nel cammino quotidiano verso la realizzazione piena del Regno di Dio o, per essere in tema, di quelle “nozze dell’Agnello” imminenti. Nessuno è autorizzato a prevalere sull’altro. La Chiesa è sottomessa a Cristo perché, se non lo fosse, se non avesse questo atteggiamento, tutto l’equilibrio d’amore salvifico, il rapporto con Lui e la Sua assistenza cesserebbero esattamente come avvenne con Israele quando, abbandonato YHWH, peccava di idolatria e serviva altri dèi. Se così fosse, se la Chiesa agisse in autonomia dimenticando il sacrificio di Cristo, non sarebbe una comunità di salvati dai Suo Amore, ma un gruppo di religiosi con manifestazioni che non portano ad alcun risultato salvo l’appagamento carnale scambiato per spirituale.

Nel rapporto marito – moglie c’è una gerarchia tutta particolare, che non implica ordini dittatoriali, ma è fatta di relazioni ideali che si concretano naturalmente: “Voglio però che sappiate che il capo di ogni uomo è Cristo, e il capo della donna è l’uomo, e il capo di Cristo è Dio” (1 Corinti 11.3) perché “Egli(l’uomo) è immagine e gloria di Dio, ma la donna è gloria dell’uomo. Non è l’uomo che deriva dalla donna, ma la donna dall’uomo; né l’uomo fu creato per la donna, ma la donna per l’uomo. (…) Tuttavia, nel Signore, né la donna è senza l’uomo, né l’uomo è senza la donna. Come infatti la donna deriva dall’uomo, così l’uomo ha vita dalla donna; tutto poi proviene da Dio” (vv. 7-12).

Il rapporto tra marito e moglie, in pratica, è sotto l’aspetto dell’amore identico a quello tra padre e figlio in cui troviamo, accanto alla correzione che si può rendere necessaria, il principio generale di non porlo nella condizione di soffrire per azioni ingiuste, dettate dal puro desiderio di dominare su di lui piegandolo all’esclusiva volontà del padre. È ancora Paolo ai Colossesi che spiega in cosa consista la vera sottomissione: “Voi, mogli, siate sottomesse ai mariti, come conviene nel Signore. Voi, mariti, amate le vostre mogli e non trattatele con durezza. Voi, figli, obbedite ai genitori in tutto, ciò è gradito al Signore. Voi, padri, non esasperate i vostri figli, perché non si scoraggino. Voi, schiavi, siate docili in tutto con i vostri padroni terreni: non servite solo quando vi vedono, come si fa per piacere agli uomini, ma con cuore semplice e nel timore del Signore. (…) Servite il Signore, che è Cristo!” (Colossesi 3.18-24). Il modo con cui si concludono i versi che trattano dei rapporti nella famiglia (e nella società), “Servite il Signore, che è Cristo”, ci fanno capire che la vita stessa è servizio in relazione al ruolo o ai ruoli che una persona occupa nella famiglia e nel mondo: siamo organi, membra del corpo di Cristo anche all’interno di questi contesti ed ecco perché ho definito il matrimonio un “hortus conclusus”, un universo che contempla un’infinità di sentimenti, diritti e doveri perché “Chi commette ingiustizia subirà le conseguenze del torto commesso” (v.25).

Concludendo questa sesta parte, come ricordato in altre riflessioni, le parole che leggiamo nella Bibbia non solo riguardo al matrimonio, non vogliono mai essere un vademecum del credente perfetto: Dio non ha bisogno di automi, ma di persone che lo amino e lo vogliano seguire. Prendere una concordanza biblica, cercare un argomento e quindi di adeguarsi a quanto troviamo scritto in essa, se può essere un’azione lodevole, a nulla serve se a monte non esiste la comprensione di quanto sia necessario conoscere per capire ed adeguarsi di conseguenza. Non è un esercizio ascetico, non ci sono comandamenti da osservare con la rigidità egoistica degli scribi o dei farisei che portano inevitabilmente distorsione, presunzione, rigidità e giudizio, ma una pratica di vita: mi comporto così perché amo. E se amo, è perché sono stato amato per primo e questo amore l’ho compreso, l’ho assimilato e lo voglio vivere. Così come l’amore che ho per Cristo è tale perché si rinnova ogni giorno, allo stesso modo così è per quello coniugale: non c’è un giorno uguale all’altro, non ci sono rivendicazioni, ma solo un donarsi. Amen.

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5.07 – LE BEATITUDINI 6: I PURI DI CUORE (Matteo 5.3-10)

05.07 – Il sermone sul monte : le beatitudini VI (Matteo 5.3-10)

 

3«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. 4Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. 5Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. 6Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. 7Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. 8Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. 9Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. 10Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli”.

BEATI I PURI DI CUORE

E arriviamo al cuore, argomento molto vasto cui anche la letteratura ha dato uno spazio enorme in tutte le epoche: quest’organo, così complesso e fondamentale per la vita non solo degli esseri umani, è stato da sempre visto come la sede dei sentimenti e dei pensieri, mutando i propri battiti in base alle emozioni e non solo allo sforzo fisico. Il cuore, assieme allo stomaco e al fegato, è suscettibile allo stress anche cronico e, se prolungato, può danneggiare in modo grave tutto il sistema cardiovascolare tramite l’ipertensione, a sua volta causa di inconvenienti anche gravi. Nella Bibbia il cuore è visto come l’organo che risponde alle emozioni e che arriva a influenzare fortemente quello che dovrebbe essere teoricamente, asetticamente, un altro ente del tutto autonomo, cioè il cervello dal quale scaturiscono tutti gli impulsi, spesso automatici, per la nostra vita e sopravvivenza. Allora non si sapeva che il cuore possiede dei neuroni che lo abilitano ad agire indipendentemente dal cervello che in alcuni casi, come dimostrano le ricerche del californiano HearthMath Insitute, gli obbedisce.

La conoscenza della fisiologia del muscolo cardiaco, tanto ai tempi del Nuovo che dell’Antico Patto, nonostante allora fosse elementare, aveva individuato comunque delle linee di base valide ancora oggi: pensiamo solo a Proverbi 14.30 “Un cuore calmo è vita per il corpo, ma l’invidia è il tarlo delle ossa”, o a 4.23 “Custodisci il tuo cuore più di ogni altra cosa, perché da esso sgorgano le sorgenti della vita”. Collegato a questo verso, che troviamo in 14.30 possiamo citare 17.22 “Un cuore allegro è una buona medicina, ma uno spirito abbattuto inaridisce le ossa”.

La “cardiologia biblica”, però, al di là di questi esempi e molti altri che si possono trovare in cui il cuore è citato nelle situazioni più disparate, si occupa fondamentalmente di lui come motore delle azioni e delle scelte della persona e la prima volta in cui viene nominato in tal senso la troviamo poco prima del terzo giudizio di Dio sull’uomo mediante il Diluvio: “Ora Iddio vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che tutti i disegni dei pensieri del loro cuore non erano altro che male in ogni tempo” (Genesi 6.5). Era un’umanità che pensava esclusivamente a se stessa, che si preoccupava della propria sopravvivenza materiale cercando di riempire il proprio tempo senza interrogarsi su come affrontare degnamente la propria vita e la propria morte in vista dell’eternità di cui conosceva l’esistenza; leggiamo infatti che “Dio ha fatto ogni cosa bella al suo tempo: egli ha messo la nozione dell’eternità nel loro cuore, senza però che gli uomini possano capire l’opera compiuta da Dio dal principio alla fine” (Ecclesiaste 3,11). Per questo le religioni sono un tentativo umano per sopperire a questo senso innato. Per questo, quando un uomo muore, se non è illuminato dallo Spirito Santo, ha paura.

Il cuore, quindi, caratterizza la vita dell’essere umano ed è visto come sede del vero motore delle scelte che poi effettivamente andrà a compiere perché, attratto dalle emozioni che lo stimolano in positivo, tenderà ad agire e progettare affinché durino il più possibile o si realizzino in futuro. “Cuore” è una parola che nella Scrittura è usata circa mille volte e solo in una parte, il 20 per cento, si allude al muscolo vero e proprio; per il resto la sua applicazione è figurata ed è connessa tanto all’uomo naturale che tutti conosciamo, quello che “non comprende le cose di Dio, perché per lui sono follia, e non è capace di intenderle, perché possono essere giudicate solo per mezzo dello Spirito” (1 Corinzi 2.14), quanto a quello spirituale, tale perché Dio stesso è intervenuto personalmente a renderlo così. Sono realtà tra le quali c’è un baratro, un mondo differente per modo di vita, aspirazioni e prospettive perché nessuno sarebbe mai in grado di essere un “puro di cuore” senza un intervento di Colui che lo ha creato e accolto.

Sotto questo aspetto sono gli scritti dell’Antico Patto a illuminarci per primi, tutta la storia del popolo di Israele che, nonostante l’assistenza continua di Dio dal momento in cui lo chiamò fuori dall’Egitto fino ad arrivare alla venuta di Gesù Cristo, si sviò provando su di sé giudizi anche terribili. Precisazione obbligatoria: se il verso che abbiamo citato molte volte, “Questo popolo mi onora con le labbra, ma suo cuore è lontano da me”, è riferito al popolo eletto, questo non vuol dire che non possa applicarsi anche al cristianesimo quando questo lascia che sia l’abitudine e la ritualità a prevalere sulla coscienza, sul cuore, come recita il proverbio profano “passata la festa, gabbato il santo”; solo perché si crede, non siamo autorizzati a fare qualsiasi cosa perché “tanto siamo salvati” o “tanto Dio ci protegge”. C’è una diffusa opinione in base alla quale ciò che è scritto nell’Antico Patto siano cose passate e non ci riguardino perché viviamo nella dispensazione della grazia, ma non è così: ricordiamoci sempre che Gesù non venne per abolire la Legge, ma per adempierla e che essa è e rimane il metro per misurare il bene e il male.

Nella sua prima lettera ai Corinzi Paolo di Tarso fa una lunga esposizione invitando i cristiani di quella Chiesa a considerare l’esempio di Israele e i suoi errori pagati a caro prezzo, con queste parole: “Ciò avvenne come esempio per noi, perché non desiderassimo cose cattive, come le desiderarono loro. Non diventate idolatri come alcuni di loro, secondo quanto sta scritto: «Il popolo sedette a mangiare e a bere e poi si alzò per divertirsi». Non abbandoniamoci all’impurità come si abbandonarono alcuni di loro e in un solo giorno ne caddero ventitremila. Non mettiamo alla prova il Signore, come lo misero alla prova alcuni di loro e caddero vittime dei serpenti. Non mormorate, come mormorarono alcuni di loro, e caddero vittime dello sterminatore. Tutte queste cose però accaddero a loro come esempio, e sono state scritte per nostro ammonimento, di noi per i quali è arrivata la fine dei tempi. Quindi, chi crede di stare in piedi, stia attento a non cadere” (10.5-11).

Paolo qui si guarda bene dal dichiarare che lo sviarsi per noi è impossibile; certo Gesù ha pagato per i peccati che possiamo sempre commettere nella carne, ma una cosa è camminare uniti a Lui e cadere per un incidente di percorso, altra cosa è desiderare cose cattive nel proprio intimo, cioè non porre freno a ciò che sappiamo essere male, o cadere nell’idolatria, cioè sostituire una persona o uno stile di vita diverso a quello ricevuto o rivelatoci un giorno, mettere Dio alla prova con una condotta che rientri nel comandamento “Non tentare il Signore Iddio tuo”.

Rientrando ora in tema, il cuore è un problema sia a livello di corpo, perché soggetto ad ammalarsi come tutti gli altri organi, sia a livello spirituale e di questo se ne accorsero molti, soprattutto quanto a motore delle azioni, positive o negative: ricordiamo ad esempio Davide che, conscio del proprio peccato e del fatto che da solo non avrebbe mai potuto fare nulla per mutare la propria condizione, scrisse nel Salmo 50: “Pietà di me, o Dio, nel tuo amore: nella tua grande misericordia cancella la mia iniquità. Lavami tutto dalla mia colpa, dal mio peccato rendimi puro. Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo. Non scacciarmi dalla tua presenza e non privarmi del tuo santo spirito. Rendimi la gioia della tua salvezza, sostienimi con uno spirito generoso. Insegnerò ai ribelli le tue vie e i peccatori a te ritorneranno”. Ricordiamoci che quella che abbiamo letto è la preghiera di un re costituito su Israele che non si assolse, ma si prostrò riconoscendo di avere bisogno dell’intervento di Dio nella sua vita per poter sussistere.

Ancora, sono determinanti le parole di Ezechiele che sottolineano l’impossibilità fisica di un rinnovamento umano senza un preciso operare di Dio: “Vi aspergerò di acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre iniquità e da tutti i vostri idoli; vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo le mie leggi e vi farò osservare e mettere in pratica le mie norme” (Ezechiele 36.25-27). Un rinnovamento, dunque, un miracolo.

A questo punto è inevitabile chiedersi se su quell’altopiano in cui Gesù proclamò le beatitudini ci fossero dei puri di cuore. Potremmo azzardare che Nostro Signore, facendo un collegamento estensivo, si rivolgesse a degli israeliti come Natanaele, uomo in cui non c’era “alcuna frode”, ma sbaglieremmo perché la chiave di lettura corretta risiede in due parole, “puri” e “cuore”.

I farisei avevano strutturato rigidamente il concetto di purezza, esasperandolo e vedendolo come l’osservanza di una serie di precetti, per non contaminarsi, che prendevano dalla Legge trasmessa al popolo da Mosè. In questo caso Gesù fa riferimento alla purezza levitica esteriore ottenuta mediante l’abluzione rituale, che vedeva in quel caso l’uomo “puro” se applicava alcune norme di comportamento. Leggiamo in proposito Marco 7.14,15: “Chiamata di nuovo la folla, diceva loro «Ascoltatemi tutti e comprendete bene! Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro, ma sono le cose che escono dall’uomo che lo rendono impuro”. Ora, dopo queste parole, fu interrogato dai discepoli che non avevano capito. Disse loro “«Così neanche voi siete capaci di comprendere? Non capite che tutto ciò che entra nell’uomo dal di fuori non può renderlo impuro, perché non gli entra nel cuore, ma nel ventre e va nella fogna?». Così rendeva puri tutti gli alimenti. E diceva: «Ciò che esce dall’uomo è ciò che lo rende impuro. Dal di dentro, infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultéri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono l’uomo impuro»” (Marco 7. 18-23).

E vediamo allora che il cuore ritorna, e vediamo che Gesù elenca ciò che sono le vere impurità che contaminano la sua creatura e da dove provengono. Ecco quindi che essere “puri” legalmente è una cosa, esserlo “di cuore” è un’altra. “Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio”, espressione che nel linguaggio dell’Antico Patto si riferiva ai membri della corte, quelli che vedevano la faccia del re. “Vedranno Dio” è poi un’espressione che si rifà alle parole che Lui stesso disse a Mosè che gli chiedeva di vedere il Suo volto: “L’uomo non può vedermi e vivere”.

Saranno quindi i puri di cuore a vedere Dio, cioè tutti coloro che rientreranno nella categoria descritta in 1 Corinzi 6-9,11: “Non sapete che gli ingiusti non erediteranno il regno di Dio? Non illudetevi: né immorali, né idolatri, né adulteri, né depravati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né calunniatori, né rapinatori erediteranno il regno di Dio. E tali eravate alcuni di voi! Ma siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio”.

Una degna conclusione di questa beatitudine possono essere le parole di Giovanni nella sua prima lettera: “Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando Egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come Egli è” (3.2). Amen.

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5.06 – LE BEATITUDINI 5: I MISERICORDIOSI (Matteo 5.3-10)

5.6 – Il sermone sul monte : le beatitudini V (Matteo 5.3-10)

3«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. 4Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. 5Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. 6Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. 7Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. 8Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. 9Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. 10Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli”.

BEATI I MISERICORDIOSI

Altra beatitudine, terza per la condizione dello spirito e quinta in ordine cronologico. L’aggettivo si riferisce a chi prova un sentimento di compassione per l’infelicità altrui che spinge ad agire per alleviarla, ma anche alla pietà che muove a soccorrere, a perdonare, a desistere dal punire. Il misericordioso è colui che antepone l’altro a se stesso nel senso che partecipa alle sue sofferenze, vede le condizioni in cui versa il suo prossimo e si preoccupa di lenirle, di comprendere; in poche parole, è una persona caritatevole nel senso spirituale del termine. La misericordia, del resto, è la prima azione con la quale Iddio si caratterizzò dopo la trasgressione e il conseguente giudizio dei nostri progenitori in Eden, poiché leggiamo “Poi l’Eterno Dio fece ad Adamo e sua moglie delle tuniche di pelle, e li vestì” (Genesi 3.21): solo con quelle tuniche e non con le foglie di fico con le quali i nostri progenitori avevano cercato di coprirsi sarebbero stati in grado di affrontare la vita nuova che li attendeva al di là di quel giardino protetto da qualsiasi contaminazione. Dio non inferì, non chiuse i rapporti con la sua creatura, ma si preoccupò di fornirle un abito che potesse proteggerlo nel nuovo mondo in cui andava ad abitare. Inoltre, continuò a comunicare con loro nonostante il peccato, per quanto non come prima, come deduciamo dal fatto che dimostrava di gradivre le offerte di Abele e non quelle di Caino.

La dichiarazione della beatitudine per i mansueti era ed è però rivolta a uomini particolari che anteponevano la misericordia al sacrificio. Guardiamo brevemente le queste parole: “Seminate per voi secondo giustizia e mietete secondo misericordia; dissodatevi un campo nuovo, perché è tempo di cercare il Signore finché Egli venga e diffonda su di voi la giustizia” (…) “Preparate le parole da dire, tornate al Signore e ditegli «Togli ogni iniquità. Accetta ciò che è bene: non offerta di tori immolati, ma la lode dalle nostre labbra»” (Osea 10.12; 14.3). Tanto le parole di Osea che quelle di Gesù erano rivolte a uomini che vivevano ancora l’Antico Patto, ma vediamo espressi dei concetti molto importanti e che si raccordano tra loro: il popolo viene esortato a seminare “secondo giustizia”, cioè mettere le basi per una condotta nuova che non cercasse più la facilità dello sviare dal cammino preparato per loro e mietere “secondo misericordia”, cioè con la disposizione d’animo dell’umile che ringrazia per l’esaudimento e non quella dell’orgoglioso perché “ha fatto un buon lavoro” e raccoglie il frutto delle sue fatiche perché se lo merita. È l’orgoglio che pretende, non l’umiltà.

C’è poi l’invito a dissodarsi “un campo nuovo”, cioè se stessi, la propria anima paragonata a un campo – vedi la parabola dei terreni, da quello arido a quello che porta frutto – che va dissodato. Se un terreno va dissodato è segno che non è mai stato interessato da un uso agricolo oppure è rimasto incolto per molti anni. Dissodare un terreno è un’azione che passa attraverso varie fasi: prima va ripulito disboscandolo e decespugliandolo – attività faticosa – e poi bisogna rompere la compattezza del suolo anche in profondità per metterlo in condizione di fare attecchire le nuove coltivazioni. Questo tipo di lavoro è necessario “perché è tempo di cercare il Signore finché Egli venga e diffonda su di voi la giustizia”, cioè quella vera, quella che non si ha per natura. Il secondo verso poi, con le parole “Preparate le parole da dire” non vuole consigliare l’ipocrita costruzione di un discorso da fare, ma un esame sincero della propria coscienza, delle cose dette e non dette, fatte e non fatte, è un consiglio perché “tornate al Signore” è l’unica possibilità che gli uomini hanno per poter sussistere come persone, come esseri bisognosi di una dignità che altrimenti non potrebbe concretarsi.

La preghiera è “Togli ogni iniquità”: solo Lui lo può fare, agire, togliere. E in quell’ ”ogni” c’è tutto il nostro limite perché spesso non vediamo il nostro peccato, come quello commesso per ignoranza. Ricordiamo le parole della Legge: “Se uno pecca e, senza rendersene conto, commette qualunque cosa che l’Eterno Dio ha vietato di fare, è ugualmente colpevole e ne porta la pena” (Levitico 5.17).

Ecco allora che non gli uomini di allora, non noi, siamo quelli che ci possiamo l’autoassolvere: questo è impensabile, la colpa resta e ce la si porta dietro a meno che Dio stesso intervenga per toglierla. E “Ogni iniquità” si riferisce proprio alla Sua misericordia e onnipotenza. Infine la preghiera dell’accettare “ciò che è bene” esclude la formalità del sacrificio, ma richiede la lode delle labbra come frutto di un cuore rinnovato. Conosciamo il detto “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me”che Gesù disse un giorno,manon si pensa che il verso che cita prosegue con“…e il timore che ha di me non è altro che un comandamento imparato dagli uomini” (Isaia 29.13): non è altro che un comandamento, quindi una tradizione, un’abitudine che va avanti per forza di inerzia, qualcosa di accettato passivamente, perché così si deve fare, ma la cui ragione non è stata assimilata. Se nei radunamenti delle varie Chiese cristiane se pensasse a questo verso, forse sorgerebbero degli interrogativi sui motivi della presenza in esse. L’abitudine porta alla disgregazione del proprio essere, in tutti i campi. Non può esserci avvicinamento dell’uomo a Dio senza una demolizione dei preconcetti e dei metodi che ne hanno contrassegnato l’esistenza.

Abbiamo citato poco fa Abele e Caino; guardiamo le parole che Dio rivolse al futuro fratricida: “Perché tu sei irritato e il tuo volto è abbattuto? Se fai bene, non sarai tu accettato? Ma se fai il male, il peccato sta spiandoti alla porta e i suoi desideri sono rivolti a te. Ma tu, devi dominarlo” (Genesi 4.6,7). Ecco, Caino era stato invitato con una semplicità e una verità disarmanti, a esaminare ciò che gli impediva di essere come Abele. Gli sarebbe bastato poco per cambiare, ma non volle.

Dissodarsi un campo nuovo, quindi, vuol dire distruggere tutto ciò che abbiamo di inutile, che non serve, che non possiamo portare con noi quando verremo chiamati attraverso la morte o quella trasformazione vista nel “batter d’occhio” di cui si parla in 1 Corinti 15.52. E in questo lavoro non saremmo mai lasciati soli.

Per dissodare un campo, nello specifico noi stessi, ci vuole tempo, bisogna capire profondamente le ragioni e la necessità di farlo, si tratta di agire nel proprio interesse perché “Il misericordioso fa bene a se stesso, ma il crudele tormenta la sua stessa carne” (Proverbi 11.17). Tutto ritorna indietro, tutto viene messo in conto di giustizia o di condanna a tal punto che “Chi ha pietà del povero presta all’Eterno, che gli contraccambierà ciò che egli ha dato” (Proverbi 19.17) ed ecco perché Gesù disse “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, lo avete fatto a me” (Matteo 25.31). Tanto nel bene quanto nel male, attenzione! La sintesi assoluta del discorso giunge poi con l’imperativo “Siate misericordiosi come misericordioso è il Padre vostro”, parole riportate in Luca 6.36 nella sua versione dello stesso sermone sul monte.

A questo punto, dopo aver dato una panoramica generale che credo possa portare a diverse riflessioni personali, scendiamo un po’ più sul concreto, sul concetto già espresso nell’introduzione alle beatitudini che rappresentano il contrario di quello che il mondo spesso ritiene, tendendo ad ammirare chi ha costruito imperi versando sangue innocente e dolore in ogni epoca. Possiamo dire che, nelle beatitudini dichiarate da Gesù ci siano gli esatti contrari di quelle sataniche e che con la frase “…perché troveranno misericordia” viene anticipato ciò che il misericordioso troverà un giorno quando si troverà di fronte a Lui. E qui si apre un mondo di possibilità e di riferimenti tanto per il Suo uditorio di allora quanto per quello di oggi: i misericordiosi la troveranno perché “Se voi perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi; ma se non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe” (Matteo 6.14,15). Un perdono che non si può generalizzare, ma che può venire solo di fronte al pentimento della persona che ha offeso con parole o atti. “State attenti a voi stessi! Se un tuo fratello pecca, rimproveralo, ma se si pente, perdonagli. E se pecca sette volte al giorno contro di te e sette volte ti dice «Mi pento», tu gli perdonerai”  (Luca 17.3,4).

C’è un confine tra la misericordia e la debolezza esattamente come l’essere mite o mansueto: sono caratteristiche, qualità, che non possono essere a senso unico, che non possono manifestarsi, contrassegnare l’individuo “a prescindere” perché altrimenti Dio stesso, che misericordioso lo è, non potrebbe essere il Giudice perfetto, che per l’ebraico è sia l’amministrazione del giudizio obiettivo e imparziale, ma include anche il provvedere a, difendere e punire. In altri termini, la misericordia non può venire data sempre e comunque, ma richiede il pentimento perché si possa innescare.

Parole illuminanti sulla differenza tra uomini e uomini le troviamo in due episodi nei Vangeli; le prime sono riferite a quanti seguivano Gesù: “Sceso dalla barca, vide una grande folla ed ebbe compassione di loro perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise ad insegnare loro molte cose” (Marco 6.34). Erano lì, non sapevano e non avevano nulla al di fuori della loro ignoranza. Bisognosi di tutto, di sapere, di conoscere, di avere un’identità, chi li guidasse perché la pecora, senza un pastore che la guidi e se ne prenda cura, è inevitabile che vada nel pericolo. Ma erano disposti ad ascoltarlo. Per gli scribi i farisei e il popolo a lui contrario disse però “Serpenti, razza di vipere, come potrete sfuggire alla condanna della Geènna? Perciò ecco, io mando a voi profeti, sapienti e scribi: di questi, alcuni li ucciderete e crocifiggerete, altri li flagellerete nelle vostre sinagoghe e li perseguiterete di città in città;perché ricada su di voi tutto il sangue innocente versato sulla terra, dal sangue di Abele il giusto fino al sangue di Zaccaria, figlio di Barachia, che avete ucciso tra il santuario e l’altare. In verità io vi dico: tutte queste cose ricadranno su questa generazione”.(Matteo 23.33-36).

Dio, pur volendo che tutti gli uomini siano salvati, non si rivela a tutti, ma a un tipo di persone di indole – non di merito – precisa: “Con l’uomo buono tu sei buono, con l’uomo integro tu sei integro, con l’uomo puro tu sei puro e dal perverso non ti fai ingannare” (2 Samuele 22.26,27) e “il giudizio sarà senza misericordia contro chi non avrà avuto misericordia” (Giacomo 2.13). Perché? Perché chi è privo di pietà prende posizioni opposte a quelle del Creatore che si è rivelato come misericordioso attraverso i secoli a tal punto da dare il Figlio Unigenito “affinché chiunque creda in lui non perisca, ma abbia vita eterna”.

I requisiti della quinta beatitudine si possono acquisire poi non con la pratica, cioè con lo sforzo, ma con l’acquisizione e la sperimentazione di quanto Dio ha fatto e fa con noi, con il confronto personale con Lui, chiamati come siamo a non guardare gli errori degli altri, ma i nostri prima di tutto, come rileviamo dall’insegnamento della pagliuzza e della trave nell’occhio. Chi guarda agli errori e ai peccati altrui, è persona che spesso ha paura di esaminare i propri, si rifugia spesso nell’integralismo, figlio prediletto dell’ignoranza, e tende a prendere posizioni estreme che altro non possono fare se non generare contese e risentimento. Così scrive l’apostolo Paolo agli Efesi: ““Sia rimossa da voi ogni amarezza, ira, cruccio, tumulto e maldicenza con ogni malizia. Siate invece benigni e misericordiosi gli uni verso gli altri, perdonandovi a vicenda, come anche Dio vi ha perdonato in Cristo” (4.32).

Abbiamo citato l’apostolo Paolo: l’intervento di Dio verso di lui fu a dir poco sorprendente perché era un persecutore della Chiesa ed era consenziente alla lapidazione di Stefano e quindi, se lo possiamo definire versato nella Legge (era fariseo), certo qualificarlo come misericordioso è quanto meno azzardato. Eppure fu chiamato direttamente in visione da Gesù e più volte nelle sue lettere parla del suo passato riconoscendo i propri errori. In 1 Timoteo 1.12-17 leggiamo la sua esperienza di uomo trasformato dall’amore di Cristo: “Rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me,che prima ero un bestemmiatore, un persecutoree un violento. Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo per ignoranza, lontano dalla fede, e così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù. Questa parola è degna di fede e di essere accolta da tutti: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io. Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Cristo Gesù ha voluto in me, per primo, dimostrare tutta quanta la sua magnanimità, e io fossi di esempio a quelli che avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna. Al Re dei secoli, incorruttibile, invisibile e unico Dio, onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen”.

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5.04 – LE BEATITUDINI 3: I MITI (Matteo 5.3-10)

5.4 – Il sermone sul monte : le beatitudini III (Matteo 5.3-10)

3«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. 4Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. 5Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. 6Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. 7Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. 8Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. 9Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. 10Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli”.

BEATI I MITI

Terza beatitudine cronologica, seconda riferita al futuro dopo gli afflitti, dove i “miti” sono tradotti anche con “mansueti”. Il termine è riferito a persone che hanno un carattere dolce e umano, disposto alla pazienza e all’indulgenza, che si comportano con umanità e clemenza, senza severità, durezza o aggressività. Il suo contrario è l’essere impaziente, inesorabile, intransigente, aggressivo, violento, eccessivo.

Nella Scrittura gli esempi che vengono spontanei sono due: Mosè, di cui in Numeri 12.3 è detto che “…era un uomo molto mansueto, più di qualunque altro sulla terra”, e Gesù, che dà di sé questa definizione: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò riposo. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mansueto ed umile di cuore, e darò riposo alle anime vostre” (Matteo 11.28,29). Sempre Matteo connette l’episodio in cui Gesù fece in suo ingresso in Gerusalemme seduto su un’asina allo scritto di Zaccaria 9.9 in cui si legge “Ecco, a te viene il tuo Re. Egli è giusto e vittorioso, mansueto, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina” e quando l’apostolo Paolo dovette trattare il tema dei requisiti del vescovo di una Chiesa, cioè chi ne è responsabile – non può non venire in mente l’Angelo delle sette chiese dell’Apocalisse – ebbe a dire “Ora questa parola è sicura: se uno desidera l’ufficio di vescovo, desidera un buon lavoro. Bisogna dunque che il vescovo sia irreprensibile, marito di una sola moglie, sobrio, assennato, prudente, ospitale, atto ad insegnare, non dedito al vino, non violento, non avaro, ma sia mite, non litigioso, non amante del denaro” (1 Timoteo 3.1-3).

Va detto, dai passi citati, che il mansueto, il mite, è tale per indole ma rappresenta solo una parte della personalità e se fosse presente come caratteristica esclusiva, farebbe dell’individuo una persona debole e priva di possibilità di reazione o difesa. Mosè abbiamo letto che era l’uomo più mansueto di chiunque altro, eppure uccise un egiziano che colpiva un ebreo, evidentemente perché non aveva altro modo per farlo smettere e quelle percosse ne avrebbero causato la morte (Esodo 2.11,12). Va ricordato che tra ebrei ed egiziani c’era un rapporto schiavo – padrone e da parte dei primi non c’era alcuna possibilità di reagire pena punizioni ancora più dure. Per questo, dopo averlo ucciso ed evitare conseguenze, Mosè seppellì quell’uomo nella sabbia. Gesù era mansueto ed umile, ma non si lasciava intimidire dagli Scribi e dai Farisei che lo attaccavano, e cacciò i mercanti dal Tempio anche se non a frustate come molti sostengono. Anche il Suo ingresso in Gerusalemme non avvenne a cavallo, animale possente e sempre associato alla guerra, ai re o principi potenti e gonfi d’orgoglio, ma su un asino, la cavalcatura dei profeti, animale forte, paziente, controllato, mite e socievole. La mansuetudine è pazienza nel sopportare, ma non è cessione dei diritti o vigliaccheria come purtroppo viene scambiata nel mondo che divide le persone nelle categorie di chi subisce o fa subire, ammirando spesso i secondi.

L’apostolo Paolo scrive in Efesi 4.25,26 “Perciò, messa da parte la menzogna, ciascuno dica la verità al suo prossimo, perché siamo membra gli uni degli altri. Adiratevi e non peccate perché il sole non tramonti sopra il vostro cruccio. E non date spazio al diavolo” e nello stesso sermone sul monte, nel passo tradotto “Chiunque si adira contro il suo fratello sarà sottoposto al giudizio” (Matteo 5.22), molti preferiscono ignorare quei manoscritti che specificano “senza ragione”, travisando in questo modo la vera essenza della mansuetudine che non può essere l’unica caratteristica della persona “beata”. È la prevenzione e il controllo di sé che è raccomandato, ma ciò non toglie che vi siano occasioni in cui questa possa avere luogo: “Adiratevi e non peccate”, cioè non eccedete, non comportatevi in modo tale da infierire vendicandovi perché nessun sentimento che possa portare a una condizione di ostilità nei confronti del prossimo può essere coltivato. Già nei tempi antichi era raccomandato “Non ti associare a un collerico e non praticare un uomo iracondo, per non abituarti alle sue maniere e procurarti una trappola per la tua vita” (Proverbi 22.24,25). Anche qui la traduzione, che ho scelto perché più scorrevole in italiano, non rispecchia fedelmente il testo che riporta “…e procurarti un laccio per la tua anima” cioè qualcosa di fortemente penalizzante: il laccio è qualcosa che lega, intrappola, impedisce i movimenti, tiene fermo chi ne viene intrappolato, vincola a un luogo, in questo caso dell’anima. Già la cosiddetta saggezza popolare che ha coniato l’adagio “chi va con lo zoppo impara a zoppicare” aveva capito che una persona normale potesse venire deviata dagli usi altrui e non per nulla il popolo di Israele, entrato in Canaan, non poteva stringere alleanze con gli altri popoli, anzi: “Quando il Signore Iddio tuo ti avrà introdotto nel paese che vai a prendere in possesso e ne avrà scacciate davanti a te molte nazioni,(…)sette nazioni più grandi e più potenti di te, quando il Signore tuo Dio le avrà messe in tuo potere e tu le avrai sconfitte, tu le voterai allo sterminio, non farai con esse alleanza né farai loro grazia. Non ti imparenterai con loro, non darai le tue figlie ai loro figli e non prenderai le loro figlie per i tuoi figli, perché allontanerebbero i tuoi figli dal seguire me, per farti servire a dèi stranieri e l’ira del Signore si accenderebbe contro di voi e ben presto vi distruggerebbe” (Deuteronomio 7.1-4). È un passo indubbiamente forte, riferito ad altri tempi e per un popolo per il quale la testimonianza sarebbe stata fondamentale a tal punto da giustificare uno sterminio per evitare la perdita di un popolo eletto della propria identità. Un popolo che si fa strumento del giudizio insindacabile di Dio. Soprattutto, Israele avrebbe finito per assorbire una cultura estranea che lo avrebbe corrotto, spingendolo all’adorazione di dèi non veri.

Ci sono persone che leggono questo passo e restano inorridite, c’è chi ha scritto articoli e libri sulle “atrocità della Bibbia”, ma si dimentica che il valore della vita umana risiede nella misura in cui questa si rapporta con Dio e lo cerca, non sull’adagio “ogni uomo è mio fratello”, frutto di un equivoco tra chi è uomo e pone la propria sopravvivenza fisica al centro di ogni sua azione – spesso prevaricante sugli altri – e chi è tale perché ha fondato il suo esistere sull’amore e la dipendenza da Dio. Certo la questione è molto più ampia e non credo possa essere affrontata in questa sede.

Mi piace ricordare ancora una volta le parole dell’apostolo Pietro che riconobbe in Gesù “il Figlio dell’Iddio vivente”: un Dio che vive, non immaginato e creato dall’uomo come quello dei sette popoli citati nel passo che abbiamo letto prima. Credo che questa distinzione sia estremamente importante. È molto bello vedere come Pietro, in seguito, dette prova di aver compreso la profondità delle verità dettegli dal suo Maestro, scrivendo due lettere dense di significati e dottrina alle quali sicuramente non sarebbe arrivato senza l’assistenza dello Spirito Santo.

Tornando al nostro tema, il mansueto, il mite, è la persona che più di altre può imparare da Lui, “mansueto ed umile di cuore,” là dove l’imparare è rinunciare a se stessi per provare  quel “giogo” definito “dolce” e il suo carico “leggero”: perché? Il giogo è uno strumento per attaccare i buoi usati come bestie da tiro ed è diventato sinonimo di un dominio oppressivo spesso di un re o di una popolazione su un’altra. Ebbene, Gesù riferendosi agli animali da tiro definisce il suo giogo “dolce” e il suo carico di trasporto “leggero”. Con il possessivo “mio”, poi, dichiara implicitamente che ne esiste un altro e che non ci può essere uomo che non ne sia soggetto: non può esservi giogo alternativo a quello di Gesù che non venga dall’Avversario. E con l’aggettivo “leggero” viene posto l’accento sulla sostanza delle cose, sul fine delle azioni e delle scelte che siamo chiamati a fare in nome di quell’eredità che ci è stata promessa e a cui ogni cristiano tende. Anche qui non si tratta di aderire a una religione per essere qualcuno, per avere un’identità: la vera Chiesa non è un’associazione di volontariato, un circolo più o meno privato, ma un insieme, un corpo di persone diverse per carattere e provenienza storica e sociale che ha compiuto una scelta perché ha aderito a un invito e si ritrova perché unita da un vincolo di fratellanza, salvati dall’amore di Cristo.

Avere su di sé il gioco dell’Avversario significa dipendere in tutto e per tutto dalla casualità della vita, dai propri bisogni, dalla schiavitù della terra intesa come il suolo che ci àncora ad essa senza possibilità di una vera realizzazione ed appagamento spirituale. Ecco perché il “giogo” di Cristo e il carico da portare sono leggeri. E questo ci porta ad estendere il termine di “mansueto” e “mite” perché tendiamo a dimenticare che le caratteristiche esteriori di una persona, quanto al presentarsi agli altri, hanno in realtà radici ben più profonde: il mansueto è una persona interiormente disponibile non solo agli altri, ma nei confronti di tutti quegli “input” che gli vengono dalla Scrittura, trova la sua realizzazione di fronte a quanto scopre, o gli viene rivelato, dalla Parola di Dio. Esiste connessione tra la mansuetudine e la carità che “è magnanima, benevole. Non è invidiosa. Non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede– della Parola di Dio – tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno, il dono delle lingue cesserà e la conoscenza svanirà. Infatti in modo imperfetto noi conosciamo e in modo imperfetto profetizziamo. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà” (1 Corinti 13. 4-9).

Ecco, credo che questi versi di Paolo siano un ottimo raccordo all’enunciazione di Gesù “Beati i mansueti”, parole dette a persone che già le conoscevano, se non tutti alcuni di loro, perché scritte da Davide nei suoi Salmi e i punti di connessione sono due: il primo in 25.9 “Egli guiderà i mansueti nella giustizia e insegnerà la sua via agli uomini” (25.9) ed il secondo in 37.10,11 “Ancora un po’ e l’empio non sarà più; sì, tu cercherai attentamente il suo posto e non ci sarà più. Ma i mansueti possederanno la terra e godranno di una grande pace”.

Ancora un po’”, è un’ espressione che indica sia un tempo generico, sia preciso, assoluto, quello che Dio ha decretato e che viene ricordato alla moltitudine dei Santi in Apocalisse 6.9-11: “Quando l’Agnello aprì il quinto sigillo, vidi un altare sotto cui stavano le anime di quelli che erano stati uccisi per la loro fedeltà alla Parola di Dio e per la loro testimonianza. Essi chiamavano il Signore a gran voce e dicevano «Fino a quando, o Sovrano vero e santo, aspetterai a giudicare gli abitanti della terra per quello che ci hanno fatto?» Quando chiederai loro conto del nostro sangue?». Ad ognuno di loro fu data una veste bianca e fu detto di aspettare ancora un po’ di tempo, finché non fosse completo il numero dei loro compagni di fede, cioè dei loro fratelli che dovevano essere messi a morte come loro”.

Questi versi testimoniano la differenza del concetto del tempo posseduto dagli uomini e quello di Dio, per cui “un giorno è come mille anni e mille anni sono come un giorno” (2 Pietro 3.8): se ci fossero stati dei “mansueti”, si sarebbero riconosciuti nella Sua promessa: avrebbero ereditato la terra, non quella corrotta del peccato, ma quella a venire. Ed è sempre Pietro a proseguire: “Il Signore non ritarda a compiere la sua promessa: alcuni pensano che sia in ritardo– perché prendevano alla lettera quell’ancora un po’ e credevano che il tempo fosse “vicino” usando i loro parametri umani -, ma non è vero. Piuttosto egli è paziente con voi, perché vuole che nessuno di voi si perda e che tutti abbiano modo di pentirsi” (v. 9).

Riassumendo abbiamo quindi:

  1. “Beati i poveri di spirito, perché di essi è il Regno dei cieli” (perché “il Regno dei cieli è vicino”, ma anche “dentro di voi”;
  2. Beati quelli che fanno cordoglio, perché saranno consolati” (prima beatitudine del primo gruppo di tre riferito alla condizione e al futuro)
  3. Beati i mansueti, perché erediteranno la terra(prima beatitudine del secondo gruppo di tre riferito allo spirito che caratterizza la persona e al futuro).

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5.03 – LE BEATITUDINI 2: QUELLI CHE SONO NEL PIANTO (Matteo 5.3-10)

5.3 – Il sermone sul monte : le beatitudini II (Matteo 5.3-10)

3«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. 4Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati.5Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. 6Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. 7Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. 8Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. 9Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. 10Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli”.

Prima di esaminare la seconda beatitudine occorre una brevissima premessa: stiamo leggendo un testo che riporta le parole di Gesù che, in quel momento, sta parlando a tre categorie di persone: coloro che erano venuti per ascoltarlo e farsi guarire, in gran parte israeliti, i discepoli, in numero ben maggiore rispetto ai dodici che conosciamo, e sicuramente qualche pagano, probabilmente rientrante in quei tanti provenienti dal “litorale di Tiro e Sidone” ebrei e pagani. Ricordiamo le parole di Luca già citate la volta scorsa: “C’era una gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e Sidone che erano venuti per ascoltarlo ed essere guariti dalle loro malattie” (Luca 6.17,18).

Il sermone sul monte ha quindi una doppia possibilità di lettura: una per i presenti e l’altra per tutti coloro che sarebbero venuti dopo di loro e avrebbero preso costruttivamente atto delle Sue parole, quelli di cui parlò Gesù a Tommaso e agli altri quando disse “Tu hai creduto perché hai visto; beati quelli che, pur non avendo visto, crederanno” (Giovanni 20.28).

Pensiamo a chi era su quel monte: si trovava lì dopo aver faticato, percorso molti chilometri perché bisognoso di soddisfare chi la propria sete di parole di vita, chi la propria curiosità, chi perché confidava nel fatto di venire guarito, ma avendo una base culturale diversa dalla nostra che si basava sull’ascolto della Legge e dei Profeti commentati nella sinagoga. Dichiarando la prima beatitudine ai “Poveri in spirito perché di essi è il Regno dei cieli”, Gesù fece una prima distinzione tra coloro che si ritenevano già “ricchi”, e quindi non avevano bisogno di Lui, e i “poveri”, che avrebbero ottenuto la cittadinanza in un regno a loro riservato. Certamente con quella prima frase fu compreso immediatamente, mentre noi abbiamo bisogno di riflettere di più prima di capire, stante le molte interferenze che abbiamo dal nostro tempo, con le sue consuetudini, che inevitabilmente ci condiziona.

BEATI QUELLI CHE SONO NEL PIANTO

Ecco, questa è una traduzione che, se applicata a un testo normale sarebbe accettabile, ma non lo è altrettanto in quello di Matteo perché ci indirizza immediatamente a una manifestazione specifica del dolore, diversa da persona a persona, che più propriamente altri hanno tradotto con “gli afflitti”, o “coloro che sono nell’afflizione” o “che fanno cordoglio”. Per gli israeliti l’afflizione poteva essere certamente individuale, ma c’era un forte senso collettivo come popolo che attendeva il Messia, certo con aspettative diverse da come lui si sarebbe rivelato. Eppure non tutti attendevano un re potente, ma un consolatore. Vediamo ancora il passo di Isaia 61.1-3 che abbiamo citato la volta scorsa: “Lo Spirito del Signore è sopra di me, perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione per recare una buona novella– ecco il Vangelo – agli umili, mi ha inviato a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà agli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l’anno di grazia del Signore, il giorno di vendetta del nostro Dio, per consolare tutti gli afflitti, per dare agli afflitti di Sion una corona invece della cenere, olio di letizia invece di abito da lutto, veste di lode invece di uno spirito mesto”.

Ecco allora la beatitudine: era arrivato il consolatore e anche qui, per accoglierlo e realizzarla, era necessario riconoscere Colui che  era stato consacrato con l’unzione per annunciare il vangelo destinato, riservato agli umili, cioè tutti coloro che avrebbero riconosciuto la propria inferiorità “naturale” espressa nelle parole del Salmo ottavo “Quando io considero i tuoi cieli, opera delle tue dita; la luna e le stelle che tu hai disposte; che cos’è l’uomo, che tu ne abbia memoria? E il figlio dell’uomo, che tu ne prenda cura?”. Ricordiamo che il cielo che vedeva il salmista non era inquinato come oggi, per cui appariva in tutta la sua vastità. Vediamo, sempre nel verso di Isaia, il “fasciare le piaghe dei cuori spezzati”, di cui troviamo traccia nella parabola detta del “buon samaritano” in Luca 10. 25-37 che “Vide – l’uomo mal ridotto dai suoi assalitori, i briganti figura del peccato nelle sue multiformi oppressioni – e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite versandovi olio e vino, poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in albergo e si prese cura di lui”. “Vide” come tutti gli altri che passarono, il sacerdote e il levita, ma al contrario di loro “ne ebbe compassione”, attivandosi perché guarisse. Il Consolatore avrebbe proclamato la libertà agli schiavi, cioè a chi non era considerato nemmeno una persona, e la “scarcerazione” ai prigionieri, termine che può essere tradotto anche con “luce” perché chi era carcerato stava in grotte buie e malsane nella quale la luce non entrava mai. Ricordiamo la prima prigione menzionata dalla Bibbia in Genesi 37.23,24: “Quando Giuseppe fu arrivato presso i suoi fratelli, essi lo spogliarono della sua tunica, quella tunica con maniche lunghe che egli indossava, lo afferrarono e lo gettarono nella cisterna: era una cisterna vuota, senz’acqua”.

“Gli “afflitti di Sion”, coloro che aspettavano consci della loro condizione di schiavitù e per questo portavano la cenere sul capo in segno di penitenza e dolore, avrebbero ricevuto una corona, olio di letizia al posto dell’abito da lutto, cioè una sorta di sacco composto da pelli di capra e cammello, e veste di lode al posto di uno spirito mesto. Tutto questo stava per realizzarsi: beato chi si trovava in questa condizione perché la sua consolazione era giunta.

Possiamo dire che all’umile, al mansueto, all’afflitto e al povero di spirito non interessava avere un re potente che rovesciasse una situazione politica, ma la stabilità e la libertà interiore, ricevere la “buona notizia” che solo l’Emanuele “Dio con noi” poteva dare; quei miracoli che la folla aveva visto erano solo una pallida anticipazione di quello che sarebbe venuto dopo, con il possesso di un Regno che sarebbe stato “dei cieli” e non “della terra” il cui principato è lasciato a Satana. Un altro regno per gente diversa, che sa e si trova mancante nel proprio intimo, che ha bisogno non di un dio, ma di Dio e lo aspetta pronta a riconoscerlo.

Saranno consolati” è poi un termine ampio. C’è la consolazione che si prova nel momento in cui avviene l’incontro con Dio e l’accettazione di appartenergli come figlio, e c’è quella quotidiana, continua, perché nonostante una parte del cristianesimo voglia vedere il credente come perennemente guidato dallo Spirito e quindi in una condizione di continua letizia vista nell’espressione “pace nel cuore”, in realtà è soggetto come tutti gli altri uomini al dolore fisico e morale, al quale si aggiunge quello spirituale, in particolare al conflitto tra la propria natura sempre disposta a cedere alle tentazioni che variano a seconda della propria personalità, e all’astenersene.

Va sottolineato che, se il cammino cristiano fosse semplice, non sarebbe paragonato all’opposto di quella via “larga e spaziosa” che conduce alla perdizione. Ecco perché del Consolatore abbiamo bisogno sempre! Ciascuno di noi si scontra con la propria fragilità e il constatare quanto sia esteso il divario tra ciò che siamo e ciò che vorremmo-dovremmo essere, alla luce della perfezione che ci è richiesta, può a volte essere frustrante. È una perfezione ideale vista nella frase che Gesù dirà proprio in questo discorso sul monte: “Siate dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (v.48). Un cammino verso la perfezione è l’attivazione delle nostre forze per tendere ad essa, il curare noi stessi sapendo che non siamo lasciati soli perché, appunto, c’è un Consolatore che veglia su di noi.

Ecco allora che iniziamo a delineare la figura dell’afflitto del nostro tempo, che poi è quello di tutti coloro che sono vissuti prima di noi da quando lo Spirito Santo è stato dato ai membri della Chiesa di Gerusalemme, destinati ad incontrare ostacoli spirituali di ogni tipo proprio a causa della loro natura umana: “Siate sobri, vegliate. Il vostro nemico, il diavolo, come un leone ruggente va in giro cercando chi divorare. Resistetegli saldi nella fede, sapendo che le medesime sofferenze sono imposte ai vostri fratelli sparsi per il mondo” (1 Pietro 5.8,9).

Attenzione però a vedere queste parole e a vivere il concetto dell’afflitto con fatalità filosofica, guardando a questa condizione come se fosse stabile, perché Pietro continua dicendo “E il Dio di ogni grazia, il quale vi ha chiamati alla sua gloria eterna in Cristo Gesù, egli stesso, dopo che avrete un poco sofferto, vi ristabilirà, vi confermerà, vi rafforzerà, vi darà solide fondamenta” (v.10). È un ricordo, un’esortazione a vivere tenendo presente la prospettiva che ogni cristiano dovrebbe conoscere. E qui ci troviamo di fronte alla vera consolazione, così diversa dal conforto che un uomo può dare al proprio simile, momentaneo: quando finisce lascia la persona nella stessa condizione di prima. “Consolare” implica eliminare radicalmente il problema che causa l’afflizione, un cambiamento di stato, non ci può essere cristiano che non testimoni questa azione di Gesù Cristo nella propria vita, di questa sua opera continua nonostante i propri sbagli, il suo cammino a volte incerto.

Se Gesù si indirizza all’afflitto, significa che c’è chi non lo è, o meglio affronta il dolore in modo sbagliato escludendo Lui che desidera chinarsi per soccorrere (vedi la suocera di Pietro) e lo fa, nel caso del sermone sul monte, proprio dopo aver guarito e liberato persone da infermità e malattie sottolineando che, al ristabilimento del corpo a lungo desiderato, avrebbe fatto seguito quello dell’anima.

Ci chiediamo: di fronte a un dolore, si può solo aspettare che passi? Ci si può solo rassegnare, rinchiudere in uno stoicismo assoluto che indurisce? È una possibilità, un’alternativa che però non porta da nessuna parte perché esclude Cristo dalla nostra vita, quando questo è un mezzo per arrivare a lui o provare il suo sostegno lungo il cammino.

Ricordo le parole di un fratello a proposito di un bambino appena nato: “conoscerà il dolore e si chiederà perché”. Ecco, il perché è nella vita stessa nel senso che occorre accettarlo, non rifiutarlo come se non ci appartenesse. Va accolto, vissuto e posseduto ma, se questo lo faremo da soli, ci tormenterà senza uno scopo, non risolverà in consolazione, ma finirà eventualmente in un archivio disturbante, pronto ad emergere nei momenti più impensati; se sarà un mezzo per arrivare a Cristo, ecco che questo avrà una consolazione, l’unica possibile perché ciò che attende l’afflitto non è un incontro con un generico essere superiore che nella sua magnanimità assoluta risponderà a una preghiera, ma prima di tutto con la Parola fatta carne che, in quanto uomo, ha patito al di là del sopportabile conoscendo fatica e sofferenza in modo perfetto e totale. Ricordiamo quello che scrive l’autore della lettera agli Ebrei: “Perciò doveva rendersi in tutto simile ai fratelli, per diventare un Sommo Sacerdote misericordioso e degno di fede nelle cose che riguardano Dio, allo scopo di espiare i peccati del popolo. Infatti, proprio per essere stato messo alla prova e avere sofferto personalmente, egli è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova” (2.17,18).

Gesù Cristo è quindi “in grado” prima di tutto non perché è onnipotente, ma per essere stato “messo alla prova e avere sofferto personalmente”. Lui tutt’uno col Padre, Unico, perfetto e totale intercessore che abbiamo, benedetto in eterno. Amen.

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5.02 – LE BEATITUDINI 1. I POVERI IN SPIRITO (Matteo 5.3-10)

5.2 – Il sermone sul monte : le beatitudini 1 (Matteo 5.3-10)

3«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. 4Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. 5Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. 6Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. 7Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. 8Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. 9Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. 10Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli”.

 BEATI I POVERI IN SPIRITO

Poveri in spirito” o “di spirito” sono le traduzioni dall’originale “per lo spirito” ed è opinione di alcuni che la precisazione sul tipo di povertà sia stato un inserimento nel testo greco fatta da un ignoto traduttore dall’aramaico per rendere più compiuto e distinguibile il senso delle parole di Gesù. Va detto però che orientarsi sulle origini del testo di Matteo non è facile: opinione diffusa è che sia stato scritto in aramaico e poi tradotto, basandosi sulle parole di Papia vescovo di Ierapoli nel 130 che scrisse “Matteo raccolse quindi i detti nella lingua degli ebrei, traducendoli ognuno come poteva”. In base agli studi che si intraprendono e quali testi si consultano le opinioni in proposito sono differenti anche sulla data e su chi materialmente abbia compilato il suo Vangelo. Fatto sta che Luca scrive “Beati i poveri” senza specificare altro, ma se prendessimo questa a condizione a senso unico rischieremmo di rendere l’essere poveri materialmente la sola condizione possibile per poter realizzare questa beatitudine. La precisazione che troviamo in Matteo è quindi fondamentale per la tipologia delle persone cui si riferisce.

Parlando di povertà in senso letterale, oggi è suddivisa in assoluta e relativa: la prima è riferita all’estrema difficoltà della sopravvivenza, vale a dire che la vita di chi versa in tale condizione è tale da metterlo in pericolo: non ha da mangiare, non è in grado di provvedere al proprio vestiario, non ha un alloggio, non ha dove lavarsi. Questo stato esclude il poter fruire di beni e/o servizi essenziali per la sopravvivenza. La povertà relativa è invece un parametro che esprime le difficoltà economiche nelle fruizione di beni e servizi in rapporto al livello economico medio di vita dell’ambiente o della nazione.

Soffermiamoci brevemente su questa condizione: chi è povero, assoluto o relativo, sa di esserlo, conosce le difficoltà che incontra e molto spesso ne è angosciato, soprattutto se si ritrova così dopo non aver conosciuto questo tipo di preoccupazioni, quindi aveva una vita tranquilla, normale o agiata e il caso dei molti imprenditori che si sono suicidati in Italia lo conferma. La mancanza di denaro per soddisfare le esigenze elementari o a che fanno da contorno all’esistenza è vissuta da molti come un fallimento e un’umiliazione anche di fronte a se stessi.

La condizione di povertà spirituale, invece, è molto più subdola da ammettere perché si riferisce all’interiorità dell’essere umano. C’è un senso di vuoto, connesso alla “carne” che si cerca di riempire in tutti i modi andando a sopperire i deficit interni e la religione, intesa come pratica che lo riempia, può aiutare a tal punto da essere definita come “l’oppio dei popoli”. Così accade che, praticandola anche nel cristianesimo, l’uomo si senta appagato e perciò si ritenga ricco esattamente come l’angelo (e i componenti) della Chiesa di Laodicea che dice “Io sono ricco, mi sono arricchito e non ho bisogno di nulla” (Apocalisse 3.17).

Il povero materiale è distinguibile e soprattutto sa di esserlo ma il povero in spirito, se non è onesto con se stesso, può mascherarsi, è disposto inconsapevolmente a tutto pur di sentirsi ricco davanti a sé e poi pur di apparirlo di fronte agli altri. Chi è “ricco in spirito” lo è perché così si è voluto definire, ha cercato quest’autodeterminazione e gli esempi nella scrittura sono tanti, primo fra tutti quel fariseo che pregava nel Tempio, ringraziando Dio di non essere come gli altri uomini perché digiunava due volte alla settimana e pagava le decime su quanto possedeva. Il cosiddetto “ricco in spirito” non ha bisogno di nulla, basta a se stesso, è convinto di essere sano e da qui le parole di Nostro Signore “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati”. Il fariseo che abbiamo citato pregava in piedi, il pubblicano stava “a distanza”, in solitudine, è scritto che “non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo”, cioè verso quel luogo da lui incommensurabilmente così distante.

Ecco, qui abbiamo in modo perfettamente reale due atteggiamenti: uno è “ricco”, l’altro è “povero”. Uno ha rimediato coi suoi mezzi alla propria povertà, diventandolo così ancora di più, l’altro ne è conscio e sa di avere nella preghiera di perdono l’unico rimedio a disposizione: “O Dio, sii placato verso di me, peccatore”. Ecco allora che solo chi sa di essere povero di spirito, cioè di non avere mezzi per la sua sopravvivenza spirituale, è beato: dipende da Dio in tutto e per tutto, ammette di avere dentro di sé quella fame che non può soddisfarsi in altro modo se non accettandoLo accogliendoLo dentro di lui.

Il sapere nel profondo di essere dei “Poveri in spirito”, cioè il riconoscersi tali perché si sa o si è sperimentato che le alternative e gli atteggiamenti che la vita può offrire non sono sufficienti né possono garantire stabilità, è il primo passo per il “Regno dei cieli” perché questi poveri lo cercheranno e lo troveranno. Al “ricco in spirito” interessa star bene godendo delle cose effimere che ha a disposizione, al “povero” non interessa la sopravvivenza apparente, qualcosa di generico in cui credere, una ricchezza secondo il mondo o una stabilità incerta, ma sarà attento a come porre rimedio alla sua condizione: non cercherà la compagnia delle persone per sentirsi meno solo, non aderirà a correnti politiche o filosofiche perché dovrà dimostrare a se stesso e agli altri di avere bisogno di qualcosa o di qualcuno a cui credere. Se mai, questi saranno dei passaggi per sperimentare, ma non trovando ciò che realmente cerca, finirà per arrivare a Gesù Cristo perché la sua povertà cessi definitivamente.

Il vero cristiano quindi porta in sé questo dualismo, quello della povertà assoluta quando porta avanti sé stesso, quello della ricchezza quando vive in compagnia di Dio, amandolo. Una ricchezza che non possiede. La parabola dell’uomo ricco di Luca 12.16,21 ci presenta un possidente che aveva avuto un raccolto ottimale dalla sua campagna e progettava una vita esente da preoccupazioni, ma si sentì dire “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?” Notiamo il commento di Gesù: “Così è di chi accumula tesori per sé, e non arricchisce davanti a Dio”.

C’è quindi un cammino da fare, e il riconoscersi poveri nel profondo è la condizione indispensabile per arricchire dentro, come abbiamo letto, “davanti – o “in” a seconda della traduzione – a Dio”; sono due mondi diversi, opposti, per la vita che conta, quella eterna. Chi crede, nel vero senso della parola, non lo fa perché ha bisogno di una religione, ma per diventare e conoscere cose che sa essere irraggiungibile senza una grazia, una rivelazione. Cercherà le promesse per lui e sperimenterà su di sé la loro realizzazione, altrimenti la propria vita non avrebbe scopo. Ricordiamo le parole di Pietro “Signore, a chi ce ne andremmo noi? Tu solo hai parole di vita eterna”: quest’uomo aveva sperimentato la quotidianità della vita, aveva un lavoro, una moglie. Aveva ascoltato da chissà quanto tempo i rabbini nelle sinagoghe e poi Giovanni Battista che preparava il popolo alla venuta di Gesù, ma nessuna di queste cose lo aveva mai arricchito, placato la sua sete interiore, quella di spirito. Pietro sapeva che le uniche parole da ascoltare, per la prospettiva futura che gli venivano garantite, erano quelle di Colui che un giorno lo aveva chiamato con gli altri discepoli e poi lo aveva reso apostolo.

La beatitudine dei poveri in spirito è quindi la descrizione di una condizione base per essere accolti dal Padre ed equivale al senso di sete spirituale che alcuni avvertivano quando Gesù, alzandosi in piedi, gridò “Se qualcuno ha sete, venga a me e beva” (Giovanni 7.37). Non era venuto per vendere qualcosa, ma per dare gratuitamente e invitò gli apostoli a fare altrettanto con il suo “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”. Tutta la Scrittura, Antico e Nuovo patto, sono piene di passi che attestano sia l’attenzione che Dio dà ai poveri, anche quelli materiali, tenuti a cercarlo secondo Isaia 55,6,7 “mentre si trova”, a invocarlo “mentre è vicino”. Ricordiamo l’invito “venite e comprate senza denari e senza prezzo” perché la Grazia non può essere comprata avendo un valore inestimabile.

E possiamo citare anche parole di Isaia 1.18 “Su, venite e discutiamo insieme, dice il Signore. Anche se i vostri peccati fossero come lo scarlatto, diventeranno bianchi più che neve”. In questo passo rileviamo che è Dio a invitare l’uomo addirittura ponendosi sul loro stesso piano, non certo quello del peccato, ma dello Spirito che è nell’uomo, quel “soffio vitale” che inalò nelle narici di Adamo. Qui c’è un incontro tra il Santo e la creatura che certo così non è, anzi è invitata nel verso 16 a lavarsi, purificarsi, ad allontanare dai Suoi occhi il male delle loro azioni. Dio invita l’uomo a discutere assieme dando la Sua piena disponibilità al perdono con un intervento che nessun essere terreno sarebbe stato mai in grado di compiere, smacchiare lo scarlatto, cioè un rosso intenso e brillante, a tal punto da farlo diventare più bianco della neve. È l’impossibile che appartiene al Padre, alla trinità, a quel plurale che un giorno disse “Facciamo l’uomo”.

Dio, soprattutto nel tempo in cui la Grazia è aperta non convoca imperiosamente, ma invita a discutere con lui. Dichiara la propria benevolenza, ma non costringe a subirla. E, riferendoci a questi versi, non tutti cessarono di fare il male e non tutti andarono a Lui, consapevoli del valore di quell’invito, a discutere assieme. Oggi il verbo “discutere” è usato per indicare una lite, uno scontro acceso in cui ogni parte difende strenuamente le proprie posizioni, ma ciò solo perché si è perso il senso reale del termine che, al contrario, implica il trattare, esaminare un tema confrontando opinioni diverse, dialogare alla ricerca di una soluzione.

Beati i poveri in spirito” è allora un annuncio importante, una dichiarazione in base alla quale chi appartiene alla categoria dei poveri non è lasciato solo, ma può entrare a far parte di un piano che va oltre le sue aspettative. Infatti, “di loro è il Regno dei cieli”. “Di loro” e di nessun altro. Ecco perché questa beatitudine è al primo posto: esprime quello che potremmo definire un requisito base, quello di chi non ha nulla mentre gli altri pensano di avere chi molto, chi tutto. Il ricco sta bene in questo mondo a prescindere da quale sia la ricchezza su cui fonda la propria vita, il povero certamente soffre e non sa come porvi rimedio, è costantemente in bilico tra la realtà che vorrebbe cambiare e i mezzi che non ha. Ed è beato perché si trova nella sola condizione che gli può consentire l’accettazione di Cristo come proprio Salvatore e fornitore di quella cittadinanza eterna che il ricco certamente non può avere.

Le beatitudini che seguono (gli afflitti, i miti, quelli che hanno fame e sete di giustizia, i misericordiosi, i puri di cuore, gli operatori di giustizia e i perseguitati per – e non “da” – essa), sono tutte riferite alla conseguenza della povertà di spirito proprio alla luce di quanto abbiamo detto all’inizio: chi in questo mondo si trova a proprio agio, parla già di sé disprezzando chi appartiene a categorie diverse dalla sua perché già umanamente beato, possedendo non la “makaria”, ma l’”òlbia”, come abbiamo visto nel capitolo precedente.

Nostro Signore sappiamo che aveva da poco guarito tutti quelli che gli si erano presentati a lui: quei miracoli erano per tutti e per tutti erano quelle parole di vita perché non potevano esservi dei sordi tra loro – se c’erano, questo era prima di incontrarlo -, ma nel momento in cui iniziò a parlare disse “Beati i”, cioè “quanti tra voi si riconoscono nella mia descrizione”. Il resto del Vangelo, la “buona notizia” rivelata agli uomini, è proprio la ricchezza in Dio che il povero in spirito trova e che arriverà al culmine con il possesso di quel “Regno dei cieli”, o “Regno di Dio” concepito fin dalla creazione dell’universo. Possiamo concludere con le parole dell’apostolo Paolo in Efesi 1.3 “Benedetto sia Dio, Padre del Signor nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti di ogni benedizione spirituale nei luoghi celesti in Cristo”.

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4.03 – APOSTOLI 3 (Luca 6.12-16)

4.3 – Apostoli III (Luca 6.12-16)

12In quei giorni egli se ne andò sul monte a pregare e passò tutta la notte pregando Dio. 13Quando fu giorno, chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede anche il nome di apostoli: 14Simone, al quale diede anche il nome di Pietro; Andrea, suo fratello; Giacomo, Giovanni, Filippo, Bartolomeo, 15Matteo, Tommaso; Giacomo, figlio di Alfeo; Simone, detto Zelota; 16Giuda, figlio di Giacomo; e Giuda Iscariota, che divenne il traditore.”

GIACOMO E GIOVANNI

            Tratteremo questi due apostoli assieme per i dati a disposizione che spesso li accomunano, oltre che per parentela intercorrente fra loro. Sappiamo che erano figli di Zebedeo che sulle rive del lago di Galilea aveva una flotta di barche e dei dipendenti, per cui erano benestanti, ma a differenza di Pietro e Andrea di cui è ricordato solo il padre, Giona, per Giacomo e Giovanni abbiamo anche il nome della madre, Salome, che si distinguerà per far parte del gruppo di donne che condivideva, coi discepoli, i viaggi con Gesù nel suo ministero. Faceva parte del suo seguito, ma soprattutto fu presente alla crocifissione come ci dice Matteo 27.55,56 quando scrive “Vi erano là anche molte donne, che osservavano da lontano; esse avevano seguito Gesù dalla Galilea per servirlo. 56Tra queste c’erano Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo e di Giuseppe, e la madre dei figli di Zebedeo”. Salome non solo seguirà Gesù fino alla morte sulla croce, ma voleva occuparsi anche del suo corpo per imbalsamarlo. Sarà una componente della Chiesa di Gerusalemme e probabilmente faceva parte di quelle 120 persone sulle quali scenderà lo Spirito Santo.

Marco ci dice che a questi due apostoli Gesù “diede il nome di Boanèrges, cioè figli del tuono” a significare secondo molti il loro carattere umano energico e impetuoso che si rivelò in alcuni episodi nei Vangeli: ad esempio Giovanni era tra quelli che volevano impedire a un innominato di cacciare i demoni nel nome di Gesù (Marco 9.38) e col fratello rivolsero al loro Maestro una richiesta che denotava poca riflessione e una forte ambizione umana, probabilmente sobillati dalla loro madre col la quale avevano parlato. Scrive sempre Marco: “Gli si avvicinarono Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra». Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?». Gli risposero: «Lo possiamo». E Gesù disse loro: «Il calice che io bevo anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato»” (10.35-40). Matteo, nel passo parallelo, scrive che la richiesta fu portata avanti dalla loro madre Salome (20.20-24), ma il fatto che la risposta di Gesù anche in quella versione sia al plurale, “Voi non sapete quello che chiedete”, lascia supporre che i tre fossero concordi nel presentare quella richiesta. Questo episodio è scritto che provocò l’indignazione degli altri dieci apostoli: “All’udire questo, gli altri dieci furono indignati contro i due fratelli” (v. 24).

Altro passo particolare che denota il loro carattere lo troviamo in Luca 9.51,55: Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, egli prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme e mandò messaggeri davanti a sé. Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per preparargli l’ingresso. Ma essi non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme. Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». Si voltò e li rimproverò. E si misero in cammino verso un altro villaggio”.

A parte questi dati mi risulta però difficile pensare che Nostro Signore li chiamò “figli del tuono” unicamente per il loro carattere, così come non credo abbia chiamato Simone “Cefa” perché era il più robusto di tutti; piuttosto, Lui che guardava non all’uomo ma al suo cuore e a quello che sarebbe diventato con l’opera della Grazia e dello Spirito Santo, pensava al “tuono” come quella voce e presenza di Dio che la maggioranza non comprende e che va rivelata. Dopo il discorso di Gesù sulla sua imminente morte e resurrezione, quando disse “Padre, glorifica il tuo nome”, leggiamo che “Venne allora una voce dal cielo: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!». La folla, che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono. Altri dicevano: «Un angelo gli ha parlato»” (Giovanni 12.28,29). Un ultimo passo, che poi cronologicamente nella storia umana è il primo a mettere in connessione il tuono con la presenza di Dio, lo troviamo in Esodo 19.16: “Il terzo giorno, sul far del mattino, vi furono tuoni e lampi, una nube densa sul monte e un suono fortissimo di corno: tutto il popolo che era nell’accampamento fu scosso da tremore”.

Possiamo fare allora queste considerazioni: il tuono nella Scrittura è un suono sostitutivo di una realtà percepibile e pochi, ma incomprensibile a molti ed infatti, nel passo di Giovanni, fu quello sentito dalla folla e fu solo l’evangelista, e probabilmente quanti dei discepoli erano con lui, ad ascoltare le parole “L’ho glorificato e lo glorificherò ancora”. Ciò che non avvenne al battesimo di Gesù, quando la voce “Questo è il mio diletto figlio in cui mi sono compiaciuto” fu udita da tutti. Giacomo e Giovanni, allora, furono chiamati “figli del tuono” anche perché avrebbero rivelato ciò che Dio voleva fosse conosciuto dagli uomini senza possibilità di fraintendimento. Perché fossero formati, furono anch’essi testimoni di eventi che gli altri dodici non videro a parte Pietro: pensiamo alla trasfigurazione, alla resurrezione della figlia di Giairo, capo della sinagoga di Capernaum. A loro Gesù concesse di essergli vicini negli ultimi momenti nell’orto del Getsemani: “Allora Gesù andò con loro in un podere, chiamato Getsèmani, e disse ai discepoli: «Sedetevi qui, mentre io vado là a pregare». E, presi con sé Pietro e i due figli di Zebedeo, cominciò a provare tristezza e angoscia. E disse loro: «La mia anima è triste fino alla morte; restate qui e vegliate con me». Andò un poco più avanti, cadde faccia a terra e pregava, dicendo: «Padre mio, se è possibile, passi via da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!». Poi venne dai discepoli e li trovò addormentati. E disse a Pietro: «Così, non siete stati capaci di vegliare con me una sola ora? Vegliate e pregate, per non entrare in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole». Si allontanò una seconda volta e pregò dicendo: «Padre mio, se questo calice non può passare via senza che io lo beva, si compia la tua volontà». Poi venne e li trovò di nuovo addormentati, perché i loro occhi si erano fatti pesanti. Li lasciò, si allontanò di nuovo e pregò per la terza volta, ripetendo le stesse parole. Poi si avvicinò ai discepoli e disse loro: «Dormite pure e riposatevi! Ecco, l’ora è vicina e il Figlio dell’uomo viene consegnato in mano ai peccatori. Alzatevi, andiamo! Ecco, colui che mi tradisce è vicino» (Matteo 26.36-46).

Giacomo e Giovanni realizzarono il loro compito di “figli del tuono” come testimoni ed effettivamente bevvero quel “calice” ed ebbero quel “battesimo” di cui parlò loro Gesù dopo la richiesta non corretta che gli rivolsero; ciò avvenne con la testimonianza che dettero entrambi il primo come componente di spicco nella comunità di Gerusalemme divenendo martire della Chiesa, fatto uccidere da Erode Agrippa I: “In quel tempo il re Erode cominciò a perseguitare alcuni membri della Chiesa. Fece uccidere di spada Giacomo, fratello di Giovanni. Vedendo che ciò era gradito ai Giudei, vece arrestare anche Pietro” (Atti 12.1,2). Di Giovanni invece è noto che, pur non passando attraverso il martirio, subì tutte le forti persecuzioni di cui fu oggetta la Chiesa tanto per mano giudaica quanto sotto l’impero di Domiziano. Autore del quarto Vangelo, il più spontaneamente dottrinale, quello che può essere definito “il Vangelo dell’amore”, è autore di tre lettere e dell’Apocalisse, l’unico libro lasciato ai cristiani per riconoscere i tempi e gli eventi che avrebbero accompagnato la Chiesa nella sua storia dall’ascensione al cielo di Gesù al suo ritorno.

Giacomo, secondo una terminologia che non mi trova consenziente, è detto “il maggiore” per distinguerlo da un altro omonimo apostolo, che è già indicato negli elenchi come “Giacomo di Alfeo”. C’è poi anche un altro Giacomo, detto nel libro degli atti il “fratello del Signore”, che ebbe un ruolo importante nella Chiesa di Gerusalemme.

La singolarità del rapporto che Giovanni aveva col suo Maestro è descritta nel suo Vangelo dopo l’annuncio dell’imminente tradimento da parte di uno di loro: “I discepoli si guardavano l’un l’altro, non sapendo bene di chi parlasse. Ora uno dei discepoli, quello che Gesù amava, si trovava a tavola a fianco di Gesù. Simon Pietro gli fece cenno di informarsi chi fosse quello di cui parlava” (Giovanni 13.22-24). Giovanni accompagnerà Gesù fino alla crocifissione, che in quella occasione gli affidò sua madre: “Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: «Donna, ecco tuo figlio!». Poi disse al discepolo «Ecco tua madre». E da quell’ora il discepolo lo accolse con sé” (Giovanni 19.26,27).

È da notare che Gesù affida la propria madre a Giovanni quando Maria aveva altri figli e figlie che avrebbero potuto occuparsi di lei, ma non vi sarebbe stata la stessa parentela spirituale e quel discepolo sarebbe stato il più idoneo a sostenerla.

 

FILIPPO

Altro apostolo che conosciamo già in queste meditazioni cronologiche. Il suo carattere ed il retroterra culturale che lo caratterizzavano emergono proprio dai passi che abbiamo già affrontato: ricordiamo che mentre Giovanni e Andrea si recarono spontaneamente da Gesù, con Filippo che conoscevano fu il contrario: “Il giorno dopo Gesù volle partire per la Galilea, trovò Filippo e gli disse «Seguimi». Filippo era di Betsaida, la città di Andrea e di Pietro” (Giovanni 1.43,44). Il “Trovare”, che è tradotto anche con “incontrare”, se può significare imbattersi in qualcuno, implica però una ricerca, un’attesa. Certo Nostro Signore non s’imbatté per caso in Filippo perché sapeva che lo avrebbe incontrato e chiamato usando lo stesso invito che ebbe con Levi Matteo, “Seguimi”. E Filippo è scritto che subito dopo “trovò” Natanaele,: come Giovanni, Andrea e i loro fratelli, era un discepolo di Giovanni Battista che non solo non seppe trattenere la gioia del suo incontro col Maestro, ma diede prova di essere persona avveduta ed espansiva andando a cercare Natanaele (Bartolomeo) per dirgli “Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè, nella Legge, e i profeti: Gesù, figlio di Giuseppe, da Nazareth” (Giovanni 1.45). Persona discreta, scelse di non perdere tempo a convincerlo del fatto che Gesù fosse il Messia, ma preferì che fosse Natanaele stesso a sperimentarlo di persona con le parole “Vieni e vedi”.

Filippo era anche una persona aperta e pronta al servizio, come già abbiamo accennato mettendolo in relazione con Andrea nell’episodio dei greci che volevano vedere Gesù e, nell’occasione del miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci, fu messo alla prova dal Maestro con la frase “Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?” (Giovanni 6.5). Non ottenne altro che una risposta tecnica, cioè che duecento denari di pane non sarebbero bastati.

La figura di quest’apostolo, come accaduto con Pietro, è utile perché testimonia ancora una volta di quanto la natura umana sia sempre in opposizione alle esigenze, alle realtà di Dio e non possa comprenderle senza l’opera dello Spirito Santo: tornando ancora all’ultima cena, leggiamo ciò che avvenne dopo che Giuda uscì dalla sala.

Simon Pietro gli disse: «Signore, dove vai?». Gli rispose Gesù: «Dove io vado, tu per ora non puoi seguirmi; mi seguirai più tardi». Pietro disse: «Signore, perché non posso seguirti ora? Darò la mia vita per te!». Rispose Gesù: «Darai la tua vita per me? In verità, in verità io ti dico: non canterà il gallo, prima che tu non m’abbia rinnegato tre volte. Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: «Vado a prepararvi un posto»? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi. E del luogo dove io vado, conoscete la via». Gli disse Tommaso: «Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?». Gli disse Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre mio: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto». Gli disse Filippo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta». Gli rispose Gesù: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi tu dire: «Mostraci il Padre»? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me stesso; ma il Padre, che rimane in me, compie le sue opere. Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se non altro, credetelo per le opere stesse.” (Giovanni 13.36-38; 14.1-11).

Abbiamo qui un quadro desolante: Pietro si dichiara pronto a dare la vita per il suo Maestro ma, terrorizzato, lo avrebbe rinnegato tre volte. Tommaso, dopo tre anni di vita comune con lui, non aveva ancora capito che Gesù se ne sarebbe tornato al Padre soprattutto dopo il suo discorso sulla casa dalle molte stanze e Filippo, completamente fuori contesto, gli dice che a loro sarebbe bastato che gli fosse mostrato il Padre dimenticando le parole “Io e il Padre siamo uno”. Questo episodio è la prova di quanto qualsiasi uomo, in quanto tale, sia naturalmente distante da Dio nel momento in cui segue i propri pensieri, dà retta ai suoi impulsi, cerca di capire con il proprio metro e intelligenza ciò che invece dev’essere lo spirito a comunicare. Vero è che lo Spirito Santo non era ancora sceso, ma ricordiamo che già da allora erano possibili rivelazioni da parte del Padre, come quando Pietro riconobbe in Gesù “Il Cristo, il figlio dell’Iddio Vivente”.

Concludendo, anche la storia di Giacomo, Giovanni, Filippo e come vedremo di tutti gli undici, testimonia che per ogni essere umano che accetta di far entrare Gesù Cristo nella propria vita non può che esistere un prima e un dopo, una progressione nella conoscenza, nella grazia e nell’amore ricambiato di Dio. E lo stesso Pietro, nella sua prima lettera, cita Isaia scrivendo “Ecco, io pongo in Sion una pietra angolare, eletta e preziosa. E chi crederà in lei non resterà confuso”.

 

GIACOMO DI ALFEO

            Sono davvero pochi i dati su questo nono apostolo salvo che, come abbiamo visto con Matteo, fosse suo fratello. Di lui si sa solo che faceva parte della Chiesa di Gerusalemme e che era presente alla discesa dello Spirito Santo sui suoi componenti.

 

SIMONE LO ZELOTA

Così chiamato da Luca, ma da Matteo e Marco “Simone il cananita” che, contrariamente a quando si possa pensare, non indica una provenienza geografica, ma ha lo stesso significato perché l’ebraico “qana” si riferisce alla corrente degli zeloti fondata da Giuda il galileo di cui parlò Gamaliele in Atti 5-37: “Dopo di lui – Teuda – al tempo del censimento sorse Giuda il Galileo, che trascinò dietro a sé molta gente; anch’egli perì e tutti coloro che lo seguirono furono dispersi”. Come per Giacomo di Alfeo, null’altro sappiamo di questo apostolo se non che era stato un appartenente di quel gruppo, che oggi i media definirebbero “terrorista”. Gli zeloti infatti erano nati da una rivolta contro il censimento di Quirino ed erano divenuti una setta che faceva incursioni e uccideva sia i cittadini dell’impero romano che gli ebrei sospettati di collaborare con loro. I romani li chiamavano “sicari”, cioè “pugnalatori” per la loro tecnica più diffusa descritta da Giuseppe Flavio nella sua “Guerra giudaica”: “in Gerusalemme nacque una nuova forma di banditismo, quella dei cosiddetti sicari, che commettevano assassinii in pieno giorno nel mezzo della città. Era specialmente in occasione delle feste che essi si mescolavano alla folla, nascondevano sotto le vesti dei piccoli pugnali e con questo colpivano i loro avversari. Poi, quando questi cadevano, gli assassini si univano a coloro che esprimevano il loro orrore e recitavano così bene da essere creduti e quindi non riconoscibili”. Se Simone lo zelota era uno di loro, resta un testimone di quanto profondo sia stato il cambiamento avvenuto in lui, che accettò di condividere la vita dei dodici accanto a un pubblicano come Matteo e a vivere le adunanze di chiesa non solo con ebrei.

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3.10 – LE SPIGHE STRAPPATE (Matteo 12.1-8)

3.10 – Le spighe strappate (Matteo 12.1-8)

In quel tempo Gesù passò, in giorno di sabato, fra campi di grano e i suoi discepoli ebbero fame e cominciarono a cogliere delle spighe e a mangiarle. 2Vedendo ciò, i farisei gli dissero: «Ecco, i tuoi discepoli stanno facendo quello che non è lecito fare di sabato». 3Ma egli rispose loro: «Non avete letto quello che fece Davide, quando lui e i suoi compagni ebbero fame? 4Egli entrò nella casa di Dio e mangiarono i pani dell’offerta, che né a lui né ai suoi compagni era lecito mangiare, ma ai soli sacerdoti. 5O non avete letto nella Legge che nei giorni di sabato i sacerdoti nel tempio vìolano il sabato e tuttavia sono senza colpa? 6Ora io vi dico che qui vi è uno più grande del tempio. 7Se aveste compreso che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrifici, non avreste condannato persone senza colpa. 8Perché il Figlio dell’uomo è signore del sabato».”

Fra le tre versioni di questo episodio, la più accurata è quella di Matteo che utilizzeremo per le nostre riflessioni per quanto la collochi più avanti rispetto agli altri, che preferiscono porla dopo la questione sollevata dai discepoli di Giovanni e dai farisei sul digiuno. Luca è quello che colloca l’avvenimento temporalmente, anche se di questa sua annotazione in diverse traduzioni non v’è traccia: leggendo infatti 6.1 troviamo che “Un sabato Gesù passava tra i campi di grano e i suoi discepoli coglievano e mangiavano le spighe”. Alcuni testi dai quali diversi traduttori hanno attinto, primo fra tutti San Girolamo (317-420 d.C.), riportano “E avvenne che nel sabato secondo primo, passando egli per i seminati, i suoi discepoli coglievano spighe, e stritolatele con le mani, le mangiavano”. Diodati nel 1600, chiarisce cosa fosse quel “secondo primo” traducendo “nel primo sabato dal dì dopo la Pasqua”, come in effetti è. Di questa precisazione rimangono tracce sia nella Diodati riveduta, “”Ora avvenne che in giorno di sabato, dopo il gran sabato”, quanto nella Bibbia tradotta dall’abate Giuseppe Ricciotti (1949), sostanzialmente identica a quella di San Girolamo. La differenza è dovuta ai diversi codici greci presi in esame in cui il “sabato secondo primo” manca.

Fatta questa precisazione, doverosa perché chi legge Luca potrebbe chiedersi il perché di una differenza piuttosto rilevante tra i testi, entriamo nell’oggetto della presunta infrazione alla Legge che i discepoli di Gesù avrebbero compiuto. Era sabato, giorno di riposo, per il quale i Farisei avevano stabilito e aggiunto ben 39 azioni proibite tra le quali il mietere, che era indubbiamente un lavoro, ma anche stropicciare le spighe fra le mani. Per i farisei, per i quali era lavoro di sabato anche raccogliere un frutto caduto spontaneamente da un albero oppure mangiare un uovo, l’accusa bastava. Leggiamo invece in Deuteronomio 23.26 quanto segue: “Se passi tra la messe del tuo prossimo, potrai coglierne le spighe con la mano, ma non potrai mettere la falce nella messe dei tuo prossimo”, quindi di mietitura non se ne poteva parlare e la Legge, che proibiva il furto ma consentiva la spigolatura, faceva sì che e il proprietario del campo, indipendentemente dal fatto dal tipo di coltivazione, nel raccoglierne i frutti non ripassasse mai a cercare quelli rimasti indietro, ma li lasciasse ai poveri che avrebbero potuto raccoglierli. “Quando bacchierai i tuoi ulivi, non tornare a ripassare i rami. Sarà per il forestiero, per l’orfano e per la vedova. Quando vendemmierai la tua vigna, non tornerai indietro a racimolare. Sarà per il forestiero, per l’orfano e per la vedova. Ricordati che sei stato schiavo nella terra d’Egitto; perciò ti comando di fare questo” (Deuteronomio 24.20-22). Ancora: “Quando mieterete la messe della vostra terra, non mieterete fino ai margini del campo, né raccoglierete ciò che resta da spigolare della messe; quanto alla vigna, non coglierai i racimoli e non raccoglierai gli acini caduti: li lascerai per il povero e per il forestiero. Io sono YHWH, vostro Dio” (Levitico 19.9,10).

Quindi i discepoli, che presumiamo percorressero il “cammino di sabato” perché nulla in proposito rilevano gli oppositori di Gesù, non infrangevano le prescrizioni stabilite per quel giorno perché non solo non mietevano, ma neppure commettevano un furto. Gesù però non fa osservare loro questo, non li segue né apre una dissertazione su ciò che era o meno concesso di sabato, ma li riconduce allo spirito della Legge e li richiama a riconsiderare un episodio che dovevano conoscere molto bene. In casi come questo, in cui Lui cita episodi descritti nell’Antico Patto, mi viene sempre in mente che il Figlio di Dio era là, presente e testimone degli avvenimenti.

Ebbene Davide, perseguitato da Saulle che, accecato dall’invidia a seguito delle parole del canto delle donne israelite “Saul ha abbattuto i suoi mille, ma Davide i suoi diecimila”, voleva ucciderlo, giunse in fuga a Nob, città sacerdotale appartenente alla tribù di Beniamino. Nob era popolata da sacerdoti che, come membri della tribù di Levi, non possedevano una regione precisa ma si trovavano sparsi tra i vari centri della terra di Israele. Davide arriva così da Achimelech che, non avendo pane comune, alla sua richiesta di averne, gli dà quello sacro, cioè le dodici focacce che dovevano essere conservate davanti al luogo santo del tempio e rinnovate ogni sabato.

È un episodio al quale bisogna prestare molta attenzione perché contiene insegnamenti che vanno oltre le parole di Gesù a quei farisei: citando l’episodio, Nostro Signore implicitamente ricorda loro le verità nascoste bell’episodio che avrebbero dovuto e potuto meritare se solo avessero voluto. Ora Davide, e i suoi che lo attendevano in un luogo precedentemente concordato, era stremato dopo tre giorni di viaggio per cui la fame sua e degli altri era grave. Il fatto poi che il sacerdote non avesse pane e abbia scelto di dargli quello sacro, non trovandosi isolato in mezzo al deserto e potendo quindi cucinargli del pane normale, lascia supporre che fosse sabato e che quei pani, detti “di presentazione” fossero gli unici che gli fosse lecito preparare. Certo la Legge prescriveva che nessuno li potesse toccare o mangiare, ma se il sacerdote non avesse deciso di sfamare Davide e i suoi con quelli, li avrebbe debilitati visto che erano in fuga e sarebbero potuti morire. Erano uomini stremati. Inoltre Davide, quando si presenta ad Achimelech, non gli dice che stava scappando da Saul, ma “Il re mi ha ordinato e mi ha detto «Nessuno sappia di questa cosa per la quale io ti mando e di cui ti ho dato incarico»”, sempre per proteggere la propria vita. L’episodio è raccontato al capitolo 21 del primo libro di Samuele.

A proposito dei pani di presentazione, leggiamo Esodo 25.30: “Sulla tavola collocherai i pani della presentazione, saranno sempre alla mia presenza”. È un comandamento non da poco le cui parole “sempre” e “mia presenza” ci danno l’idea della continuità e di quanto quest’ordine fosse assoluto e il termine stesso “pane di presentazione” letteralmente dall’ebraico si traduce con “pane di facce” a motivo del fatto che dovesse restare davanti a Dio.

Se andiamo in Levitico 24.5-9, poi, abbiamo una visione ancora più esaustiva di quanto fosse seria la funzione di quei pani: “Prenderai anche fior di farina e ne farai cuocere dodici focacce. (…) Le disporrai su due pile, sei per pila, sulla tavola d’oro puro davanti al Signore, sempre. Porrai incenso puro sopra ogni pila, perché serva da memoriale per il pane, come sacrificio consumato dal fuoco in onore del Signore. Ogni giorno di sabato lo si disporrà davanti al Signore perennemente da parte degli israeliti: è un’alleanza eterna. Sarà riservato ad Aaronne e ai suoi figli: essi lo mangeranno in luogo santo, perché sarà per loro una cosa santissima tra i sacrifici da bruciare in onore del Signore. È una legge perenne”. Anche qui il redattore del libro del Levitico usa termini che poco spazio lasciano all’interpretazione: “in onore del Signore” – “perennemente” – “alleanza eterna” – “riservato” – “luogo santo” – “cosa santissima” – “in onore del Signore“ (per la seconda volta) – “legge perenne” (per la seconda volta).

Ebbene, queste istruzioni così particolareggiate vengono temporaneamente abolite dietro un’iniziativa non contemplata dalla Legge per salvare una vita umana e Dio non ne chiederà conto né ad Achimelech, né a Davide quando il solo annusare l’incenso preparato per il servizio sacerdotale o il fabbricarne di simile, era punito con la morte. Tutto questo abbatteva il formalismo esasperato – oggi lo chiameremmo radicalismo – di quei farisei ancora una volta chiamati a considerare da Gesù che la misericordia valeva più del sacrificio. Ancora una volta viene citato Osea, ancora una volta si sottolinea il principio in base al quale quando la misericordia – vedasi l’amore – e il sacrificio, cioè la parte esterna della religione, vengono in conflitto, Dio nella sua benignità sceglie la prima.

È indubbiamente questa una verità che dovrebbe molto insegnare a quei cristiani che si arroccano su posizioni che tendono a dividere il mondo in bianco e nero senza possibilità di grigio e dimenticano che Dio ha creato il colore. Camminare in mezzo a un bosco in estate equivale a vedere non del verde, ma sue sfumature infinite tutte riferite alla vita, così come guardare il cielo non significa vedere solo un azzurro uniforme che si trova, solo e al limite, in quei cartoni animati in cui i disegnatori devono produrre fotogrammi dipendenti da costi di produzione.

Marco scrive che Gesù disse nell’occasione che “il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato”, cioè: l’uomo aveva bisogno di riposo per rigenerare le proprie energie e per questo era stata imposta l’astensione dal lavoro dandogli modo di far propria e meditare l’opera di Dio che in quel giorno contemplò il suo lavoro minato da Satana attraverso la disubbidienza dei nostri progenitori. Il sabato di Dio doveva essere eterno, santificato dalla reciprocità di amore tra lui e l’uomo, suo vero capolavoro protagonista in un creato perfetto e puro. L’uomo non era stato creato per osservare il sabato, ma per vivere pienamente condividendo con il suo Creatore giorno di eternità e beatitudine. Dopo la caduta, era chiamato ad osservarlo anche per riflettere sulla sua condizione consacrando il suo tempo al Signore.

Per questo Gesù, “Figlio dell’uomo” indicato nei testi profetici, era “Signore del sabato” e anche “più grande del Tempio”, cosa che i farisei non potevano accettare perché, in quel caso, tutto il loro castello di teoremi e il loro stesso modo di vivere, con il rispetto che avevano presso il popolo, sarebbe crollato. Avrebbero dovuto rinunciare a loro stessi, porre tutto in discussione da capo. In poche parole, avrebbero dovuto ubbidire a quell’esortazione detta loro qualche giorno prima, “Andate e imparate cosa vuol dire «Voglio misericordia e non sacrificio»”. Là dove il termine allude, da dizionario, a un “sentimento di compassione e pietà per l’infelicità e la sventura altrui che induce a soccorrere, a perdonare e a non infierire”. E l’episodio successivo sarà proprio un nuovo miracolo, il terzo operato da Gesù in giorno di sabato.

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3.08 – LEVI MATTEO (Matteo 9.9-13)

3.08 – La chiamata di Levi Matteo (Matteo 9.9-13)

9Andando via di là, Gesù vide un uomo, chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: «Seguimi». Ed egli si alzò e lo seguì. 10Mentre sedeva a tavola nella casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e se ne stavano a tavola con Gesù e con i suoi discepoli. 11Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: «Come mai il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?». 12Udito questo, disse: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. 13Andate a imparare che cosa vuol dire: Misericordia io voglio e non sacrifici. Io non sono venuto infatti a chiamare i giusti, ma i peccatori»”

Levi Matteo è il settimo ad essere chiamato personalmente da Gesù nel gruppo dei suoi discepoli. Ricordiamo cronologicamente gli altri, che verranno disposti più avanti in ordine di funzione e carattere: i primi incontrati furono Giovanni con Andrea, quindi Simon Pietro, Filippo e Natanaele, chiamato Bartimeo. A seguirlo dopo la pesca sulle rive del lago di Galilea furono Pietro col fratello Andrea e subito dopo Giacomo con Giovanni. Matteo fu quindi il quinto di cui è espressamente scritta la chiamata, settimo se si contano i discepoli, poi chiamati apostoli, che incontrarono Gesù. Tutti i sinottici concordano nel collocare l’episodio dopo quello della guarigione del paralitico di Capernaum, di modo che il filo cronologico temporaneamente perduto o dubbio si riannoda. Marco scrive che “Uscì di nuovo lungo il mare, tutta la folla veniva a lui ed egli insegnava loro. Passando, vide Levi, figlio di Alfeo, seduto al banco delle imposte, e gli disse «Seguimi»” (2.13,14). Capernaum infatti, posta sulla via principale tra l’Egitto e Damasco, aveva una dogana posta dai romani per la riscossione delle tasse sulle merci che transitavano.

Matteo è chiamato da Marco “Levi, figlio di Alfeo” (2.14) e semplicemente “Levi” da Luca (5.29) perché, come molti stante la situazione politica del tempo, aveva un nome ebreo (Levi, cioè “Congiunzione”) e uno romano (Matteo, comunque di derivazione greca, “Dono del Signore”): coi romani, considerato il lavoro che faceva, si relazionava molto in quanto dipendente del loro governo. I pubblicani erano considerati dei “venduti” e disprezzati al pari delle prostitute e sappiamo che il fariseo di una nota parabola ringraziava Dio di non essere “come gli altri uomini e neppure come quel pubblicano” che era salito al Tempio con lui a pregare.

Levi Matteo era una persona colta e benestante, che conosceva già Nostro Signore perché era un suo parente. Matteo, lo abbiamo visto in Marco, è chiamato “Figlio di Alfeo” che in aramaico diventa “Cleopa”, o “Cleofa”, probabile marito di quella “Maria di Cleofa” presente alla crocifissione assieme ad altre donne, sorella di Maria madre di Gesù. Stante l’impossibilità di avere certezze assolute in proposito, è stato supposto che Alfeo–Cleofa fosse lo zio di Gesù e Matteo suo cugino, fratello di quel Giacomo detto “il minore” che rientrerà nel gruppo dei dodici. Va detto che lo studio delle relazioni parentali si presenta assai arduo sia per la doppia valenza che ha il termine “fratello”, che nell’antichità indicava anche una parentela prossima, ma anche per il “di” che poteva riferirsi a un rapporto di paternità come a un vincolo matrimoniale. Inoltre uno scritto di un autore esegetico importante pubblicato nei primi anni del ‘900 arriva a sostenere che non vi siano prove dell’equivalenza “Alfeo – Cleopa”. Personalmente ritengo che quel “figlio di Alfeo” non compaia a caso e che effettivamente vi fosse un legame tra i personaggi citati, per quanto non dimostrabile con assoluta certezza.

A prescindere da questi rapporti che nulla vanno a modificare nella dottrina, cerchiamo di capire Matteo più da vicino: era una persona che viveva col guadagno del suo lavoro e non faceva la cresta sulle tasse come molti suoi colleghi. Il fatto che sapesse benissimo di essere disprezzato dai suoi correligionari e che non se ne facesse un cruccio, è indice di autonomia decisionale e maturità. Evidentemente Matteo era giunto alla conclusione che fosse meglio lavorare onestamente e dignitosamente senza infrangere il comandamento “Non rubare”. Era poi una persona attenta alla realtà che lo circondava: sicuramente, per il suo lavoro e le conoscenze di persone che gli raccontavano le cronache dei dintorni, aveva avuto modo di ragionare molto su quel Gesù da Narareth che già aveva operato miracoli di ogni tipo in Capernaum e nella Galilea, oltre che sui contenuti dei discorsi alla gente. Questo apostolo dai due nomi si rivelerà come “Congiunzione” nello scrivere in suo Vangelo, particolarmente accurato nell’analizzare le profezie che riguardano Gesù come Cristo – ne cita 60 -, e “Dono di Dio” per la sua opera scritta, che da sempre ha aiutato i credenti nel corso della storia per la comprensione dell’opera di Nostro Signore. Gesù quindi sapeva di poter contare su di lui esattamente come era successo con gli altri, Simone e Andrea, Giacomo e Giovanni, Filippo e Natanaele-Bartolomeo. Se così non fosse, non gli avrebbe mai detto “Seguimi” e se Matteo non avesse concluso, non sappiamo quanto tempo prima, che la vita che conduceva quotidianamente non poteva avere nulla a che fare con quella spirituale ed eterna, o anche solo il voler vivere vicino a quel Maestro, non avrebbe mai abbandonato il suo lavoro: Luca scrive infatti “Ed egli, lasciando tutto, si alzò e lo seguì” (5.28). Fu una reazione immediata, colse al volo un’occasione irripetibile non preoccupandosi di altro, il che ci dice molto della considerazione nella quale teneva la propria vita fino ad allora tranquilla e ordinata nonostante il disprezzo in cui era tenuta la sua professione.

In lui vi dovette essere molta gioia poiché organizzò poco dopo “un grande banchetto nella sua casa” non penso per festeggiare l’avvenimento della sua chiamata, ma piuttosto per permettere alle persone che conosceva di avere il privilegio di ascoltare Gesù, di stare con lui, di condividere la sua presenza. Esattamente come dovrebbe accadere nelle riunioni di Chiesa in cui occhi e orecchie spirituali dovrebbero essere centrate su Cristo, presente secondo la Sua promessa dei “due o tre” radunati nel Suo nome.

Matteo quindi organizza un convito importante non solo quanto a numero e tipo di partecipanti e invitando le persone che conosceva: tutto questo suscitò l’indignazione dei farisei (“Gli scribi dei farisei” secondo Marco): come poteva, quel Rabbi che faceva miracoli cacciando demoni e insegnando nelle sinagoghe, stare a tavola con “pubblicani e peccatori”, termine quest’ultimo riferito ai trasgressori della legge morale e cerimoniale di Israele?

La risposta di Gesù, che sentì la domanda, fu duplice: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati”, alludendo al fatto che, se fosse vissuto separato dai peccatori non avrebbe mai potuto parlare loro. Egli li vedeva soli nella loro condizione spirituale, ma non arroganti e presuntuosi nell’anima e nello spirito come quei farisei, malati pure loro, ma nella condizione di chi il medico lo rifiuta perché convinto di essere sano. La frase che segue subito dopo, “Io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori”, allude proprio a questo perché era tutto l’impianto morale dei farisei ad essere in difetto per cui li invita ad “andare” e a “imparare” (un modo per dire che avrebbero dovuto tornare a scuola) cosa volesse dire “Io voglio misericordia e non sacrifici”. Tra l’altro, proprio “Va’ e impara” era un’espressione che i Farisei utilizzavano molto spesso a conclusione di un discorso per far pesare sugli altri la superiorità che pensavano di avere.

Da sempre i farisei – allora come oggi – facevano e fanno interminabili dissertazioni su qualunque versetto biblico andando ben oltre l’esegesi con un metodo che Gesù definirà con queste parole: “Guai a voi, scribi e farisei, ipocriti, (…) che filtrate il moscerino e ingoiate il cammello”, un paragone che illustra molto bene il loro metodo di guardare alle minuzie perdendo di vista ciò che effettivamente era ed è la sostanza delle cose. Solo la conversione avrebbe potuto guarire quei malati che si credevano sani, e per questo Gesù li invita a considerare il passo di Osea 6.6 che conoscevano molto bene, ma che viene loro ripetuto a voce: la misericordia “piuttosto che” – traduzione più corretta di “e non” – sacrifici, quindi la parte cerimoniale della Legge a loro tanto cara. Anche oggi molti per conversione intendono una rinuncia, un abbandono di azioni e comportamenti che caratterizzavano la loro vita di peccatori prima del loro incontro personale col Signore: se questo non è di per sé sbagliato, va detto che senza una profonda rivisitazione della propria vita e un’assimilazione della Parola di Dio che porta alla rinuncia, il loro gesto può essere un’azione che può lasciare dei rimpianti e dei residui all’interno dei loro cuori che a lungo andare possono sempre esplodere con conseguenze destabilizzanti. Matteo, e prima di lui gli altri, avevano lasciato le loro cose, quindi il loro modo di vivere, solo nel momento in cui avevano capito sì che quella era l’unica cosa che potessero fare, ma che tutto ciò che possedevano si era svuotato di significato. Non fu una rinuncia dolorosa, ma la scelta tra ciò che era prezioso e ciò che non aveva più valore. Purtroppo molti anche oggi intendono il cristianesimo come un’applicazione di norme e comandamenti, dimenticando che è una libera espressione di un sé che si manifesta attraverso l’applicazione di principi etici.

Tornando all’episodio, guardare alla Legge cerimoniale da parte dei farisei e dei loro scribi significava osservare una religione che consisteva soltanto nell’aderire alla lettera a quanto era comandato da Dio, ma trascurandone totalmente lo spirito. Anche ai tempi di Osea (VII secolo a.C.) si credeva che la cosa più gradita a Dio fosse il sacrificio esteriore e materiale perché era molto più facile far pagare i propri peccati a una vittima innocente, l’animale, piuttosto che esaminarsi profondamente per mutare radicalmente il proprio interno. Anche Samuele, ancora prima, aveva detto “Il Signore gradisce gli olocausti e i sacrifici come chi ubbidisce alla sua voce? Ecco, ubbidire è più prezioso che il sacrificio, e attendere più del grasso dei montoni” (1 Samuele 15.22). Possiamo dire che questo tipo di ragionamento avviene anche oggi nel cristianesimo nel momento in cui, ad esempio, si fa di Dio una persona che dovrebbe essere sempre attenta ad esaudire le preghiere che pongono sempre e costantemente al centro le necessità materiali dell’individuo anziché una richiesta di aiuto e soccorso per eliminare ciò che ritarda il cammino con lui. Sono queste preghiere che vengono costantemente disattese perché, come disse l’apostolo Giacomo, “Non avete perché non chiedete; chiedete e non ottenete perché chiedete male, per soddisfare cioè le vostre passioni. Gente infedele! Non sapete che l’amore per il mondo è nemico di Dio?” (Giacomo 4.2,3).

Alla base dell’atteggiamento farisaico esiste sempre una presunzione che ha santificato l’orgoglio, che nulla sa dell’amore che non sia per se stessi. Invece pochi versi dopo quelli che abbiamo citato, Giacomo scrive “Dio resiste ai superbi, ma dà la sua grazia agli umili. Sottomettetevi dunque a Dio; resistete al diavolo, ed egli fuggirà da voi. Avvicinatevi a Dio ed Egli si avvicinerà a voi. Peccatori, purificate le vostre mani. Uomini dall’animo indeciso, santificate i vostri cuori. Riconoscete la vostra miseria, fate lutto e piangete; le vostre risa si cambino in lutto e la vostra allegria in tristezza. Umiliatevi davanti al Signore ed egli vi esalterà”. (4.6-10).

 

Gesù dichiara quindi di non essere venuto a chiamare chi si ritiene giusto, ma chi sa di avere bisogno di lui, cosa possibile solo se è consapevole di essere un peccatore, una persona in antitesi a lui e quindi soggetta ad essere respinta da parte Sua. In pratica, chi è malato chiama il medico perché si rende conto della sua condizione, ne avverte i sintomi e quindi si rivolge a lo può guarire, anzi, se è grave cerca il medico migliore. Per tutti i cosiddetti “sani” valgono invece le parole, tra le innumerevoli, di Proverbi 1.30,31: “Vi ho chiamati, ma avete rifiutato, ho steso la mano e nessuno se ne è accorto. Avete trascurato ogni mio consiglio e i miei rimproveri non li avete accolti; anch’io riderò delle vostre sventure, mi farò beffe quando su di voi verrà la paura, quando come una tempesta vi piomberà addosso il terrore, quando la disgrazia vi raggiungerà come un uragano, quando vi colpiranno angoscia e tribolazione. Allora mi invocheranno, ma io non risponderò, mi cercheranno, ma non mi troveranno. Perché hanno odiato la sapienza e non hanno preferito il timore del Signore e non hanno accettato il mio consiglio e hanno disprezzato ogni mio rimprovero; mangeranno perciò il frutto della loro condotta e si sazieranno dei loro consigli”.

Se quindi una persona è consapevole di essere un peccatore, riconoscendosi in tal modo malato, ha bisogno di confrontarsi con Dio e Gesù Cristo, la Sua diretta Parola. Solo allora potrà essere guarito ed instaurare con Lui un rapporto unico di dipendenza e bisogno continuo; viceversa potrà solo rimanere nelle propria convinzione, umanamente sazio nella propria coscienza. Si tratta di un pericolo che tutti possono correre, anche i cristiani che perdono di vista la loro chiamata e lo scopo per cui vivono il loro pellegrinaggio terreno in vista dei “nuovi cieli e nuova terra dove dimora stabile la Giustizia” promessi e preparati per loro. Ricordiamo le parole all’angelo della Chiesa di Laodicea: “Tu dici «Sono ricco, mi sono arricchito, non ho bisogno di nulla». Ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo” (Apocalisse 3.17). Perché, questo è il punto, “Non c’è nessun giusto, neppure uno” (Romani 3.9). Amen.

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3.07 – IL PARALITICO DI CAPERNAUM (Luca 5.17-26)

3.07 – Il paralitico di Capernaum (Luca 5.17-26)

 

17Un giorno stava insegnando. Sedevano là anche dei farisei e maestri della Legge, venuti da ogni villaggio della Galilea e della Giudea, e da Gerusalemme. E la potenza del Signore gli faceva operare guarigioni. 18Ed ecco, alcuni uomini, portando su un letto un uomo che era paralizzato, cercavano di farlo entrare e di metterlo davanti a lui. 19Non trovando da quale parte farlo entrare a causa della folla, salirono sul tetto e, attraverso le tegole, lo calarono con il lettuccio davanti a Gesù nel mezzo della stanza. 20Vedendo la loro fede, disse: «Uomo, ti sono perdonati i tuoi peccati». 21Gli scribi e i farisei cominciarono a discutere, dicendo: «Chi è costui che dice bestemmie? Chi può perdonare i peccati, se non Dio soltanto?». 22Ma Gesù, conosciuti i loro ragionamenti, rispose: «Perché pensate così nel vostro cuore? 23Che cosa è più facile: dire «Ti sono perdonati i tuoi peccati», oppure dire «Àlzati e cammina»? 24Ora, perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere sulla terra di perdonare i peccati, dico a te – disse al paralitico -: àlzati, prendi il tuo lettuccio e torna a casa tua». 25Subito egli si alzò davanti a loro, prese il lettuccio su cui era disteso e andò a casa sua, glorificando Dio. 26Tutti furono colti da stupore e davano gloria a Dio; pieni di timore dicevano: «Oggi abbiamo visto cose prodigiose»”.

 

La guarigione del paralitico di Capernaum è narrata da tutti i sinottici, per quanto con varianti che non mutano sostanzialmente il significato dell’episodio, anzi lo arricchiscono di particolari. Anche questo rientra in quei miracoli che gli evangelisti inseriscono senza una successione cronologica certa per quanto Matteo lo collochi dopo il discorso della montagna e l’intervento sugli indemoniati di Gadara, scrivendo “Salito su una barca, passò all’altra riva e giunse nella sua città”. Credo che agli evangelisti prema, nel caso dell’esposizione di questi miracoli, dare la precedenza più sul contenuto dottrinale che cronologico, problema che non si sono posti non ritenendolo importante al contrario degli autori del Pentateuco in cui la successione degli eventi è fondamentale e non può lasciare adito a dubbi pena la loro non comprensione. Marco scrive che Gesù tornò a Capernaum “dopo alcuni giorni” lasciando così indeterminato il periodo di predicazione in Galilea: lì sappiamo, ricordando Giovanni 2.12, che “dopo le nozze di Cana scese a Capernaum insieme a sua madre, ai suoi fratelli e ai suoi discepoli”.

Ora il fatto che fosse tornato là, fece sì che ricominciasse la sua attività spirituale alla quale si accompagnavano guarigioni di ogni tipo. La sua presenza in Capernaum attirò non solo il popolo comune, ma anche “farisei e dottori della Legge, venuti da ogni villaggio della Galilea e della Giudea, e da Gerusalemme”, segno che la guarigione del paralitico avvenne non immediatamente il suo ritorno in quella cittadina. Ci volle infatti del tempo tra il suo arrivo in città e che questa notizia si diffondesse, così come per il viaggio che dovettero fare alcuni da Gerusalemme alla casa di Gesù.

È triste constatare che quella che avrebbe dovuto essere teoricamente la parte migliore del popolo di Israele vista nei farisei e nei dottori della Legge, che avrebbero dovuto tramandarsi, tradizioni religiose a parte, anche quanto fosse profonda la dottrina che Gesù aveva dimostrato di possedere fin dall’età di dodici anni, era là non per ascoltarlo e confrontarsi con l’Unica fonte di vita, ma per giudicarlo e coglierlo in flagrante secondo il loro metodo. Non troviamo se non con Nicodemo, che era dei loro, un dialogo che denoti una volontà di capire, di raccordare il principio in base al quale “nessuno può fare i segni che tu fai, se Dio non è con lui ” con il voler assimilare la reale identità di Gesù. Quel fariseo però, nonostante il proprio bagaglio storico culturale che molto lo impedì nel suo cammino – ma chi, salvo rare eccezioni, non lo è? – era un onesto.

Ora c’era in Capernaum un paralitico – che in nessuno dei tre racconti dice mai una parola – che poteva contare sull’aiuto di alcune persone, almeno quattro, che volevano a tutti i costi fosse guarito: volevano portarlo a Gesù, ma capirono ben presto che i loro tentativi di entrare per la porta della casa sarebbero stati inutili a causa della folla che, essendo la casa piena, si accalcava per ascoltare il Maestro.

A questo punto è doveroso spendere qualche parola su come fossero fatte le case di allora: avevano un solo piano oltre il quale c’era una terrazza alla quale si accedeva tramite una stretta scalinata posta all’esterno. In alternativa, se la casa confinava con altre, c’era un muretto di divisione a dividere le due terrazze – e l’eventuale area cortilizia circostante –, che naturalmente avevano anche la funzione di tetto come leggiamo ad esempio in Matteo 24.17 “Chi si trova sul tetto della casa, e avrà le sue masserizie dentro la casa, non scenda a prenderle”. Allora come oggi, se vedere una persona su un tetto è cosa inusuale, certo non lo è se si tratta di una terrazza.

Ora è molto probabile che avvenne così: i quattro o più amici del paralitico arrivarono alla casa di Gesù e compresero l’impossibilità di entrarvi, stante la molta gente accalcata intorno; non riuscirono neppure a raggiungere la scalinata esterna per accedere alla terrazza e allora passarono da quella vicina. Scavalcarono, con tutta la fatica e la cautela del caso stante l’amico che trasportavano sul lettino, il muretto che divideva una terrazza dall’altra e così giunsero a quella della casa di Gesù. A questo punto, si misero a lavorare sul pavimento – soffitto, costituito da fango essicato o argilla che poggiava su un fitto strato di rami sostenuti da travi. Sulla terrazza esisteva molto spesso uno strumento particolare, una sorta di rullo, un cilindro che in caso di pioggia veniva fatto rotolare su e giù per il pavimento per compattare l’impasto di argilla ed evitare che piovesse in casa. Vero è che Luca, a differenza di Matteo e Marco, parla di “tegole”, ma il termine non va collegato al nostro; piuttosto alla sua etimologia dal latino “tegere”, cioè “coprire”. Ciascuno proteggeva il soffitto-terrazzo come poteva e non è escluso che vi fossero, nel punto scelto dagli amici del paralitico, magari delle tavole a protezione del pavimento che, per la natura del manufatto, avrebbe potuto essere riparato dagli stessi in breve tempo e con uno sforzo certo minore rispetto a quello fatto per condurre il loro amico infermo fin lì.

A quanto risulta dai sinottici, questi calarono il loro amico dal tetto senza dire nulla: il loro comportamento parlava da solo perché avevano fatto la fatica di portare quell’uomo fin lì e quindi ingegnarsi per raggiungere Gesù consapevoli che avrebbero dovuto fare in fretta stante le probabilità che, da un momento all’altro, finisse di parlare ed uscisse di casa per ritirarsi in qualche luogo sconosciuto a pregare. Ecco che il loro comportamento rivelava due cose: erano certi che Gesù avrebbe potuto guarire il loro amico e al tempo stesso denota l’amore che avevano per lui perché sicuramente quel trasporto era faticoso se non altro per il caldo, visto che non sappiamo quanto pesasse quel corpo incapace di muoversi e forse di parlare. Non credo di essere azzardato dicendo che quella che Gesù e i presenti videro altro non fu che una preghiera fatta con le opere e non con le parole, come ve ne saranno altre. E sappiamo molto bene che è quello che facciamo che rivela spesso il nostro pensiero al di là di ciò che possiamo dire.

A questo punto avviene qualcosa di estraneo alle aspettative di tutti: Gesù non dice “guarisci” o “àlzati”, ma “Uomo, ti sono rimessi i peccati”, frase che Matteo riporta leggermente diversa: “Coraggio, figlio, ti sono perdonati i peccati”, segno che Lui conosceva il passato, la storia di quella persona e che era la condizione di peccato in cui versava a renderlo paralitico per cui solo il perdono di Dio avrebbe potuto liberarlo. Ma posiamo anche andare oltre: perché Gesù avrebbe detto “Coraggio” se non ci fosse stato bisogno di consolarlo al di là della sua condizione fisica? Dire “Àlzati” avrebbe risolto tutto, e invece la prima parola fu “Coraggio”, cioè un invito morale. È così azzardato supporre che quell’uomo fosse angosciato, oltre che dalla sua paralisi, per uno o più peccati commessi che avevano finito per penalizzarlo in quel modo? Non credo che Gesù avesse pronunciato una frase del genere se non fosse stato il peccato che tormentava la coscienza e non la paralisi il problema di quell’uomo, né tantomeno che dire “ti sono rimessi i peccati” fosse stato uno strumento per suscitare la discussione, che poi avvenne, coi farisei e i dottori presenti che Robert Steward definisce “al tempo stesso giuristi e teologi, legislatori e sacerdoti della nazione giudaica”.

Ebbene, quei sapienti furono immediatamente scandalizzati: “Chi è costui che dice bestemmie? Chi può perdonare i peccati, se non Dio soltanto?”. Due sono gli elementi su cui soffermarsi, il “costui” usato in senso spregiativo, e il bestemmiare, che se nel greco classico si usa per denotare ogni sorta di maldicenza contro il prossimo, in quello ellenistico di Luca denota empietà e malvagio parlare contro Dio.

A questo punto Nostro Signore, che conosceva i ragionamenti dei suoi oppositori, li interroga sul perché pensassero quelle cose. Matteo scrive “Perché pensate cose malvagie nel vostro cuore? Che cosa infatti è più facile: dire «Ti sono perdonati i peccati», oppure «Àlzati e cammina»?”: fu sicuramente un rimprovero, ma con lo scopo di porre i suoi antagonisti di fronte alla loro coscienza. Parafrasando: “Perché pensi così? Prima che a me, rispondi a te stesso, cerca le ragioni di questo tuo astio alla luce di quello che sai giù su di me e a quello che vedrai”. La seconda parte delle parole di Gesù sono destinate a zittire i pensieri e i mormorii di quelli: è facile dire a una persona “ti sono rimessi i peccati”, ma non altrettanto a un paralitico di alzarsi e camminare, cosa che avvenne, lasciando muti e soli quei religiosi di fronte alle loro responsabilità. E il termine ebraico che indicava la parola “peccato” poteva indicare tanto una colpa commessa quanto le sue conseguenze ed era proprio l’infermità corporale grave e cronica che, come già visto in altri episodi, la denotava.

Venendo a noi, l’incontro con Gesù e le sue parole lascia sempre, all’inizio, l’essere umano solo di fronte a sé stesso: è a un bivio, deve inevitabilmente scegliere se rimanere nelle convinzioni di cui è vittima nonostante creda il contrario, oppure mettersi in discussione di fronte a quanto gli viene detto. Non è facile: richiede umiltà, apertura, disponibilità e sì, rinunciare a se stessi per seguirLo nel cammino. Il problema, la domanda, non è “cosa perdo se accetto Gesù Cristo”, ma “dove vado e a quale punto arrivo se seguo me stesso e dove vado e dove arrivo se seguo Lui”.

La vita che scorre da quando l’uomo è stato estromesso da Eden ad oggi è descritta in sintesi dal re Salomone in tutto il libro dell’Ecclesiaste, o Qoelet: “3Quale guadagno viene all’uomo
per tutta la fatica con cui si affanna sotto il sole? 4Una generazione se ne va e un’altra arriva,
ma la terra resta sempre la stessa. 5Il sole sorge, il sole tramonta e si affretta a tornare là dove rinasce.
6Il vento va verso sud e piega verso nord. Gira e va e sui suoi giri ritorna il vento.
7Tutti i fiumi scorrono verso il mare, eppure il mare non è mai pieno: al luogo dove i fiumi scorrono,
continuano a scorrere. 8Tutte le parole si esauriscono e nessuno è in grado di esprimersi a fondo.
Non si sazia l’occhio di guardare né l’orecchio è mai sazio di udire. 9Quel che è stato sar
e quel che si è fatto si rifarà; non c’è niente di nuovo sotto il sole. 10C’è forse qualcosa di cui si possa dire:
«Ecco, questa è una novità»? Proprio questa è già avvenuta nei secoli che ci hanno preceduto.
11Nessun ricordo resta degli antichi, ma neppure di coloro che saranno si conserverà memoria
presso quelli che verranno in seguito”
(Ecclesiaste 1.3-11). Anche questa è una paralisi, per quanto illusoriamente mobile.

Al paralitico vengono affidati tre compiti: alzarsi, prendere il lettino al quale per molto tempo e con sofferenza era stato costretto, e andarsene a casa sua. Sarebbe iniziata per lui una vita nuova, perfettamente conseguente al perdono dai peccati ricevuto. E non è certo sottovalutabile la sua reazione: “Subito egli si alzò davanti a loro, prese il lettuccio su cui era disteso e andò a casa sua, glorificando Iddio”. Si noti che non è scritto che ringraziò l’uomo Gesù, ma glorificò Iddio, cioè riconobbe che quanto avvenuto era stato possibile unicamente grazie a quel Dio che prima gli aveva fatto patire le conseguenze di una condizione di peccato e poi gli aveva rimesso ogni colpa. “Glorificare Dio” era la stessa cosa che ringraziare chi lo aveva guarito e, ancor di più, chi gli aveva rimesso i peccati. Da un lato abbiamo perdono e guarigione, dall’altro gli uomini della Legge orale e scritta che rimasero lì, induriti sulle loro posizioni senza un perché. Non si trattava più, come annota Giuseppe Ricciotti, “di qualche elegante questione casistica rabbinica, ad esempio di sapere se fosse lecito di sabato sciogliere il nodo di una fune o trasportare un fico secco”, ma di ammettere semplicemente che il Regno di Dio era finalmente giunto a loro e che Gesù stava dimostrando di essere l’incarnazione delle promesse fatte ai profeti a partire da Abrahamo, che loro ritenevano loro padre. Nessuno di loro lo fece.

Concludendo, abbiamo una cosa che in questo episodio accomuna gli ostili a Gesù, il paralitico e i suoi amici: tutti intraprendono un cammino per andare da Lui. I primi per accusarlo e il risultato che ottennero fu solo sconfitta e livore, i secondi consapevoli che solo Nostro Signore avrebbe potuto risolvere il loro grave problema, E la gioia fu il loro premio. I primi pensavano di essere qualcosa, i secondi partecipavano alla sofferenza dell’amico e andarono a Cristo per essere esauditi, o anche solo ascoltati attraverso le loro azioni. Solo la Parola di Dio che è Spirito e Vita può quindi risolvere la condizione di peccato in cui si trova l’uomo perché solo per mezzo della fede si riceve la giustificazione e la pace di Dio.

E Davide nel suo Salmo 108.13 scrive sotto la dispensazione della Legge “Il Signore è buono e pietoso, lento all’ira e grande nell’amore. Egli non continua a contestare e non conserva per sempre il suo sdegno, non ci tratta secondo le nostre colpe – cosa che il cristiano sa molto bene –. Come il cielo è alto sulla terra, così grande è la sua misericordia su quanti lo temono; come dista l’Oriente dall’Occidente, così allontana da noi le nostre colpe. Come un padre ha pietà dei suoi figli – il Padre Nostro che è nei cieli – così il Signore ha pietà di quanti lo temono”. Amen.

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3.06 – GESÙ IN PREGHIERA (Luca 5.15,16)

3.06 – Gesù in preghiera (Luca 5.15-16)

15Di lui si parlava sempre di più. E folle numerose venivano per ascoltarlo e farsi guarire dalle loro malattie. 16Ma Egli si ritirava in luoghi deserti a pregare”.

Con questa lettura ci troviamo di fronte a due situazioni distinte di cui solitamente si prende atto passandovi sopra, quasi ansiosi di leggere l’episodio successivo, tra la guarigione del lebbroso e quella del paralitico. Ciò che Luca descrive nei nostri versi è semplice: da un lato abbiamo le folle composte da curiosi che volevano vederlo, ascoltarlo e alcuni di loro guarire dalle malattie che li affliggevano, dall’altro vediamo la volontà di Gesù di ritirarsi in luoghi deserti e pregare, azione che lo accomuna a tutti gli altri uomini cui premeva e preme instaurare un rapporto con Dio.

Lui, il Figlio, tutt’uno con il Padre nella dimensione spirituale prima, durante e dopo la creazione, aveva assunto un corpo assolutamente identico al nostro provando la fatica, la fame e la sete. Lui, che teoricamente non aveva bisogno di nulla, si ritira in luoghi deserti per compiere un atto che per noi è indice di subordinazione e dipendenza, condizioni che si riferiscono al suo essere uomo per l’eredità materna che aveva ricevuto nella carne e alla quale non poteva sottrarsi. Questo era il limite di Gesù uomo, “limite” che scandalizza quelli che sono convinti che parlare di Dio impiegando espressioni come “non potere” o pensare che Lui potesse avere dei confini da non superare sia un oltraggio stante la sua onnipotenza.

La storia “interiore” di Gesù è spiegata in Filippesi 2.5-11: “Egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che al di sopra di ogni altro, perché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami «Gesù è il Signore!» a gloria di Dio Padre”.

Esaminiamo brevemente le fasi attraverso le quali passò Gesù descritte in questi veri. La prima è descritta in poche parole: era nella condizione di Dio, quindi in Lui e con Lui tanto prima che dopo la creazione. Era tutt’uno con quel Dio divenuto irraggiungibile dopo il peccato dei nostri progenitori perché Santo e quindi assolutamente distante e incompatibile con loro. Eppure, nei tempi da lui decretati, “non ritenne un privilegio essere come Dio, ma svuotò se steso assumendo una condizione di servo, divenendo simile agli uomini”. Si svuotò, scelse di farlo, l’azione del verbo riflessivo non lascia dubbi in proposito. Non era possibile diventare uomo senza rinunciare alla gloria e al posto che aveva quando era nella sua condizione originale e, per diventare creatura, dovette rinunciare ad essere creatore nel senso di essere quella “Parola” mediante la quale tutte le cose sono state create. “Parola” certo lo rimase e lo era, ma per portare agli uomini la “Grazia e la Verità che sono venute per mezzo di Gesù Cristo”. Assunse così “la condizione di servo, diventando simile agli uomini”. Pensiamo: Dio stesso, il Figlio, si fa uomo per servire, come nessun altro avrebbe mai potuto fare, il Padre., perché non c’era nessuno che potesse farlo. Atanasio di Alessandria, vescovo e teologo greco vissuto tra il 200 e il 300, scrisse che “Non volle semplicemente essere in un corpo né volle soltanto apparire in un corpo. Infatti, se avesse voluto semplicemente apparire, avrebbe potuto manifestare la sua divinità per mezzo di un essere più potente” come da sempre avvenuto – aggiungo io – nella mitologia tanto antica quanto moderna (Atanasio, L’incarnazione del verbo, cap.2). Era necessario un corpo di uomo, quella creatura che nonostante i suoi sforzi non riusciva mai ad essere interamente giusto a causa dei peccati che commetteva, accidentali o per semplice ignoranza. Ecco che Gesù si identifica con noi senza però condividere ed effettuando le nostre scelte.

Identico agli uomini per aspetto, Isaia 53.2 ci dice che “Non aveva né forma, né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per poterci piacere”, “umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte, e a una morte di croce”: l’umiliazione di Dio fu possibile unicamente grazie ad un amore smisurato più che dalla Sua onnipotenza: da un lato quello per il Padre visto nell’obbedienza alla legge, al suo “compimento”, e dall’altro quella per l’essere umano. Non fu facile: l’obbedienza fu faticosa e sofferente, che sempre Isaia nello stesso capitolo – per non parlare dei Vangeli quando affrontano il tema dall’arresto alla crocifissione e non solo – scrive “Eppure si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che dà salvezza si è abbattuto su di lui, per le sue piaghe noi siamo stati guariti”.

Gesù quindi, prendendo un corpo come il nostro, provò su di sé la separazione dal Padre cui era unito dall’eternità, la soggezione al tempo che mai aveva avuto, la debolezza sua e di quanti lo circondavano contro la quale non poteva permettersi di perdere a meno di rinunciare a salvare la creatura. Ecco allora spiegato quanto avesse da pregare e ancora di più il perché. Lui, in grado di esaudire le preghiere dei malati, non poteva pregare sé stesso, sarebbe stata una cosa incompatibile, avrebbe generato un cortocircuito e infatti non fece mai un miracolo che lo agevolasse. Fu infatti il Padre a inviargli degli angeli a servirlo e consolarlo dopo i quaranta giorni nel deserto, non Lui a chiamarli.

Capire la condizione di Gesù uomo è basilare non solo perché il suo essere tale è uno dei cardini della fede cristiana, ma piuttosto per avere un quadro del suo essere, di cosa provasse. E L’Antico Testamento, che contiene una quantità immensa di contenuti che trovano la loro rivelazione perfetta nel Nuovo, ci aiuta con due personaggi che si possono sotto certi aspetti collegare a Nostro Signore, cioè Mosè e il sommo sacerdote: il primo avrebbe dovuto condurre il popolo di Israele dall’Egitto alla terra promessa, ma purtroppo in quanto essere umano peccò e al suo posto fu Giosuè a portare a termine la sua opera. Si tratta di un avvenimento su cui occorre soffermarsi: in Numeri 27.12-14 leggiamo “12Il Signore disse a Mosè: «Sali su questo monte degli Abarìm e contempla la terra che io do agli Israeliti. 13Quando l’avrai vista, anche tu sarai riunito ai tuoi padri, come fu riunito Aronne tuo fratello, 14perché vi siete ribellati contro il mio ordine nel deserto di Sin, quando la comunità si ribellò, e non avete manifestato la mia santità agli occhi loro, a proposito di quelle acque». Sono le acque di Merìba di Kades, nel deserto di Sin”.

La lettura del passo di riferimento in Numeri 20.1-13, che narra della ribellione di Mosé, a prima vista passa sotto questo aspetto quasi inosservata; proviamo a leggerla: “1Ora tutta la comunità degli Israeliti arrivò al deserto di Sin il primo mese, e il popolo si fermò a Kades. Qui morì e fu sepolta Maria.2Mancava l’acqua per la comunità: ci fu un assembramento contro Mosè e contro Aronne. 3Il popolo ebbe una lite con Mosè, dicendo: «Magari fossimo morti quando morirono i nostri fratelli davanti al Signore! 4Perché avete condotto l’assemblea del Signore in questo deserto per far morire noi e il nostro bestiame? 5E perché ci avete fatto uscire dall’Egitto per condurci in questo luogo inospitale? Non è un luogo dove si possa seminare, non ci sono fichi, non vigne, non melograni, e non c’è acqua da bere».6Allora Mosè e Aronne si allontanarono dall’assemblea per recarsi all’ingresso della tenda del convegno; si prostrarono con la faccia a terra e la gloria del Signore apparve loro. 7Il Signore parlò a Mosè dicendo: 8«Prendi il bastone; tu e tuo fratello Aronne convocate la comunità e parlate alla roccia sotto i loro occhi, ed essa darà la sua acqua; tu farai uscire per loro l’acqua dalla roccia e darai da bere alla comunità e al loro bestiame». 9Mosè dunque prese il bastone che era davanti al Signore, come il Signore gli aveva ordinato. 10Mosè e Aronne radunarono l’assemblea davanti alla roccia e Mosè disse loro: «Ascoltate, o ribelli: vi faremo noi forse uscire acqua da questa roccia?». 11Mosè alzò la mano, percosse la roccia con il bastone due volte e ne uscì acqua in abbondanza; ne bevvero la comunità e il bestiame.12Ma il Signore disse a Mosè e ad Aronne: «Poiché non avete creduto in me, in modo che manifestassi la mia santità agli occhi degli Israeliti, voi non introdurrete quest’assemblea nella terra che io le do». 13Queste sono le acque di Merìba, dove gli Israeliti litigarono con il Signore e dove egli si dimostrò santo in mezzo a loro”.

Ecco, qui vediamo da un lato che la nostra mente umana non trova elementi per rimproverare qualcosa a Mosè, ma dall’altro che lui aggiunge delle parole che Dio non gli aveva ordinato di pronunciare (il rimprovero agli israeliti) e che usa il bastone percuotendo la roccia per due volte quando gli era stato detto di limitarsi a portarlo con sé. Questo bastò perché il Signore intervenisse prima con parole di rimprovero e poi con un intervento di esclusione. Al di là di tutte le applicazioni possibili su questi passi, per la natura di questo studio l’unica riflessione che mi sento di fare è che nessun uomo può essere un conduttore perfetto verso Dio, così come nessun uomo può essere un mediatore adeguato tra il suo simile e Lui. Mosè era stato scelto da YHWH, è considerato il legislatore nella storia del popolo eletto e già allora, velatamente, era possibile prendere atto di come che la Legge non aveva il potere di redimere, ma solo quello di dare il senso della enorme distanza che intercorreva tra Dio e gli uomini, una Legge che sappiamo fu definita dall’apostolo Paolo “Ombra dei futuri beni, non la forma reale stessa delle cose” (Ebrei 10.1). A Mosè non fu consentito di portare il popolo nella terra promessa, ma fu anche l’uomo che ebbe l’onore di essere sepolto da Dio stesso sul monte Nebo dopo avere visto il territorio in cui Israele sarebbe entrato. Elia ed Enoch furono da Lui rapiti in cielo, Mosé fu da lui sepolto. Noto adesso come, del tutto involontariamente, io continui a porre sempre due casi, due esempi, due che nella Bibbia è sia numero di contrapposizione che di collaborazione al tempo stesso.

C’è poi la figura del sommo sacerdote, che aveva una funzione del tutto particolare che gli altri, i semplici sacerdoti, non avevano. Era l’unico abilitato a entrare nel “Santo dei Santi”, la camera più interna del Tempio di Gerusalemme e poteva farlo una volta all’anno nella festa dello Yom Kippur, il giorno dell’espiazione, in cui offriva un sacrificio di espiazione per i peccati di tutto il popolo. Eppure anche lui aveva un limite: era un uomo come gli altri, come i suoi simili peccava, non poteva avere la dimensione del compatimento per le debolezze altrui perché preso a pensare alle proprie, era in una parola imperfetto nonostante l’assenza di difetti fisici che lo avrebbero reso incompatibile con la sua funzione. Ecco perché in Ebrei 4.14-16 sono spiegate le differenze tra il sommo sacerdote secondo la carne e Gesù stesso: “Dunque, poiché abbiamo un sommo sacerdote grande che è passato attraverso i cieli – con la sua ascensione – Gesù il Figlio di Dio, manteniamo ferma la nostra professione di fede. Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato. Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno”.

Ma l’apostolo Paolo, probabile autore di questa lettera, fariseo autorevole formatosi alla scuola rabbinica più autorevole del tempo, non si ferma qui, ma spiega l’umanità di Gesù mettendola in relazione all’espiazione dei peccati: “…perciò doveva rendersi in tutto simile ai fratelli per diventare un sommo sacerdote misericordioso e degno di fede nelle cose che riguardano Dio, allo scopo di espiare i peccati del popolo. Infatti, proprio per essere stato messo alla prova e avere sofferto personalmente, egli è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova” (Ebrei 2.17-18). Se il sommo sacerdote dell’antico patto offriva sacrifici anche per se stesso, Gesù offrì se stesso come sacrificio nonostante la sua perfezione. Se e quando il credente soffre per le prove che la vita inevitabilmente gli riserva, sa che prima di lui Gesù ha sofferto e non lo ha dimenticato. “È in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova”.

E per rendere ancora più chiara la funzione di Nostro Signore sotto questo aspetto, Paolo attinge ancora dalla memoria dell’Antico Patto specificando che “Cristo è venuto come sommo sacerdote dei beni futuri, attraverso una tenda più grande e più perfetta – che va oltre quindi al luogo santissimo – non costruita da mano d’uomo, cioè non appartenente a questa creazione. Egli entrò una volta per sempre nel santuario non mediante il sangue di capri e di vitelli, ma in virtù del proprio sangue, ottenendo così una redenzione eterna” (Ebrei 9.11,12).

Ecco, con questi versi che abbiamo citato ed esaminato brevemente, abbiamo un’idea dei motivi per cui Gesù pregasse, essendo necessaria una costante, continua comunione col Padre dal quale si era separato per poter condurre a termine la missione che aveva scelto di intraprendere. Solo attraverso la preghiera, con la quale confessava il bisogno che aveva dell’assistenza del Padre, poteva essere in grado di affrontare il compimento della Legge che gli era richiesto. “Non sono venuto per abolire la legge, ma per adempierla”. Lui, come Parola ab eterno, non ne aveva nessun bisogno, noi sì. Amen.

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3.05 – IL LEBBROSO GUARITO (Matteo 8.1-4 e riferimenti)

3.05 – Il lebbroso guarito (Matteo 8.1-4, Marco 1.40-45, Luca 5.12-15)

 

Dalla chiamata di Simone, Andrea, Giacomo e Giovanni, per un certo tempo, stabilire una cronologia di avvenimenti diventa praticamente impossibile ed è probabile che i sinottici mettano i miracoli che Gesù fece in Galilea senza preoccuparsi di indicarne la reale successione stante il fatto che i loro Vangeli sono un libro di testimonianza e non si preoccupano della successione temporale. Se gli Autori avessero dovuto e/o voluto scrivere un trattato storico, si sarebbero comportati diversamente ma, stante il profondo significato che rivestono i miracoli, ce ne presentano alcuni fra quelli compiuti in Galilea. In particolare la guarigione del lebbroso, il primo a venire narrato da Marco e Luca dopo la chiamata dei quattro, avvenne forse dopo il sermone di Gesù detto “della montagna”, stante la precisione con la quale Matteo lo colloca. Leggiamo infatti al suo capitolo ottavo:

1 Scese dal monte e molta folla lo seguì. 2Ed ecco, si avvicinò un lebbroso, si prostrò davanti a lui e disse: «Signore, se vuoi, puoi purificarmi». 3Tese la mano e lo toccò dicendo: «Lo voglio: sii purificato!». E subito la sua lebbra fu guarita. 4Poi Gesù gli disse: «Guàrdati bene dal dirlo a qualcuno; va’ invece a mostrarti al sacerdote e presenta l’offerta prescritta da Mosè come testimonianza per loro»” (Matteo 8.1-4)”.

Leggiamo Marco, che fornisce qualche particolare in più, con Luca che concorda interamente con lui:

“40Venne da lui un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi purificarmi!». 41Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, sii purificato!». 42E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato. 43E, ammonendolo severamente, lo cacciò via subito 44e gli disse: «Guarda di non dire niente a nessuno; va’, invece, a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha prescritto, come testimonianza per loro». 45Ma quello si allontanò e si mise a proclamare e a divulgare il fatto, tanto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti; e venivano a lui da ogni parte”. “ (1.40-45)

Prima di analizzare l’episodio, occorre dare delle indicazioni sulla lebbra, malattia terribile che, nella Bibbia, non indica necessariamente quella oggi conosciuta dalla medicina, ma anche altre irritazioni patologiche infettive della pelle. Alcune traduzioni antiche infatti la chiamano vitiligine (che però non è infettiva e non corrisponde alle caratteristiche riportate nel levitico), Tacito ne parla come “consunzione che contamina i corpi”, altri la paragonano alla tigna. In realtà, nei testi riguardo alla lebbra, è fuor di dubbio che la si citi nelle sue due forme, a macchie o a noduli. C’è anche, come abbiamo fatto per la febbre, da stabilire un preciso distinguo sul significato che aveva per Israele e per gli altri popoli perché, come abbiamo ricordato in un altro episodio, se la malattia per i pagani altro non era che la conseguenza del peccato in Adamo, quindi facente parte degli eventi che rientravano nella esclusione da Eden in cui non esisteva, per Israele era un evento che avrebbe potuto essere evitato con l’osservanza della Legge e dei suoi comandamenti secondo il capitolo 28 del Deuteronomio.

La lebbra così come è stata e viene studiata, quella che flagellò l’Europa medievale, si distingue in tubercoloide o lepromatosa: nel primo caso si presenta con alcune macule o placche ipopigmentate o eritematose, a volte con lesioni papulose raggruppate. Alcune possono diventare ipoanestetiche. La terminazione nervosa appare edematosa e ispessita, con possibile danno neurologico attorno ad esse. La seconda è invece molto più invalidante: dal naso chiuso con epistassi si passa a macchie ipocromiche seguite da lesioni di ogni tipo sui tessuti molli: pustole, noduli, placche, la pelle del volto si ispessisce con lesioni che poi portano alla deformazione o distruzione della cartilagine, del setto e delle ossa nasali. Si modificano le ossa, la pelle delle gambe si ispessisce e viene interessata da ulcere che causano deformazioni, infezioni, necrosi e non di rado si rendono necessarie le amputazioni delle estremità.

Vediamo come è descritta nell’Antico Testamento. Il capitolo 13 del libro del Levitico dà istruzioni minuziose al sacerdote per distinguerla ed in Deuteronomio 24.8, per evitare contagi, leggiamo “In caso di lebbra, bada bene ad osservare diligentemente e fare quanto i sacerdoti leviti vi insegneranno”: spettava infatti solo al sacerdote fare la diagnosi e dichiarare il lebbroso guarito o meno.

Il lebbroso perdeva qualunque tipo di ruolo e di contatto con la società, come fu nel caso del re Ozia, detto anche Azaria, punito con quella malattia perché voleva offrire l’incenso sull’altare al posto dei sacerdoti consacrati a quel compito: “18Questi si opposero al re Ozia, dicendogli: «Non tocca a te, Ozia, offrire l’incenso al Signore, ma ai sacerdoti figli di Aronne, che sono stati consacrati per offrire l’incenso. Esci dal santuario, perché hai prevaricato. Non hai diritto alla gloria che viene dal Signore Dio». 19Ozia, che teneva in mano il braciere per offrire l’incenso, si adirò. Mentre sfogava la sua collera contro i sacerdoti, gli spuntò la lebbra sulla fronte davanti ai sacerdoti nel tempio del Signore, presso l’altare dell’incenso. 20Azaria, sommo sacerdote, e tutti i sacerdoti si voltarono verso di lui, che apparve con la lebbra sulla fronte. Lo fecero uscire in fretta di là; anch’egli si precipitò per uscire, poiché il Signore l’aveva colpito. 21Il re Ozia rimase lebbroso fino al giorno della sua morte. Egli abitò in una casa d’isolamento, come lebbroso, escluso dal tempio del Signore. Suo figlio Iotam era a capo della reggia e governava il popolo della terra.22Le altre gesta di Ozia, dalle prime alle ultime, le ha descritte il profeta Isaia, figlio di Amoz. 23Ozia si addormentò con i suoi padri e lo seppellirono con i suoi padri nel campo presso le tombe dei re, perché si diceva: «È un lebbroso»” (2 Cronache 26.18-23).

Il caso di Azaria è anche raccontato così: “2Quando divenne re aveva sedici anni; regnò a Gerusalemme cinquantadue anni. Sua madre era di Gerusalemme e si chiamava Iecolia. 3Egli fece ciò che è retto agli occhi del Signore, come aveva fatto Amasia, suo padre. 4Ma non scomparvero le alture. Il popolo ancora sacrificava e offriva incenso sulle alture. 5Il Signore colpì il re, che divenne lebbroso fino al giorno della sua morte e abitò in una casa d’isolamento” (2 Re 15.2-5).

Lo stato psicologico dei lebbrosi è descritto in 2 Re 7.3-4, erano persone che non avevano nulla da perdere perché nulla possedevano, neppure la loro vita: “3Ora c’erano quattro lebbrosi sulla soglia della porta. Essi dicevano fra di loro: «Perché stiamo seduti qui ad aspettare la morte? 4Se decidiamo di andare in città, in città c’è la carestia e vi moriremo. Se stiamo qui, moriremo. Ora, su, passiamo all’accampamento degli Aramei: se ci lasceranno in vita, vivremo; se ci faranno morire, moriremo».

Possiamo anche ricordare in opposizione il generale siriano Naaman, lebbroso, che guarì dalla malattia dopo essersi bagnato sette volte nel giordano dietro ordine di Eliseo (2 Re 5.1-14).

Ai tempi di Gesù molti erano i lebbrosi e quando ciò capitava, ricordando la malattia che aveva colpito Maria, sorella di Mosé che lo aveva criticato, dicevano “Il dito di Dio ha colpito ancora”. Allo stesso modo la guarigione di un lebbroso era attribuita ad un intervento benevolo di Dio, ricordando proprio Naaman, oppure l’episodio di Mosé nel suo colloquio con YHWH, per quanto con significato diverso: “6Il Signore gli disse ancora: «Introduci la mano nel seno!». Egli si mise in seno la mano e poi la ritirò: ecco, la sua mano era diventata lebbrosa, bianca come la neve. 7Egli disse: «Rimetti la mano nel seno!». Rimise in seno la mano e la tirò fuori: ecco, era tornata come il resto della sua carne” (Esodo 4.6,7).

I lebbrosi vivevano lontani dal popolo, non potevano avere contatti con nessuno e sopravvivevano con cibo che persone caritatevoli lasciavano loro nei pressi delle loro dimore. Erano vestiti con un sacco o stracci, erano a volte dotati di un campanello che facevano suonare agitandolo o facendo rumore con altri oggetti e dovevano gridare, nel caso si avvicinassero altre persone, “L’immondo! L’immondo!”. Quando lungo il cammino incrociavano una o più persone, dovevano cedere loro il passo, velarsi le labbra e porsi sempre controvento senza mai parlare di fronte a una persona sana. La vita dei lebbrosi era di stenti anche morali, perdendo i loro affetti più cari, di emarginazione e sofferenze: non c’erano cure né gli antibiotici che hanno reso oggi la malattia curabile.

Ora, in questa città o villaggio innominato, un lebbroso arriva, la folla gli fa largo con un sentimento misto a repulsione e curiosità di vedere quale atteggiamento avrebbe tenuto il Maestro, che si trova di fronte a lui quest’uomo che gli si inginocchia davanti, poi gli si stende a terra davanti a lui (“si prostrò”) in segno di sottomissione e adorazione talché alcune traduzioni riportano “lo adorò” riassumendo i due atteggiamenti che assunse. Quel lebbroso non gli chiede di guarirlo come faranno altri supplicandolo, ma gli dice “Signore se tu vuoi, puoi guarirmi”, cioè si rimette alla sua volontà e soprattutto alla sua conoscenza dell’uomo perché un conto è chiedere di essere guariti anteponendo la propria persona, altro è rivolgersi lasciando libero chi può guarire dal farlo o meno. Quel “Signore” col quale si rivolge a Gesù denota la fede che aveva: non sapeva chi fosse, cioè non lo adora come Figlio di Dio come faranno i cristiani in seguito, ma sa che in Lui c’è la Sua potenza. È questo un passo molto delicato e importante, perché sono convinto che in quel “se vuoi” sia compreso il sapere, da parte di quell’uomo, che solo Gesù avrebbe potuto capirlo e valutare se meritasse o no la guarigione alla luce della fede che poneva in lui, che al pari di molti aveva sentito parlare dei miracoli e degli insegnamenti fatti nella regione.

Due quindi erano le convinzioni di quel lebbroso: la prima era che lui fosse qualcuno superiore a tutti, la seconda che avrebbe potuto guarirlo se solo avesse voluto, concetto che altri nel corso della narrazione evangelica esporranno dimostrando umiltà e fede. L’atteggiamento esterno del lebbroso fu assolutamente corrispondente a quello interno, perché altrimenti non sarebbe stato esaudito: non era Gesù ad avere bisogno di quel miracolo, ma quell’uomo che, con quella frase, non solo si pone in secondo piano rispetto a Lui, ma gli rimette ogni decisione conscio di una valutazione divina sull’operare o meno: “Se tu vuoi, puoi”, in altri termini “Io sono nulla per poterti suggerire come operare”. Possiamo dire che quelle parole fossero un modo, da parte del lebbroso, di riconoscersi peccatore. Quelli come lui, inoltre, erano soliti chiedere l’elemosina agli altri, cosa che nel nostro caso non avviene.

Abbiamo letto il risultato di quella preghiera così singolare: il lebbroso guarì, Gesù gli disse “Lo voglio, sii guarito” e tese la mano verso di lui e lo toccò, cosa permessa solo al sacerdote. Chiunque toccava un lebbroso diventava automaticamente impuro, ma Gesù aveva già dimostrato, e lo avrebbe fatto ancora, che “chiunque” proprio non era: se chi, deputato a decretare tanto la presenza della lebbra quanto la sua guarigione non si contaminava, a maggior ragione non poteva infettarsi Colui che la malattia era in grado di guarire. E questo implicava il perdono, la liberazione dal peccato che l’aveva provocata.

Gesù, a guarigione avvenuta, lo ammonisce di non dir niente a nessuno: perché? Non spettava agli uomini comuni ammettere che era avvenuta la guarigione, ma al sacerdote, che gli rilasciava un attestato grazie al quale l’ex lebbroso ricuperava la propria libertà sociale e i diritti che aveva perso. Chi vuole approfondire, può leggere il capitolo 14 del Levitico, che illustra nei dettagli i passi che venivano effettuati dal sacerdote e dal lebbroso per recuperare la propria dignità sociale.

Il sacerdote di quella cittadina in cui si era verificato il miracolo, non solo avrebbe attestato la guarigione di quella persona, ma avrebbe dovuto ammettere che questa era stata procurata da Gesù in persona e, per quel tipo di malattia, era cosa non certo da poco visto che una delle caratteristiche del Messia promesso sarebbe stata quella di guarire i lebbrosi.

Abbiamo già citato Giovanni Battista in prigione che, anche provato dai mesi di prigionia nella fortezza di Erode, gli mandò a chiedere se era Gesù quello che doveva venire oppure dovevano aspettarne un altro: la Sua risposta fu “Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, è annunciato il Vangelo” (Matteo 11.2.5).

L’ammonizione di Gesù a quel lebbroso, che secondo Marco fu particolarmente severa, è probabile che poggiasse le sue ragioni sul fatto che il beneficiario di quell’intervento avesse un carattere particolarmente impulsivo – espansivo: infatti non fece come gli era stato comandato, ma divulgò il fatto a tutti e poi andò dal sacerdote. Il risultato fu un colossale fraintendimento da parte del popolo, che lo prese come guaritore formidabile, cioè risolutore di problemi umanamente invalidanti, senza guardare al reale scopo della Sua presenza in mezzo a loro: portare una dottrina utile allo spirito, in poche parole la “buona notizia” dell’amore di Dio finalmente dato e dichiarato agli uomini, al suo popolo. Leggiamo che Gesù non poteva più entrare in nessuna città, che era costretto a stare in luoghi deserti, ma che anche lì era raggiunto da gente che veniva da ogni parte. Ne approfitterà per insegnare nel suo “sermone sul monte” che esamineremo al termine di questa rassegna di miracoli.

Luca, che fino ad ora non abbiamo mai citato, descrive Gesù con queste parole: “Di lui si parlava sempre di più, e folle numerose venivano per ascoltarlo e farsi guarire dalle loro malattie. Ma Egli si ritirava in luoghi deserti a pregare” (Luca 5.15,16).

Concludo queste riflessioni con una domanda importante alla quale ho cercato di dare una risposta: se è chiaro e vero che Israele – e solo lui – aveva nelle malattie e nelle infermità una prova della riprensione di Dio nei cuoi confronti, come deve interpretare il credente – e solo lui – quanto gli avviene ogni giorno, poiché è scritto che i capelli del suo capo sono tutti contati? Credo che, se sia azzardato sostenere nel nostro caso che la malattia sia il castigo per una disubbidienza, sia anche vero che solo il diretto interessato, che conosce la propria storia e il proprio eventuale peccato, sia in grado di dare una risposta a questa domanda perché generalizzare come purtroppo molti fanno sia un’azione che porti alla superstizione e alla (purtroppo giusta e inevitabile) derisione da parte di quanti non credono. Per noi una malattia può essere un modo che ha il Signore di provare la nostra fede, il nostro comportamento nell’avversità, può essere anche un modo per affinare la nostra sensibilità per farci progredire e imparare perché non può esistere maturazione senza dolore: ricordando le parole di Paolo in Romani 5.3-5 “…ci vantiamo anche nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce pazienza, 4la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. 5La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato”.

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3.03 – LA SUOCERA DI PIETRO E I MALATI (Luca 4.38-44)

3.03 – La suocera di Pietro e i malati (Luca 4.38-44)

 

38Uscito dalla sinagoga, entrò nella casa di Simone. La suocera di Simone era in preda a una grande febbre e lo pregarono per lei. 39Si chinò su di lei, comandò alla febbre e la febbre la lasciò. E subito si alzò in piedi e li serviva.40Al calar del sole, tutti quelli che avevano infermi affetti da varie malattie li condussero a lui. Ed egli, imponendo su ciascuno le mani, li guariva. 41Da molti uscivano anche demòni, gridando: «Tu sei il Figlio di Dio!». Ma egli li minacciava e non li lasciava parlare, perché sapevano che era lui il Cristo.42Sul far del giorno uscì e si recò in un luogo deserto. Ma le folle lo cercavano, lo raggiunsero e tentarono di trattenerlo perché non se ne andasse via. 43Egli però disse loro: «È necessario che io annunci la buona notizia del regno di Dio anche alle altre città; per questo sono stato mandato». 44E andava predicando nelle sinagoghe della Giudea”.

Nulla sappiamo, come in numerosi casi di guarigione, dell’uomo liberato dallo spirito impuro che abbiamo visto nella scorsa riflessione se non che era stato messo nella condizione di ricominciare tutto da capo dopo un’attenta revisione del suo comportamento. Ora Luca e non solo, nell’episodio precedente, avendoci informato che tutto avvenne di sabato, ci consente di sapere che la casa di Pietro e Andrea era nei pressi della Sinagoga, poiché in quel giorno non potevano essere percorsi più di 890 metri, distanza stabilita dai rabbini studiando il passo di Giosuè 3.4 in cui si parla dello spazio che doveva intercorrere tra l’Arca dell’Alleanza, portata dai sacerdoti e dai leviti, e il resto del popolo. Anche il primo verso del nostro testo, “Uscito dalla sinagoga, entrò nella casa di Simone”, lascia pensare ad un’azione quasi immediata.

Marco riferisce che “Usciti dalla sinagoga vennero, con Giacomo e Giovanni, in casa di Simone e Andrea. Ora la suocera di Simone giaceva in letto, con la febbre, ed essi subito gliene parlarono” (1.30). È quindi probabile che quella casa fosse di proprietà di entrambi i fratelli, poiché erano benestanti stante il guadagno ottenuto dalla loro professione di pescatori. Il lago di Galilea infatti non era povero di fauna ittica e i guadagni erano consistenti (pensiamo a Zebedeo, padre di Giacomo e Giovanni, che aveva una flotta di barche e dei dipendenti al suo servizio).

Della febbre abbiamo già parlato in occasione della guarigione del figlio del funzionario reale, ma qui possiamo notare il diverso approccio: Gesù si chinò su di lei, “comandò alla febbre” – Marco scrive “La fece alzare” – “…e la febbre la lasciò”. Il chinarsi implica piegarsi con la persona verso qualcuno, in questo caso per sollevarla: è un gesto di aiuto verso un essere umano in difficoltà, a letto. Implica l’avvicinarsi ed è segno di compassione che denota volontà di aiutare, in questo caso guarire. È la prima volta in cui troviamo scritto che Nostro Signore si china su qualcuno, lui che avrebbe potuto agire stando distante come già avvenuto. Lui Figlio e Dio stesso, che poteva rimanere nella gloria e nell’onore che aveva, Creatore e Signore del cielo e della terra, si occupa di un essere umano chinandosi. Non so se quella donna fosse più grave del figlio del funzionario reale che stava per morire –, ma era in condizioni prossime alle sue perché Luca ci parla di “grande febbre” secondo l’uso di classificarla in “grande” o “piccola” di allora, come testimonia Galeno, medico greco del primo secolo D.C. i cui punti di vista hanno dominato la medicina occidentale fino al Rinascimento; con quel gesto Gesù volle manifestare la sua identificazione con l’essere umano nella sua condizione di impotenza a vivere come vorrebbe, cioè senza incappare in malattie e tutto quanto lo rallenta nelle sue attività quotidiane. Ricordiamo che la febbre poteva anche essere preludio di malattie più importanti, se non saliva e raggiungeva livelli tali da causare la morte. Gesù si china su di lei, denotando interesse e compassione. È giusto ripeterlo perché a volte, soggetti come tutti gli esseri umani istintivamente a reagire con ansia e paura di fronte alla malattia, tendiamo a dimenticare questo atteggiamento del Salvatore chino sull’uomo dimostrando prima di tutto si comprendere e sapere la condizione in cui la persona può venirsi a trovare.

Gesù opera non di sua iniziativa, ma perché i discepoli “lo pregarono per lei” diventando così un esempio anche per i cristiani, chiamati a pregare gli uni per gli altri e non solo per loro stessi. Troppe volte si tende a porre davanti a Lui i nostri problemi contingenti, si prega magari perché si hanno dei dolori fisici e non si fa caso alle sofferenze fisiche e morali del nostro prossimo, che crede come noi e forse non importuna Dio presentando i suoi problemi di salute perché ne ha di più importanti. I discepoli “Lo pregarono” perché sapevano che il suo intervento poteva essere risolutore. Gesù quindi operò come scrisse Isaia 750 anni prima della Sua venuta nel mondo in 53.4 quando scrisse “…eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori”.

Leggiamo che “comandò alla febbre”, altri traducono “sgridò la febbre”: non sappiamo quali parole usò, fatto sta che il Suo fu un comando pronunciato a voce alta e quella donna guarì istantaneamente: leggiamo “subito si alzò in piedi e li serviva”. La risposta a quella preghiera fu rapida, ma soprattutto inequivocabile come lo è qualsiasi intervento di Dio nei confronti nostri e di altri.

Per estensione, se la febbre naturale blocca le attività ordinarie dell’uomo, quella spirituale fa altrettanto e in un ambito più importante. Si contrae per ignoranza, per negligenza, trascuratezza, perché siamo esseri umani, di carne e può capitare che non sempre, per molte ragioni, siamo in grado di porre su noi stessi la vigilanza che dovremmo. Di qui l’importante contenuto della preghiera del “Padre Nostro” “non esporci alla tentazione”, traduzione più corretta rispetto a quella più usata, “non indurci”. Come cristiani, dovremmo avere il coraggio di riconoscere la nostra febbre, possibilmente quanto inizia appena ad insorgere, e chiedere a Dio l’aiuto per uscirne.

 

Ora la notizia di quella guarigione trapelò all’esterno e andò ad aggiungersi a quella della liberazione dell’indemoniato nella sinagoga fatta poco prima: era sabato, era proibito svolgere qualsiasi attività e per questo la gente attese, prima di portargli i malati nel prosieguo del racconto, che arrivasse il tramonto, cioè quando il giorno si concludeva e non si era più sotto il vincolo del quarto comandamento che è opportuno citare: “Ricordati del giorno di sabato per santificarlo. Sei giorni lavorerai e farai ogni tuo lavoro, ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: non farai alcun lavoro, né tu né tuo figlio né tua figlia, né il tuo schiavo o la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te” (Esodo 20.9,10). Ancora, Geremia 17.21,22 riporta “Così dice il Signore: per amor della vostra stessa vita, guardatevi dal trasportare un peso in giorno di sabato e di introdurlo per le porte di Gerusalemme. Non portate alcun peso fuori dalle vostre case in giorno di sabato e non fate alcun lavoro, ma santificate il giorno di sabato, come io ho comandato ai vostri padri”.

Rileggiamo ora i versi di Luca: “Al calar del sole, tutti quelli che avevano infermi affetti da varie malattie li condussero a lui. Ed egli, imponendo su ciascuno le mani, li guariva. Da molti uscivano anche demoni, gridando “Tu sei il Figlio di Dio!”. Ma egli li minacciava e non li lasciava parlare, perché sapevano che era lui il Cristo”. Marco completa l’episodio: “Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta. Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demoni, ma non permetteva ai demoni di parlare, perché lo conoscevano” (1.32-33).

Credo sia importante porre la nostra attenzione su due elementi, cioè la differenza intercorrente fra il “tutta la città”, o i “tutti” e i “molti”, che non indicano la stessa cosa. Si radunò davanti alla porta della casa di Simone una quantità impressionante di gente a tal punto che si può dire che tutta la città di Capernaum era presente, malati e indemoniati compresi portati là dai parenti. Però non tutti quelli portati a Gesù guarirono, poiché Marco scrive “Guarì molti”, cioè non adottò un comportamento universale, ma selettivo proprio perché altrove abbiamo letto che “conosceva quel che c’è nell’uomo”. Ecco allora che Nostro Signore guarì coloro che erano vittime e non protagoniste della loro condizione di peccato. La guarigione di un peccatore infatti ha senso solo se questi è disposto a ravvedersi e non per comportarsi come se nulla fosse una volta guarito perché tornerebbe nella sua condizione di prima, se non peggiore. Anche oggi credo che il Signore sappia fare distinzioni tra chi è protagonista o vittima di un peccato, quindi di se stesso nel profondo a livello di volontà, e che agisca di conseguenza. La Sua lettura dei cuori infatti è la capacità di valutare, più che i pensieri presenti in esso, ciò che è nell’anima e lo spirito che muove la persona, vale a dire il suo passato e il suo presente. E sì, anche il futuro che ne è spesso la conseguenza.

Poi ci sono gli indemoniati, persone che si manifestavano con i loro disturbi apertamente, a differenza dell’anonimo che abbiamo visto nella Sinagoga. Qui direi che è obbligatoria una domanda: si può escludere che Marco e Luca abbiano fatto rientrare nella categoria degli indemoniati anche delle persone disturbate mentalmente? Non a priori poiché il campo delle scienze che si occupano della mente è oggi molto vasto e una gran quantità degli interrogativi di allora hanno trovato una spiegazione nelle neuroscienze e nella psichiatria, per quanto non tutte. Piuttosto, l’indemoniato va raccordato al contesto storico di allora, in cui la lontananza da Dio del popolo di Israele aveva causato loro gravi danni: ricordiamo che non avevano profeti da 350 anni, che la presenza stessa dei malati, dei paralitici, ciechi e altre categorie a vasto raggio erano i sintomi di un allontanamento da quel Dio che aveva promesso, in caso di fedeltà ai suoi comandamenti, l’assenza di quelle che chiamiamo “sventure” e di qualsiasi tipo di malattie. Nell’Antico Patto, una malattia in Israele era sempre il risultato di un peccato, mentre per gli altri popoli era piuttosto la conseguenza della loro condizione ereditata da Adamo, vale a dire un corpo soggetto ad ammalarsi, logorarsi e infine morire. La presenza degli indemoniati tra il popolo testimoniava, in fin dei conti, quanto fosse lontana la loro mente dall’attesa del Cristo promesso.

Oggi Satana agisce in coloro che glielo consentono e ne fa dei suoi strumenti come fu il caso di Giuda Iscariotha di cui a un certo punto, nell’ultima cena di Gesù con gli apostoli, è scritto: “E intinto il boccone, lo prese e lo diede a Giuda Iscariotha, figlio di Simone. E allora, dopo quel boccone, Satana entrò in lui” (Giovanni 26,27). Ciò va detto per non incorrere nell’errore di alcune Chiese i cui componenti tendono a vedere l’opera del demonio ovunque, anche nelle persone depresse dimenticando che la mente, al pari del corpo, può sempre ammalarsi e va curata.

Credo che ogni cristiano debba piuttosto meditare quanto scrive Giovanni nella sua prima lettera: “Questo è il messaggio che abbiamo udito da lui e che noi vi annunciamo: Dio è luce e non vi è in lui tenebra alcuna. Se diciamo di essere in comunione con lui e camminiamo nelle tenebre, siamo bugiardi e non mettiamo in pratica la verità. Ma se camminiamo nella luce, come egli è nella luce, siamo in comunione gli uni con gli altri e il sangue di Gesù, il Figlio suo, ci purifica da ogni peccato. Se diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se confessiamo i nostri peccati, egli è fedele e giusto tanto da perdonarci i peccati e purificarci da ogni iniquità. Se diciamo di non avere peccato, facciamo di lui un bugiardo e la sua parola non è in noi” (1 Giovanni 5,10).

Tornando all’ultimo verso del nostro secondo episodio, leggiamo che i demoni lo qualificavano come Figlio di Dio, ma che Gesù non li lasciava parlare: erano testimoni di cui non aveva bisogno, inopportuni, che non avevano alcun diritto di qualificarlo in quel modo per quanto corrispondesse a verità. “Tu sei il Cristo, il Figlio dell’Iddio vivente”, come gli disse Pietro, è una frase che compete alla persona che Lo riconosce come Unico riferimento per la propria salvezza eterna.

 

Il terzo momento descritto da Luca ci conferma le due nature di Gesù, che dopo i tre episodi, cioè la guarigione dell’indemoniato, della suocera di Pietro e dei molti indemoniati, si alzò presto per pregare, cioè chiedere al Padre l’assistenza di cui aveva bisogno come uomo; ricordiamo le parole “Il mio cibo è fare la volontà di Colui che mi ha mandato”, quel cibo che i suoi discepoli non conoscevano. Gli abitanti di Capernaum non potevano certo dimenticare le guarigioni del giorno precedente e si misero a cercarlo. I primi a fare questo furono i discepoli, poi seguiti dagli altri. Infatti Marco scrive “E Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce. Lo trovarono e gli dissero «Tutti ti cercano»” (1.36,37): erano legati al fatto che dovesse restare lì, che avesse ancora molto da fare. Quelli di Capernaum però erano animati da un sentimento egoistico, come scrive Luca, perché “cercavano di trattenerlo perché non se ne andasse via” nel senso che volevano avere a loro disposizione quel Maestro così diverso dagli altri: prima doveva guarire le loro malattie e poi gli insegnare la Scrittura nella Sinagoga. Doveva essere motivo di vanto per Capernaum, città sulla quale poi pronuncerà una maledizione. Fu il loro un comportamento diverso da quello dei samaritani che abbiamo letto da poco, in cui Giovanni non riferisce di miracoli fatti in mezzo a loro, anche se non possiamo escludere che non siano avvenuti. I samaritani accolsero Gesù “con gioia”, a Capernaum inizia la volontà, non molto velata, di farne un condottiero politico o uno strumento di richiamo per la città al punto che più avanti, quando si recherà a Nazarth, i suoi concittadini pretendevano che facesse presso di loro gli stessi miracoli che aveva fatto là.

Su Capernaum Gesù formulerà un giudizio importante: “…e tu, Capernaum, sarai forse innalzata fino al cielo? Precipiterai fino agli inferi! Perché, se a Sodoma fossero avvenuti i prodigi che sono stati in mezzo a te, oggi essa esisterebbe ancora! Ebbene io vi dico, nel giorno del giudizio la terra di Sodoma sarà trattata meno duramente di te” (Matteo 11.22-24).

Gesù però non poteva accettare i sentimenti che animavano i suoi nuovi concittadini e, come lui stesso dice, la sua predicazione non poteva essere contenuta in un perimetro limitato, ma avrebbe dovuto essere per tutto il popolo di Israele: “È necessario che io annunci la buona notizia del regno anche alle altre città; per questo sono stato mandato”. Quindi, Luca dà un accenno su un periodo ulteriore: “E andava predicando nelle sinagoghe della Giudea”, che altre versioni indicano più correttamente nella Galilea dove si trovava. Un cammino che diversi commentatori hanno ritenuto abbia compiuto da solo.

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3.01 – UN TEMPO NUOVO (Vari autori)

3.01 – Un tempo nuovo (vari).

 

Con la venuta di Gesù in Galilea ci raccordiamo a Marco 1.14,15 che dice “Ora, dopo che Giovanni fu messo in prigione, Gesù venne in Galilea predicando il Vangelo del Regno di Dio e dicendo «Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino. Ravvedetevi e credete al Vangelo”».

Matteo 4.13,17 scrive “Poi lasciò Nazareth e venne ad abitare a Capernaum, città posta sulla riva del mare, ai confini di Zabulon e Neftali. Affinché si adempisse ciò che fu detto dal profeta Isaia quando scrisse «Il paese di Zabulon, il paese di Neftali, sulla riva del mare, in regione al di là del Giordano, la Galilea dei Gentili, il popolo che giaceva nelle tenebre ha visto una gran luce, e su coloro che giacevano nella regione e nell’ombra della morte si è levata una gran luce». Da quel tempo Gesù cominciò a predicare e a dire: «Ravvedetevi, perché il regno dei cieli è vicino»”.

            Luca conferma l’attività di Gesù scrivendo che “…Gesù, nella potenza dello Spirito, se ne tornò in Galilea e la sua fama si sparse per tutta la regione circostante. Ed Egli insegnava nelle loro sinagoghe, essendo onorato da tutti” (4.14,15).

 

Entriamo in un nuovo periodo dell’attività di Gesù, un tempo nuovo che, almeno secondo la visione che ho avuto del Vangelo, inizia quando Gesù venne ad abitare a Capernaum, città posta sulle rive del lago, o mare di Galilea, detto anche di Tiberiade prendendo il nome dalla città costruita da Erode Antipa in onore di Tiberio Claudio Nerone nell’anno 20 circa. Capernaum era posta sulla riva del lago e da lei passavano le vie principali che dall’Egitto portavano in Siria e da Gerusalemme a Damasco. Gesù poteva così non solo incontrarsi con persone con cui non avrebbe mai potuto avere a che fare restando nella lontana Nazareth, ma da lì potevano essere diffuse nelle regioni circostanti le notizie dei suoi miracoli e i contenuti, seppur a grandi linee, della sua predicazione. Se nessuno poteva fare i segni che faceva se Dio non era con lui, come riconobbe Nicodemo, va da sé che alle notizie dei miracoli non si accompagnassero resoconti più o meno particolareggiati delle sue parole e dei suoi commenti alle Scritture esposti nelle Sinagoghe.

Da Capernaum, inoltre, Gesù poteva visitare più facilmente le città della Galilea senza contare che, usando una barca, poteva avere accesso alle città che si affacciavano sul lago e raggiungere così la Traconitide, la Perea e la Decapoli. Matteo, coprendo uno spazio temporale rilevante, ci dice “La Sua fama si diffuse per tutta la Siria e conducevano a lui tutti i malati tormentati da varie malattie e dolori, indemoniati, epilettici e paralitici, ed Egli li guarì. Grandi folle cominciarono a seguirlo dalla Galilea, dalla Decàpoli, da Gerusalemme, dalla Giudea e da oltre il Giordano” (4.24,25).

Matteo collega l’abitare di Gesù a Capernaum con l’adempimento della profezia di Isaia in 8.23 e 9.1,2 che quanti conoscevano non potevano non collegare al suo seguito, che l’evangelista non riporta: “Perché un bambino ci è nato, un figlio ci è stato dato. Sulle sue spalle è il potere e il suo nome sarà: Consigliere mirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace. Grande è il suo potere e la pace non avrà fine sul trono di Davide e sul suo regno, che egli viene a consolidare e rafforzare con il diritto e la giustizia, ora e per sempre” (Isaia 9.5,6). Notiamo i verbi, “nato” e “dato” che riassumono il periodo della vita di Gesù, “nato”, venuto al mondo come tutti gli altri uomini, e offerto, “dato”, in sacrificio per loro. Ai lettori ebrei che non ignoravano il libro di Isaia, Matteo offre un’altra possibilità di connessione, vale a dire con 11.2-4: “Su di lui si poserà lo Spirito del Signore – in forma di colomba e non solo – Spirito di sapienza e di intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e timore del Signore. Si compiacerà nel timore del Signore. Non giudicherà secondo le apparenze e non prenderà decisioni per sentito dire, ma giudicherà con giustizia i poveri e prenderà decisioni eque per gli oppressi del paese”.

 

Ho intitolato queste riflessioni “Un tempo nuovo”, preferendo “tempo” a “periodo”, parola forse più immediata ma che avrebbe definito in misura minore le implicazioni del prendere residenza in quella città. La profezia di Isaia riportata da Matteo che abbiamo letto è la settima usata in quel Vangelo, a sottolineare la pienezza dell’opera di Dio e a sottindendere che tutto quanto fatto da Gesù prima di allora era stato compiuto in maniera perfetta. Sappiamo che il settimo giorno, di riposo per quell’entità perfetta riassunta nel tetragramma YHWH, avvenne dopo la constatazione che “tutto era molto buono”. “Tempo nuovo” perché da Capernaum inizierà una predicazione pressoché ininterrotta consistente in insegnamenti, dottrina, miracoli e guarigioni.

Ricordiamo le profezie precedenti di Matteo:

 

  1. La nascita da una vergine, fatto tecnicamente impossibile senza l’opera dello Spirito Santo. Gesù non poteva avere un DNA unicamente umano, essere figlio carnale di Maria e Giuseppe, perché altrimenti non avrebbe potuto essere al tempo stesso Figlio dell’uomo e Figlio di Dio, vero Dio e vero uomo. Fu quello, oltre alla vittoria sul peccato, che lo fece risorgere. Il numero uno, come prima profezia, ci parla di un’esistenza autonoma, santa, non competente all’uomo che, piuttosto, trova la sua dimensione nei numeri pari. L’uno è l’esistere pieno, il tutto, l’autosufficienza, in poche parole l’“io sono colui che sono”;
  2. La nascita di Gesù a Betlehem, l’unica che avrebbe potuto dare i natali al “Capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele”. Non a caso abbiamo questo annuncio al secondo posto: è l’uomo Gesù che viene al mondo, perfetto connubio di due nature, umana e divina. Il due è condivisione e soccorso (“se uno cade l’altro lo rialza”), ma anche separazione vista nell’appartenere a Cristo oppure no, di scelta.
  3. Il ritorno in Israele dalla fuga in Egitto perché Erode il Grande voleva ucciderlo, “Dall’Egitto ho chiamato mio Figlio”. Terza profezia, tre come numero proprio di Dio e che ci questo caso ci parla di quanto sia inutile, oltre che controproducente, ostacolare i suoi piani che si realizzano e realizzeranno comunque;
  4. Il grido udito in Rama, la strage degli innocenti in cui Satana, cui Erode il Grande esattamente come col Faraone molti secoli prima aveva dato spazio nella sua persona, commise uno dei tanti suoi crimini. Il quattro è un numero che ha sempre riferimento alla materia e, in questo caso, a quanto avvenuto ad opera dell’avversario e quindi del peccato.
  5. L’abitare per circa 30 anni a Nazareth perché “Sarà chiamato Nazareno” con l’evidente riferimento, più che alla città dalla quale non poteva venire nulla di buono secondo le parole di Natanaele – Bartolomeo, al Germoglio che sarebbe uscito dal tronco di Jesse, padre di Davide da cui Gesù discendeva sia da parte di padre che di madre. Il cinque, numero intermedio, ci parla di uno stato che porta ad una progressione, ad uno sviluppo nelle mani di Dio e alla sua Grazia. Cinque è 4+1, cioè un dono di Dio aggiunto alla realtà dell’uomo.
  6. La persona e l’opera di Giovanni Battista, visto nella “Voce d’uno che grida nel deserto”. Da notare anche qui il numero sei, che sottintende l’uomo nella sua imperfezione e incompletezza se rimane da solo, dell’uomo che ha bisogno dell’”Uno” di Dio per completarsi. Solo se Giovanni avesse annunciato Gesù secondo l’insegnamento ricevuto nel deserto, come fece, avrebbe davvero assolto al compito lui affidatogli. Ricordiamo, a proposito della completezza, quel giovane ricco che voleva seguire Gesù che si sentì dire “Una cosa sola ti manca: va’, vendi ciò che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro nei cieli; poi vieni e seguimi” (Marco 10.21): al suo “6” mancava un “1” per essere perfetto.
  7. Terra di Zabulon e terra di Neftali, il popolo che giaceva nelle tenebre ha visto una gran luce”. Settimo passo citato, punto di arrivo e di partenza verso altre destinazioni spirituali. Arrivando a Capernaum Gesù conclude e inizia un periodo della sua vita, che fin qui ho cercato di sviluppare a grandi linee, per iniziarne uno nuovo e lo farà predicando nelle Sinagoghe e chiamando ufficialmente a sé coloro che diventeranno i suoi primi quattro apostoli (Natanaele in un certo senso era già stato chiamato nel breve dialogo riportato da Giovanni, “Vedrai cose più grandi di queste”).

 

Come tutta la creazione, l’universo, iniziò con la luce, allo stesso modo l’universo spirituale e nuovo iniziava con la “gran luce” vista dal popolo che abitava quelle terre, toccate in sorte alle due tribù di Zabulon e Neftali, rispettivamente la nona e la decima. Parte di questo territorio, quella settentrionale, era chiamato “La Galilea dei gentili” a motivo della sua prossimità con la Siria e la Fenicia e al fatto che pare che la popolazione fosse in parte un misto di ebrei e gentili. Ma in quali tenebre giaceva il popolo, a parte l’ovvio, inevitabile riferimento alla sua lontananza da Dio? Leggiamo due elementi negativi, “tenebre” e, da traduzione più corretta “nella regione e nell’ombra della morte”, riferita non alla Giudea, ma alla Galilea con particolare riguardo alle terre di Zabulon e Neftali. Le tenebre sono nella Scrittura una figura familiare per rappresentare non solo l’ignoranza e l’errore, ma la depravazione e la miseria morale e intellettiva di cui sono il frutto, la conseguenza: non possono esservi le une senza le altre. Ricordiamo le parole dell’apostolo Paolo che, con grande umiltà e verità, descrisse il suo passato: 12Rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me, 13che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento. Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo per ignoranza, lontano dalla fede, 14e così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù”. (1 Timoteo 1.12-14).

La luce si è levata su quel paese che, paradossalmente, avrebbe dovuto avere molte più difficoltà rispetto ai giudei nel riconoscerla, perché era lì che si era sviluppato lo studio della Legge, in Gerusalemme si esercitava il sacerdozio e si offrivano i sacrifici nel Tempio. I galilei erano considerati più corrotti e ignoranti dei giudei. “Una luce si è levata”, quella del Cristo, il solo a potere rivelare l’amore e la volontà del Padre e a compierla.

Proseguendo nella lettura di Matteo, questi riporta il senso della predicazione di Gesù, che sintetizza con parole familiari: “Ravvedetevi, perché il Regno dei cieli è vicino”, le stesse che diceva Giovanni Battista. Marco, invece, scrive “Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino: convertitevi e credete nel Vangelo”, frase che merita un breve approfondimento perché non può esservi conversione senza credere nel Vangelo nel suo senso etimologico di “buona notizia”, la sola di cui l’uomo ha bisogno. E la buona notizia era proprio che finalmente Dio recuperava ciò che altrimenti sarebbe stato perduto, la sua creatura. “Il tempo è compiuto” cioè “Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò suo Figlio, nato di donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli” (Galati 4.4). E “Il Regno di Dio è vicino” significa che sarebbe stato imminente, sarebbe stato prima “dentro di voi” e in futuro si sarebbe caratterizzato con la sconfitta di Satana, gettato nello stagno di fuoco coi suoi angeli, termine che ha riferimento sia con gli esseri spirituali che lo seguirono, ma anche con tutti quegli uomini che gli dettero spazio perché si potesse servire di loro. Ecco perché chi sentiva le parole di Gesù avrebbe dovuto credere nel Vangelo, quindi in Lui. Credere nel Vangelo implica un profondo ravvedimento, il sapere che così come si è, si agisce, si pensa, può condurre solo alla morte. Di qui il collegamento con le tenebre e la scelta di rimanere in loro fatta dalla maggior parte degli uomini: “Ma gli uomini hanno amato le tenebre più della luce”, verso su cui ci siamo già soffermati in breve.

Tornando ai versi che descrivono l’attività di Gesù in Galilea, che Matteo e Marco sintetizzano con l’accennare alla predicazione della necessità del ravvedersi e nel credere al Vangelo, Luca aggiunge un altro particolare: “Insegnava nelle loro sinagoghe, essendo onorato da tutti” (4.15). Perché è un particolare non marginale? Innanzitutto per la Sinagoga, parola che etimologicamente è formata da syn, insieme, e aghèin, condurre, portare. È un termine che quindi allude a un cammino comunitario e il verbo synàgo significa “radunare”. La sinagoga era ed è tuttora un luogo di preghiera e di istruzione religiosa; le sue adunanze si tenevano ogni sabato mattina e pomeriggio, ma anche in altri giorni; era proibito agli ebrei risiedere in luoghi ove la sinagoga non vi fosse e la sua esistenza era condizionata dalla presenza di non meno di dieci persone, al contrario della Chiesa che ne prevede dalle due o tre. Infatti “Dove due o tre sono radunati nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Matteo 18.20). Se la sinagoga era un luogo di preghiera e di lettura, la Chiesa radunata ha la presenza del Signore Gesù: è “in mezzo”, “tra” di loro come un familiare visto nella frase “Ecco, io sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Apocalisse 3.20). Si tratta di una frase particolare, detta all’Angelo della Chiesa di Laodicea sulla quale, se ci soffermassimo, andremmo fuori tema; tuttavia è interessante notare l’atteggiamento così diverso del Dio giudice inflessibile e tremendo dell’Antico Patto e quello aperto alla comprensione e al perdono del Nuovo: si tratta infatti di parole rivolte a quei credenti che hanno bisogno di ravvedersi ancora perché hanno contristato lo Spirito con una condotta non consona alla loro fede e vivono una condizione per cui sono definiti “tiepidi”.

Ma torniamo alla Sinagoga. La dinamica delle riunioni al suo interno era la seguente: prima vi era lo “Shemà”, (“Ascolta”) che si caratterizzava con la lettura di tre passi del Pentateuco, al quale seguivano una serie di diciotto brevi preghiere che esprimevano adorazione, sudditanza e speranza verso il Dio d’Israele, dopo di che si procedeva alla lettura e spiegazione dei testi sacri, vale a dire la Torà (il Pentateuco) suddivisa in 154 sezioni di modo che veniva letta integralmente in tre anni, e poi i Profeti, cioè i libri da Giosuè in poi. Terminata la lettura, in ebraico e nella lingua di allora che era l’aramaico, seguiva un commento istruttivo che poteva essere tenuto da chiunque tra i presenti giudicati più adatti dal responsabile locale.

Nella pratica chi svolgeva tale ufficio, visto che era richiesta una conoscenza dei testi, era uno scriba o un fariseo, ma Luca ci dice che era Nostro Signore a prendere la parola, o chiamato dal responsabile della Sinagoga o di sua iniziativa visto che ciò era consentito. L’adunanza terminava poi con la benedizione sacerdotale, che recitava il testo di Numeri 6.24-26: “Ti benedica il Signore e ti custodisca. Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia. Il Signore rivolga verso di te il suo volto e ti conceda pace”. I presenti rispondevano “Amen”. Proprio nella sinagoga di Capernaum Gesù compirà il suo primo miracolo dei sette in giorno di sabato, oggetto della nostra prossima riflessione.

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02.16 – IL FIGLIO DEL FUNZIONARIO REALE (Giovanni 4.43-54)

2.15 – Il figlio del funzionario reale (Giovanni 4.43-54)

43Trascorsi due giorni, partì di là per la Galilea. 44Gesù stesso infatti aveva dichiarato che un profeta non riceve onore nella propria patria. 45Quando dunque giunse in Galilea, i Galilei lo accolsero, perché avevano visto tutto quello che aveva fatto a Gerusalemme, durante la festa; anch’essi infatti erano andati alla festa.46Andò dunque di nuovo a Cana di Galilea, dove aveva cambiato l’acqua in vino. Vi era un funzionario del re, che aveva un figlio malato a Cafàrnao. 47Costui, udito che Gesù era venuto dalla Giudea in Galilea, si recò da lui e gli chiedeva di scendere a guarire suo figlio, perché stava per morire. 48Gesù gli disse: «Se non vedete segni e prodigi, voi non credete». 49Il funzionario del re gli disse: «Signore, scendi prima che il mio bambino muoia». 50Gesù gli rispose: «Va’, tuo figlio vive». Quell’uomo credette alla parola che Gesù gli aveva detto e si mise in cammino. 51Proprio mentre scendeva, gli vennero incontro i suoi servi a dirgli: «Tuo figlio vive!». 52Volle sapere da loro a che ora avesse cominciato a star meglio. Gli dissero: «Ieri, un’ora dopo mezzogiorno, la febbre lo ha lasciato». 53Il padre riconobbe che proprio a quell’ora Gesù gli aveva detto: «Tuo figlio vive», e credette lui con tutta la sua famiglia. 54Questo fu il secondo segno, che Gesù fece quando tornò dalla Giudea in Galilea”.    

La collocazione di questo episodio pone problemi cronologici più apparenti che reali ed è riportato da Giovanni che, come abbiamo letto al verso 44, cita le parole di Gesù a proposito del profeta che non riceve onore nella propria patria, detta quando si troverà a Nazareth in un contesto particolare, cioè quando i suoi concittadini lo disprezzeranno dopo il suo discorso nella locale sinagoga. Ricordiamo Luca 4.23-24 “Certamente voi mi citerete questo proverbio: «Medico, cura te stesso, tutto ciò che abbiamo udito essere avvenuto in Capernaum, fallo anche qui nella tua patria». Ma egli disse «In verità vi dico che nessun profeta è bene accetto nella sua patria»”.

In realtà, guardando la cartina della Giudea, Samaria e Galilea, possiamo vedere che l’itinerario del Signore, quando dopo due giorni lasciò la regione di Samaria, toccò proprio Cana (dopo Nain) per prima; Capernaum e Nazareth erano più distanti e non potevano essere raggiunte se non passando per questa cittadina in cui Gesù era conosciuto per il miracolo alle nozze, ma anche perché molti galilei che avevano compiuto il pellegrinaggio a Gerusalemme erano presenti sia quando erano stati cacciati i mercanti dal tempio ed erano avvenuti dei miracoli. Ricordiamo infatti le parole lette in Giovanni 2.23 “Ora, mentre Egli si trovava in Gerusalemme per la festa della Pasqua, molti credettero nel suo nome vedendo i segni che faceva”.

Così come l’itinerario di Gesù per raggiungere la Galilea avrebbe potuto essere diverso (ma così non fu perché doveva incontrare la donna samaritana e i suoi conterranei), raggiungendo Cana sapeva che in quella regione c’era un padre, a Cafàrnao o Capèrnaum, distante 40 km circa, in angoscia per il proprio figlio, gravemente ammalato. Il termine greco utilizzato per descrivere la qualifica di quell’uomo è basilikòs che nelle opere di Giuseppe Flavio indica un funzionario civile o militare così come un dignitario di qualche casa reale come ad esempio Cuza, la cui moglie Giovanna farà parte delle donne al seguito di Gesù, o Manaen, importante membro della chiesa di Antiochia compagno d’infanzia di Erode il Tetrarca (cioè Antipa, Atti 13.1). Tutto quindi lascia supporre che il figlio di quell’uomo, probabilmente l’unico, nonostante le cure dei migliori medici della regione, non guarisse, anzi si fosse aggravato: “gli chiedeva di scendere perché suo figlio stava per morire”. Quel giovane aveva la febbre, che a quel tempo stante le poche possibilità di cura destava molta preoccupazione: nell’uomo la temperatura normale è mediamente di 37°C, quando va oltre i 41 può condizionare un danno cerebrale e a 43 si registra l’exitus, la morte: possiamo pensare che la febbre che colpì quel ragazzo, così come la suocera di Pietro di lì a poco tempo, fosse attorno a quei valori.

La febbre negli scritti dell’Antico Patto compare poche volte ed è sempre legata alle conseguenze del peccato. Del resto, è un’anomalia anche oggi per un corpo progettato teoricamente per stare bene ma che in realtà, per il peccato entrato nel mondo, è soggetto ad ammalarsi in modo più o meno grave. Per la dispensazione della Legge la febbre rientrava nelle conseguenze e punizioni per la disubbidienza: “L’Eterno ti colpirà con la consunzione, con la febbre, con l’infiammazione, con il caldo bruciante, con la spada, con il carbonchio e con la ruggine, che ti perseguiteranno fino alla tua distruzione” (Deuteronomio 28.22). Altre conseguenze erano le emorroidi, la scabbia, la tigna, la pazzia, la cecità e la depressione ansiosa oltre al fallimento in qualsiasi attività intrapresa (in proposito tutti i versi dal 15 alla fine del capitolo 28 del Deuteronomio illustrano la maledizione per la disubbidienza del popolo.

Va però aperto un distinguo importante, al fine di evitare la domanda spontanea su cosa potesse avere fatto nella sua vita quel bambino, o i suoi genitori, per meritare una febbre che, senza l’intervento di Gesù, lo avrebbe portato alla morte. Una simile domanda la rivolsero a Gesù i suoi discepoli di fronte ad un uomo cieco dalla nascita: “«Maestro, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?» Gesù rispose «Né lui, nè i suoi genitori hanno peccato, ma ciò è accaduto affinché siano manifestate in lui le opere di Dio»” (Giovanni 9.2,3). Ecco allora che con questa frase viene corretto un metodo di ragionamento popolare e superstizioso che, fondato sull’ignoranza, tendeva a generalizzare una situazione che solo l’individuo può conoscere. Ancora oggi credo vi siano malattie che siano la conseguenza di un peccato specifico e non di un naturale processo dovuto a una mancata cura della propria persona o alla prevenzione, ma questa è una realtà che solo l’individuo colpito da essa (o esse) può conoscere.

La febbre che aveva colpito il giovane figlio del funzionario di Erode Antipa, era quindi perché fosse manifestata in lui l’opera di Dio. Quel padre, saputo che Gesù era giunto a Cana, non esitò a partire da Capernaum facendo un viaggio di 40 km sulle dissestate strade del tempo, con la sua scorta, per raggiungerlo: dovette partire, fare la strada e, una volta giunto là, cercarlo. Ci domandiamo: era questa la sua “ultima spiaggia” nel senso che sapeva di recarsi da un generico guaritore, o piuttosto sapeva che, se avesse voluto, Gesù, sarebbe stato in grado di guarirlo? Quell’uomo si era messo in cammino perché sapeva ciò che Nostro Signore aveva fatto a Gerusalemme e, se mai, la sua fede era legata al fatto che fosse la presenza di Gesù accanto al figlio a guarirlo e che non potesse farlo a distanza: “gli chiedeva di scendere, e guarire suo figlio, perché stava per morire”.

Fu in quel momento che Gesù mise a confronto, probabilmente, la differenza fra i giudei e i samaritani: qui aveva persone che gli chiedevano degli interventi miracolosi, là c’erano stati individui che lo avevano ascoltato e avevano concluso che era Lui il “Salvatore del mondo”. “Se non vedete segni e prodigi (miracoli) voi non credete” è un rimprovero perché da un lato Gesù leggeva in quell’uomo la fede in Lui, ma dall’altro prendeva atto che, se suo figlio non fosse stato malato, difficilmente sarebbe venuto da Capernaum per ascoltarlo. Le parole di Gesù non costituiscono una sorta di gesto di stizza, ma di lettura della realtà umana specifica di quel popolo per il quale era venuto. Leggendo il cuore di quel funzionario, Gesù si immedesimò in lui facendo proprio il suo caso anche se l’ansia che aveva per il figlio gli impedirono di cogliere il senso di quelle parole: “Signore, scendi prima che il mio bambino muoia”.

Fu a quel punto che Gesù gli rispose “Va’, tuo figlio vive”: Cirillo d’Alessandria, vescovo e teologo greco vissuto tra il 300 e il 400, osservò che “…con queste parole il Signore guarì due persone al tempo stesso: condusse alla vera fede l’ufficiale reale e liberò il corpo di suo figlio dalla malattia”; possiamo aggiungere su queste parole che ne beneficiarono più persone perché è scritto “…e credette lui, con tutta la sua famiglia”, moglie e probabilmente tutti i suoi sottoposti che avevano conosciuto la gravità della malattia di quel giovane.

Al di là del miracolo, che per la sua potenza possiamo tranquillamente accomunare ai molti che seguiranno, quello che importa è rilevare che costituisce la storia della conversione di un uomo già predisposto e che in poco tempo acquisisce dei dati fondamentali: conosceva Gesù per sentito dire e aveva creduto in lui, certo in modo imperfetto, ma quanto bastava per sapere che poteva guarire suo figlio. Va da Gesù perché non ha alternative in quanto quelle umanamente possibili, medici e cure, le aveva già provate. L’insistenza con cui chiede al Signore di recarsi dal figlio malato esclude una speranza generica in Lui, ma una certezza, pur se limitata al fatto che, per guarirlo, avrebbe dovuto essere fisicamente presente. Il fatto che, rassicurato sul fatto che la febbre aveva abbandonato suo figlio, se ne fosse andato, ci dice che quelle parole gli bastarono per cui abbiamo una certezza acquisita esclusivamente sulla parola.

Poi abbiamo l’incontro coi servi, che gli erano andati incontro lungo la strada per informarlo dell’avvenuta guarigione: è in quel momento che la sua fede divenne piena, totale, perché chiede a che ora suo figlio non avesse più avuto la febbre: aveva bisogno di un riscontro per credere una volta per sempre.

C’è un particolare che ci rivela che il funzionario reale aveva già creduto alle parole di Gesù “Va’, tuo figlio vive” e lo rileviamo nella risposta dei suoi servi che gli dicono che la febbre aveva abbandonato suo figlio “Ieri, all’ora settima” (versione letterale, cioè all’una del pomeriggio): quell’uomo era rimasto allora a Cana per la notte, avendo già creduto che il proprio figlio era guarito.

Abbiamo così il credere, azione che fino ad ora, nella nostra lettura cronologica dei Vangeli, è stata raggiunta da dei pescatori (professione dei discepoli o di gran parte di essi), un Fariseo importante (Nicodemo), la donna Samaritana e i suoi conterranei e per finire questo funzionario reale: condizioni sociali diverse, ma tutte creature di Dio ciascuna con la necessità di un percorso e reazioni diverse che concretano il credere. Nel caso del funzionario del re, che credette con tutta la sua famiglia e che il sapere dell’ora in cui la febbre aveva abbandonato il figlio contribuì a rafforzare la sua fede dandogli una prova inequivocabile, abbiamo probabilmente la stessa dinamica del carceriere di Filippi che, dopo essere stato evangelizzato dall’apostolo Paolo, è scritto che “Condottili quindi in casa sua, apparecchiò loro la tavola e si rallegrava con tutta la sua famiglia di aver creduto in Dio” (Atti 16.28).

Credere trova tra le sue conseguenze l’acquisizione del senso della liberazione dal quotidiano che obbliga e umilia, “Perché il Figlio dell’uomo è venuto a salvare ciò che era perduto” (Luca 19.9). La guarigione dalla febbre importante, che causa sudore e brividi di freddo, che tiene la persona a letto non in grado di fare nulla, ha riferimento con il peccato, che fa la stessa cosa sotto l’ottica spirituale.

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02.14 – LA SAMARITANA II/II (Giovanni 4.16-30)

2.14 – La Samaritana II/II (Giovanni 4.16-30)

 

16Le dice: «Va’ a chiamare tuo marito e ritorna qui». 17Gli risponde la donna: «Io non ho marito». Le dice Gesù: «Hai detto bene: «Io non ho marito». 18Infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero». 19Gli replica la donna: «Signore, vedo che tu sei un profeta! 20I nostri padri hanno adorato su questo monte; voi invece dite che è a Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare». 21Gesù le dice: «Credimi, donna, viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. 22Voi adorate ciò che non conoscete, noi adoriamo ciò che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. 23Ma viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano. 24Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità». 25Gli rispose la donna: «So che deve venire il Messia, chiamato Cristo: quando egli verrà, ci annuncerà ogni cosa». 26Le dice Gesù: «Sono io, che parlo con te». 27In quel momento giunsero i suoi discepoli e si meravigliavano che parlasse con una donna. Nessuno tuttavia disse: «Che cosa cerchi?», o: «Di che cosa parli con lei?». 28La donna intanto lasciò la sua anfora, andò in città e disse alla gente: 29«Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia lui il Cristo?». 30Uscirono dalla città e andavano da lui”.

La seconda parte del dialogo di Nostro Signore con la donna samaritana ha avuto due interpretazioni differenti, una letterale e un’altra allegorica, non priva di qualche fondamento, sulla quale ci soffermeremo ogni tanto. Vediamo che, rispetto alle parole che furono dette alla donna riguardo all’acqua viva, c’è una brusca variazione di argomenti: posto che lei non aveva capito il riferimento all’ “acqua viva” di Gesù, era necessario aprirle un percorso che si concluderà con la rivelazione di essere Lui il Messia; la donna infatti disse infatti “So che deve venire il Messia, chiamato Cristo: quando egli verrà, ci annuncerà ogni cosa”. Da queste parole abbiamo un dettaglio molto importante, cioè che la samaritana credeva che il Messia sarebbe arrivato un giorno, senza sapere quando e se lo avrebbe visto, poiché dice “So che deve venire”, non un generico e scettico “Dicono”.

Rispettando la cronologia del racconto, vediamo che il nuovo contenuto del dialogo è “Va’ a chiamare tuo marito – originale “l’uomo” – e torna qui”. Gesù rivolge questo invito per dimostrare a quella donna la sua conoscenza del percorso che aveva compiuto. La sua risposta “Io non ho marito”, trovò infatti la sua giusta lettura nella replica: “Hai detto bene, «Io non ho marito». Infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero”.

Ecco, qui molti si sono cimentati in diverse interpretazioni, accusando la samaritana di poligamia o di immoralità, oppure altri hanno messo in connessione i cinque mariti della donna con le cinque fasi storiche e le attività idolatre dei samaritani, ma in questo caso Gesù avrebbe detto cose note e non sarebbe stato mai riconosciuto dalla donna come un profeta; al limite, come una persona colta o uno storico. La samaritana, invece, aveva avuto cinque mariti che poi l’avevano ripudiata seguendo le modalità della Legge mosaica e, dopo quei cinque divorzi, era ospitata da una persona che non era suo marito, cioè non aveva rapporti carnali con lei. Non era nemmeno promessa in sposa a qualcuno – perché in tal caso il “fidanzato” sarebbe stato chiamato “marito” – né poteva convivere more uxorio perché inconcepibile per quei tempi. “Non è tuo marito” si deve leggere nel senso “si prende cura di te in un altro modo”, quindi un parente, più o meno lontano.

Occorre fare molta attenzione nella lettura di questo testo, perché si rischia di adattarlo ai nostri tempi e costumi: allora era all’uomo che era concesso divorziare, non alla donna. Così in Deuteronomio 24.1: “Quando un uomo ha preso una donna e ha vissuto con lei da marito, se poi avviene che ella non trovi grazia ai suoi occhi perché ha trovato in lei qualcosa di vergognoso, scriva per lei un libello di ripudio, glielo consegni in mano e la mandi via dalla casa”. A quel punto la donna era libera e poteva diventare moglie di un altro. Non possiamo sapere se gli uomini che avevano ripudiato la samaritana lo avevano fatto perché aveva un carattere difficile perché, per lo meno in Israele, quel “qualcosa di vergognoso” era diventato col tempo un pretesto e poteva anche essere costituito da una minestra mal cucinata o qualsiasi altro difetto che l’uomo desideroso di sbarazzarsi della propria moglie potesse trovare. Questi “difetti” ai tempi di Gesù erano considerati sufficienti per divorziare.

Per la donna ripudiata, se non trovava un altro marito, si apriva un percorso molto difficile: la sua famiglia di origine si sentiva disonorata e non la riprendeva con sé per cui non era infrequente che si avviasse sulla strada della prostituzione per mantenersi. L’innominata samaritana che parlò con Gesù, aveva trovato una sistemazione diversa e, se fosse ospite da un parente misericordioso, a servizio oppure ospite di qualcuno, non sappiamo con certezza. Giovanni ha ritenuto di informarci dettagliatamente sul dialogo intercorso, non sul passato di questa donna che, per il ruolo avuto di testimone, appare sinceramente irrilevante. Se le condizioni spirituali della samaritana fossero state tali da renderla incompatibile col Vangelo, (vedi ad esempio i presuntuosi, religiosissimi farisei) Gesù non le avrebbe parlato, ma se all’inizio dell’episodio abbiamo letto che “doveva passare per la Samaria” nonostante le strade per la Galilea fossero due, ciò implica sia che aveva un appuntamento sia con lei, sia coi suoi conterranei.

Se il Dio che perdona cancella gli errori della persona ponendola nelle condizioni di credere in Lui e quindi avere una vita nuova, a maggior ragione ipotizzare un passato “discutibile” della samaritana appare inutile e fuori luogo. Dio non tiene un inventario di quello che siamo stati, ma quello che stiamo diventando dopo averlo incontrato perché “Le cose vecchie sono passate, ecco, ne sono nate di nuove”: quelle che dobbiamo cercare e scoprire sono quindi le nuove, non le altre, nostre o, ancora peggio, degli altri.

Solo nel caso in cui l’essere umano rifiuta coscientemente e consapevolmente il messaggio del Vangelo “l’ira di Dio permane su di lui” ed ecco perché rifiutare lo Spirito Santo, che convince l’uomo di peccato, è l’unica bestemmia che non sarà perdonata.

C’è, nel colloquio con la samaritana, un crescendo di attenzioni da parte sua e un atteggiamento ben diverso da quello iniziale di diffidenza e, forse, ostilità nei confronti di un giudeo che osava chiederle da bere: “Signore, vedo che tu sei profeta. I nostri padri hanno adorato su questo monte, voi invece dite che è a Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare”. Abbiamo qui un primo riconoscimento, perché il “profeta” non era e non è chi predice il futuro o vede il passato di una persona, ma chi ha una missione spirituale, non terrena. La samaritana quindi passò attraverso tre stadi: un primo diffidente e di ostilità per quanto non sfacciata, un secondo di ascolto perché accettò di conversare con Gesù, e un terzo di riconoscere in Lui un profeta. A questo se ne aggiungerà un quarto, di annuncio ai suoi conterranei.

La seconda parte del versetto è più difficile e ci domandiamo: la donna cerca di cambiare discorso sentendosi imbarazzata e non volendo che Gesù proseguisse a raccontarle la sua vita trascorsa, oppure, visto che aveva di fronte a lei un profeta, ne approfitta per avere una spiegazione autorevole su quale fosse il vero luogo dove adorare, stante la questione teologica che divideva i due popoli? È una domanda che si sono posti in molti. Io credo che Giovanni, che non era presente e scrive ricordando il racconto che gli fece Gesù, abbia scritto solo i punti salienti del dialogo, ma è la reazione della donna a rivelare quanto fosse in attesa di un annuncio: lasciò lì la sua anfora per andare a dire alla gente “Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia lui il Cristo?”. La diffidenza aveva lasciato posto a un senso di possibilità. Altri traducono “Non è costui forse il Cristo?”, ma il senso esatto espresso dalla forma grammaticale suggerisce una parafrasi nel senso di “Potrebbe esserci una benedizione così tra di noi?”.

Torniamo però leggermente indietro: la samaritana non poteva che difendere le sue tradizioni religiose che avevano un iniziale fondamento: aveva il pozzo costruito da Giacobbe, la tomba di Giuseppe, il monte Garizim, quello della benedizione in opposto al monte Ebal (Deuteronomio 11.29), luoghi importanti perché lì si riunirono tutte le dodici tribù, (sei sul Garizim e altrettante sull’Ebal), figura della pienezza dei piani di Dio e delle sue promesse. Se leggiamo Deuteronomio 27.11-26, possiamo vedere la terribile attualità che rivestono anche e oggi quelle parole: “11In quello stesso giorno Mosè diede quest’ordine al popolo: 12«Ecco quelli che, una volta attraversato il Giordano, staranno sul monte Garizìm per benedire il popolo: Simeone, Levi, Giuda, Ìssacar, Giuseppe e Beniamino; 13ecco quelli che staranno sul monte Ebal per pronunciare la maledizione: Ruben, Gad, Aser, Zàbulon, Dan e Nèftali. 14I leviti prenderanno la parola e diranno ad alta voce a tutti gli Israeliti: 15«Maledetto l’uomo che fa un’immagine scolpita o di metallo fuso, abominio per il Signore, lavoro di mano d’artefice, e la pone in luogo occulto!». Tutto il popolo risponderà e dirà: «Amen». 16«Maledetto chi maltratta il padre e la madre!». Tutto il popolo dirà: «Amen».17«Maledetto chi sposta i confini del suo prossimo!». Tutto il popolo dirà: «Amen». 18«Maledetto chi fa smarrire il cammino al cieco!». Tutto il popolo dirà: «Amen». 19«Maledetto chi lede il diritto del forestiero, dell’orfano e della vedova!». Tutto il popolo dirà: «Amen». 20«Maledetto chi si unisce con la moglie del padre, perché solleva il lembo del mantello del padre!». Tutto il popolo dirà: «Amen».21«Maledetto chi giace con qualsiasi bestia!». Tutto il popolo dirà: «Amen». 22«Maledetto chi giace con la propria sorella, figlia di suo padre o figlia di sua madre!». Tutto il popolo dirà: «Amen».23«Maledetto chi giace con la suocera!». Tutto il popolo dirà: «Amen». 24«Maledetto chi colpisce il suo prossimo in segreto!». Tutto il popolo dirà: «Amen». 25«Maledetto chi accetta un regalo per condannare a morte un innocente!». Tutto il popolo dirà: «Amen». 26«Maledetto chi non mantiene in vigore le parole di questa legge, per metterle in pratica!». Tutto il popolo dirà: «Amen».

            Tornando al dialogo con la samaritana, Gesù le ricorda due cose; la prima è che sta per arrivare il momento in cui l’adorazione sarebbe stata resa indipendente da un tempio e da un luogo, la seconda è che “la salvezza viene dai giudei” in riferimento alle promesse del Messia che sarebbe arrivato proprio dalla tribù di Giuda.

Voi adorate quello che non conoscete” era il motivo della presenza di Gesù in mezzo a loro, il motivo per cui “doveva passare per la Samaria”, lo stesso che consentì all’apostolo Paolo di predicare nell’areopago di Atene in Atti 17.22.31: “22Allora Paolo, in piedi in mezzo all’Areòpago, disse:
«Ateniesi, vedo che, in tutto, siete molto religiosi. 23Passando infatti e osservando i vostri monumenti sacri, ho trovato anche un altare con l’iscrizione: «A un dio ignoto». Ebbene, colui che, senza conoscerlo, voi adorate, io ve lo annuncio. 24Il Dio che ha fatto il mondo e tutto ciò che contiene, che è Signore del cielo e della terra, non abita in templi costruiti da mani d’uomo 25né dalle mani dell’uomo si lascia servire come se avesse bisogno di qualche cosa: è lui che dà a tutti la vita e il respiro e ogni cosa. 26Egli creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini, perché abitassero su tutta la faccia della terra. Per essi ha stabilito l’ordine dei tempi e i confini del loro spazio 27perché cerchino Dio, se mai, tastando qua e là come ciechi, arrivino a trovarlo, benché non sia lontano da ciascuno di noi. 28In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, come hanno detto anche alcuni dei vostri poeti: «Perché di lui anche noi siamo stirpe».
29Poiché dunque siamo stirpe di Dio, non dobbiamo pensare che la divinità sia simile all’oro, all’argento e alla pietra, che porti l’impronta dell’arte e dell’ingegno umano. 30Ora Dio, passando sopra ai tempi dell’ignoranza, ordina agli uomini che tutti e dappertutto si convertano, 31perché egli ha stabilito un giorno nel quale dovrà giudicare il mondo con giustizia, per mezzo di un uomo che egli ha designato, dandone a tutti prova sicura col risuscitarlo dai morti».

            Adorare “in spirito e verità” al di fuori quindi del rito, dei sacrifici offerti, del luogo, in una dimensione diversa non più legata e dipendente da intermediari: “l’ora che viene” di cui parlò Gesù alla samaritana fu assolutamente precisa e fu simboleggiata da un evento che sarebbe bastato a convertire chiunque: fu costituito dal momento in cui, alla morte di Gesù, “il velo del tempio si squarciò in due, dall’alto in basso” (Matteo 15.38). Ebbene quel velo, enorme che richiedeva 70 uomini per tirarlo giù, spostarlo e lavarlo, alto circa 20 metri e spesso 10 centimetri che secondo Flavio Giuseppe non sarebbe bastata la forza di due cavalli per lacerarlo, era quello che separava la zona dei sacerdoti dal Santo dei Santi in cui poteva entrare il sommo sacerdote solo una volta all’anno. Un segno più eloquente della fine di quel tempo non poteva esservi.

La samaritana, dopo l’intervento di Gesù sull’adorazione, gli rispose “So che deve venire il Cristo: quando verrà, ci annuncerà ogni cosa. Le dice Gesù: «Sono io, che parlo con te»”. L’innominata donna, profondamente scossa da quelle parole, non poteva dimenticare quanto Gesù le aveva detto: come sappiamo lasciò l’anfora a terra, che l’avrebbe impedita nel cammino, e corse in città parlando a chiunque incontrava. Il risultato è noto:39Molti Samaritani di quella città credettero in lui per la parola della donna, che testimoniava: «Mi ha detto tutto quello che ho fatto». 40E quando i Samaritani giunsero da lui, lo pregavano di rimanere da loro ed egli rimase là due giorni. 41Molti di più credettero per la sua parola 42e alla donna dicevano: «Non è più per i tuoi discorsi che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo»”.

Veramente il salvatore del mondo”, un attestato di fiducia e fede piena che Gesù non trovò mai tra il suo popolo. I Samaritani, inoltre, lo definiscono in un modo nuovo, universale, a differenza dell’ostinata rivendicazione dei giudei. In un certo senso, si tratta di un attributo futuro per cui la gioia di quel popolo è di appartenenza universale. Da notare che il testo originale aggiunge “Il Cristo” dopo “il salvatore del mondo”.

È da notare, per concludere, che i samaritani saranno premiati, confermando la fede avuta in Gesù, diversi anni più tardi, poiché leggiamo nel libro degli Atti: “5Filippo, sceso in una città della Samaria, predicava loro il Cristo. 6E le folle, unanimi, prestavano attenzione alle parole di Filippo, sentendolo parlare e vedendo i segni che egli compiva. 7Infatti da molti indemoniati uscivano spiriti impuri, emettendo alte grida, e molti paralitici e storpi furono guariti. 8E vi fu grande gioia in quella città” (Atti 8.5-8).

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02.13 – LA SAMARITANA I/II (Giovanni 4.1-16)

2.12 – La Samaritana I/II (Giovanni 4.1-16)

 

1 Gesù venne a sapere che i farisei avevano sentito dire: «Gesù fa più discepoli e battezza più di Giovanni» – 2sebbene non fosse Gesù in persona a battezzare, ma i suoi discepoli -, 3lasciò allora la Giudea e si diresse di nuovo verso la Galilea. 4Doveva perciò attraversare la Samaria. 5Giunse così a una città della Samaria chiamata Sicar, vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio: 6qui c’era un pozzo di Giacobbe. Gesù dunque, affaticato per il viaggio, sedeva presso il pozzo. Era circa mezzogiorno. 7Giunge una donna samaritana ad attingere acqua. Le dice Gesù: «Dammi da bere». 8I suoi discepoli erano andati in città a fare provvista di cibi. 9Allora la donna samaritana gli dice: «Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?». I Giudei infatti non hanno rapporti con i Samaritani. 10Gesù le risponde: «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: «Dammi da bere!», tu avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva». 11Gli dice la donna: «Signore, non hai un secchio e il pozzo è profondo; da dove prendi dunque quest’acqua viva? 12Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe, che ci diede il pozzo e ne bevve lui con i suoi figli e il suo bestiame?». 13Gesù le risponde: «Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; 14ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna». 15«Signore – gli dice la donna -, dammi quest’acqua, perché io non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua».

È curioso che Giovanni introduca l’episodio con un’annotazione di natura politica che ci informa di quanto fosse attenta l’attenzione dei farisei su tutto ciò che di nuovo si affacciava sulla vita religiosa del Paese: li abbiamo visti inviare i propri informatori quando il Battista svolgeva il suo ministero sulle rive del Giordano e mandare alcuni di loro, con sacerdoti e leviti, per interrogarlo direttamente, evitando di far proprio il messaggio che veniva rivolto a tutti gli ebrei, quindi anche a loro, consistente nel ravvedimento. Le autorità religiose di Israele non ritennero subito Giovanni per loro pericoloso, ma successivamente sì ed è probabile che abbiano avuto un ruolo determinante nel suo arresto e reclusione nel Macheronte, la fortezza di Erode su una collina sulle rive del Mar Morto. Giovanni Battista, come abbiamo, letto si era spostato a svolgere il suo ministero ad Àinon, o Enon, città sulla quale Erode non aveva giurisdizione perché facente parte della città libera di Scitopoli, a sua volta inserita nella Decapoli, autonome e indipendenti dall’impero. Trovandosi però Scitopoli, incuneata fra i due tronconi del territorio di Antipa, la Galilea e la Perea, fu probabilmente facile attirare il Battista con qualche stratagemma nella giurisdizione erodiana e farlo arrestare. Ora che i farisei stavano per liberarsi di lui, o di lui si erano già appena liberati, l’informativa che giunse a loro li mise in allarme perché Gesù faceva più discepoli e battezzava più di Giovanni.

Gesù decise di andare in Galilea non solo perché a conoscenza dei piani che i farisei avrebbero ordito contro di lui – ammesso che non fossero già in atto – ma per un importante dettaglio che ci viene dai Sinottici: Matteo 4.12 scrive “Quando Gesù seppe che Giovanni era stato arrestato, si ritirò nella Galilea, lasciò Nazareth e venne ad abitare a Cafarnao”, Marco 1.14 “Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il Vangelo di Dio”, Luca 3.20 “Ma il tetrarca Erode, rimproverato da lui – Giovanni Battista – a causa di Erodiade, moglie di suo fratello, e per tutte le malvagità che aveva commesso, aggiunse alle altre anche questa: fece rinchiudere Giovanni in prigione”. Su questo fatto torneremo più avanti; per ora basta sapere che il Tetrarca (Antipa), aveva intrecciato una relazione con Erodiade, già moglie di suo fratello Erode Filippo, ancora in vita, che poi sposò macchiandosi così di incesto oltre che di adulterio, essendo considerata la moglie “carne” del proprio marito e viceversa.

Ecco spiegate allora le ragioni dello spostarsi di Gesù dalla Giudea, quella maggiormente dominata dal potere religioso farisaico, alla Galilea: Egli sapeva che, ora che i farisei avevano risolto il problema rappresentato dal Battista, potevano concentrare tutte le loro attenzioni e congiure su di lui. Loro che si ritenevano gli unici depositari della Legge e della sua interpretazione, per non turbare gli equilibri dei rapporti con Erode, nulla avevano detto al re sulla sua relazione illecita.

Per raggiungere la Galilea i percorsi possibili erano due: il primo era molto frequentato e passava per Gerico attraversando la Perea; il secondo era più breve, ma passava per la Samaria, i cui abitanti non erano certo graditi dai Giudei (e viceversa) per le forti rivalità religiose che intercorrevano tra i due popoli. Ebrei e samaritani avevano ciascuno il loro tempio che ritenevano l’unico legittimo. I primi avevano sì la Legge, ma equiparavano la sua autorità alla loro tradizione, mentre i secondi ritenevano legittima la sola Legge data al popolo da Mosè.

I samaritani erano frutto di una mescolanza di razze, per quanto si dichiarassero appartenenti al popolo di Israele e si considerassero discendenti della tribù di Efraim e Manasse. Quando la città di Samaria fu distrutta dagli Assiri nel 721 a.C., questi deportarono la maggioranza degli ebrei e li sostituirono con altra gente di usi e lingue diverse che finì per mescolarsi con i pochi rimasti. Gli stranieri importati nel territorio samaritano avevano portato le loro credenze religiose e i loro culti, ma col passar del tempo prevalse quella dell’Iddio d’Israele, adorato sotto forma di vitello nei due santuari di Dan e Bethel. Più delle molte parole che si potrebbero spendere per spiegare ciò che avvenne nei tempi antichi, si può leggere 2 Re 17.23.41: “…Israele fu deportato dalla sua terra in Assiria, fino ad oggi. 24Il re d’Assiria mandò gente da Babilonia, da Cuta, da Avva, da Camat e da Sefarvàim e la stabilì nelle città della Samaria al posto degli Israeliti. E quelli presero possesso della Samaria e si stabilirono nelle sue città. 25All’inizio del loro insediamento non veneravano il Signore ed egli inviò contro di loro dei leoni, che ne facevano strage. 26Allora dissero al re d’Assiria: «Le popolazioni che tu hai trasferito e stabilito nelle città della Samaria non conoscono il culto del dio locale ed egli ha mandato contro di loro dei leoni, i quali seminano morte tra loro, perché esse non conoscono il culto del dio locale». 27Il re d’Assiria ordinò: «Mandate laggiù uno dei sacerdoti che avete deportato di là: vada, vi si stabilisca e insegni il culto del dio locale». 28Venne uno dei sacerdoti deportati da Samaria, che si stabilì a Betel e insegnava loro come venerare il Signore. 29Ogni popolazione si fece i suoi dèi e li mise nei templi delle alture costruite dai Samaritani, ognuna nella città dove dimorava. 30Gli uomini di Babilonia si fecero Succot-Benòt, gli uomini di Cuta si fecero Nergal, gli uomini di Camat si fecero Asimà. 31Gli Avviti si fecero Nibcaz e Tartak; i Sefarvei bruciavano nel fuoco i propri figli in onore di Adrammèlec e di Anammèlec, divinità di Sefarvàim. 32Veneravano anche il Signore; si fecero sacerdoti per le alture, scegliendoli tra di loro: prestavano servizio per loro nei templi delle alture. 33Veneravano il Signore e servivano i loro dèi, secondo il culto delle nazioni dalle quali li avevano deportati. 34Fino ad oggi essi agiscono secondo i culti antichi: non venerano il Signore e non agiscono secondo le loro norme e il loro culto, né secondo la legge e il comando che il Signore ha dato ai figli di Giacobbe, a cui impose il nome d’Israele. 35Il Signore aveva concluso con loro un’alleanza e aveva loro ordinato: «Non venerate altri dèi, non prostratevi davanti a loro, non serviteli e non sacrificate a loro, 36ma venerate solo il Signore, che vi ha fatto salire dalla terra d’Egitto con grande potenza e con braccio teso: a lui prostratevi e a lui sacrificate. 37Osservate le norme, i precetti, la legge e il comando che egli ha scritto per voi, mettendoli in pratica tutti i giorni; non venerate altri dèi. 38Non dimenticate l’alleanza che ho concluso con voi e non venerate altri dèi, 39ma venerate soltanto il Signore, vostro Dio, ed egli vi libererà dal potere di tutti i vostri nemici». 40Essi però non ascoltarono, ma continuano ad agire secondo il loro culto antico. 41Così quelle popolazioni veneravano il Signore e servivano i loro idoli, e così pure i loro figli e i figli dei loro figli: come fecero i loro padri essi fanno ancora oggi”.

Da quel tempo a quello di Gesù erano cambiate alcune cose: ai samaritani, disprezzati dagli ebrei e ritenuti assolutamente impuri, non fu concesso di partecipare alla ricostruzione del Tempio di Gerusalemme e da allora tra giudei e loro nacque una profonda inimicizia. Quel popolo costruì un proprio tempio sul monte Gherizim, poi distrutto 150 anni prima di Gesù da Giovanni Ircano I, re di Giuda e sommo sacerdote. Ciò acuì ulteriormente l’inimicizia tra i due popoli.

Il Maestro, quindi, arriva a un pozzo che esiste ancora oggi, profondo circa 35 metri, da solo, verso mezzogiorno, ed è impossibilitato a bere perché sprovvisto del necessario per attingere acqua, cioè di un recipiente e ancor di più di una lunga corda per calarlo. Anche Sichar esiste ancora, col nome di Askar e il pozzo dista da lei poche centinaia di metri. A 300 metri dal pozzo, c’è la tomba di Giuseppe dove attualmente vengono scortati a pregare i coloni israeliani in aperto conflitto con la popolazione araba alla quale, in quelle occasioni, è impedito di circolare liberamente. È questo un dato triste, ma che verrà utile per le riflessioni che potremo fare in altri studi.

A questo punto abbiamo l’incontro con la persona che Gesù aspettava, una donna particolare che in un certo senso farà da ponte tra Lui e il popolo samaritano: arriva poco dopo per attingere acqua e Gesù le chiede di farlo bere. La risposta che ottiene testimonia la situazione di tensione esistente tra Giudei e quella popolazione, ma Nostro Signore sposta immediatamente la questione sulla differenza tra l’acqua che avrebbe ricevuto dalla donna e quella che lui avrebbe potuto darle. Qui, pensando alla funzione vitale di questo elemento, ci viene immediatamente il ricordo di una frase che Gesù dette poco tempo addietro, citando la Scrittura, a Satana: “L’uomo non vive di solo pane, ma di ogni parola che procede dalla bocca di Dio”. Là abbiamo avuto il pane, figura di ciò che nutre il corpo, qui abbiamo l’acqua che lo fa vivere, dove il corpo è la figura dell’anima, paragone che la donna non comprende perché gli dice “Signore, dammi di quest’acqua, perché io non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua”.

Gesù però parlava di un’acqua viva, quella che solo lui avrebbe potuto e può dare, e lo fa con parole che trovavano le loro radici nei rotoli dei profeti. Infatti: “Attingete acqua con gioia alle sorgenti della salvezza” (Isaia 12.3); “Io verserò acqua sul suolo assetato, torrenti sul terreno arido” (44.3), ma ancor più Geremia 2.12 quando il profeta rimprovera il popolo per bocca di Dio: “Oracolo del Signore. Due sono le colpe che ha commesso il mio popolo: ha abbandonato me, sorgente di acqua viva, e si è scavato delle cisterne, cisterne piene di crepe, che non trattengono l’acqua”. Il paragone è sempre attuale nonostante siano passati secoli. In quest’ultimo passo e nelle parole di Gesù si parla di una differenza sostanziale tra l’acqua naturale, che disseta temporaneamente, e quella viva, che risolve il problema per sempre. Nel passo di Geremia il popolo aveva abbandonato l’unica sorgente possibile e aveva costruito delle cisterne che Dio definisce “piene di crepe, che non trattengono acqua” con una descrizione appropriata di quei manufatti che, viene da pensare, crepati materialmente non fossero, ma spiritualmente sì. Le cisterne che il popolo si era costruito costituivano un’alternativa per calmare una sete diversa, quella della carne. “Ha abbandonato me, sorgente di acqua viva”, cioè ha rifiutato di vivere per e di fede, dimenticando tutte le volte in cui il Signore aveva dimostrato tutto il suo piano per loro e la sua assistenza. “E si è scavato”, cioè ha voluto farlo, ha scelto, ha faticato pur di avere una esistenza lontana da lui: acqua per acqua, era meglio quella della “libertà”, dell’autonomia umana del tutto apparente e vana, piuttosto che quella che poteva essere raccolta direttamente alla fonte; per farlo, però, bisognava essere fedeli e avere soprattutto quell’atteggiamento che viene naturale una volta sottomessi a Dio. E viene qui in mente il “gran comandamento”, allora in embrione, dichiarato da Gesù a un anonimo dottore della legge in Matteo 22.37: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. È da lì e solo da lì che si sviluppa il rapporto Creatore – creatura e l’abbandonare la sorgente di acqua viva per bere alle cisterne rivela proprio quel distacco che si produce quando si ascoltano le interferenze della vita materiale che chiama ad altro, sempre in opposizione al richiamo di Dio.

Torniamo alla roccia in Horeb, figura velata del Figlio sempre presente: parlando di lei e del popolo di allora, Paolo scrive “…e tutti bevvero la stessa bevanda spirituale, perché bevevano alla stessa roccia che li seguiva, e la roccia era Cristo. Ma la maggior parte di loro non fu gradita a Dio e perciò furono sterminati nel deserto” (1 Corinti 10.4,5). Ecco perché, tanto al tempo della samaritana quanto ai nostri, è solo Cristo che può dare quell’acqua, con effetti totalmente nuovi visti in due distinti periodi: “Chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno”, condizione presente e futura ben diversa da quella dell’uomo ricco che, nella parabola del povero Lazzaro, trovandosi nei tormenti, disse ad Abrahamo “Abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito, perché questa fiamma mi tortura” (Luca 16.24).

L’acqua che solo Gesù può dare esenta dalla sete spirituale per sempre perché coinvolge profondamente la parte più intima dell’anima e dello spirito, i più suscettibili a provare un’insoddisfazione riguardo ai quali la carne, che beve l’acqua naturale, non sa come comportarsi: non esistono cose sulla terra in grado di placare la sete dell’anima. Gli interessi e passioni che possiamo avere, se coltivate anche seriamente e come teoricamente meriterebbero, si rivelano alla fine come un placebo perché viene, o verrà, sempre il punto in cui, tirando le somme, si scoprirà puntualmente di non aver realizzato nulla. Ci si ritroverà, al limite, con dei beni materiali che un giorno passeranno ad altri.

Il fatto di prendere l’acqua che disseta per sempre implica il chiederla a Cristo, il fidarsi di lui sapendo che dà a chi chiede: “Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chi chiede ottiene, chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto. Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pane, gli darà una pietra? O se gli chiede un pesce, gli darà al suo posto una pietra? Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono!” (Luca 11.9). Ecco allora che, con queste parole, Gesù parla della necessità che ha l’essere umano di cambiare ottica: cercare la vita, l’acqua viva, è la prima cosa necessaria che non può non venire data, è quel valore inestimabile, che la maggioranza sottovaluta, descritto in Isaia 55.1-3: “O voi tutti che siete assetati, venite alle acque; voi che non avete denaro – idoneo a comprare quelle cose – venite, comprate e mangiate. Venite, comprate senza denaro, senza pagare, vino e latte. Perché spendete denaro per ciò che non è pane, il vostro guadagno per ciò che non sazia? Su, ascoltatemi e mangerete cose buone e gusterete dei cibi succulenti. Porgete l’orecchio e venite a me, ascoltate e vivrete”.

La seconda parte del verso che riporta le parole di Gesù alla samaritana dice “L’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna”. Non sarà questa la prima volta che parlerà in questo modo: l’ultimo giorno in cui si celebrava la festa della Capanne, che commemorava il pellegrinaggio del popolo d’Israele nel deserto, disse gridando “Se qualcuno ha sete, venga a me e beva. Chi crede in me, come dice la Scrittura, fiumi d’acqua viva usciranno dal suo grembo. Questo disse dello Spirito che avrebbero ricevuto quanti avrebbero creduto il lui: infatti non vi era ancora lo Spirito, perché Gesù non era stato ancora glorificato” (Giovanni 7.37,38).

Ecco perché, alla samaritana, Gesù parla di un’acqua che avrebbe dato al futuro e non al presente: “L’acqua che io gli darò”. Lo Spirito sarebbe stato quindi una sorgente d’acqua zampillante, non fluente dalla terra o da una roccia, ma dal credente stesso, il cui unico scopo sarebbe stato in vista della vita eterna. Sarebbe stata quindi una caratteristica, una consolazione, un orientamento nel percorso, più o meno lungo, nella vita terrena sotto la prospettiva di quella eterna, una caparra.

Infatti “È Dio stesso che ci conferma, insieme a voi, in Cristo e ci ha conferito l’unzione, ci ha impresso il sigillo e ci ha dato la caparra dello Spirito nei nostri cuori” (2 Corinti 1.22,23). E la “caparra” è un termine tecnico giuridico che, nel diritto civile, è una somma di denaro o una quantità di altre cose fungibili versata a titolo di reciproca e mutuale garanzia contro l’inadempimento di un contratto. La caparra dello Spirito, è data in questo caso da Dio all’uomo.

Possono degnamente concludere questa prima parte le parole dell’apostolo Paolo che spiega la realtà di chi ha scelto di appartenere a Cristo: “Sappiamo infatti che quando sarà distrutta la nostra dimora terrena, che è come una tenda, riceveremo da Dio un’abitazione, una dimora non costruita da mani d’uomo, eterna, nei cieli. Perciò, in questa condizione, noi gemiamo e desideriamo rivestirci della nostra abitazione celeste purché siamo trovati vestiti, non nudi. In realtà quanti siamo in questa tenda sospiriamo come sotto un peso, perché non vogliamo essere spogliati, ma rivestititi, affinché ciò che è mortale venga assorbito dalla vita. E chi ci ha fatti proprio per questo è Dio, che ci ha dato la caparra dello Spirito” (2 Corinti 5.1-5).

La Samaritana, persona concreta, stupita che un giudeo le parlasse, prese alla lettera le parole di Gesù chiedendogli di dare quell’acqua anche a lei, risparmiandole così la fatica di venire tutti i giorni al pozzo ad attingere.

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02.12 – L’AMICO DELLO SPOSO (Giovanni 3.22-36)

2.11 – L’amico dello sposo (Giovanni 3.22-36)

 

22Dopo queste cose, Gesù venne con i suoi discepoli nel territorio della Giudea, e là rimase con loro e battezzava. 23Ora anche Giovanni battezzava in Enon, vicino a Salim, perché là c’era abbondanza di acqua e la gente veniva e si faceva battezzare 24perché Giovanni non era ancora stato gettato in prigione. 25Sorse allora una discussione da parte dei discepoli di Giovanni con i Giudei attorno alla purificazione. 26Così vennero da Giovanni e gli dissero «Maestro, chi era con te al di là del Giordano, a cui hai reso testimonianza, ecco che battezza tutti quelli che vanno da lui» 27Giovanni rispose e disse: «L’uomo non può ricevere nulla, se non gli è dato dal cielo. 28Voi stessi mi siete testimoni che io ho detto «Io non sono il Cristo, ma sono stato mandato davanti a lui». 29Colui che ha la sposa è lo sposo, ma l’amico dello sposo, che è presente e l’ascolta, si rallegra grandemente alla voce dello sposo; perciò la mia gioia è completa. 30Bisogna che egli cresca e che io diminuisca. 31Colui che viene dall’alto è sopra tutti; colui che viene dalla terra è della terra e parla della terra; colui che viene dal cielo è sopra tutti. 32Egli attesta ciò che ha visto e udito, ma nessuno riceve la sua testimonianza. 33Colui che ha ricevuto la sua testimonianza ha solennemente dichiarato che Dio è verace. 34Infatti colui che Dio ha mandato proferisce le parole di Dio, perché Dio non gli dà lo Spirito con misura. 35Il Padre ama il Figlio e gli ha dato in mano ogni cosa. 36Chi crede nel Figlio ha vita eterna, ma chi non ubbidisce al Figlio non vedrà la vita, ma l’ira di Dio dimora su di lui»”.

Dopo il discorso di Gesù a Nicodemo, abbiamo le parole del Battista ai suoi discepoli che mette a confronto la sua opera con quella di Gesù che, dopo quel colloquio, ritenendo di aver concluso la sua permanenza in città, fosse meglio rivolgersi alle zone di campagna circostanti. Si mise così a predicare battezzando proprio come faceva Giovanni Battista che si trovava ad Enon (o Ainon) più a Nord anche se, come leggiamo in Giovanni 4.2, “non era Gesù a battezzare, ma i suoi discepoli”. Ci fu una disputa sulla “purificazione” con un giudeo, nei testi più accreditati al singolare e non al plurale, sulla differenza tra il purificarsi secondo la tradizione e quella del battesimo predicato da Giovanni e quello dai discepoli di Gesù, allora ancora identici nella forma e nella sostanza.

Giovanni, prima dell’inizio della vita pubblica di Gesù, era l’unico accreditato ad amministrare il battesimo in quanto era colui che Dio aveva designato per essere la “Voce d’uno che grida nel deserto «Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri»”. Non era ancora venuto il tempo in cui Gesù avrebbe detto a chi guariva “La tua fede ti ha salvato” e i miracoli fatti in Gerusalemme avevano lo scopo di qualificarlo esattamente come disse Nicodemo: “Noi sappiamo che nessuno può compiere i segni che tu fai, se Dio non è con lui”.

I discepoli di Giovanni, evidentemente convinti dell’unicità della predicazione del loro Maestro, avevano preso con una certa gelosia la notizia in base alla quale Gesù predicava e battezzava al pari suo, interrogati forse sulla eventuale differenza tra i due battesimi e sul perché uno amministrasse in un luogo e l’altro in un altro. Le parole dei suoi discepoli, con quell’ “a cui hai reso testimonianza” mostrano quanto non avessero capito che era in atto un profondo mutamento nella storia della salvezza, quasi a sottintendere “Guarda, tu l’hai qualificato davanti a tutti i presenti come l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo, e lui ti ricambia in questo modo”; per questo era necessario un distinguo tra di due ruoli, tra il privilegio che aveva avuto Giovanni, “mandato davanti a lui” e la persona del Cristo, dell’inviato con un unzione non umana, profondamente diversa per compiti e origine. E Giovanni Battista si qualifica, con un termine che per i lettori del vangelo è nuovo, “l’amico dello sposo”, proponendo un tema che verrà poi sviluppato in particolare dall’apostolo Paolo. L’insegnamento del Battista potrà essere qui visto per sommi capi e verrà ripreso più avanti, quando Gesù esporrà delle importanti parabole su questo tema.

Il distinguo tra le opere del precursore del Messia e il Messia stesso è definito con vari concetti e una premessa in base alla quale “L’uomo non può ricevere nulla se non gli è dato dal cielo” là dove il ricevere implica anche, nel verbo greco originale, “prendere”. I doni di Dio vengono dispensati, ma tocca al destinatario – appunto – prenderli e usarli, come nella parabola dei talenti esposta in Luca 19.12-27 (leggere) che ci parla di un uomo che parte per un paese lontano per ricevere il titolo di re e tornare, e dei servi che prendono dalle sue mani una moneta d’oro per farle fruttare nell’attesa.

Giovanni dice ai suoi discepoli, con questa frase, che solo nel caso di un dono dall’alto vi può essere un risultato, altrimenti la sostanza, il raccolto incorruttibile, non può esistere, come testimoniato dalle vicende esposte da Gamaliele e di cui abbiamo parlato in un’altra riflessione a proposito dei tanti sorti dal nulla che pretendevano di essere il Messia o un suo inviato, che poi scomparvero sepolti dalla storia o, nella storia della Chiesa, tanti fautori di errori interpretativi penalizzanti alcuni durati pochi anni, altri esistenti ancora oggi. Ogni uomo mandato veramente da Dio ha un’opera e un campo d’azione assegnatogli a prescindere da titoli e riconoscimenti umani; nel caso di Giovanni il ruolo che aveva era quello di essere “mandato davanti a lui” sì come voce nel deserto, ma anche come “amico dello sposo”, definizione nuova che non troveremo più, nella Scrittura, per nessun altro.

L’amico dello sposo, per i matrimoni di allora, chiamato dai greci Paranymphos, era l’incaricato di tutti i preliminari del matrimonio ed aveva una funzione tecnico-giuridica: domandava la mano della sposa, stringeva il contratto di matrimonio stabilendo la sua dote, preparava e presiedeva la festa nuziale e l’onore che aveva era direttamente proporzionale al rango delle due famiglie. Si trattava di un incarico delicato che richiedeva una fiducia assoluta e un’amicizia intima tra lo sposo e il suo amico. Per usare questi termini, sicuramente alla presenza dell’apostolo Giovanni e forse anche degli altri tre (Andrea, Pietro e Giacomo), il Battista doveva avere ricevuto un insegnamento molto profondo dallo Spirito perché vide, anche se in modo diverso, ciò che descrive il suo omonimo discepolo, poi diventato apostolo, in Apocalisse quando scrive “Udii poi come una voce di una folla immensa, simile a fragore di grandi acque e a rombo di tuoni possenti, che gridavano «Alleluia! Ha preso possesso del suo regno il Signore, il nostro Dio, l’Onnipotente. Rallegriamoci ed esultiamo, rendiamo a lui gloria, perché sono giunte le nozze dell’Agnello; la sua sposa è pronta: le fu data una veste di lino puro e splendente». La veste di lino sono le opere giuste dei santi” (19.6-8).

Qualificandosi così davanti a quei discepoli, Giovanni Battista fa un paragone perfetto. Lui preparava, poneva le basi per una Chiesa di cui, pur dovendo ancora formarsi, ne vedeva le sembianze nel suo futuro immediato e lontano, mentre l’apostolo la vide in tutta la sua perfezione nella visione della Gerusalemme celeste in cui “quelli che sono scritti nel libro della vita dell’Agnello” formeranno un tutt’uno con essa (Apocalisse 21.9-27). Giovanni Battista, da uomo attento e consapevole del proprio ruolo, sa che il momento in cui dovrà farsi da parte è imminente: “Bisogna che lui cresca e che io diminuisca” (v.30) e infatti la sua funzione diminuirà in modo proporzionale a quella con cui Gesù illuminava le persone coi suoi insegnamenti indicando la via verso il cielo, cioè lui stesso: “Io sono la via, la verità e la vita”. È l’amore vero, quello che non cerca il tornaconto personale, ma l’altrui. L’apostolo Paolo, poi, si servirà della relazione tra Cristo e la Chiesa per descrivere il rapporto matrimoniale tra credenti consapevoli: “Mariti, amate le vostre mogli come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola con il lavacro dell’acqua mediante la parola, e per presentare a se stesso la Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata” (Efesi 5.25-27).

Le parole di Giovanni Battista furono capite dai suoi discepoli, segno che non si era limitato a predicare il ravvedimento, ma aveva comunicato loro anche il piano di Dio tanto per il popolo eletto quanto per tutti quelli che sarebbero venuti un giorno, spiegando loro quanto fossero fuori luogo i sentimenti tipicamente umani che provavano, gli stessi che animarono poi i discepoli di Cristo quando gli dissero “Maestro, abbiamo visto uno che scacciava i demoni nel tuo nome e volevamo impedirglielo – originale “noi glielo impedivamo” – perché non ci seguiva” (Marco 9.38). Il problema non era che i discepoli di Gesù battezzassero e la gente accorresse a lui, ma la distinzione dei ruoli: stava per arrivare il tempo in cui Giovanni avrebbe dovuto mettersi da parte e Gesù diventare sempre più importante, accentrando su di sé la predicazione sostenuta dai miracoli, ciascuno dei quali illuminanti per i significati spirituali che rivestono. “Lui deve crescere, io invece diminuire” sono parole molto importanti, un rimprovero amorevole a quei discepoli che invece avrebbero voluto vedere il loro maestro crescere di importanza stante la vita che aveva condotto e la gente che veniva ad ascoltarlo: Giovanni, con quelle parole, ricorda loro che non aveva mai nascosto di essere un semplice messaggero: “Dopo di me, viene uno che è più grande di me”. Quel “più grande di me” era arrivato e non era uno qualunque, ma uno che “viene dall’alto” ed “è al di sopra di tutti” perché “viene dal cielo”, cioè da un luogo alto, inaccessibile, è l’unico che possa avere l’autorità per parlare di cose che altrimenti sarebbero ignorate e lo fa non perché ha studiato, ma “attesta ciò che ha visto e udito”.

In pratica, senza di lui, senza la sua voce che molti udirono allora ma che noi leggiamo, proseguiremmo la nostra esistenza nelle tenebre dell’ignoranza. Ecco il perché “Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una gran luce”! Ogni essere umano cammina alla luce del giorno, se non altro per un certo numero di ore per cui non ha bisogno di una luce supplementare a meno che questa non sia per illuminare la parte nascosta di lui, quella spirituale.

L’uomo, da solo, non ha modo di conoscere la verità. Lo dimostra la ricerca millenaria di un senso della vita attraverso la filosofia e la religione che, a volte, può anche giungere a frammenti di vero perché un cuore e una mente onesta non possono non pervenire alla conclusione che ciò che abbiamo è illusorio e non può salvare, ma qui il discorso è profondamente diverso: la verità è una, non irraggiungibile anzi vicina perché c’è chi l’ha portata e spiegata; uno che viene dall’alto, è al di sopra di tutti, che attesta ciò che ha visto e udito, verbi che non lasciano scampo perché escludono il sentito dire o una libera interpretazione di cui tanti si nutrono.

Come già avvenuto nel colloquio con Nicodemo nei versi da 16 a 21, non si può escludere che in quelli da 31 a 36 che stiamo leggendo vi sia un intervento dell’evangelista, essendovi parentela di contenuti e di forma col primo capitolo, l’inno di apertura, ma poco cambia perché l’apostolo Giovanni, eventuale autore dei versi, in questo caso estende i concetti che il Battista aveva ben chiari, salvo un dubbio che lo attanagliò quando era imprigionato nella fortezza del Macheronte sotto Erode Antipa: “Sei tu quello che deve venire, o dobbiamo aspettarne un altro?

Egli attesta ciò che ha visto e udito, eppure nessuno accetta la sua testimonianza”, “nessuno” usato per contrapposizione al “chi” successivo, che “conferma che Dio è veritiero” e il confronto “nessuno – chi” lo troviamo nell’episodio dei dieci lebbrosi guariti in Luca 17.11-19: qui, leggiamo che uno solo, samaritano quindi non appartenente alla congregazione di Israele, con gli altri nove ebrei che guarivano lungo il cammino, tornò indietro prostrandosi davanti a Gesù per ringraziarlo. “Ma Gesù osservò «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio all’infuori di questo straniero?» E gli disse «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato”.

A questo punto, abbiamo una descrizione dello sposo: “Colui che Dio ha mandato dice le parole di Dio: senza misura Egli dà lo spirito. Il Signore gli ha dato in mano ogni cosa”. Chi ha parlato delle cose del cielo, che ha visto e udito, non è un ambasciatore: ricordiamo le parole “Ogni potere mi è stato dato in cielo e sulla terra” (Matteo 28.18), che l’apostolo Paolo spiegò agli Efesini con queste parole: 1…7affinché il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza di lui; 18illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi 19e qual è la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi, che crediamo, secondo l’efficacia della sua forza e del suo vigore. 20Egli la manifestò in Cristo, quando lo risuscitò dai morti e lo fece sedere alla sua destra nei cieli 21al di sopra di ogni Principato e Potenza, al di sopra di ogni Forza e Dominazione
e di ogni nome che viene nominato non solo nel tempo presente ma anche in quello futuro.
22 Tutto infatti egli ha messo sotto i suoi piedi e lo ha dato alla Chiesa come capo su tutte le cose:
23essa è il corpo di lui, la pienezza di colui che è il perfetto compimento di tutte le cose”
(Efesini 1.20-22). “Perché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami Gesù Cristo è il Signore» a gloria di Dio Padre” (Filippesi 2.10,11). Ogni cosa il Padre ha dato il mano al Figlio, l’unico ad averlo rivelato.

E per concludere, Giovanni conclude il suo intervento con parole di netta separazione, le stesse che costituirono la prima azione di Dio alla creazione, quando con la luce divise la luce dalle tenebre: “Chi crede nel Figlio ha la vita eterna; chi non obbedisce al Figlio non vedrà la vita, ma l’ira di Dio rimane su di lui”.

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02.11 – HA TANTO AMATO IL MONDO (Giovanni 3.16-21)

02.11 – Ha tanto amato il mondo (Giovanni 3.16-21)

 

16Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. 17Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. 18Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio. 19E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. 20Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. 21Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio».”.

Attorno a questi versi esistono due possibilità “tecniche” da parte degli studiosi del Nuovo testamento: la prima tende a leggerli come un commento di Giovanni alle parole di Gesù a Nicodemo, che avrebbe finito il suo discorso mettendo a confronto il serpente di rame con la croce, e la seconda li considera come il suo naturale proseguimento. A favore della prima ipotesi, in effetti, c’è una notevole somiglianza con il modo che ha Giovanni di introdurre il suo Vangelo presentando la persona e l’opera di Gesù e la funzione del “Figlio” qui descritta. Se questo appare plausibile, il fatto che la definizione di “vita eterna” venga data a Nicodemo al verso 15 e sia ribadita al 16 con relativa spiegazione, rende valida anche la seconda, facendo parlare Gesù in terza persona. Nostro Signore dà di sé due definizioni: prima “Figlio dell’uomo”, con cui presenta la propria umanità, poi “Figlio di Dio unigenito” a sottolineare la Sua regalità ed unicità quale via per la vita. Dobbiamo poi notare il paragone col serpente di rame: se l’ebreo che veniva morso – da sottolineare mortalmente – guardava l’effigie del serpente di rame posta in alto e guariva, oggi l’uomo, incompatibile con Dio a causa del peccato, se allo stesso modo guarda con fede al Figlio, trova con Lui compatibilità, perdono e assume la dignità di figlio di Dio. Qui si aprirebbero una quantità davvero grande di applicazioni, ma per questioni di ordine atteniamoci al testo: “Dio ha tanto amato il mondo”. Quale? Quello che ha creato alle origini in cui la parola “buono” ricorre per sei volte più una, quando troviamo scritto, a commento del sesto giorno, “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona”. L’universo ed il mondo creato, però, erano stati fatti in funzione della sua creatura per eccellenza, fatta – allora – davvero a Sua immagine e somiglianza, per cui ha continuato ad amarla nonostante il peccato. E il vestito fatto ai nostri progenitori al posto delle foglie di fico lo conferma.

Anche lì l’essere umano lasciò trasparire la sua profonda inettitudine e inadeguatezza a sapersi gestire da solo e il vestito di Dio, fatto con pelli di animali, manifestava anche la Sua assistenza nonostante l’offesa data dal peccato consistente, al di là della disubbidienza all’unico comandamento ricevuto, nel voler essere come lui. Dio quindi, pur imponendo all’uomo un’esistenza che poteva essere solo quella che sarebbe stata dalla sua estromissione da Eden in poi, essendo diventato incompatibile con quell’ambiente santo, aveva un piano di riscatto che avrebbe potuto essere molto più breve se solo la sua creatura avesse voluto comprenderlo. Basti pensare al vagabondare per il deserto a causa della poca fede, ma soprattutto alla mancanza di amore nei confronti del loro Dio che aveva dato innumerevoli volte prova del Suo voler assistere in ogni modo il popolo che aveva eletto.

Dio ha amato il mondo a tal punto da dare il proprio figlio unigenito. Non è cosa da poco e non è facile da capire, ma parafrasando, visto che Gesù ebbe a dire “Io e il Padre siamo uno”, possiamo dire “A tal punto da rinunciare ad una parte di sé”. E il sacrificio attraverso la morte del Figlio, nonostante gli ebrei dicano che Dio non può morire – e infatti risorse – è vista con queste parole: “Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. A maggior ragione ora, giustificati nel suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui.” (Romani 5.7-9).

Morto per noi, per tutti quelli che sarebbero venuti dopo di lui, ma anche per quelli che avevano vissuto prima, addirittura ai tempi del diluvio perché nei tre giorni in cui fu sepolto, secondo le parole dell’apostolo Pietro, “…Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nel corpo, ma vivo nello spirito; e nello spirito andò a predicare l’annuncio anche agli spiriti che erano in carcere. Che furono ribelli, quando la pazienza di Dio aspettava ai giorni di Noè mentre si fabbricava l’arca nella quale poche persone, otto in tutto, furono salvate attraverso l’acqua” (1 Pietro 3. 18-20). “Carcere” inteso come la parola ebraica “Sheol”, cioè “soggiorno – o “regno” – dei morti”, corrispondente dell’ “Ades” pagano, luogo invisibile in cui le anime dei morti restavano, entrambi posti di cui Gesù ha le chiavi: “Ero morto, ma ora vivo per sempre, e ho le chiavi della morte e degli inferi” (Apocalisse 1.18).

Anche questo rientra nella settima e ultima frase detta da Gesù sulla croce, “Tutto è compiuto”, che ci parla di un “tutto” di perfezione, di un’opera compiuta nella sua interezza: il sacrificio dell’Agnello di Dio era avvenuto, le porte del perdono si erano aperte non solo per quelli che avrebbero creduto da lì in poi, ma anche per tutti coloro che del Vangelo non avevano potuto sentire parlare nei tempi antichi. L’apostolo Pietro scrive così, ma per non lasciare l’impressione che la predicazione dell’annuncio del Vangelo si sia rivolto solo agli spiriti vissuti al tempo di Noè, scrive sempre nella stessa lettera in 4.6 “Anche ai morti è stata annunciata la buona novella affinché siano condannati come tutti gli uomini nel corpo, ma vivano secondo Dio nello Spirito”.

Quindi l’uomo, che ha un appuntamento con la morte del proprio involucro esterno, può avere un appuntamento con la Vita conservando quella parte di lui che ha una particolarissima caratteristica: quando il Creatore rese Adamo “anima vivente”, gli soffiò nelle nari “un alito di vita”, il solo a poterlo rendere come poi è stato descritto. È questo alito che rende ciascun essere umano unico perché portatore sia di quell’alito sia della propria volontà, il proprio essere.

L’amore di Dio non parla di condanna: il Figlio è stato mandato perché “Il mondo sia salvato per mezzo di lui”. Qui c’è un particolare a favore dell’ipotesi in base alla quale le parole fossero indirizzate a Nicodemo, perché era opinione presso gli ebrei che il Messia, oltre a rendere vittorioso Israele su tutti gli altri popoli, li avesse giudicati e condannati. Questa è una visione futura che ha attinenza al ritorno di Cristo sulla terra, ma non alla sua prima venuta perché l’uomo potesse essere salvato attraverso di Lui. Non era però quello il tempo e la parola “mondo”, che compare per tre volte nei versi in esame, conferma l’universalità del messaggio dell’amore di Dio che, se nei tempi antichi aveva già provveduto a dividere quanti osservavano la Sua Legge da quanti la disprezzavano, adesso fa la stessa cosa tra quanti credono nel figlio e quanti lo respingono: rifiutando la croce, si condannano da soli. Ecco perché “Chi crede in lui non è condannato, ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’Unigenito Figlio di Dio”. “Credere” è un atto di comprensione. È la confessione della propria inferiorità, dell’appartenere al nulla senza Cristo, dell’aspirare a cose diverse da quelle che il mondo, su cui Satana ha potestà, offre. Credendo, alla fine dei conti, l’uomo pone fine al proprio orgoglio e pone in atto una profonda revisione di tutta la propria vita. Gli esempi sono davvero tanti, ma credo che più di tutti valga l’episodio dei due ladri crocifissi assieme al Signore che troviamo in Luca 23.39-43. Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!». L’altro invece lo rimproverava dicendo: «Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male». E disse: «Gesù, ricòrdati di me quando entrerai nel tuo regno». 43Gli rispose: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso». Sono due modi di intendere la propria vita: uno non ha ancora accettato la morte, accomuna Gesù alla sua categoria e vorrebbe farne un complice, l’altro invece trova nelle sofferenze il modo per confessare una vita fondata su valori errati. Entrambi, per come parlano, dimostrano di avere sentito parlare di Lui e di avere anche riflettuto, ma solo uno parla del “regno”, dimostrando di credergli. La risposta: “Amen ti dico: oggi sarai con me nel paradiso”.

Che Nostro Signore a Nicodemo, o Giovanni ai suoi lettori, si rivolge agli uomini di allora come di oggi, parla di salvezza o giudizio e, nei versi dal 19 al 21 che abbiamo letto, ne spiega il significato. “La luce è venuta nel mondo”. impossibile non vederla, non riconoscerla, esserne attratti. Se questo non avviene, significa che questa dà fastidio, essendo il contrario dell’oscurità. Non si tratta di amare la notte più del giorno come accade per le persone, ma di una scelta di metodo: “hanno amato le tenebre più che la luce, perché le loro opere erano malvagie”. “Tenebre” e ”Luce” sono due opposti, due mondi distinti in cui non esiste un punto neutro di passaggio. Un’alba o un tramonto: “Chi non è con me, è contro di me e chi non raccoglie con me, disperde” (Luca 11.23). Questo interessante passo propone una verità collegata alla divisione, all’appartenenza a due mondi, e una conseguenza vista nel “disperdere” il proprio raccogliere. Non esiste essere umano che non abbia un progetto, una meta e che non viva in funzione di quello. La mancanza di uno scopo porta – o è sintomo – di una forte depressione ma, a parte questa eccezione sulla quale bisognerebbe aprire un capitolo a parte, è il progetto che fa vivere l’uomo, la prospettiva di un raccolto. E la sua dispersione, il ritrovarsi con un nulla in mano più che al fallimento, sarà il crollo di tutte quelle sicurezze presunte conquistate a fatica, se non avranno avuto Cristo come motore.

Solo la consapevolezza acquisita del vivere nel buio può spingere la persona a cercare la luce, ma non è facile perché si tratta di un’oscurità metaforica in quanto il mondo può offrire una quantità enorme di attrattive e possibilità tangibili e reali se uno non si domanda quale effettivamente sia la destinazione a cui portano.

Tornando alle parole per Nicodemo, o di Giovanni ai suoi lettori, viene ampliato il discorso sulla differenza tra Luce, Tenebre e i loro relativi appartenenti: “chi fa cose malvagie odia la luce e non viene alla luce affinché le sue opere non vengano riprovate”, cioè si nasconde per non venire scoperto, ed ecco perché, con la confessione dei propri peccati al loro battesimo, chi andava dal Battista intendeva dare un taglio netto al proprio passato. Il lato tragico della scelta di appartenere a un mondo di tenebre è che non serve a nulla, perché “Non vi è nulla di nascosto che non sarà manifestato, né di segreto che non debba essere conosciuto e portato alla luce. Fate dunque attenzione a come ascoltate, perché a chi ha sarà dato, ma a chi non ha sarà tolto anche quello che pensa avere” (Luca 8.17,18).

Gesù poi passa a descrivere la categoria di persone opposte, “Chi fa la verità”, che viene verso la luce, o “alla” luce. Non è detto che vive nella luce, ma che va verso di essa: è un cammino, una ricerca destinata a conoscere tanto successi quanto fallimenti che ci ricordano la nostra natura di terra, il nostro corpo fragile. Ma Dio “…renderà a ciascuno secondo le sue opere: la vita eterna a coloro che cercano gloria, onore e immortalità, perseverando nelle opere buone” (Romani 2.7).

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02.10 – NICODEMO (Giovanni 3.1-21)

Nicodemo (Giovanni 3.1-21)

 

1Vi era tra i farisei un uomo di nome Nicodèmo, uno dei capi dei Giudei. 2Costui andò da Gesù, di notte, e gli disse: «Rabbì, sappiamo che sei venuto da Dio come maestro; nessuno infatti può compiere questi segni che tu compi, se Dio non è con lui». 3Gli rispose Gesù: «In verità, in verità io ti dico, se uno non nasce dall’alto, non può vedere il regno di Dio». 4Gli disse Nicodèmo: «Come può nascere un uomo quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?». 5Rispose Gesù: «In verità, in verità io ti dico, se uno non nasce da acqua e Spirito, non può entrare nel regno di Dio. 6Quello che è nato dalla carne è carne, e quello che è nato dallo Spirito è spirito. 7Non meravigliarti se ti ho detto: dovete nascere dall’alto. 8Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va: così è chiunque è nato dallo Spirito». 9Gli replicò Nicodèmo: «Come può accadere questo?». 10Gli rispose Gesù: «Tu sei maestro d’Israele e non conosci queste cose? 11In verità, in verità io ti dico: noi parliamo di ciò che sappiamo e testimoniamo ciò che abbiamo veduto; ma voi non accogliete la nostra testimonianza. 12Se vi ho parlato di cose della terra e non credete, come crederete se vi parlerò di cose del cielo? 13Nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo. 14E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, 15perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna.16Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. 17Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. 18Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio. 19E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. 20Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. 21Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio»”.

Prima di affrontare l’episodio è necessaria una premessa su una questione narrativa. Dalla nascita della Sacra Scrittura ai giorni nostri due sono i personaggi importanti, a parte i traduttori, che intervennero su di essa per agevolarne lo studio: Stephen Langton e Robert Estienne. Langton (1150 – 1228), arcivescovo cattolico di Canterbury, suddivise la Bibbia in capitoli. Estienne invece, (1503 – 1559), editore e grammatico francese, protestante, ripartì i capitoli in versetti. Prima di loro tutto era un corpus unico e, a meno di non avere una conoscenza pressoché perfetta del testo di un libro, o rotolo, la ricerca di passi e citazioni era molto ardua.

Immaginando ora di avere tra le mani il libro di Giovanni senza capitoli e versetti, il raccordo tra il “conosceva quello che c’era nell’uomo” di 2.24 e “Vi era tra i farisei un uomo di nome Nicodemo” è particolare perché il testo originale greco antepone un “Ma”, che alcuni traducono con “Ora”. Si tratta di un particolare da non trascurare perché quel “Ma vi era…” si contrappone fortemente alla massa delle persone a Gesù favorevoli e no. Quel “Ma” rende Nicodemo lontano “parente” di Simeone, quel personaggio particolare che prese in braccio Gesù da bambino che abbiamo incontrato nelle nostre prime riflessioni sui Vangeli. Di Simeone è detto “uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione di Israele” ma Nicodemo, a differenza dei suoi correligionari, metteva a confronto la sua conoscenza di dottore della Legge con le parole di Gesù e le voleva capire, pur con tutta la titubanza – e la cautela – del caso. Se così non fosse stato, Gesù non avrebbe accettato di parlare con lui, per quanto dal dialogo emerge tutta la distanza fra la sola conoscenza delle Scritture e la sapienza di Dio, che gli propone realtà a lui sconosciute.

Nicodemo era uno dei “capi dei giudei”, quindi un fariseo anziano che si definisce “vecchio” cresciuto nello studio della Torah, depositario non solo della conoscenza relativa agli scritti di Mosè, ma soprattutto di quella tradizione e insegnamenti sulla sua pratica e significato che tanto inorgoglivano i suoi simili. L’episodio della cacciata dei mercanti dal Tempio, oltre che i “segni” che Gesù aveva operato, lo avevano posto nella condizione di dubitare di essere nel giusto: posto di fronte a quei miracoli, che nessuno degli appartenenti alla sua corrente aveva mai operato nonostante la purezza che pretendeva di avere – “fariseo” significa “separato” –, non sapeva cosa fare perché “nessuno può compiere i segni che tu compi, se Dio non è con lui”. Nicodemo riteneva Gesù un Maestro di rango più elevato del suo, un “Dottore venuto da Dio” e lo interpella non senza timore per la propria sicurezza visto che sceglie di recarsi da lui di notte.

Apparentemente Nicodemo potrebbe rientrare nella categoria di quanti “credettero in lui”, ma di cui non si fidava; però Gesù lo ritenne degno di un insegnamento particolare, illuminandolo su una convinzione che aveva come fariseo, cioè che l’appartenenza al popolo di Israele comportasse di per sé il far parte di un popolo santo e perciò meritevole delle esclusive attenzioni del Messia. Era un concetto giusto solo in parte: certo Gesù era stato mandato “per le pecore perdute della casa di Israele”, ma ricordando la versione di Marco della cacciata dei mercanti dal Tempio, leggiamo “non permetteva che si trasportassero cose attraverso il Tempio e insegnava loro dicendo «Non sta forse scritto: La casa mia sarà chiamata casa di preghiera per tutte le nazioni?» voi invece ne avete fatto una spelonca di ladri” (Marco 11.16-17).

Se Gesù, a quel tempo, ricordò una prospettiva futura e parlò in modo tale da non farsi capire, con Nicodemo ha un tono diverso e gli insegna parlandogli di una nuova nascita. Quel fariseo, fedele alla sua tradizione e mentalità abituata alla cavillosità, gli chiede come possa una persona anziana tornare nel grembo di sua madre e rinascere, viene ammaestrato con le parole “Se uno non è nato di acqua e di spirito, non può entrare nel regno di Dio”.

Gesù qui parla di una nascita spirituale, quella che fa di chi ha creduto una nuova creatura: Paolo scriverà ai Galati “Non è l’essere circoncisi o meno, ma l’essere nuova creatura” (6.13) oppure a Tito 3.5-7 “Egli ci ha salvati non per le opere giuste da noi compiute, ma per la sua misericordia, con un’acqua che rigenera e rinnova nello Spirito Santo, che Dio ha effuso su di noi in abbondanza per mezzo di Gesù Cristo, salvatore nostro, affinché, giustificati per la sua grazia, diventassimo, nella speranza, eredi della vita eterna”. Giacomo, fratello di Gesù, scrive “Egli ci ha generati di sua volontà mediante la parola di verità, affinché siamo in un certo modo le primizie delle sue creature” (1.18).

Senza questa possibilità, questa rivoluzione interiore in cui si cambia la propria appartenenza da un mondo estraneo all’amore e alla volontà di Dio in uno spirituale pur rimanendo nella carne, l’appartenenza ed il conseguente, futuro ingresso nel regno di Dio è impossibile.

Sulla “nascita d’acqua” i Padri della Chiesa, quella di Roma, la Luterana con le sue diramazioni oltre che la maggioranza dell’Anglicana concordano nel riferirla al battesimo cristiano che sancisce la volontà di aderire alla comunità di tutti i credenti. Penso che il battesimo però testimoni una nascita nuova già avvenuta e che qui Gesù parli piuttosto di qualcosa venutasi a creare, o a formare, attraverso una purificazione: è un’acqua che Dio solo può dare, quella di cui Gesù parlerà alla Samaritana che vedremo tra breve quando le disse “Chiunque beva di quest’acqua – quella del pozzo – avrà di nuovo sete, ma chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna” (Giovanni 4.14).

È infatti solo Dio che può lavare la persona dai peccati commessi: “Venite quindi e discutiamo assieme, dice l’Eterno: anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come neve. Anche se fossero rossi come porpora, diventeranno come lana” (Isaia 1.18). Il perdono di Dio implica quindi la cancellazione del peccato. Il perdono di Dio implica quindi l’ammissione alla Sua presenza vista nel far parte del Suo Popolo. Se è Dio a lavare l’uomo, ecco, nasce di spirito, ha accesso a Lui, è rinnovato, diverso, non è più quello di prima, per lui sono pronti percorsi, sentieri e strade nuove. È nato, per usare le parole di Gesù a Nicodemo, “dall’alto”. E il battesimo è l’unico modo che ha una persona per dichiarare la propria appartenenza a Cristo: facendo un parallelo con quello di Giovanni, si può dire che là c’era una persona che si immergeva nell’acqua per poi riemergerne. Questo simboleggiava l’intenzione di rifiutare la propria esistenza di peccato – che molti confessavano pubblicamente – e, usciti fuori, di accettare il Salvatore che sarebbe venuto. Il battesimo cristiano invece, svolto allo stesso modo, ne differisce perché la persona, immergendosi e uscendo dall’acqua, conferma la sua salvezza, la sua nuova nascita, esprime tanto la sua appartenenza alla Chiesa quanto la propria volontà di appartenere a Cristo, come possiamo leggere dalla bellissima esperienza dell’eunuco etiope battezzato da Filippo sulla strada di Gaza in Atti 8.26-40. Il battesimo simboleggia un contratto stipulato tra l’uomo e Dio: il primo conferma di appartenergli e volergli appartenere, il secondo garantisce che non lo abbandonerà mai, accetta di esserne il proprietario: “Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno mai perdute e nessuno le rapirà dalla mia mano. Il Padre mio che mele ha date è più grande di tutti e nessuno può rapirle dalla mia mano.” (Giovanni 10.27-30). Ecco perché pare una colossale forzatura amministrare il battesimo a un essere nato da pochi giorni, non avendo il battesimo attinenza alcuna alla circoncisione giudaica alla quale nessuno in Israele poteva sottrarsi, pena la morte. Il battesimo non rigenera nessuno, non fa “nascere di nuovo” nessuno, ma è fondamentale per chi ha creduto ed è nato di nuovo e ha fatto esperienza di questa realtà. La nuova nascita implica il battesimo, non viceversa.

La distinzione che Gesù fa a Nicodemo è eloquente: “Quello che è nato dalla carne è carne, e quello che è nato dallo Spirito è spirito”. Si nasce senza che nessuno ci chieda il permesso, si rinasce se lo si desidera, rispondendo a un invito di Dio. Di fronte alle parole di Gesù, Nicodemo rimane perplesso, nessuno gli aveva mai parlato in quel modo, nemmeno i suoi maestri o i suoi colleghi più stimati, erano parole nuove.

A quel punto Gesù inizia a parlare del vento, termine che Nicodemo non poteva non collegare o comprendere. Lo Spirito non può essere costretto, non può essere gestito, non può essere compreso: “Come tu non conosci la via del vento, né come si formino le ossa nel grembo della donna incinta, così non conosci l’opera di Dio che fa tutto” (Ecclesiaste 11.5). “Opera di Dio” che si è rivelata sulla creazione che l’uomo cerca di investigare con la propria scienza, ma che oggi si rivela con la trasformazione in “nuova creatura” talché “Interrogato dai farisei su quando arriva il regno di Dio, rispose loro e disse «Il regno di Dio viene non in modo che si possa osservare. Né diranno eccolo qui, o eccolo là: ecco, il regno di Dio è dentro di voi” (Luca 17,21

Lo Spirito è pienamente libero, non legato a nulla e da nulla o da qualcuno, non ha nulla a che vedere con l’insegnamento legale che Nicodemo e i suoi simili davano al popolo, escludendo a priori qualsiasi elemento nuovo se non un’interpretazione che fosse in linea con quelle precedenti. Nicodemo era un uomo in crisi profonda perché non capiva come Gesù potesse compiere quei segni, che riconosceva provenienti da Dio, senza essere allineato alla sua categoria. Se ciò non era, Nicodemo si trovava in errore e ciò lo intimoriva. Con la frase “Tu sei dottore in Israele e non sai queste cose?” il Maestro gli ricorda che lo Spirito che aveva parlato attraverso i profeti era lo stesso: parole di rimprovero ed esortazione al ravvedimento consistente prima di tutto da un radicale mutamento nel modo di pensare e poi nell’osservanza della Legge. Perché il profeta non è un uomo puro, ma una persona che Dio sceglie: “il vento soffia dove vuole. “Così è di chiunque è nato da Dio” si riferisce proprio all’elezione a nuova creatura, voluta in parte dall’uomo ma soprattutto da una scelta di Dio che chiama. C’è chi chiama e c’è chi risponde.

Gesù prosegue aprendo una nuova frase per la seconda volta con “In verità, in verità ti dico”, cioè con un “Amen” che certifica appunto un’affermazione come vera, rafforzandola. “Noi – io e il Padre che parla attraverso di me – parliamo di ciò che sappiamo e testimoniamo ciò che abbiamo visto, ma voi non ricevete la nostra testimonianza”. È una constatazione molto amara e Giovanni, nell’inno che fa da prologo al suo Vangelo dice “Dio nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del padre, è lui che lo ha rivelato” (1.18): rivelare significa rendere note cose sconosciute, segrete fino al momento in cui vengono dichiarate, fare emergere qualcosa in modo evidente. La constatazione “Ma voi non accogliete la nostra testimonianza” è poi una condanna. “Accogliere”, tradotto anche con “ricevere” implica una scelta: c’è qualcosa che viene porto spontaneamente, ma che qui viene respinto. Per respingere qualcosa o qualcuno bisogna avere sempre delle ragioni, ma in questo caso sono da ricercarsi in una difesa di ciò che si ha: meglio la presunzione, l’arroccarsi sulle proprie posizioni di fronte all’evidenza, la stessa che portò i giudei a dire di Gesù “Scaccia i demòni per opera del principe dei demòni” (Matteo 9.34).

Tornando all’episodio, Gesù pone davanti al suo uditore una domanda: come farà, lui e i suoi, a recepire le “cose celesti” se non è stato in grado di capire i paragoni tratti da esempi terreni come il discorso del vento ed altri che sicuramente gli avrà fatto? A questo punto Gesù parla a Nicodemo di un episodio che certamente doveva conoscere e avere studiato molte volte, quello del serpente di rame, non senza premettere di avere l’autorità per rivelare le cose di Dio. Si tratta di un episodio narrato in Numeri 21.4-9: 4Gli Israeliti si mossero dal monte Or per la via del Mar Rosso, per aggirare il territorio di Edom. Ma il popolo non sopportò il viaggio. 5Il popolo disse contro Dio e contro Mosè: «Perché ci avete fatto salire dall’Egitto per farci morire in questo deserto? Perché qui non c’è né pane né acqua e siamo nauseati di questo cibo così leggero». 6Allora il Signore mandò fra il popolo serpenti brucianti i quali mordevano la gente, e un gran numero d’Israeliti morì. 7Il popolo venne da Mosè e disse: «Abbiamo peccato, perché abbiamo parlato contro il Signore e contro di te; supplica il Signore che allontani da noi questi serpenti». Mosè pregò per il popolo. 8Il Signore disse a Mosè: «Fatti un serpente e mettilo sopra un’asta; chiunque sarà stato morso e lo guarderà, resterà in vita». 9Mosè allora fece un serpente di bronzo e lo mise sopra l’asta; quando un serpente aveva morso qualcuno, se questi guardava il serpente di bronzo, restava in vita.”

Alcuni ebrei si trovano in difficoltà su questo passo, ponendolo in contrasto con la Torah che proibiva l’idolatria. Ma riflettendo, qui non si tratta di adorazione, ma di “guardare”, che nel linguaggio biblico può significare anche “fare riferimento a”. Il serpente, di rame, materiale che è sempre figura di giudizio sui peccati dell’uomo, stava su un’asta, quindi in alto e poteva essere visto da chiunque. Gli israeliti di allora, informati su cosa fosse quel serpente, facevano riferimento a lui per salvare la propria vita, rivolgevano a lui lo sguardo. Gli effetti del morso di quei serpenti, inviati da Dio per punire un peccato, venivano così annullati guardando quell’immagine che ricordava tanto il giudizio quanto la misericordia del Signore che per questo ne annullava gli effetti. Il serpente terreno cagionava la morte, quello che li raffigurava ne annullava gli effetti.

Allo stesso modo Gesù parla di se stesso: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque creda in lui abbia vita eterna” (v.15). Il serpente di rame su un’asta, il Figlio di Dio su una croce. Il primo non ebbe più ragione di essere quando i serpenti velenosi morirono, il secondo è lì ancora oggi, nel Vangelo o come simbolo nelle chiese. Gli ebrei di allora facevano riferimento al serpente quando venivano morsi e sapevano di morire, gli uomini vissuti dalla risurrezione in poi fanno riferimento al crocifisso nel momento in cui comprendono che la loro vita, così com’è, può portare solo alla morte. E la salvano.

Ancora una volta abbiamo un aggiornamento tra antico e nuovo patto, tra cose che un tempo erano velate e che oggi non lo sono più.

Nicodemo è un uomo che cerca, ha un percorso tutto suo preciso e lungo. Non è una persona dalle reazioni immediate e spontanee, è prigioniero di una storia e un modo di pensare razionalissimo e complicato che lo penalizza nella comprensione. È un uomo di dubbi, ha bisogno di tempo per aggiornare le sue conoscenze, partendo da quelle religiose nelle quali è cresciuto, con quelle dottrinali dello Spirito. È un uomo autorevole che tuttavia non si arrocca sulle sue posizioni come tanti dei suoi simili, ma viene messo da parte con uno scopo: comparirà in questo Vangelopiù avanti, quando parlerà a una riunione dei capi farisei e sacerdoti che volevano arrestare Gesù (7.45-51) e una terza con Giuseppe d’Arimatea, che depositerà il suo corpo nella tomba (19.39-42). Teme di esporsi perché, dichiarandosi apertamente a favore di Gesù, non solo perderebbe il suo stato, ma verrebbe dichiarato estraneo alla congregazione di Israele ed esiliato. Non sappiamo cosa farà dopo perché non viene più nominato. A lui è attribuito un vangelo apocrifo.

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02.09 – I MERCANTI DEL TEMPIO (Giovanni 2.13-24)

I mercanti del tempio (Giovanni 2.13-24)

 

Giunti al primo miracolo di Gesù avvenuto in Cana, Giovanni scrive un raccordo temporale:

 

12Dopo questo fatto scese a Capernaum insieme a sua madre, ai suoi fratelli e ai suoi discepoli. Là rimasero pochi giorni”.

 

Il fatto che non sia menzionato Giuseppe ha spinto i commentatori a ritenere che a quell’epoca fosse già deceduto e infatti a Cana non è menzionato come presente. Sorge qui il problema di cosa avesse fatto a Capernaum, paese sulle rive del lago di Galilea in quei “pochi giorni”. Matteo e Marco dicono che Gesù andò ad abitare là una volta saputo dell’arresto di Giovanni Battista, cosa che non era ancora avvenuta ai tempi del miracolo in Cana; Luca, dopo aver parlato di un breve ritorno a Nazareth e citato l’episodio in cui gli abitanti del paese volevano gettarlo giù da un burrone, scrive in due versetti (4.14.15)

 

14Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito e la sua fama si diffuse in tutta la regione. 15Insegnava nelle loro sinagoghe e tutti gli rendevano lode”.

 

A questo punto pare legittimo pensare che nessun evangelista parli di cosa fece Nostro Signore a Capernaum in quei giorni. Vero è che là, sulle rive del lago, ci fu la chiamata ai quattro che già lo seguivano (Pietro, Andrea, Giovanni e Giacomo) e in quella cittadina avvennero molti episodi edificanti, ma avvennero in seguito; prima di quegli avvenimenti, vi fu il primo viaggio a Gerusalemme di Gesù da adulto che consideriamo ora.

Veniamo ora al passo in esame:

 

13Si avvicinava intanto la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. 14Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. 15Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori dal tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, 16e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!». 17I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: Lo zelo per la tua casa mi divorerà. 18Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?». 19Rispose loro Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». 20Gli dissero allora i Giudei: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?». 21Ma egli parlava del tempio del suo corpo. 22Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi <, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù. 23Mentre era a Gerusalemme per la Pasqua, durante la festa, molti, vedendo i segni che compiva, credettero nel suo nome. 24Ma lui, Gesù, non si fidava di loro, perché conosceva tutti 25e non aveva bisogno che alcuno desse testimonianza sull’uomo. Egli infatti conosceva quello che c’è nell’uomo.

 

L’episodio è riportato anche dai sinottici che, pur collocandolo a Gerusalemme come Giovanni, lo inseriscono alla fine della vita pubblica di Gesù. Ciò ha dato adito a due ipotesi: la prima, non trovando possibile un accordo tra le versioni, si è ritenuto trattarsi di due fatti diversi; la seconda è che si tratti di un unico avvenimento che però avvenne al principio del ministero di Gesù, poiché tra gli evangelisti è Giovanni ad essere più accurato cronologicamente. Se i Sinottici lo pongono verso la fine, è perché vi sono indotti da motivi di analogia d’argomento e soprattutto perché, nella loro esposizione molto spesso non cronologica, narrano esplicitamente di una sola permanenza di Gesù a Gerusalemme in luogo delle quattro narrate da Giovanni.

Abbiamo già sottolineato che la Pasqua fosse la festa più importante dell’ebraismo perché ricordava l’avvenuta liberazione del popolo dalla schiavitù d’Egitto. Sappiamo che a Gerusalemme, quindi al Tempio, confluivano tutti gli israeliti che provenivano dalle regioni più remote dell’impero (ecco il perché dei cambiavalute) e, nel cortile dei gentili, vi era tutta un’organizzazione studiata per ridurre al minimo le difficoltà del trovare gli animali necessari da offrire in sacrificio. I sacerdoti, o perché da quel commercio avevano una loro percentuale sulle vendite, o perché affittavano il posto ai mercanti, trovavano probabilmente una giustificazione per quella mescolanza di sacro e profano nel fatto che tutto era fatto a fin di bene: poiché i sacrifici dovevano avere luogo, le monete di chi veniva da lontano cambiate e, senza quel commercio, la gente avrebbe dovuto fare le stesse cose andandole a cercare in città o negli immediati dintorni, si riteneva giusto approfittare di quello spazio.

Esisteva però una differenza sostanziale: se il voler agevolare gli israeliti fornendo loro un servizio che risparmiava loro molte fatiche viste nel cercare il necessario per i sacrifici, quello che indignò profondamente Nostro Signore fu il fatto che in tutta quella confusione era venuto totalmente a mancare il significato del sacrificio e della Pasqua stessa. Il tutto si svolgeva nella formalità e soprattutto nella soddisfazione, da parte dei commercianti, per i guadagni enormi che questi potevano realizzare traendo vantaggio da una festa sacra. In quel cortile nulla poteva far pensare a qualcosa di diverso da un normale mercato in cui la gente vende e compra senza pensare ad altro che ai propri interessi.

Chi ancora oggi visita Roma e in particolare la zona di San Pietro, non può non rimanere profondamente colpito dalla presenza di un commercio profondamente invasivo di oggettistica di vario genere: immagini di ogni dimensione, materiale mediatico stampato in ogni lingua, personale apparentemente religioso che fa da guida a un popolo disinformato nel profondo. Tutto è rito e svuotato con cura quasi programmata da qualsiasi pietà, esempio, insegnamento, distinguo tra ciò che è effettivamente vero ed importante da ciò che non lo è, in una mescolanza totale tra “sacro” e profano o, meglio, in cui il profano è legittimato. Personalmente mi ha molto disturbato la visita al cosiddetto “tesoro di San Pietro”, di inestimabile valore, detenuto e conservato da una organizzazione che, se davvero fosse fedele agli intenti e alla professione che fa, non avrebbe alcuna difficoltà a liberarsene come fece la Chiesa primitiva in Gerusalemme dove leggiamo che 44Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; 45vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno. 46Ogni giorno erano perseveranti insieme nel tempio e, spezzando il pane nelle case, prendevano cibo con letizia e semplicità di cuore, 47lodando Dio e godendo il favore di tutto il popolo. Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati” (Atti 2.44-47).

Possiamo ricordare anche le parole di Gesù quando mandò i dodici apostoli in missione: “Guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demòni. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” (Matteo 10.8). Gli apostoli, umanamente, avrebbero potuto benissimo chiedere un contributo o un’offerta libera ai parenti di quegli afflitti, ma così facendo avrebbero snaturato totalmente la loro missione. Il “dare gratuitamente”, gesto assolutamente inconcepibile per il mondo salvo che non sia per sfruttare i deboli, rappresenta la contrapposizione tra il possibile e l’impossibile perché la liberazione di un’anima dal peccato non ha prezzo.

Torniamo all’episodio: Gesù è scritto che fa “una frusta di cordicelle”, greco originale “giunchi”, cioè quei fili lunghi e semirigidi che si utilizzano come paglia per il bestiame, e se ne serve per spingerlo fuori dal cortile. Diverso fu per i colombi, contenuti in gabbie, che non potevano scappare e per questo viene ordinato ai loro proprietari di portarle via.

La rappresentazione di Gesù che frusta adirato i presenti che fuggono spaventati quasi ad avere a che fare con un pazzo, non ha fondamento: la Sua autorità bastava e credo che la frase “Non fate la casa del Padre mio una spelonca di ladroni” abbia parlato a qualche coscienza tra i presenti, che non reagirono contro di lui nonostante vedessero svanire il loro guadagno, per non parlare degli addetti al cambio di valuta che videro il loro denaro per terra.

I discepoli che lo avevano accompagnato, non sappiamo quanti perché Giovanni non lo dice, è scritto che “Si ricordarono che sta scritto «Lo zelo per la tua casa mi divora»”, passo tratto dal Salmo 69.10, di Davide. Lo zelo divora, cioè arriva a corrodere il profondo dell’essere che rinuncia a se stesso pur di servire. I discepoli, nonostante non fossero dottori della Legge, si ricordarono spontaneamente di questo passo e lo applicarono al loro Maestro. E il verso del Salmo prosegue dicendo “gli insulti di chi ti insulta ricadono su di me”: quel mercato, allora, era un insulto a Dio così come lo è qualsiasi ritualità svuotata di contenuto. Questi furono i motivi che suscitarono le reazioni di Gesù di fronte allo scempio che si produceva nel cortile, in uno spazio ritenuto di poco conto perché dei gentili, cioè dei pagani che per Israele non contavano nulla, che potevano solo stare in un luogo in cui Dio, nonostante il recinto che lo circondava, si riteneva fosse distante e che le Sue attenzioni fossero esclusivamente per il Suo popolo.

Il passo del Salmo citato, in cui i discepoli riconobbero parlasse del loro Maestro, si raccorda con le parole dell’apostolo Paolo in Ebrei 4.12-13 che parla degli effetti della Parola di Dio sull’uomo che la lascia agire: “12Infatti la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore. 13Non vi è creatura che possa nascondersi davanti a Dio, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi di colui al quale noi dobbiamo rendere conto”.

Sono parole assolute: le sue cinque caratteristiche e azioni, – viva, efficace, più tagliente, penetra, discerne – non lasciano scampo e indicano gli elementi che producono una reazione in ciascun uomo. La Parola di Dio è viva, quindi non è qualcosa che può scadere finendo per diventare inutile come un romanzo che passa da uno scaffale a una cantina per poi venire corroso dall’umidità e mangiato dai topi. È efficace, aggettivo che viene dal latino efficere, “portare a compimento” ed infatti è l’unica che può salvare, risolvere il vero problema della destinazione finale dell’uomo. Più tagliente di ogni spada a doppio taglio, poi, è una definizione che illustra la capacità del discernimento: il bene dal male e tutto il sistema che ruota attorno ad essi. Quell’”ogni”, poi, esclude che ve ne possano essere altre in grado di compiere la sua stessa azione. Sul perché di questo abbiamo le parole successive: “Penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla” quindi svolge quell’azione che porta al discernimento e alla vagliatura di ciò che sono i sentimenti e i pensieri del cuore. È un’azione inevitabile di cui parlò Pietro quando scrisse “Siete stati rigenerati non da un seme corruttibile, ma incorruttibile, per mezzo della Parola di Dio viva e che dura in eterno” (1 Pietro 1,23). Queste parole saranno utili per comprendere ciò che Gesù dirà a Nicodemo poco tempo dopo quest’episodio quando, venuto da Lui di notte, si sentirà spiegare la nuova nascita.

Nella lettera agli Ebrei, però, Paolo parla di un finale visto nel “rendere conto” perché non vi è possibilità alcuna di nascondersi di fronte a Colui che, presto o tardi, chiederà conto a tutti, credenti compresi, di come avranno gestito loro vita. Infatti: “Anche se come l’aquila ponessi in alto il tuo nido, anche se lo collocassi sulle stelle, di lassù ti farò precipitare” (Abdeo 1.4). Per contrapposizione all’orgoglio descritto dal profeta, abbiamo la visione di Giovanni in Apocalisse 6.15-17 all’apertura (futura) del sesto sigillo: 15Allora i re della terra e i grandi, i comandanti, i ricchi e i potenti, e infine ogni uomo, schiavo o libero, si nascosero tutti nelle caverne e fra le rupi dei monti; 16e dicevano ai monti e alle rupi: «Cadete sopra di noi e nascondeteci dalla faccia di Colui che siede sul trono e dall’ira dell’Agnello, 17perché è venuto il grande giorno della loro ira, e chi può resistervi?»”, descrizione dell’inutilità della tecnologia umana.

Torniamo al nostro episodio: in tutto il trambusto conseguente all’azione di Gesù, ecco l’intervento dei Giudei, non uomini del popolo, ma dell’autorità religiosa: costoro volevano da lui delle credenziali, sapere chi fosse, quale autorità avesse per poter fare una cosa simile. Ebbero in risposta un riferimento non al Tempio come edificio, ma al Suo corpo, profetizzando così sulla Sua risurrezione senza che i presenti, compresi i discepoli, lo capissero anche se se ne ricordarono dopo, quando la loro mente fu aperta dallo Spirito Santo.

A questo punto abbiamo una grande lezione: alla domanda “Quale segno ci mostri per fare queste cose?”, che sottintendeva la richiesta di un segno di autorità, un miracolo, Gesù risponde in modo tale da non essere capito, pur esprimendo una verità. Infatti le parole “Distruggete questo tempio e in tre giorni io lo farò risorgere” non solo furono equivocate perché prese alla lettera stante il luogo in cui furono pronunciate, ma riemergeranno in modo beffardo alla croce con la stessa mancanza di comprensione: “Ehi, tu che distruggi il tempio e lo ricostruisci in tre giorni, salva te stesso scendendo dalla croce!” (Marco 15.29-30).

Quei “Giudei”, cioè gli autorevoli tra il popolo, non potevano certo ignorare che, secoli prima, il profeta Geremia aveva detto le stesse parole: “Forse è per voi un covo di ladri questo Tempio sul quale è invocato il mio nome?” (Geremia 7.11) ma, invece di chiedersi se le parole di Gesù fossero vere o meno, spostano il ragionamento su chi fosse per dire certe cose. Se ciò che stavano tollerando fosse cosa legittima o meno, fu una questione che non li sfiorò neppure lontanamente, così come nessun dottore della Legge si era mai sognato di intervenire per fare cessare quel commercio.

L’episodio si conclude così, ma non la permanenza di Gesù in Gerusalemme di cui Giovanni ci dà un cenno riassuntivo, che leggiamo al verso 23, a parte il colloquio avuto con Nicodemo che esamineremo nel capitolo successivo. Scrive Giovanni che il Maestro fece dei segni, dei miracoli di cui non sappiamo, ma che produssero una fede erronea. Leggiamo infatti “Ma lui non si fidava di loro”.

La perfetta conoscenza dell’essere umano che aveva Gesù gli consentiva di sapere che quel “credere in lui” era un’azione dettata dalla ragione e non dal cuore, perché a nulla serve ai fini della salvezza credere che ci sia un Essere superiore, o accettare Gesù come personaggio storico autore di miracoli, se non si è disposti a cedere se stessi, se non lo si vuole realmente trovare per venire rinnovati.

“Conosceva quello che c’è”, non quello che c’era, a conferma delle tante volte in cui i verbi sono utilizzati per esprimere un concetto che oltrepassa le regole della grammatica. Allora come oggi, Lui conosce quello che c’è nell’uomo, cioè il suo tutto, lo spirito che lo muove. Probabilmente è proprio questa fede temporanea e subito soffocata dalle spine che impedirà a Giovanni di parlare dei “segni” fatti in Gerusalemme, soffermandosi subito dopo nel dettaglio su Nicodemo, figura caratteristica di persona tormentata dai dubbi, timoroso dei suoi correligionari ma attratto dalla figura di Gesù: fariseo di alto rango, andò da Lui di notte per non farsi vedere dagli altri. Quell’uomo, a differenza dei molti che avevano creduto, era sincero, voleva sapere, capire, anche se gli ci vorrà molto tempo per compiere una scelta che lo avrebbe estromesso dalla congregazione di Israele: gli disse “Rabbi, sappiamo che sei venuto da Dio come maestro; nessuno infatti può compiere questi segni che tu fai, se Dio non è con lui” (Giovanni 3.2). Da questa frase, come vedremo, Gesù partirà per l’esposizione del concetto e della realtà che implica la nuova nascita.

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02.08 – LE NOZZE DI CANA (Giovanni 2.1-11)

Le nozze di Cana (Giovanni 2.1-11)

 

1 Il terzo giorno vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. 2Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. 3Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino». 4E Gesù le rispose: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora». 5Sua madre disse ai servitori: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela». 6Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri. 7E Gesù disse loro: «Riempite d’acqua le anfore»; e le riempirono fino all’orlo. 8Disse loro di nuovo: «Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto». Ed essi gliene portarono. 9Come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto – il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l’acqua – chiamò lo sposo 10e gli disse: «Tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora». .11Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui.

 

“Il terzo giorno”, stando alla cronologia di Giovanni, è da intendersi come terzo dopo il colloquio avuto con Natanaele-Bartolomeo e Andrea ed infatti sono diverse le traduzioni che riportano “Tre giorni dopo”. Il miracolo della trasformazione dell’acqua in vino è il primo di Gesù in Galilea ed è quello che costituisce l’apertura ufficiale del Suo ministero. È anche quello che ha visto il maggior numero di interpretazioni dottrinali a seconda della provenienza tradizionale dei vari commentatori antichi e moderni. I particolari che però l’apostolo Giovanni inserisce nel racconto aiutano molto la sua comprensione e significato. Prima di esaminare l’episodio è bene dare un accenno su cosa significasse la festa di nozze per il popolo ebraico e dare qualche particolare che verrà utile per comprendere anche la parabola delle dieci vergini che Matteo racconta in 25.1-13.

A prescindere dal rango sociale degli sposi, che caratterizzavano la festa di nozze in modo proporzionale alle loro possibilità, il pranzo nuziale era il momento più solenne della vita della persona e si concludeva un anno dopo il fidanzamento che, a differenza di quello occidentale che manifesta e sottintende solo un’intenzione di sposare una persona e può vedere le parti recedere in qualunque momento, equivaleva al matrimonio per quanto il futuro marito e la futura moglie non vivessero ancora assieme. La festa di nozze poteva durare anche più giorni: la sposa attendeva lo sposo sul far della sera, con le amiche, truccata e agghindata con vari monili e una corona sul capo come lo sposo che la andava a prendere a casa sua per condurla nella loro. Si formava così un corteo che raggiungeva la nuova casa, al quale partecipava quasi tutto il paese, con gli amici degli sposi che portavano lampade con suoni e canti. Non era infrequente che le scuole rabbiniche interrompessero le lezioni per partecipare almeno al corteo che si concludeva nella nuova casa nel quale era offerto il pranzo con canti e discorsi augurali.

In quella casa si beveva e si mangiava copiosamente anche perché l’occasione di partecipare a una festa di nozze, per chi abitava in quei territori dove conduceva una vita solitamente povera e parsimoniosa, significava interrompere anche per poco, ore o giorni poco importava, un’esistenza spesso condotta negli stenti, scandita dal lavoro e dal sole. In quella festa un ruolo fondamentale lo aveva il vino non perché la gente se ne approfittava per ubriacarsi, ma perché, messo in serbo da tempo apposta per l’occasione, era molto buono. Il vino delle nozze era conservato in giare e tenuto nell’angolo più buio delle case fino a quando non arrivava il giorno della festa. Il vino era visto come una benedizione assieme al frumento e all’olio – 14io darò alla vostra terra la pioggia al suo tempo: la pioggia d’autunno e la pioggia di primavera, perché tu possa raccogliere il tuo frumento, il tuo vino e il tuo olio” (Deuteronomio 11.14) -, una bevanda che “rallegra il cuore dell’uomo” (Salmo 104.15). Ricordiamo che, in antitesi, la Scrittura lo indica come sostanza che può fare compiere azioni sconsiderate come nel caso di Noè che si ubriacò denudandosi (Genesi 9.21 e segg.) e ancora di più il caso delle figlie di Lot, che si unirono al loro padre facendolo bere al fine di avere una discendenza (Genesi 19.32 e segg.). Salomone in Proverbi 10.1 scrive che “il vino è beffardo, il liquore è tumultuoso; chiunque si perde dietro ad esso non è saggio” e in 4.17, parlando degli uomini malvagi, dice che “mangiano il pane dell’empietà e bevono il vino della violenza”, a sottintendere la sua pericolosità e non per niente il Nazireo doveva astenersi da esso.

Gesù fu invitato alle nozze a Cana, dove già si trovava sua madre, coi suoi discepoli probabilmente perché Natanaele era di quelle parti: ci volle andare perché nella Sua onniscienza sapeva che lì avrebbe potuto compiere il suo primo miracolo, denso di significati. Abbiamo letto al verso 11 “Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i discepoli credettero in lui”. “Manifestò la sua gloria” nel senso che si rivelò come Signore (anche) degli elementi mutandone radicalmente le proprietà e non col fine di risolvere un problema contingente che sua madre, conscia tanto dell’imbarazzo che aveva creato la mancanza di vino quanto che il Figlio era l’unico che avrebbe potuto intervenire, gli aveva posto. Sono da notare infatti tre frasi: la prima “non hanno più vino” in cui Maria pone al Figlio il problema che si era venuto a creare. Non chiede un miracolo, ma certamente un intervento senza sapere cosa Gesù avrebbe fatto. La sua risposta, “che vi è fra te e me, donna”, è stata sicuramente strumentalizzata nel corso del tempo dalla cristianità, cattolica romana ed evangelica in particolare: i primi vedono in Maria l’inizio della sua opera mediatoria e di intercessione presso il Figlio, i secondi pongono l’accento quel “Che vi è tra te e me” facendo osservare che la stessa espressione si trova usata nell’episodio dell’indemoniato nella sinagoga di Capernaum quando i demoni che possedevano quell’uomo dicono “Che vi è tra noi e te, Gesù Nazareno? Sei venuto a tormentarci prima del tempo?” (Marco 1.24).

La realtà è molto più semplice e credo vada oltre il parteggiare per qualcuno: Maria era la sola in quel luogo a conoscere bene il Gesù e sapeva, per tutti gli avvenimenti di cui era stata testimone, che se avesse voluto avrebbe potuto intervenire per togliere i presenti dall’imbarazzo e soprattutto la famiglia degli sposi dal disonore. La reazione immediata di Gesù è quella di mettere un confine tra quelle che sono le aspettative umane, viste nella richiesta della propria madre, e la Sua totale autonomia operativa. Quel “Che vi è tra me è te, o donna” richiama proprio due realtà, quella divina di Gesù e quella umana di sua madre, essendo strettamente collegata alle parole successive che spiegano il motivo di quella reazione, cioè “Non è ancora giunta la mia ora”, quel momento in cui sarebbe stato dato in mano agli uomini che avrebbero fatto di Lui ciò che avrebbero voluto.

La terza frase riporta il secondo intervento di Maria, non più rivolta al Figlio, ma ai servi presenti, “Qualunque cosa vi dica, fatela”, o “Fate quello che vi dice” secondo la traduzione letterale, in cui rimette al figlio ogni cosa, ogni potere decisionale e pone i servi addetti alla mescita del vino, o della distribuzione dell’acqua, in uno stato di attesa. Era un’acqua serviva alla pulizia delle mani e delle stoviglie (ecco perché Giovanni aggiunge “per la purificazione dei Giudei”).

L’acqua non era contenuta in anfore, ma in recipienti, in pietra e non in cotto perché secondo i rabbini la pietra non conteneva impurità. Notiamo le misure: “da ottanta a centoventi litri”, traduzione che evita di fare i calcoli del testo letterale, “capaci da due o tre metrete”, o “misure”, ciascuna delle quali si aggirava attorno ai 39 litri.

Gesù ordina di riempire i contenitori e i servi lo fecero fino a quando non furono colmi, il che escludeva la possibilità sia di versarvi una sostanza che potesse ingannare il palato facendo scambiare l’acqua con vino, ma che ci parla della perfetta capacità che ha lo Spirito di coinvolgere tutta la persona dell’uomo. Quanto successe dopo è ben spiegato dalle parole del direttore di mensa, un amico dello sposo, che si accorge della differenza tra il vino di prima e quello che gli viene appena portato. Dobbiamo pensare che quello che era stato distribuito dall’inizio della festa, come abbiamo visto, non era un vino ordinario, ma già pregiato e messo da parte da tempo per l’occasione: il vino di Gesù, però, era tale da fare classificare il precedente come “meno buono”. Questo ci parla del fatto che tutto ciò che Dio trasforma non può competere con nient’altro e io penso che, al di là di tutti gli innumerevoli significati che acqua e vino hanno nella Scrittura e sui quali sarebbero possibili molti studi, nel nostro caso specifico è sulla trasformazione che si devono basare le riflessioni: Dio non crea, né ha creato, né muta, ha mai mutato nulla dal nulla, ma è sempre intervenuto dagli elementi: l’universo stesso è stato costruito su materiali preesistenti. Ricordiamo le parole di apertura del libro del Principio: “La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano la faccia dell’abisso e lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque”. La terra era “informe”, non troviamo scritto che c’era solo il vuoto.

Allo stesso modo a Cana c’era dell’acqua, attinta da un pozzo, in contenitori di pietra. Il significato del miracolo risiede allora in cosa può diventare un elemento là dove Dio opera: in quel l’acqua, destinata “alla purificazione dei giudei”, diventa vino, migliore di quello servito fino ad allora, mutando radicalmente scopo e destinazione, rimanendo comunque un liquido.

Se dunque il Signore interviene nella vita dell’uomo che si affida in lui, lo trasforma radicalmente e si aprono per lui una vita e uno scopo totalmente differenti, pur mantenendo la stessa fisionomia: a Cana mutò il contenuto, non i contenitori, che rimasero gli stessi. Quindi il miracolo ci parla, anche, di una vita nuova. Scrivendo ai Corinzi Paolo scrive “Se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove” (2 Corinzi 5.17), di modo che: “Se” – la condizione, perché uno può pensare di essere quello che non è – “uno è in Cristo” – cioè ha posto la sua fede con una vita in Lui e in Lui vuole viverla – “è una nuova creatura”. Nuova nel senso di diversa perché “le cose vecchie sono passate” cioè tutto quello che è stato non gli appartiene più, non lo interessa a prescindere, non ha senso che si guardi indietro come fece la moglie di Lot che, rimpiangendo il suo passato, si voltò a guardare Sodoma per l’ultima volta.

Nelle “cose vecchie” che sono passate Paolo include tutto: non solo qualunque peccato commesso, ma l’essenza profonda di un essere incompatibile con Dio, ora trasformato e in grado di esserGli accetto. Resta il problema del contenitore, che rimane lo stesso: questo ci parla della responsabilità che ogni credente – ricordiamo “Se uno è in Cristo” – ha e con la quale si ritrova a fare i conti quotidianamente. Molti credono, secondo la filosofia di numerosi appartenenti alla Chiesa di Corinto, che, se sono stati liberati dal peccato, non abbiano senso degli sforzi per liberarsene ancora, ma l’essere delle creature nuove comporta il ritrovarsi a vivere in un mondo che non solo non ci appartiene più, ma che soprattutto non cambia, non è nuovo, è incapace a rinnovarsi salvo nella tecnologia o esasperando sempre di più i suoi contrassegni negativi.

La vita cristiana è basata anche su questo continuo fare i conti con una duplice realtà tra la natura umana e quella spirituale, con un involucro esterno suscettibile a sofferenze morali, spirituali e fisiche perché non siamo, per la nuova nascita e lo stato di “nuova creatura” acquisita, trasportati automaticamente in un Eden in cui possiamo vivere liberi dal dolore e dipendenti, per mantenere quello stato, da un solo comandamento. L’essere “Nuove creature”, implica l’essere detentori di una promessa, di un futuro che chi non ha il nostro stato non può avere, ma anche di sofferenze e scelte che gli altri non hanno. Non si deve sottovalutare l’acqua, figura di qualcosa di presente, né il vino, figura della trasformazione che Cristo opera in ciascuno che lo ha cercato e trovato, né il contenitore, figura di ciò che non cambia, il nostro corpo che, in quanto di carne e non di pietra, tenderà a volere il sopravvento sfruttando quei sentimenti e reazioni che, di base e per natura, non possiamo non avere. In questo, nell’uomo naturale, siamo come tutti gli altri e commette un grave errore chi sottovaluta questo dato ritenendo che, una volta salvato e nuova creatura, non debba fare altro.

Gesù, il solo a poterlo fare, tramutò l’acqua in vino e “i suoi discepoli credettero in lui”, frase che indica un primo rafforzamento nella fede in lui ed è che troveremo altre volte. L’uomo che oggi crede in Lui può farlo perché ha accettato il contenuto della Scrittura, ma personalmente ritengo che le ragioni della fede risiedano nel fatto che, una volta conosciuta la nostra natura e inferiorità davanti a Dio, non si abbia un’alternativa: siamo acqua in un recipiente di pietra. Acqua non da bere, ma per un uso secondario.

Il vino di Gesù è stato ritenuto dal direttore del banchetto, che si occupava della direzione dei servi alla mensa e di tutto quanto la concerneva, come “buono” a tal punto da mettere quello precedente in subordine. Il direttore di mensa era una persona autorevole e il fatto che fossero presenti molti servi lascia intendere che l’ambiente fosse composto da persone altolocate nella società di allora. Era però necessario il suo giudizio, un’autenticazione ufficiale, e questo fu il motivo per cui Gesù disse di portarlo a lui per primo e non di servirlo come se niente fosse: la Sua opera andava certificata, quel vino andava classificato come migliore di qualunque altro e il mastro non sapeva del miracolo che, come leggiamo, fu abbondante, andando oltre le aspettative, di qualità eccellente e gratuito.

Ultima osservazione può essere fatta col numero delle “anfore”, sei, figura dell’imperfezione e dell’incompletezza sulla quale Gesù intervenne ordinando prima di riempirle fino all’orlo e poi mutandone il contenuto. Il Maestro, quindi, ha guardato in basso, all’imperfezione. “Ha guardato alla bassezza della sua serva”, come disse Maria nel suo cantico e guarda ad ogni essere umano che lo cerca, trasformandone aspettative, scopo ed esistenza.

C’è chi ha fatto osservare che, per far scaturire il vino della gioia, bisogna riempire abbondantemente il vuoto che si sente e si vive, con l’acqua della vita: è la vita del cristiano che va riempita con la luce e i progetti di Dio. Altri hanno notato che il primo miracolo di Mosè fu quello di cambiare l’acqua in sangue: esso portava giudizio e distruzione. Il primo miracolo di Gesù fu cambiare l’acqua in vino, figura di conforto e consolazione.

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02.07 – I PRIMI DISCEPOLI II/II (Giovanni 1.45-31)

I primi discepoli II/II (Giovanni 1.43-51)

 

43Il giorno dopo Gesù volle partire per la Galilea; trovò Filippo e gli disse: «Seguimi!». 44Filippo era di Betsàida, la città di Andrea e di Pietro. 45Filippo trovò Natanaele e gli disse: «Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè, nella Legge, e i Profeti: Gesù, il figlio di Giuseppe, di Nàzaret». 46Natanaele gli disse: «Da Nàzaret può venire qualcosa di buono?». Filippo gli rispose: «Vieni e vedi». 47Gesù intanto, visto Natanaele che gli veniva incontro, disse di lui: «Ecco davvero un Israelita in cui non c’è falsità». 48Natanaele gli domandò: «Come mi conosci?». Gli rispose Gesù: «Prima che Filippo ti chiamasse, io ti ho visto quando eri sotto l’albero di fichi». 49Gli replicò Natanaele: «Rabbì, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d’Israele!». 50Gli rispose Gesù: «Perché ti ho detto che ti avevo visto sotto l’albero di fichi, tu credi? Vedrai cose più grandi di queste!». 51Poi gli disse: «In verità, in verità io vi dico: vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sopra il Figlio dell’uomo».

 

Giunti al quarto giorno dopo la fine della tentazione di Nostro Signore nel deserto, va fatta una precisazione importante: dopo l’episodio dei quaranta giorni nel deserto, i sinottici scrivono che Gesù, una volta saputo che il Battista era stato arrestato da Erode, si ritirò nella Galilea, lasciò Nazareth e andò ad abitare a Cafarnao (Matteo 4.12,13) e che la sua fama si diffuse in tutta la regione, insegnava nelle sinagoghe tutti gli rendevano lode (Luca 4.14-15). A questo episodio Matteo e Marco fanno seguire la chiamata dei discepoli, Simon Pietro, Andrea, Giacomo e Giovanni mentre erano sulla riva del Mare di Galilea. Bisogna sapere che Matteo, Marco e Luca parlano del secondo viaggio in quella regione, mentre Giovanni del primo, che gli altri tre non raccontano, cioè quando il Battista stava ancora predicando.

Per inquadrare ciò che avvenne nel quarto giorno occorre tenere presente quanto avvenne in precedenza, quando Andrea, Giovanni e Simone fecero il loro primo incontro con Gesù: tutti e tre abitavano a Betsaida, erano discepoli di Giovanni Battista – probabilmente anche Pietro, anche se non è espressamente citato come tale – ed è naturale che Andrea e Giovanni parlassero di Lui, prima che ad estranei, a quelli che o erano della cerchia del loro maestro. Possiamo dire che, fino ad allora, la predicazione del Battista aveva prodotto tre risultati: prima venero i suoi discepoli, che erano stati convinti dalla sua predicazione, si erano battezzati e lo assistevano. Poi ci furono quelli che ne condivisero il messaggio, capendo che il regno di Dio era effettivamente vicino, convinti della necessità che il Messia che stava per arrivare andava accolto previo un cambiamento interiore visto in una revisione della loro vita e in un cambiamento di mentalità e azioni, e infine quelli che provavano sentimenti ostili perché sapevano che il sistema religioso sul quale avevano basato la loro esistenza e falsa rispettabilità poteva essere sconvolto.

Certo che Andrea e Giovanni, che avevano incontrato Gesù, (“venite e vedete”) ed aveva parlato loro brevemente tanto quanto bastava per convincerli e suscitare in loro la gioia vista nella frase “Noi abbiamo trovato il Messia”, non potevano fare altro che informare quanti avevano condiviso con loro i momenti del discepolato con Giovanni Battista. Fu così che Gesù, volendo partire per la Galilea perché si era compiuto l’incontro con il suo precursore e intendeva recarsi a Nazareth, oppure perché sapeva di doversi recare a Cana dove ci era stato invitato alle nozze, incontrò una persona, Filippo, cui gli disse “Seguimi”. È la prima chiamata diretta di Gesù a un uomo a cui non si rivolse a caso, ma sapendo che uno dei tre, o tutti, lo avevano informato.

Quel “Seguimi” da parte di Gesù indica la conoscenza che aveva non solo di Filippo, ma dell’uomo in genere: così come sapeva delle domande e delle aspettative di Filippo, conosce ciò che anima tutto l’essere di ciascuno anche oggi e interviene nel momento esatto in cui una persona lo cerca. Va rifiutata l’idea che vorrebbe i futuri apostoli seguire Cristo in base a una forza misteriosa che li spinse a farlo: questo può emergere se si legge superficialmente la cronaca dei sinottici, che ci parlano di un immediato abbandono delle “proprie reti” e del seguirlo immediatamente; Pietro e gli altri, in realtà, lo seguirono per delle ragioni che trovavano la loro radice nell’aver compreso che Lui era quello di cui parlavano la Legge e i profeti, dopo averlo ascoltato in privato e avere visto i miracoli che faceva: avevano individualmente sperimentato quel “Preparate le sue vie, raddrizzate i suoi sentieri” di cui abbiamo letto.

Così Filippo, che rientrerà nel numero dei dodici, seguì Gesù al suo solo invito, fondandosi sulla testimonianza che gli era stata riferita, riversando su di Lui la certezza che Lui solo era quello che era stato annunziato e che ora gli si rivelava. Andrea, Pietro e Giovanni dovettero aver parlato a Filippo con termini illuminanti, senza dubbi sul suo ruolo; dubbi che, se presenti, erano stati dissipati sia attraverso la visione dello Spirito sceso sotto forma di colomba, ma anche dai dialoghi che avevano avuto nel luogo in cui Gesù abitava temporaneamente. Eppure, nonostante tutto il loro impegno e fervore nel descrivere ciò che da Lui avevano sentito, a niente sarebbero approdate le loro parole se anche Filippo non fosse stato nelle loro condizioni, quelle di riconoscersi nell’attesa e di credere che questa stava per finire perché i tempi erano giunti.

Il testo evangelico ci propone due verbi con tempi diversi, “seguimi” e “Filippo trovò Natanaele”, il che ci parla di un intervallo di tempo: “Seguimi” allora si riferisce a un invito con uno scopo preciso, perché Gesù chiede a Filippo di condividere parte della sua vita terrena con uno scopo che dichiarerà più avanti proprio sulle rive del Mare di Galilea, “Vi farò pescatori di uomini”, intendendo un guadagno spirituale e non economico.

Giovanni, tornando all’incontro con Filippo, non riferisce il dialogo tra i due, ma ne riassume il senso: lo invita a seguirlo, ma gli lascia del tempo per riflettere; altrimenti quell’uomo non avrebbe mai potuto cercare e trovare Natanaele, o incontrarlo non per caso, e portarlo da lui.

C’è dunque un tempo che Dio dà all’uomo per considerare le sue proposte. Un tempo costruttivo in cui la mente ragiona, valuta le Sue proposte e decide di conseguenza. Così, a prescindere di quello che Gesù e Filippo si siano detti, l’importante è il risultato: Filippo dopo quell’incontro trovò – quindi lo andò a cercare – Natanaele e gli disse «Noi abbiamo trovato colui del quale Mosè nella Legge, e i profeti, hanno scritto: Gesù, figlio di Giuseppe, che è da Nazareth»”. Sono parole identiche, nel loro entusiasmo, a quelle che aveva detto Andrea a suo fratello Simone, ma più dettagliate, che rivelano il desiderio di Filippo di essere esauriente con l’amico. Sono parole che indicano anche una liberazione dall’attesa e al tempo stesso la gioia dell’aver trovato senza sapere cosa questo avrebbe implicato nel tempo. Non importava il futuro non perché poteva essere affrontato a caso sperando in qualcosa, ma l’aver trovato.

A questo punto emerge la persona di Natanaele, chiamato nell’elenco dei dodici Bartolomeo, cioè “Figlio di Tolomeo” che nell’elenco apostolico è nominato sempre accanto a Filippo. Bartolomeo-Natanaele era nato e vissuto a Cana di Galilea, lo stesso paese in cui Gesù andrà alle nozze che verranno celebrate da lì a tre giorni e in cui farà il suo primo miracolo. Cana era vicina a Nazareth e Natanaele conosceva bene il carattere primitivo e rozzo degli abitanti di Nazareth a tal punto da replicare “Da Nazareth può venire qualcosa di buono?”. Tradotto letteralmente si legge “Da Nazareth può esservi qualcosa di buono?”. Forse Natanaele, uomo istruito, alludeva anche al fatto che nessuna profezia menzionava mai quel paese, anche se sappiamo la sua etimologia, Nezer, “Germoglio”, riferito a Gesù, che sarebbe stato chiamato Nazareno.

La risposta di Filippo, “Vieni e vedi” è illuminante perché, di fronte all’amico che partiva già prevenuto a quell’annuncio, non cerca di convincerlo facendo di lui un proselito, ma gli lascia la libertà di restare nella sua convinzione o di modificarla.

Come Gesù aveva dimostrato ore prima di conoscere profondamente Simone a tal punto da dirgli come sarebbe stato chiamato alludendo alla posizione che avrebbe occupato, parla a Natanaele prima al presente e poi al passato; infatti “Ecco un israelita in cui non vi è inganno” (termine preferibile al tradotto “falsità”) è l’analisi del suo carattere di base e la frase “Prima che Filippo ti chiamasse, ti ho visto quando eri sotto il fico” ci parla dei suoi pensieri ed è quella che lo convinse.

Riflettendo sui due periodi che abbiamo letto, possiamo dire che il primo avrebbe potuto essere letto anche come una specie di saluto o il tentativo di un imbonitore di far presa su uno sprovveduto perché a tutti, anche a quelli che onesti non sono, fa piacere ricevere un complimento, per quanto immeritato. Ma se Gesù fosse appartenuto alla categoria degli impostori, non avrebbe mai potuto rispondere al “Come mi conosci?” di Natanaele rispondendogli di averlo visto, ancora prima di quell’incontro, quando era sotto il fico.

Cosa voleva dire? In questa frase di Gesù c’è la descrizione di due luoghi, uno fisico e uno spirituale. Non erano pochi gli ebrei che, per riposare, meditare o pregare, si recavano sotto un albero di fico, pianta che si trovava molto frequentemente da quelle parti o che avevano nel recinto che circondava la loro casa. Sotto il fico spesso si pregava anche ed è a questa azione che Gesù fa riferimento parlando con Natanaele, dimostrandogli di conoscere il contenuto delle preghiere che rivolgeva a Dio e che contemplavano soprattutto, alla luce della predicazione di Giovanni Battista, la rivelazione al popolo di Colui che sarebbe venuto dopo Giovanni. Credo che sia stato quell’ “Io ti ho visto” a colpire Natanaele: “visto” non perché di passaggio, ma perché era lì, presente in spirito. E qui il vedere di Gesù implica l’ascoltare. Se Natanaele sotto il fico non avesse pregato specificamente per la venuta del Cristo, non sarebbe stato così colpito dalle parole di Gesù.

Allo stesso modo Nostro Signore vede quelli che pregano oggi, allo stesso modo è presente, secondo la Sua promessa, nella Chiesa: “Dove due o tre sono radunati nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Matteo 18.20). Vedere implica quindi l’ascolto e soprattutto, come nel caso di Natanaele, la conoscenza perfetta che Gesù ha dell’essere umano, la stessa che incontreremo nell’episodio in cui, trovandosi a Gerusalemme, leggeremo che “Molti, vedendo i segni che compiva, credettero nel suo nome. Ma lui, Gesù, non si fidava di loro, perché conosceva tutti e non aveva bisogno che alcuno delle testimonianza sull’uomo. Egli infatti conosceva quello che c’è nell’uomo” (Giovanni 2.23-25). Notiamo i verbi, che potrebbero sembrare grammaticamente scorretti, ma che in realtà sono riportati in un’ottica spirituale: “conosceva quello che c’è – non “c’era” –: allora come oggi, niente è cambiato. Per questa Sua conoscenza, anche quindi anche di Natanaele e di tutti, sappiamo che è impossibile che non ci sia un piano per tutti coloro che sono chiamati da Dio.

Natanaele capì di essere conosciuto e gli rispose “Maestro, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il Re di Israele”, riconoscendogli in tal modo tanto la dignità personale – Figlio di Dio –, quanto quella ufficiale – Re di Israele – per la quale era atteso e per la quale non fu creduto dalla maggioranza del popolo, autorità religiose in primis.

A questo punto, negli ultimi due versetti, Gesù rispose al nuovo discepolo che avrebbe visto cose ben maggiori e, rivolto anche a Filippo, una frase che ha riferimento al sogno di Giacobbe che troviamo descritto in Genesi 28.12: “Una scala poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo ed ecco, gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa”. Quello, assieme ad altri che ebbero a tanti uomini nell’Antico Testamento, fu un sogno profetico contemporaneo e futuro al tempo stesso: gli angeli, fedeli messaggeri di Dio, vengono descritti come portatori di messaggi dalla terra al cielo e viceversa. La storia letta nel libro della Genesi fino a quel punto, aveva mostrato episodi di quel tipo: pensiamo agli interventi su Agar, schiava di Sarai quando le predisse la nascita di Ismaele (Genesi 16), alla distruzione di Sodoma e Gomorra (19) o all’angelo che fermò Abrahamo poco prima che sacrificasse Isacco (22).

Nel sogno di Giacobbe gli angeli salivano e scendevano dal cielo, figura di un luogo inaccessibile all’uomo, mentre qui “D’ora innanzi vedrete il cielo aperto”, cioè la benevolenza di Dio rivelata, se non addirittura la rivelazione di Dio stesso. Presi in disparte i Suoi, disse loro “Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete. Io vi dico che molti profeti e re hanno voluto vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono” (Luca 10.24). Andrea e Filippo, certo con tutti gli altri e tutti gli uomini, peccatori salvati, avrebbero visto, letteralmente o figurativamente, il cielo aperto perché l’identità di Dio non sarebbe più stata vista attraverso un velo, ma per testimonianza diretta del Figlio di Dio, “Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, ma la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo. Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato” (Giovanni 1.17,18). Legge da una parte, Grazia e Verità dall’altra. Legge come figura del cielo chiuso, Grazia e Verità come figura del cielo aperto.

Dalle parole di Gesù, i discepoli avrebbero visto gli angeli di Dio salire e scendere sopra il Figlio dell’uomo: pensiamo all’episodio della tentazione nel deserto o all’angelo venuto per confortarlo al Getsemani (Luca 22.42), e quel “sopra” indica l’oggetto delle loro attenzioni: Lui, annunciato a Maria e ai pastori. Ci sono anche le parole di Gesù che, testimoniando davanti ai farisei, dirà “…allora conoscerete che Io Sono e che non faccio nulla da me stesso, ma parlo come il Padre mi ha insegnato. Colui che mi ha mandato non mi ha lasciato solo, perché faccio sempre le cose che gli sono gradite” (Giovanni 8.28,299.

Ecco il cielo aperto: il profeta dell’Antico Patto aveva il compito, più che predire il futuro secondo la nostra parziale concezione occidentale, di trasmettere quanto Dio voleva rivelare: rimproveri, eventi, giudizi e soprattutto la venuta del Cristo; ora che questi era giunto, altro non restava che rivelare il piano individuale che Dio aveva ed ha per ciascun essere che il Lui crede. La via del cielo, della dimensione nuova ed eterna, non è più chiusa: “Nessuno può venire al Padre se non per mezzo di me”.

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02.04 – LA TENTAZIONE NEL DESERTO I/II (Matteo 4.1-11)

La tentazione nel deserto I/II (Matteo 4.1-11)

1 Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. 2Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. 3Il tentatore gli si avvicinò e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane». 4Ma egli rispose: «Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio». 5Allora il diavolo lo portò nella città santa, lo pose sul punto più alto del tempio 6e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù; sta scritto infatti: Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo ed essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra». 7Gesù gli rispose: «Sta scritto anche: Non metterai alla prova il Signore Dio tuo». 8Di nuovo il diavolo lo portò sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria 9e gli disse: «Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai». 10Allora Gesù gli rispose: «Vattene, Satana! Sta scritto infatti: Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto». 11Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco, degli angeli gli si avvicinarono e lo servivano.

 

Questo episodio è narrato dai soli sinottici. Giovanni, dopo il battesimo di Gesù, passa a raccontare l’incontro con Filippo, fratello di Andrea, che diventerà suo discepolo. Marco accenna solamente a quanto abbiamo letto usando le parole “E subito lo Spirito lo sospinse nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana. Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano” (1.12.13. Luca, salvo un piccolo ma non trascurabile particolare che vedremo alla fine, è simile al racconto che abbiamo letto.

Riflessione preliminare: Satana è un nome a lui attribuito che ne designa la qualifica, il compito, e significa “l’avversario”. Di lui parlano il profeta Ezechiele (che ci racconta le sue origini e del ruolo che rivestiva fino a quando non si ribellò a Dio) e il libro di Giobbe nei cui primi due capitoli di Giobbe sono narrati i dialoghi tra Dio e il Tentatore tesi a provare questa persona che, per giustizia e riguardo al suo Creatore, aveva un comportamento irreprensibile. Dio disse di lui all’Avversario “Hai posto attenzione al mio servo Giobbe? Nessuno è come lui sulla terra, timorato di Dio e lontano dal male” (1.8).

Giobbe, per quei tempi e a differenza di Gesù, testimoniava con la sua ricchezza che le benedizioni di Dio erano sopra di lui stante il modo con cui si comportava rendendo grazie per ogni cosa, pregando continuamente per i suoi figli perché forse con il loro comportamento potevano avere fatto qualcosa di sgradito a Dio ed usava pietà verso il suo prossimo. Gesù, figlio di Dio e Dio stesso, venuto con una missione precisa, aveva fino ad allora esercitato la propria sottomissione alla Legge, fatto il suo primo atto pubblico ricevendo il battesimo di Giovanni ed era stato annunciato agli uomini con la discesa dello Spirito Santo sotto forma di colomba. Era figlio di Dio, ma anche uomo. E per questo Satana aveva chiesto che fosse provato (più avanti Gesù dirà ai suoi discepoli “Satana ha chiesto di vagliarvi come si vaglia il grano”).

L’avversario, dal latino adversus, è colui che si oppone a qualcuno o a un progetto, e fa tutto ciò che è in suo potere per conseguire una vittoria su di lei. In questo caso Gesù si trovò di fronte alla stessa persona che, profondo conoscitore dell’animo umano e delle sue debolezze, fu in grado di porre le strategie più opportune per rovinare irrimediabilmente, anche se fino a un tempo stabilito, il progetto che Dio aveva in origine per l’umanità di cui Adamo ed Eva erano i capostipiti. Così farà anche dopo, contrapponendo costantemente all’uomo desideroso di percorrere i sentieri del Bene, persone intente a seguire quelli del Male o comunque alternativi a quelli di Dio, come da Caino in poi. Nel nostro caso si tratta di un personaggio, l’Avversario, che aveva tutto l’interesse al fatto che anche solo una delle tentazioni da lui ordite avesse successo perché, in qual caso, la “progenie della donna” non gli avrebbe potuto schiacciare il capo. In pratica, se una sola delle tentazioni fosse andata in porto, Gesù non avrebbe più potuto essere l’Agnello di Dio, perché non innocente e senza difetto né macchia, e neppure avrebbe potuto togliere il peccato del mondo perché avrebbe perso, esattamente come il capostipite della razza umana, l’innocenza. E non a caso Gesù è definito “l’ultimo Adamo”. Infatti: “45il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente, ma l’ultimo Adamo divenne spirito datore di vita. 46Non vi fu prima il corpo spirituale, ma quello animale, e poi lo spirituale. 47Il primo uomo, tratto dalla terra, è fatto di terra; il secondo uomo viene dal cielo. 48Come è l’uomo terreno, così sono quelli di terra; e come è l’uomo celeste, così anche i celesti. 49E come eravamo simili all’uomo terreno, così saremo simili all’uomo celeste. 50Vi dico questo, o fratelli: carne e sangue non possono ereditare il regno di Dio, né ciò che si corrompe può ereditare l’incorruttibilità” (1 Corinti 15.45-50). La traduzione corretta del verso 1 è “Allora Gesù fu condotto nel deserto dallo Spirito per essere tentato dal diavolo (lett. Avversario/ingannatore)”, che pone l’accento su uno scopo preciso: venire provato prima di iniziare il suo ministero. Il tempo che Gesù passò nel deserto viene contato in quaranta giorni, numero che indica un periodo e non necessariamente una quantità precisa: ricordiamo il diluvio, in cui piovve per 40 giorni e altrettante notti (Genesi 7.4), Noè che aprì la finestra dell’arca dopo 40 giorni (Genesi 8.6), i giorni in cui Mosè rimase sul monte (Esodo 24.18), Elia, che camminò per lo stesso tempo (1 Re 19.8), i 40anni nel deserto del popolo di Israele, condannato a non trovare la strada per l’idolatria commessa e la fede, praticamente nulla, dimostrata.

Il tempo di Gesù nel deserto non fu facile, tormentato dalla compagnia del tentatore che, se leggiamo i particolari del testo, non rimase lì ad aspettare che il suo bersaglio avesse fame: ci fu tutta una serie ininterrotta di tentazioni di cui sono citate solo le più rappresentative; il numero tre sta ad indicare “tutto il possibile” e solo alla fine Luca scrive “Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al momento fissato”. Dopo aver esaurito ogni tentazione, cioè dopo avere fatto tutto ciò che era in suo potere per farlo cadere. E “Fino al momento fissato”, cioè alla croce, quando potrà ferire la progenie della donna al calcagno con la morte.

Il racconto di Matteo differisce da quello di Luca per la cronologia delle tentazioni, che sono però le stesse: Matteo mette nell’ordine (1) le pietre che avrebbero potuto diventare del pani, (2) il gettarsi giù dal pinnacolo del tempio e (3) i regni della terra, Luca inverte la 2 e la 3, ma ciò non cambia il senso delle iniziative portate avanti da Satana che, conoscendo l’umanità di Gesù, lo tenta nel modo più naturale, cioè lo prende per fame. C’è un particolare molto interessante visto nel modo con cui inizia il suo discorso: “Se tu sei Figlio di Dio”, cioè lo definisce allo stesso modo con cui il Padre lo presentò al battesimo di Giovanni, “Questi è il mio Figlio, l’amato, in lui ho posto il mio compiacimento” (Matteo 3.17), segno che, tra i tanti presenti, c’era anche lui. Ricordiamo ancora una volta il libro di Giobbe quando, alla domanda “Da dove vieni?”, Satana rispose “Da un giro sulla terra che ho percorso”. La terra, corrotta dal peccato, non può che essere il luogo ideale per questo essere che sta scritto “Si aggira come un leone che ruggisce cercando chi poter divorare”.

La prima tentazione fu quella per fame, cioè quella che coinvolgeva l’immediatezza umana di Gesù: fisiologicamente non gli era possibile sottrarsi alla necessità di mangiare e non aveva modo di soddisfarla. Dopo un lungo periodo senza alimentazione, la sensazione di fame si trasforma in uno stato progressivamente più grave, fino a diventare acutamente dolorosa. Satana non gli andò incontro, non comparve davanti a lui all’improvviso, ma gli si accostò, cioè gli andò vicino gradualmente quasi a non volerlo apparentemente disturbare per porsi nel modo più naturale possibile: “Se tu sei Figlio di Dio, dì che queste pietre diventino pani”, cioè in altri termini: “Visto che sei stato presentato come l’amato Figlio, puoi benissimo saziarti compiendo un miracolo”.

L’Avversario sapeva benissimo chi era Gesù e non chiede un miracolo per credere in Lui, ma cerca di sfruttare la Sua fame per indurlo a volgere a suo vantaggio il Suo essere Figlio di Dio compiendo un miracolo per sé, cosa che non fece mai. Vero è che nel testo evangelico leggiamo episodi apparentemente inspiegabili, come ad esempio quando a Gerusalemme volevano prenderlo per lapidarlo in cui è scritto “…ma egli sfuggì dalle loro mani” (Giovanni 10.39) oppure quando, prima di catturarlo, “indietreggiarono e caddero a terra” (Giovanni 18.16), ma questo è da attribuire al fatto che era stabilito un solo momento perché fosse dato “in mano agli uomini” e non altri.

Se Gesù avesse compiuto il miracolo del mutare le pietre in pani, avrebbe perso la sua identificazione con l’uomo che certamente non avrebbe potuto fare una cosa simile. Sappiamo infatti che Nostro Signore non fece mai un miracolo per sé stesso, come vediamo dalle parole di quelli che, di passaggio, lo insultavano quando era già sulla croce: “Tu che distruggi il tempio e in tre giorni lo ricostruisci, se sei Figlio di Dio, scendi dalla croce”; ricordiamo le parole degli scribi, degli anziani e dei capi sacerdoti: “Ha salvato gli altri e non può salvare se stesso. È il re d’Israele, scenda dalla croce, e crederemo in lui” (Matteo 27.39-42).

Tornando alla prima tentazione, Gesù risponde citando Deuteronomio 8.3: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”. C’è nutrimento e nutrimento, per la vita dell’uomo: quella materiale ha bisogno del pane, ma per vivere degnamente e in prospettiva, per ricuperare il proprio essere, l’uomo non può fare a meno della Parola di Dio, anzi, di “ogni parola”. L’uomo che vive di solo pane basa la propria vita su una realtà che crede sia l’unica, non avendo il coraggio di ammettere che questa è temporanea, illusoria, la stessa che videro i nostri progenitori provandone un’immensa vergogna.

Ecco allora che aggrapparsi a quell’”Ogni parola che esce dalla bocca di Dio” equivale a riappropriarsi di quell’eredità perduta che in realtà abbiamo parzialmente recuperato quando siamo divenuti figli di Dio avendo accolto Gesù nella nostra vita, ciascuno secondo le capacità e i talenti ricevuti. Spesso si pensa che, per ottenere la vita eterna, si debbano fare chissà quali opere perfette e grandi e ci si dimentica che il miracolo primario è già avvenuto: da peccatori, siamo stati fatti figli di Dio e siamo chiamati a gestire la vita terrena prendendola come un cammino illuminato dalla Parola che deve avere la precedenza sul quotidiano.

Andiamo ad esaminare il contesto del verso citato da Gesù leggendo Deuteronomio 8,1-5: 1 Abbiate cura di mettere in pratica tutti i comandi che oggi vi do, perché viviate, diveniate numerosi ed entriate in possesso della terra che il Signore ha giurato di dare ai vostri padri. 2Ricòrdati di tutto il cammino che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore, se tu avresti osservato o no i suoi comandi. 3Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore. 4Il tuo mantello non ti si è logorato addosso e il tuo piede non si è gonfiato durante questi quarant’anni. 5Riconosci dunque in cuor tuo che, come un uomo corregge il figlio, così il Signore, tuo Dio, corregge te.” Per approfondire il discorso sulla manna, Esodo 16

La citazione del verso che Gesù cita a Satana, allora, a parte le osservazioni fatte, aveva un significato ancora più chiaro: sfamandosi con quel pane che gli veniva suggerito di procurarsi trasformando le pietre, Gesù avrebbe commesso un’azione autonoma, slegata dal Padre, il solo che avrebbe potuto provvedere a Lui: se ci fosse stata la trasformazione delle pietre in pani, Satana avrebbe vinto.

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02.03 – IL BATTESIMO DI GESÙ (Matteo 3.13-17)

Il battesimo di Gesù (Matteo 3.13-17)

13Allora Gesù dalla Galilea venne al Giordano da Giovanni, per farsi battezzare da lui. 14Giovanni però voleva impedirglielo, dicendo: «Sono io che ho bisogno di essere battezzato da te, e tu vieni da me?». 15Ma Gesù gli rispose: «Lascia fare per ora, perché conviene che adempiamo ogni giustizia». Allora egli lo lasciò fare. 16Appena battezzato, Gesù uscì dall’acqua: ed ecco, si aprirono per lui i cieli ed egli vide lo Spirito di Dio discendere come una colomba e venire sopra di lui. 17Ed ecco una voce dal cielo che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento».

Tutti i Vangeli sottolineano che la predicazione del Battista aveva raggiunto il suo punto culminante e per questo Gesù, “dalla Galilea” e quindi da Nazareth, venne in Betania, quella al di là del Giordano. Del suo battesimo ne parlano tutti e quattro gli Evangelisti, ciascuno con un particolare proprio, utile a contestualizzarlo anche se cronologizzare gli avvenimenti di quel giorno non è così immediato.

Giovanni Battista e Gesù erano parenti e, se non sappiano se si conoscessero di persona come avviene per gli esseri umani, indubbiamente la conoscenza spirituale era molto forte. Di certo, ricordando l’episodio in cui, concepito da sei mesi, ebbe un sobbalzo nel ventre di sua madre quando Maria andò in visita da lei, lo riconobbe. Giovanni sapeva che Gesù non aveva certo bisogno di pentimento, di confessare dei peccati e del battesimo e per questo non si riteneva degno di amministrarglielo: “Sono io che ho bisogno di essere battezzato da te, e tu vieni a me?”. La risposta è illuminante: “Lascia fare per ora, perché conviene che adempiamo ogni giustizia” ed è proprio quell’ “ogni”, che si riferisce al non trascurare nulla, che ci spiega il perché Gesù voleva e doveva farsi battezzare pur non attendendo nessun salvatore essendolo lui stesso, pur non avendo peccati da confessare né essendo peccatore come tutti gli altri uomini, tali per natura a causa dell’eredità in Adamo a prescindere dai peccati specifici commessi.

Essere dei “peccatori” non indica un gruppo di persone dedite a crimini particolari contemplati da un codice penale, ma tutti coloro che, nati di donna, conducono o hanno condotto la propria vita senza avere beneficiato del perdono di Dio tramite la fede in Gesù Cristo. Il periodo in cui avvenne il battesimo di Gesù e intermedio, a cavallo tra la Dispensazione della Legge e quella della Grazia, “Legge” di cui dà un accenno Paolo in Romani 3.20-26: “20…in base alle opere della Legge nessun vivente sarà giustificato davanti a Dio, perché per mezzo della Legge si ha conoscenza del peccato. 21Ora invece, indipendentemente dalla Legge, si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla Legge e dai Profeti: 22giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono. Infatti non c’è differenza, 23perché tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, 24ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù. 25È lui che Dio ha stabilito apertamente come strumento di espiazione, per mezzo della fede, nel suo sangue, a manifestazione della sua giustizia per la remissione dei peccati passati 26mediante la clemenza di Dio, al fine di manifestare la sua giustizia nel tempo presente, così da risultare lui giusto e rendere giusto colui che si basa sulla fede in Gesù”.       Abbiamo letto “remissione dei peccati passati”: per quelli che il credente, come essere umano, può sempre commettere, c’è la confessione e il loro abbandono.

Torniamo al battesimo di Gesù: quando disse a Giovanni Battista “Lascia fare per ora, perché conviene che adempiamo ogni giustizia”, è scritto che “lo lasciò fare”, segno che comprese che il Cristo doveva condividere in tutto e per tutto la vita dell’uomo: fino ad ora sappiamo che fu circonciso, lui che non aveva bisogno di avere un segno esteriore della propria appartenenza al popolo di Dio. Sappiamo che fu osservante in tutto, restando sottomesso ai genitori per non incorrere neppure per un attimo nell’identificazione col “figlio ribelle” riportata in Deuteronomio 21.18 e segg., che la sua fu una crescita in sapienza e in grazia presso Dio e gli uomini: ricevendo il battesimo da Giovanni, iniziava il suo primo distinguersi tra coloro che, sensibili all’insegnamento ricevuto dalla Legge e dai Profeti, confessavano di avere bisogno del Messia promesso e accettavano di convertirsi, e coloro che lo rifiutavano. Battezzandosi, Gesù volle unirsi a quello che poi sarebbe diventato il Suo popolo, coloro che avrebbero creduto in lui riconoscendolo per le parole che avrebbe detto e i miracoli che avrebbe compiuto.

Chi infatti si estraniava dal battesimo di Giovanni, interrogandolo senza capire e restando in quella categorie di persone che lui stesso aveva definito “Razza – inteso come appartenenza ad esse, o “progenie” come altri traducono – di vipere”, ne rigetterà tanto gli insegnamenti che i miracoli, trovando ogni giustificazione e pretesa pur di negarli.

Gesù fu così battezzato pubblicamente. Quello che avvenne dopo lo riportano anche gli altri tre Vangeli, ma con piccole differenze: per Marco “Subito, uscendo dall’acqua, vide squarciarsi i cieli e lo Spirito discendere verso di lui come una colomba” (1.10), l’apostolo Giovanni fa dire al Battista, anche se in un momento successivo, “Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui” (1.12); Luca invece, in 3.21-22 21Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì 22e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento»”.

Gesù dunque, ricevuto il battesimo, si mise a pregare, ponendosi poco distante. Non ci è detto quanto, ma di certo era ben consapevole che da quel momento sarebbe iniziato per lui quel cammino di sofferenza e rinuncia che non aveva fatto prima: in Nazareth era cresciuto, spostandosi per i pellegrinaggi a Gerusalemme, aveva condiviso la vita di famiglia con i suoi fratelli e le sue sorelle, si era caratterizzato come una persona diversa crescendo come sappiamo, ma dal battesimo in poi sarebbe diventato un personaggio pubblico, avrebbe avuto davanti un’esistenza fatta di predicazione, miracoli e guarigioni, spostamenti da una città ad un’altra, si sarebbe scontrato con l’ottusità delle persone, avrebbe subìto una morte considerata ignominiosa e tutto questo lo sapeva. Così come sapeva la quantità enorme di anime che avrebbe salvato col suo sacrificio.

La preghiera al Padre era inevitabile e necessaria perché da Lui poteva ottenere la sola assistenza e approvazione di cui aveva bisogno. La risposta del Padre fu duplice: scese lo Spirito Santo su di lui sotto forma di colomba dopo che i cieli furono aperti. Giovanni Battista dirà “Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui” (Giovanni 1.32). Colomba, non le “lingue di fuoco” con cui si manifestò sui credenti della Chiesa di Gerusalemme: la colomba, lo stesso animale che Noè aveva mandato fuori dall’arca e che era tornata con un ramoscello di ulivo. La colomba che è collegata all’oppresso e all’indifeso: “Timore e spavento mi invadono e lo sgomento mi opprime. Chi mi darà ali come di colomba per volare e trovare riposo?” (Salmo 55.6-7). Colomba che si collega al ritorno degli esuli: “Accorreranno come uccelli dall’Egitto, come colombe dell’Assiria e li farò abitare nelle loro case” (Osea 7.11). Soprattutto, qui la colomba ha riferimento all’episodio di Noè: l’ulivo che gli portò era il segno ufficiale che l’ira di Dio, che aveva risparmiato lui e la sua famiglia ma aveva inesorabilmente condannato gli altri uomini che popolavano la terra, era finita ed era imminente la sua uscita dall’arca.

Allo stesso modo lo Spirito Santo, sceso “in forma di colomba” dal cielo e non da altre direzioni, stava a significare la benevolenza di Dio sull’uomo e che di lì a poco sarebbe giunta la salvezza per tutti coloro che l’avrebbero accolta: “…e a tutti coloro che l’hanno accolto, ha dato il potere di diventare figli di Dio”.

Giunse una voce dal cielo: chi l’avrà sentita? I presenti o solo Giovanni? Non ci è detto, manca la frase “E tutti si meravigliarono” alla quale chi ha letto i Vangeli fin qui è abituato, ma è probabile che, a un atto pubblico e ufficiale di Gesù, abbia fatto seguito un’altrettanto pubblica e ufficiale manifestazione del Padre e dello Spirito Santo.

Un particolare essenziale, a questo punto, lo riporta l’apostolo Giovanni in 1.29-34:

29Il giorno dopo, vedendo Gesù venire verso di lui, disse: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo! 30Egli è colui del quale ho detto: «Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me». 31Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare nell’acqua, perché egli fosse manifestato a Israele». 32Giovanni testimoniò dicendo: «Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui. 33Io non lo conoscevo, ma proprio colui che mi ha inviato a battezzare nell’acqua mi disse: «Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito Santo». 34E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio».

 

L’agnello di Dio. Così diverso da quello che veniva sacrificato per la Pasqua. Un uomo innocente a tal punto da essere paragonato a un agnello che, a differenza degli altri, toglie il peccato del – e non “dal” – mondo. Sono parole che ogni israelita avrebbe dovuto comprendere, poiché non solo avevano riferimento all’agnello che si sacrificava per la Pasqua, ma a quello che ogni sabato veniva offerto nel Santuario alla mattina e alla sera come sacrificio per il peccato (Esodo 29.38; Numeri 28.3-10). Se andiamo poi a prendere il verbo usato per “togliere”, vediamo che ha come significato anche quello di “prendere su di sé” e di “portare”. Pietro scrive nella sua seconda lettera “Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia; dalle sue piaghe siete stati guariti. Eravate erranti come pecore, ma ora siete stati ricondotti al pastore e custode delle vostre anime” (2.24,25). Sempre Giovanni nella sua prima lettera dice “Voi sapete che egli si manifestò per togliere i peccati e che in lui non vi è peccato” (3.5).

Nella lettera ai Galati 1.3 Paolo scrive “Grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo, che ha dato se stesso per i nostri peccati al fine di strapparci da questo mondo malvagio”, bellissimo ritratto che racchiude lo scopo del sacrificio dell’Agnello di Dio: per strapparci, cioè togliere, portare via con un movimento violento e rapido. Lo strappo si rende necessario quando occorre togliere in fretta qualcosa di ancorato ad una struttura. Chi quindi crede è strappato dal mondo, da tutte quelle cose alle quali dava un valore e che lo condizionavano. Strappato da una falsa morale, rispettabilità, tendenze, trapiantato in realtà nuove. Strappato al campo del mondo dominato da Satana, per essere impiantato nel campo di Dio. Nato di nuovo, d’acqua e di spirito.

Ma ancora di più, lo strappo si riferisce al destino che ha “questo mondo malvagio”, destinato a perire e ad essere distrutto assieme a tutti coloro che, a quell’Agnello di Dio, non avranno voluto guardare.

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00.01 – IL PROLOGO (Giovanni 1.1-14)

“In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. 2 Egli era, in principio, presso Dio: 3 tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste. 4 In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; 5la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta. 6Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. 7Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. 8Non era lui la luce,
ma doveva dare testimonianza alla luce. 9Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. 10Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto. 11Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto. 12A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, 13i quali, non da sangue
né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati. 14E il Verbo si fece carne
e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità.”

La lettura del Vangelo si può iniziare in vari modi: se partiamo dall’ordine del canone, Matteo è quello che troviamo per primo e da lui possiamo proseguire passando poi a tutti gli altri; così facendo incontriamo la genealogia di Gesù Cristo da parte di Giuseppe che poi Luca compilerà, nel terzo capitolo del suo Vangelo, presentandoci quella di Maria. Potremmo però scegliere di iniziare da un riferimento storico e in questo caso il punto di partenza sarebbe Luca: dopo la dedica iniziale a Teofilo – Sommo Sacerdote in Gerusalemme dal 37 al 41 – ed aver spiegato i metodi d’indagine che caratterizzeranno il suo scritto, colloca il primo episodio in un’epoca precisa, cioè “Al tempo di Erode, re della Giudea” (Luca 1.5).
C’è poi Giovanni, autore particolarissimo, che scrive un prologo fondamentale dal punto di vista teologico che, andando al di là del suo tempo, si raccorda a quel “In principio” con cui si apre il libro della Genesi. Personalmente ritengo che il Vangelo, inteso non come una serie di libri biografici ma come “buona notizia”, “lieto annunzio” per ogni uomo, inizi proprio da qui, con le parole oggetto della nostra meditazione.
Giovanni inizia il suo scritto citando ed elaborando le parole di un inno in uso nella Chiesa cristiana del tempo, fornendoci in un solo verso quella che definisco la terza genealogia di Gesù dopo le due ufficiali che abbiamo: si tratta di una genealogia esclusivamente divina racchiusa in un solo verso che non parla di altro all’infuori dell’Essere. In principio, prima che fosse dato l’ordine “Sia la luce”, il “Verbo”, tradotto anche come “Parola” o “Logos”, esisteva. L’apostolo Giovanni quindi in questi primi versi rivela qualcosa che altrimenti non sapremmo: il Logos, in cui io vedo la sillaba centrale di Ye-Ho-WaH, in quanto tale non solo ha partecipato attivamente alla creazione, ma l’ha anche motivata; “Logos” nel significato più ampio del termine che nel pensiero ellenistico alludeva alla parola, all’emanazione e alla mediazione divina. Ciò si raccorda a quanto scrive l’autore della lettera agli ebrei che afferma: “Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo. Egli è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza e tutto sostiene con la sua parola potente.” (Ebrei 1.1-3). Ancora, secondo Paolo, “Egli è l’immagine del Dio invisibile, primogenito di tutta la creazione, perché in lui furono create tutte le cose nei cieli e sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili: Troni, Dominazioni, Principati e Potenze. Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui” (Colossesi 1.15,16).
Ecco, questo è il “Logos” rivelato nella persona e nell’opera di Gesù Cristo. Questo è il “Logos” che, a parte il suo primo significato di “Parola”, in lingua greca comprende i termini di “facoltà intellettiva, intelligenza, giudizio, regola, ragione delle cose, causa, motivo”. In principio, quindi, c’era questa entità in cui “era la vita”, cioè la Fonte Unica, diversa da come la intende la nostra biologia. Pensiamo all’essere umano che possiamo dire viva quando ha possibilità di agire e scegliere come persona, individuo. Tutto ciò vale per quanto può fare nel suo ambito terreno, ma la “vita” di cui parlano tanto l’evangelista quanto Genesi ha connessione col momento in cui fu creato Adamo, punto culminante e fine del creato: “Allora il signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo – gli atomi – e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente” (Genesi 2.7). Quando fu formato e fino al momento in cui emerse l’incompatibilità col giardino realizzato per lui, Adamo era molto diverso da come siamo oggi perché la sua “vita” trovava ogni ragione e realizzazione in Eden assieme al suo Creatore che vedeva e col quale si relazionava liberamente. Adamo e sua moglie erano puri, la loro vita era nella luce e possiamo ipotizzare che, per l’”alito” ricevuto e la reciprocità del rapporto con Dio, fossero luce loro stessi. Trovavano nutrimento nell’albero della vita al centro del giardino. “Io sono la via, la verità e la vita”.
Abbiamo letto al quarto verso “In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini”, verbo al passato che si riferisce a tutto il periodo che i nostri progenitori trascorsero in Eden, nella regione che l’ebraico indica con “Gan”, cioè “luogo chiuso in un recinto” (i quattro fiumi che lo delimitavano). Quella “vita” era “la luce degli uomini”, cioè li orientava nella giusta direzione, dava loro uno scopo in un cammino di perfezione e realizzazione nello spazio di eternità che caratterizzava quel luogo. Purtroppo, entrambi quegli elementi andarono perduti nel momento in cui Adamo ed Eva sostituirono la “luce vera” con un’altra che la sopperisse. Fu una luce artificiale, risiedente nell’inganno del diventare come Dio, nel desiderare ciò di cui non avevano bisogno, ma soprattutto ciò per cui non erano stati fatti.
Si sostituì allora la luce della conoscenza divina con quella della conoscenza umana. Risultato: l’uomo anche oggi non è in grado di vedere le cose secondo una giusta realtà e prospettiva spirituale, di valutare correttamente quella vita che non è la sola occupazione di uno spazio fisico come avviene spesso. Si esiste, ma non si vive.
Tornando ai nostri versi: questa luce, che risplende nelle tenebre, non è stata vinta perché, come dal “Sia la luce” iniziarono le sei ere della creazione, la luce di Cristo per la salvezza dell’uomo fu rivelata con la Sua predicazione ed opera, poi confermata con la risurrezione. Una delle prime profezie che esamineremo nelle prossime riflessioni riguarda proprio l’identificazione di Cristo con la luce: “Il popolo che giaceva nelle tenebre ha visto una gran luce; su quelli che dimoravano in terra e ombra di morte una luce si è levata” (Matteo 4.16 che cita Isaia 9.1).

A questo punto l’inno di Giovanni subisce una variazione e si sposta sulla persona del Battista, distinguendolo dalla luce vera. Osserviamo ora i tempi dei verbi utilizzati, “era” per il Verbo, “venne” per l’ultimo profeta dell’Antico Patto: qui l’imperfetto denota un’esistenza continua e fuori dal tempo umano e terreno, mentre l’aoristo greco, tradotto in italiano con “venne”, indica tre avvenimenti accaduti in un preciso momento storico: 1. “venne un uomo mandato da Dio; il suo nome era Giovanni”, 2. “(il verbo) venne fra i suoi – il popolo di Israele -, e i suoi non l’hanno ricevuto”, 3.“il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”. C’è quindi, nei diversi tempi verbali, una contrapposizione tra l’eternità e i periodi umani. Giovanni Battista, la cui storia e funzione esaminerò per quanto mi è stato dato, l’ultimo profeta dell’Antico Patto di cui Gesù disse che “Tra i nati di donna non è sorto uno più grande” (Matteo 11.11), fu suscitato da Dio per invitare il popolo di Israele al ravvedimento in vista della venuta del Logos che rimase per lo più inascoltato.
Il Battista doveva “dare testimonianza della luce”, quella “vera, che illumina ogni uomo” e, nell’uso ebraico, “vero” caratterizza l’ordine divino che contraddistingue quello fallace e illusorio dell’uomo peccatore: “Sia chiaro che Dio è veritiero, mentre l’uomo è peccatore” (Romani 3.4). In Cristo c’è quindi la verità totale e unica mentre l’uomo ne ha molte altre, diverse, tutte alternative a Lui. Gesù e Gesù solo è la luce che illumina ogni uomo, naturalmente se questi Lo accetta, Lo riconosce, Lo accoglie.

“Una voce dice: «Grida», e io rispondo: «Che cosa dovrò gridare?». «Grida che ogni uomo è come l’erba e tutta la sua grazia è come il fiore del campo. Secca l’erba, il fiore appassisce quando soffia su di essi il vento del Signore. Veramente il popolo è come l’erba. Secca l’erba, appassisce il fiore, ma la parola del nostro Dio dura per sempre»” (Isaia 40.6-8). Ecco la “Parola”, il Logos” che dura in eterno, contrapposta alla vita umana alla quale è data una scadenza che nessuno conosce. Il “fiore del campo” ci suggerisce l’idea di qualcosa che, per quanto bello, vive per se stesso, per la propria sopravvivenza, per riprodurre altra erba che fiorirà, appassirà a sua volta in un ciclo che si ripeterà in continuazione, circondato da altri fiori come lui. Eppure questo “fiore di campo” metaforico, a differenza di quello naturale, ha la possibilità di scegliere, di accogliere: “A quanti però lo hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio”. “Potere” e “diventare” stanno ad indicare un qualcosa di impossibile, uno stato irraggiungibile per la natura stessa dell’essere umano corrotto dalla sua condizione di peccato: non si dà a qualcuno un potere a meno che non ce l’abbia, non si può “diventare” qualcosa senza un percorso, un processo, una possibilità che venga data. Infatti “ha dato il potere di diventare figli di Dio a quelli che credono nel Suo Nome”, a loro e a nessun altro. E qui sta il significato del Vangelo, della “buona notizia”: Gesù non venne nel mondo come rivoluzionario, non fu un predicatore di un amore generalizzato che avrebbe dovuto realizzare la pace e la fratellanza sulla terra; “ama il tuo nemico” o “porgi l’altra guancia” sono frasi che vanno inquadrate nello specifico del discorso della montagna e quindi raccordate alla realtà cristiana di oggi.

Quelli che hanno ricevuto il potere di diventare figli di Dio hanno acquisito uno stato nuovo, totalmente diverso perché il verso 13, “i quali non da sangue né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati”, sottolinea ancora di più il dono della trasformazione avvenuto in chi lo ha accolto: si tratta, a differenza di quelli che possediamo per natura, di elementi intrasmissibili perché “Non da sangue – la genetica, il DNA – non da volere di carne né da volere di uomo – perché c’è chi nasce per un incidente occorso in una congiunzione carnale e chi è stato desiderato da un padre e una madre – “ma da Dio sono stati generati”. Ci sono sempre l’amore, la volontà e la scelta di Dio dietro ogni anima salvata.
Giovanni però va oltre e ci presenta, al verso 14, un richiamo importante indirizzato in particolare agli ebrei: “Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”. Si tratta di una pericope sulla quale tendiamo a sorvolare perché chi crede in Cristo sa che si fece uomo e quindi, leggendola, passa oltre; in realtà quel “venne ad abitare” è un messaggio molto importante perché ha connessione con il libro dell’Esodo e col Santuario, o Tenda del Convegno, di cui leggiamo “Essi mi faranno un santuario ed io abiterò in mezzo a loro” (Esodo 25.8), oppure Numeri 35.34 dove, dopo un lungo elenco di norme, Dio disse “Non contaminerete dunque la terra che andate ad abitare e in mezzo alla quale io dimorerò, perché io sono il Signore che abita in mezzo agli israeliti”. Se Colui che è definito nell’ebraismo “Il Santo, che sia benedetto” abitava in mezzo al popolo soccorrendolo e giudicandolo, il Logos, il Verbo, la Parola, “venne ad abitare in mezzo a noi” dopo essersi fatto carne, quella carne che non è cattiva di per sé, che non è l’antitesi totale di Dio, ma che rappresenta tutto ciò che è transitorio, mortale, imperfetto e, apparentemente, incompatibile con Lui. Precisazione necessaria: l’incompatibilità della carne è totale nel momento in cui pensa solo a se stessa, ma quando l’essere umano nasce da Dio, essa diventa solo un peso, un elemento penalizzante senza però eliminare la possibilità di un rapporto con lui. Se la negatività della carne fosse assoluta, l’uomo non sarebbe mai stato assistito e soccorso. Diverso è appunto quanto è l’elemento carnale a prendere il sopravvento e domina azioni, aspettative e desideri di realizzazione: “Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che ogni intimo intento del suo cuore non era altro che male, sempre” (Genesi 6.5), constatazione preludio al diluvio.

Scrivendo che “La Parola si fece carne”, poi, Giovanni colpisce il docetismo e il monofisismo che iniziavano a farsi strada nel mondo cristiano: il primo sosteneva che l’umanità di Gesù e le sue sofferenze fossero state illusorie perché in lui non potevano convivere la natura umana e quella divina; il secondo, che emerse ufficialmente nel V secolo ma iniziava già a inquinare la dottrina cristiana di allora, affermava che la natura umana di Gesù era assorbita da quella divina, la sola presente in lui. L’apostolo Paolo, probabile autore della lettera agli Ebrei, estenderà le parole di Giovanni sulla “Parola fatta carne” andando nel dettaglio: “Noi non abbiamo un Sommo Sacerdote che non possa prendere parte alle nostre debolezze, ma uno che è stato tentato in ogni cosa come noi, senza però commettere peccato” (Ebrei 4.15).
Tornando ora al passo oggetto di riflessione, a questo punto Giovanni si pone il problema di dare autorità a quanto sta per scrivere e non poteva trovare modo migliore se non precisando di essere stato testimone, con altri, degli eventi che sta per narrare: “Noi abbiamo contemplato la sua gloria”, termine che si riferisce all’insegnamento, alle manifestazioni prodotte quando Gesù era in terra, alla trasfigurazione di cui fu testimone con Pietro e Giacomo, a tutta la Sua opera culminata con la resurrezione dopo la morte. Proprio la resurrezione è stata a convincermi un giorno che l’unica mia fede, intesa come centro e scopo di vita, non poteva basarsi che su quel Gesù crocifisso, morto e risuscitato: se non fosse avvenuta la resurrezione, gli apostoli e i discepoli se ne sarebbero tornati alle loro professioni, delusi come i due discepoli sulla via di Emmaus che dissero “Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele; con tutto ciò sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute” (Luca 24.21). Nessuno di loro avrebbe dato la propria vita per un morto.
Il Vangelo, se vissuto correttamente, non dà guadagni e non consente di accumulare ricchezze, per lo meno materiali, e quindi nessuno potrebbe mai credere in una persona per sentito dire affrontando il martirio o le persecuzioni come avvenuto e purtroppo avviene. Le ragioni del mio credere, del mio accoglimento della Parola, iniziarono proprio da qui, riconoscendo la “gloria” contemplata da Giovanni. Poi vennero le indagini personali, i riscontri, l’ascolto. E non mi sono mai ricreduto.