08.10 – LA SECONDA VISITA A NAZARETH (Marco 6.1-6)

8.10 – La seconda visita a Nazareth (Marco 6.1-6)

 

 

1Partì di là e venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono. 2Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? 3Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?». Ed era per loro motivo di scandalo. 4Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». 5E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. 6aE si meravigliava della loro incredulità”.

 

 

È indubbio che il racconto della seconda (o terza, secondo altri) visita a Nazareth contenga degli elementi comuni alla prima, per quanto con più particolari visto che, per questo episodio, abbiamo a disposizione anche la versione di Matteo 13. Comunque sia l’importanza di questo ritorno “nella sua patria” risiede nel fatto che laddove una qualunque persona, rifiutata con le modalità che abbiamo visto, avrebbe definitivamente chiuso con quell’ambiente, Gesù decide di dare una seconda opportunità ai suoi ex concittadini e lo fa dopo un certo tempo. In altri termini Nostro Signore lasciò che a Nazareth giungessero altre notizie sulla sua predicazione e sui miracoli affinché la gente si interrogasse silenziosamente, nel cuore, nelle case. Soprattutto, si confrontassero con le letture e i commenti che ad esse venivano fatte nella Sinagoga.

Teniamo presente che, comunque, molto era stato seminato in quel luogo: pensiamo al passo che Gesù commentò e sul quale ci siamo soffermati, alle parole “Oggi si è compiuta questa scrittura che avete ascoltato”, al fatto che, se ci fosse stato un cuore desideroso di venire purificato, il raccordare i miracoli riferiti e avvenuti altrove con quanto ascoltato avrebbe potuto prepararlo ad un secondo, proficuo incontro, quello con la Parola fatta carne. Succede sempre, alle anime sensibili, di pensare e ripensare a determinati episodi della propria vita, ricordarli non per una questione sentimentale, ma per comprendere meglio certi eventi o le persone con le quali hanno avuto a che fare. O per ricordare i propri errori col fine di non commetterne di analoghi. Nel caso di Nazareth credo che Gesù abbia voluto tornare proprio per non lasciare nulla d’intentato anche solo per recuperare una persona.

E qui possiamo inserire alcune considerazioni proprio sul tempo che Dio dà all’uomo per riflettere, o cambiare il suo modo di considerare il valore della vita che gli è stata data in prestito. Fu sempre così, come rileviamo dal fatto che, dopo il diluvio, alla creatura venne fissato un termine di 120 anni di vita per ravvedersi e salvarsi dalle acque che avrebbero ricoperto la terra. Un Midrash ebraico infatti, interpretando il testo di Genesi 6.5 “Il mio spirito non resterà sempre nell’uomo, perché egli è carne e la sua vita sarà di 120 anni“, afferma che Noè attese 120 anni prima di costruire l’Arca sia per dar modo alle piantine di cedro che aveva messo a dimora per crescere, sia ai suoi conterranei di ravvedersi. In altri termini, il diluvio non fu un fatto improvviso, ma venne dopo un periodo di tempo in cui gli uomini, quei “figli di Dio” che si scelsero fra tutte per mogli le “figlie degli uomini“, videro crescere quei cedri e poi Noè, coi figli, costruire l’Arca. Il testo di Genesi, infatti, pone Noè in età di cinquecento anni quando generò i suoi tre figli, e 600 quando entrò nell’Arca, 1656 anni dopo che Adamo ed Eva vennero estromessi da Eden. Il 120, allora, è il 12 x 10, il numero della pazienza di Dio così come il 40 è quello dell’isolamento. Ed è interessante notare che proprio la data del diluvio, che indubbiamente fu la più grande catastrofe mai avvenuta, abbia proprio questo numero, 1656 in cui sommando  5 e 1 abbiamo 6 6 6 che, evidentemente, è sì un “numero d’uomo” come dice la Scrittura, ma ci parla anche di morte, sterminio, annientamento, il nulla definitivo dopo un presente, più o meno lungo, illusorio.

Anche la seconda visita di Gesù a Nazareth, allora, ci parla di un tempo dato all’uomo per approfittare della grazia di Dio e non solo: arrivava l’Emmanuele, il “Dio con noi”, quel Re mansueto ed umile che voleva portare la Parola di Dio in mezzo a loro dando l’opportunità di far tesoro dei suoi insegnamenti, di immedesimarsi in essi, di cogliere l’opportunità e l’onore di parlare con lui, di accoglierlo e di venire guariti da malattie per le quali non si soffre come con le altre. Chi è cieco, sordo, ha un tumore o altro di invalidante sa di averlo, ma non così come per la presunzione, l’orgoglio, la saccenza, la chiusura mentale.

Il verso 1, “Partì di là e venne nella sua patria e i discepoli lo seguirono” ci fornisce un primo dato nuovo, cioè che Gesù questa volta non arriva a Nazareth da solo, ma con dei testimoni ai quali era necessario non solo mostrare quanto può operare la fede di una persona che ottiene un miracolo liberatorio – lo sapevano già –, ma come può essere limitante vivere senza di essa non ponendosi il problema rimanendo nell’abitudinario quotidiano.

Personalmente, per come narrano Marco e Matteo, non credo che Gesù sia sia presentato un sabato, sia entrato nella Sinagoga e si sia messo a leggere: piuttosto il verso 1 ci dice “venne” e al 2 abbiamo “giunto il sabato”, segno che nella sua città si fermò coi suoi qualche giorno e che non rimasero certo in casa, ma uscirono e stavano nelle strade, magari andando a trovare qualche conoscente visto che in quella città Nostro Signore aveva vissuto fino a circa trent’anni, credo sufficienti per essere conosciuto da tutti.

A differenza della prima visita, poi, ignoriamo il soggetto d’insegnamento di quel sabato, ma certo sappiamo che fu autorevole come gli altri avvenuti in molte Sinagoghe e vediamo che “Molti, ascoltando, rimanevano stupiti”, dove quell’ “ascoltando” ci parla di un uditorio non certo distratto, ma che non fu in grado di effettuare considerazioni pertinenti su quanto veniva loro proposto.

Leggendo l’episodio poi occorre tener presente un errore di lettura che spesso compiono i credenti, che tendono a porsi di fronte al testo biblico affrontandolo come uno dei tanti, con una trama e una successione di eventi da leggere in superficie e, così facendo, ben difficilmente sarà possibile comprendere al di là del narrato. Il lettore spirituale, invece, si pone domande, cerca eventuali, apparenti contraddizioni tra le versioni e scopre le ragioni delle reazioni dei presenti alla luce della realtà, della mentalità del tempo e dell’uomo. Ci dobbiamo sempre chiedere perché, come scritto tempo fa.

La versione di Luca esaminata nei due capitoli precedenti, riguardo a Nostro Signore da parte dei Nazareni, ad esempio, è diversa: per loro Gesù era “Il figlio di Giuseppe” ma qui, secondo Marco, è “il falegname, figlio di Maria, fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone”. Secondo Matteo “il figlio del falegname, sua madre si chiama Maria e i suoi fratelli Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda e le sue sorelle sono fra noi”. Non si tratta di particolari insignificanti, ma al contrario sono elementi che offrono un panorama desolante del contesto perché denotano un esame più approfonditamente incredulo dei presenti nella Sinagoga: la prima volta era “il figlio di Giuseppe”, qui è “il falegname” o suo figlio (Matteo 13) e a conferma che secondo loro era impossibile che Gesù parlasse davvero così chiamano in causa Maria e gli altri suoi figli che conoscevano molto bene. Il rifiuto del messaggio del Figlio di Dio è allora per ancorarlo alla terra, alle loro stesse origini umili e di peccatori: doveva essere uno di loro e, in quanto tale,  era impossibile che insegnasse con una sapienza che gli veniva dall’alto nonostante le testimonianze che arrivavano al villaggio e la presenza dei discepoli, assenti la prima volta. È probabile che Nostro Signore se li portò perché capissero il significato della frase che verrà loro detta quando verranno inviati in missione: “Se in qualche luogo non vi accolgono e non vi ascoltano, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza contro di loro” (Marco 6.12).

Il ragionamento dei nazareni, allora, rivela ancora di più l’ottusità e la difesa allo Spirito di Dio che manifestarono la prima volta. Ottusità perché tali erano per natura, difesa perché per loro era importante che la vita continuasse come prima. Le parole di Gesù, se ascoltate, avrebbero richiesto una sosta, la messa in discussione integrale delle loro azioni e modo di pensare, avrebbero dovuto capire che le loro strade e sentieri erano sbagliati e ciò avrebbe richiesto un abbandono per affrontarne di nuove: “Lasci l’empio la sua via”. E abbandonare le proprie consuetudini significa rinunciare a se stessi lasciando che sia Dio ad occuparsi della propria vita e non noi.

Il fatto che Gesù sia indicato come “il falegname, figlio di Maria” con quel che segue lo vedo come posto in senso spregiativo e mi lascia supporre che, a quel tempo, Giuseppe si fosse già addormentato coi suoi padri. Ricordiamo che alle nozze di Cana non era menzionato come presente.

C’è un particolare che entrambi gli evangelisti riportano, e cioè che il fatto che Gesù parlasse loro avendo quelle origini “era per loro motivo di scandalo”, cioè d’inciampo: facevano di un dettaglio insignificante una questione fondamentale, si trovavano di fronte a un muro che loro stessi avevano costruito che impediva di ascoltare e quindi credere.

Così anche oggi, in tutti i campi, dove non solo per essere ascoltata una persona deve avere un titolo di studio, ma deve anche essere riconosciuta da un’organizzazione, da un ordine, da un collegio di presunti sapienti. Se qualcuno parla usando il solo buon senso raramente è ascoltato e, peggio, viene deriso da incompetenti che vogliono un  imprimatur.

Le giornate di Nazareth, dunque, furono molto tristi non certo per Gesù, che a prescindere dal tipo di ascolto che gli veniva dato era e restava “il figlio dell’Iddio vivente”, ma per i nazareni stessi. “E lì non poteva compiere alcuni prodigi, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì”. “Pochi malati” non sappiamo di cosa, ma viene da pensare che fossero guarigioni private e il senso dominante di una prevenzione nei Suoi confronti impedì quelle grandi manifestazioni procedenti dalla fede di uomini e donne che, altrove, si rivolgevano a Lui.

In un modo o in un altro gli abitanti di Nazareth chiusero intenzionalmente le loro porte all’amore di Dio e poi e ne disinteressarono. Quando l’uomo fa così, anche oggi, di fatto, chiude volontariamente quella porta che poi troverà chiusa quando vorrà entrare nel Regno di Dio e non potrà farlo. E quel “pianto e stridore di denti” allude proprio alla reazione disperata di quelle anime che capiranno di essersi distrutte da sole proprio chiudendo quella porta che Dio voleva aprissero mentre erano in vita. Gesù, proponendosi all’uomo, lo onora del Suo interessamento ma questi, come i nazareni, gli chiude la porta. E la bestemmia contro lo Spirito Santo, è scritto che non sarà perdonata. Amen.

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08.09 – LA PRIMA VISITA A NAZARETH II/II (Luca 4. 24-30)

8.09 – La prima visita a Nazareth 2 (Luca 4.24-30)

 

24Poi aggiunse: «In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria. 25Anzi, in verità io vi dico: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elia, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; 26ma a nessuna di esse fu mandato Elia, se non a una vedova a Sarepta di Sidone. 27C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo; ma nessuno di loro fu purificato, se non Naamàn, il Siro». 28All’udire queste cose, tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. 29Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù. 30Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino”.

 

C’è un senso conclusivo nel concetto in base al quale “nessun profeta è bene accetto nella sua patria” e infatti alcuni studiosi sostengono che i richiami ad Elia e Naaman, con tutto quel che seguì, quindi i versi da 25 a 30, appartengano ad una terza visita a Nazareth che Gesù avrebbe compiuto. La frase di Gesù, che poi divenne proverbio tuttora in uso, preceduta dal suo amen, “in verità”, fu pronunciata quale triste commento ai pensieri dei suoi concittadini e denuncia la tendenza umana ad apprezzare più ciò che viene da fuori anziché quanto si ha naturalmente a disposizione. Guardiamo le varianti di questa frase: Matteo scrive “Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua” (13.57), Marco “tra i suoi parenti e in casa sua” (6.4) e Giovanni “Gesù aveva dichiarato che nessun profeta riceve onore nella sua patria” (4.44); se si fosse trattato di un proverbio già esistente, tutti e quattro lo avrebbero riportato identico.

La cerchia familiare stretta e allargata, così come l’ambito sociale in cui una persona cresce, fa sì che nei suoi membri si fissino i ricordi di quello che è stata anziché valutarne i progressi e soprattutto quello che è diventato realmente, spesso a prezzo di esperienze dolorose. Chi “viene da fuori” invece, di cui non si sa nulla e quindi dal quale ci si attende chissà cosa, viene ascoltato proiettando istintivamente su di lui le aspettative che si hanno. In una comunità che ho frequentato ho assistito a questo fenomeno tante volte, ma qualunque “profeta”, cioè chi parla di Dio, ha un messaggio che, una volta udito, occorre valutare indipendentemente dalla provenienza che questo ha.

Gesù, in pratica, per i nazareni era “il figlio di Giuseppe” e tale doveva restare. Le sue “parole di grazia” che avevano ascoltato, anziché venire accolte e metabolizzate, destavano incredulità perché era impossibile che il figlio di un falegname parlasse in quel modo. E il triste è che, nonostante l’affermazione sul profeta non accetto in patria, i Suoi concittadini pensarono ancora peggio in una volta successiva perché coinvolsero Maria, i fratelli e le sorelle di Gesù a sostenere che la Sua conoscenza delle Scritture non poteva essere reale. Quindi, come scrive un importante esegeta, “considerazioni egoistiche, interessi locali e pregiudizi nati da una lunga familiarità, si mescolarono assieme” impedendo loro un giudizio obiettivo.

E arriviamo al verso 25 in cui viene portato il primo esempio, quello di Elia e la vedova di Sarepta. Si tratta di un fatto avvenuto approssimativamente 850 anni prima del nostro episodio, quando regnava Achab che, come diversi suoi predecessori, portò il popolo all’idolatria. Conseguentemente gli fu preannunciato da Elia il castigo consistente in tre anni di carestia, per il quale fu lo stesso profeta a pregare che ciò avvenisse. Da notare che il Re era colui che guidava Israele ed era responsabile della sua condotta, e che il popolo stesso doveva sapere molto bene che non vi era altro dio al di fuori di YHWH: accettando di adorare elementi estranei, si rese colpevole allo stesso modo. Questo era il comportamento degli israeliti che invece erano stati eletti, scelti dal Creatore perché fosse luce alle genti, quelle che guardava – come oggi – con disprezzo.

Ebbene pensiamo alla situazione che dovette verificarsi in quel periodo di carestia, con ricchi che vivevano con difficoltà e poveri nella disperazione, per non parlare delle vedove che si trovavano nell’impossibilità di sostenere anche i loro figli, qualora ne avessero avuti, e trovando disattese le promesse di Dio nei loro confronti proprio a motivo del comportamento idolatra che aveva coinvolto tutti, loro comprese. Vanno tenuti presenti i due significati del termine “idolatria”: da un lato l’adorazione di uno o più idoli, ma dall’altro amore e devozione per elementi che non hanno ragione di averla. Perché ciò accada è necessario abbandonare ciò che si è seguito in precedenza e Israele, scegliendo di adorare dèi estranei, non è che “cambiasse religione” o una moda, ma sostituiva il reale con l’immaginario, rinnegando tutte le esperienze soprannaturali di cui era stato l’unico beneficiario nel corso dei secoli.

Elia, a carestia inoltrata, viene “mandato” a Sarepta, in territorio fenicio, in cui c’era “una vedova alla quale ho dato ordine di sostenerti” (1 Re 17.9): Dio allora aveva parlato a una pagana, una donna povera che fu testimone del miracolo della farina e dell’olio che non si esaurirono e del ritorno in vita del proprio figlio. Quindi, citando l’episodio, Gesù ricorda ai suoi ex concittadini che Dio si serve delle cose “pazze del mondo per svergognare le savie”, cioè davanti a Lui nel confronto tra l’umile e il presuntuoso a vincere è sempre il primo. In più, in questo passo, abbiamo l’abbandono delle attenzioni di un profeta per i suoi connazionali a favore di una donna pagana che tuttavia il Signore lo cercava, per quanto “a tentoni”.

La figura di Naaman, poi, siriano, è altrettanto singolare ed emerge al tempo in cui viveva Eliseo, che di Elia prese il posto. Nonostante la presenza di questo profeta sul territorio, a lui non si rivolse nessun lebbroso israelita, ma fu Joram, re di Siria, dietro suggerimento indiretto di una ragazza ebrea, a inviare Naaman da lui. La lettura del quinto capitolo di 2 Re può aiutarci a capire nel dettaglio la vicenda, ma appare chiaro che la condotta di questo generale, inizialmente, fu caratterizzata dall’incredulità dovuta a ignoranza e non da un ostinato rigetto della luce e della verità come in Israele a quel tempo. La confessione di fede di quest’uomo, “Ora so che non c’è Dio su tutta la terra se non in Israele” (v. 19) suona indubbiamente come una condanna nei confronti di tutti quelli che videro i miracoli di Nostro Signore e non si convertirono.

Ebbene quando Gesù, nel portare gli esempi di questi personaggi, pronunciò le parole “ve ne erano tanti… eppure”, scoppiarono i sentimenti dello sdegno e dell’ira nel cuore dei presenti nella Sinagoga. È stato giustamente osservato che con queste parole Nostro Signore accusa i nazareni di indegnità ammonendoli che dovevano fare molta attenzione a che il medesimo abbandono ricordato nei tempi antichi non si verificasse anche per loro, con conseguenze peggiori di quelle che avvennero in quei tre anni di carestia.

È singolare che, per la prima e unica volta nei Vangeli, c’è la testimonianza dell’interruzione di una riunione sacra: i presenti quindi erano talmente sdegnati da perdere ogni controllo e perché feriti nel proprio orgoglio e campanilismo. Non vi fu spazio per un esame di coscienza, per una riflessione, pur breve, ma solo per una reazione violenta: tutti volevano cacciarlo dalla città e, evidentemente la maggioranza, voleva gettarlo giù da uno dei dirupi che allora erano presenti nei pressi della città, essendo costruita sull’orlo di un monte, in una posizione diversa da quella della Nazareth odierna.

Prima di spiegare come fece Gesù a sottrarsi alla loro volontà omicida, ricordiamoci che la reazione violenta a una contestazione verbale appartiene sempre a chi, pur essendo adulto, vuole difendere in modo infantile il proprio modo di pensare e agire senza preoccuparsi del fatto che questo sia giusto o sbagliato. Ciò avviene soprattutto nell’ambito religioso, o politico. Violenza fisica in questo caso, oppure verbale e con metodi altrettanto violenti che prevedono, oggi perché la gente è ritenuta più “civile” senza esserlo, l’umiliazione e l’isolamento fino ad arrivare, se possibile, all’annientamento delle idee e della volontà di chi li rimprovera. Perché chi contesta con argomenti validi e colpisce le coscienze va annichilito, perché chi sceglie la violenza e l’urlo sa che non può controbattere in altro modo.

Ai tempi di Gesù e poco dopo, parlo del libro degli Atti, abbiamo due esempi: il primo si verifica con la lapidazione di Stefano quando viene descritta, al termine dei suo discorso dinnanzi al Sinedrio che si concluse con le parole “Ecco, contemplo i cieli aperti e il Figlio dell’uomo che sta alla destra di Dio”, la reazione dei suoi membri: “Allora, gridando a gran voce, si turarono le orecchie e si scagliarono tutti insieme contro di lui, lo trascinarono fuori dalla città e si misero a lapidarlo” (Atti 7.56-58).

Lo stesso apostolo Paolo, allora conosciuto come Saulo di Tarso ai cui piedi avevano deposto i loro mantelli, allora consenziente con quella esecuzione, si troverà a fare i conti con questo atteggiamento quando, dopo aver riferito le parole che Gesù gli disse, “Va’, perché io ti manderò lontano, alle nazioni”, sapiamo che “Fino a queste parole erano stati ad ascoltarlo, ma a questo punto alzarono la voce gridando: «Togli di mezzo costui, non deve più vivere!». E poiché continuavano a urlare, gettare via i mantelli e a lanciare polvere in aria, il comandante lo fece portare nella fortezza, ordinando di interrogarlo a colpi di flagello, per sapere perché mai gli gridassero contro in quel modo”. (Atti 22.21-24). In tutti questi esempi, nazareni compresi, non esiste un solo attimo in cui si dà spazio all’autoesame, ma alla reazione infantile di adulti irrisolti.

Reazione ben diversa vi fu da parte degli ebrei testimoni della discesa dello Spirito Santo al capitolo due, sempre del libro degli Atti: quando infatti Pietro, a conclusione del suo primo discorso pubblico, “Sappia dunque con certezza tutta la casa d’Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso” , leggiamo che “All’udire queste cose si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: «Fratelli, che cosa dobbiamo fare?» (2.36,37). Quella volta è scritto che “coloro che accolsero la sua parola  furono battezzati e quel giorno furono aggiunte circa tremila persone” (v.41).

Tornando al nostro episodio, è una breve frase a concluderlo: “Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino”. Nessuno, nonostante quelle manifestazioni isteriche, poté mettere in atto i suoi propositi. Come già rilevato, non era ancora giunto il momento in cui Gesù doveva essere dato in mano agli uomini e questo sicuramente fu il motivo per cui non poterono fargli nulla e nessuno, visto che è sempre da uno che parte un’azione offensiva, osò affrontarLo per primo, forse perché intimoriti dalla Sua autorità. Gesù era l’ “Io sono”, “lo stesso di ieri, di oggi e di sempre” che ancora oggi chiama e riprende la sua creatura perché lo accetti, lo segua, diventi con Lui figlio del Padre. Amen.

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08.08 – LA PRIMA VISITA A NAZARETH (Luca 4.16-30) I/II

8.08 – La prima visita a Nazareth 1 (Luca 4.16)

 

Premessa

Affrontare la o le visite di Gesù a Nazareth pone problemi sul numero di volte in cui si recò nella città che lo vide diventare adulto, da quando aveva circa tre anni e mezzo fino ai trenta. A parte il ritorno dall’Egitto, la questione di quante furono le volte in cui si recò “nella sua città” è ancora aperta anche se, leggendo i racconti dei sinottici, si possono distinguere due episodi, per quanto vi sia chi sostiene fossero stati tre. Luca, nel passo che esamineremo, introduce quanto avvenne con le parole “Gesù, sospinto dallo Spirito, se ne tornò in Galilea e la sua fama andò per tutta la contrada circonvicina. Ed egli insegnava nelle loro sinagoghe, essendo onorato da tutti. E venne in Nazareth, dove era stato cresciuto” (4.14-16): si tratta di una premessa di ampio respiro al nostro episodio, che comprende molte attività svolte da Nostro Signore e il particolare dei concittadini che volevano buttarlo giù da una rupe, non citato da Matteo e Marco, lascia intendere che i due evangelisti non si riferiscano allo stesso avvenimento.

Considerando il mio metodo d’indagine, lo stesso peraltro di molti, è indubbio che leggere cronologicamente il Vangelo può portare a capire meglio alcuni fatti, evitare una lettura approssimativa e valutare più agevolmente il perché di certe frasi, ma è anche innegabile che la questione dell’esatta disposizione temporale non sia stata considerata rilevante dagli evangelisti che giustamente decisero di scrivere dei libri “aperti”, che parlassero a tutti nell’immediato essendo il “regno dei cieli”, allora come oggi, “vicino”. Luca lascia intendere che Gesù andò una prima volta a Nazareth quando entrò nella Galilea per stabilirvisi; Matteo (13) la colloca dopo l’esposizione delle parabole del Regno e Marco (6) prima dell’invio dei dodici in missione: è il loro racconto, più o meno temporalmente coincidente, a farmi optare per il fatto che quella città fu visitata due volte. Vediamo, sotto questo mio modo di disporre gli episodi, ciò che scrive Luca:

 

16Venne a Nàzaret, dove era cresciuto, e secondo il suo solito, di sabato, entrò nella sinagoga e si alzò a leggere. 17Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; aprì il rotolo e trovò il passo dove era scritto: 18Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi, 19a proclamare l’anno di grazia del Signore. 20Riavvolse il rotolo, lo riconsegnò all’inserviente e sedette. Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui. 21Allora cominciò a dire loro: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato».  22Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è costui il figlio di Giuseppe?». 23Ma egli rispose loro: «Certamente voi mi citerete questo proverbio: «Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafàrnao, fallo anche qui, nella tua patria!»». 24Poi aggiunse: «In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria. 25Anzi, in verità io vi dico: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elia, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; 26ma a nessuna di esse fu mandato Elia, se non a una vedova a Sarepta di Sidone. 27C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo; ma nessuno di loro fu purificato, se non Naamàn, il Siro». 28All’udire queste cose, tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. 29Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù. 30Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino”.

 

Il verso 16 inizia in modo solo apparentemente banale: la prima pericope “Venne a Nazareth” racchiude uno scopo, un piano per gli abitanti di quella città e lascerebbe intendere, se non conoscessimo ciò che avvenne, uno sviluppo positivo di quell’arrivo in mezzo a loro. “Venne a Nazareth” ci autorizzerebbe a pensare che contenga una speranza, un accoglimento del “lieto annunzio” da parte degli abitanti di quella città che, proprio perché conoscevano Gesù, lo avrebbero accettato. La seconda pericope, “dove era cresciuto”, ne accentua l’idea perché l’essere cresciuto in una cittadina equivale all’avere una reputazione, nel bene o nel male. E sappiamo che proprio a Nazareth è scritto che “…il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui” (Luca 2.40), particolare che dobbiamo tener presente perché quanto detto nel verso non costituiva un fatto privato, ma pubblico nel senso che era impossibile non riconoscere quanto avveniva in quel giovane. Il verso citato si riferisce al Gesù bambino, fino ai dodici anni; ma ciò che fu dopo il suo bar mitzwah, quindi dopo i tredici, è detto che “…cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini” (v.52). Ora, calcolando che la permanenza in Egitto durò dai due ai tre anni e mezzo, gli abitanti di Nazareth ebbero modo di farsi un’opinione su Gesù per 27 anni circa in cui lo videro lavorare, lo sentirono parlare e lo videro agire non certo a sproposito, frequentare la Sinagoga assiduamente così come prendere la parola come consuetudine nelle sue riunioni. Va ricordato che i bambini erano ammessi nelle Sinagoghe dall’età di sei anni e dovevano frequentarle con assiduità dopo i tredici. Quindi la conoscenza che gli abitanti di Nazareth avevano di Gesù, che lo incontravano ogni sabato nelle assemblee, fu costante per quattordici anni, sempre parlando approssimativamente.

Viene spontaneo pensare che, se quando Gesù era dodicenne parlava in mezzo ai sapienti di Gerusalemme e “…tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte” (Luca 2.47), le volte in cui fu invitato a parlare e commentare dei passi nella Sinagoga in Nazareth non furono poche. Riesce difficile pensare che, fino a quando non iniziò il Suo Ministero, Gesù abbia taciuto sulle verità scritturali nonostante sarà la vittoria sull’Avversario nel deserto a sancire ufficialmente l’inizio del Suo Ministero, che era veramente Lui “l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo”.

Non credo sia azzardato pensare che Nostro Signore “si alzò” perché invitato dal responsabile dell’assemblea – come in uso ancora oggi ance se con qualche variante –, ma dobbiamo porre la nostra attenzione su quel “gli fu dato il rotolo…” e “trovò il passo”.

Qui va fatta una premessa, cioè che la lettura della Legge o dei Profeti, come parte del servizio nella Sinagoga, rendeva necessaria la loro divisione in sezioni in modo tale che, nel giro di tre anni, tutta la Scrittura potesse essere letta e commentata interamente. La Chiesa di Roma ha adottato questo stesso metodo nelle letture che vengono proposte nella Messa quotidiana in cui, appunto in tre anni, viene letta tutta la Bibbia anche se, purtroppo, ben pochi se ne accorgono o frequentano le sue assemblee quotidianamente.

Secondo quest’usanza ebraica, allora, Gesù “trovò il passo” richiesto per quel sabato in cui ricorreva il giorno della purificazione, quello dell’espiazione dei peccati che si celebrava il 10 di Tizri (ottobre). Era lo Yom Kippur, considerato il giorno più santo e solenne dell’anno ancora oggi. Credo che in quella Sinagoga stava avvenendo qualcosa di straordinario: nel giorno della purificazione si leggeva Isaia 61.1,2 “Lo spirito del Signore Dio è su di me – come visualizzato al Suo battesimo – perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione – le credenziali del perfetto inviato, il Cristo, il Messia –; mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l’anno di grazia del Signore”.

Oggi” si compiva “questa scrittura” che i presenti avevano “ascoltato”. Si trattava di un annuncio formidabile che avrebbe dovuto riempire di gioia i suoi uditori anche perché molti erano gli elementi che andavano a convergere in un unico punto, cioè Gesù stesso. È fondamentale sottolineare che il verso di Isaia 61.2 è letto parzialmente, essendo nella sua interezza “…a promulgare l’anno di grazia del signore, il giorno di vendetta del nostro Dio, per consolare gli afflitti”: perché Gesù si fermò, nella sua lettura, all’ “anno di grazia”?  Oppure: perché Matteo non scrive interamente il passo? Perché intendeva sottolineare qualcosa che gli israeliti conoscevano molto bene, cioè il Giubileo che ricorreva ogni 50 anni in cui venivano rimessi tutti i debiti, messi i prigionieri in libertà, affrancati gli schiavi e le terre che erano state confiscate venivano restituite ai proprietari (Levitico 25.9-17). Il Giubileo era stato quindi istituito come simbolo per  anticipare le conseguenze della venuta del Cristo. È interessante, nel capitolo citato del Levitico, il fatto della terra restituita: terra dove abitare che rimanda sia a quella promessa, scelta da Dio per il suo popolo, sia a quella nuova, ai famosi “nuovi cieli e nuova terra”; questa almeno è l’applicazione che mi sento di fare attorno al verso 23 di Levitico 25: “Le terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e ospiti. Perciò, in tutta la terra che avete in possesso, concederete il diritto di riscatto per i terreni”. È un verso che allora rivendicava il potere di YHWH sul creato, ma che oggi pone chi crede in una posizione radicalmente diversa: “Voi non siete più stranieri né ospiti, ma concittadini dei santi e membri della famiglia di Dio” (Efesi 2.12).

Leggiamo che prima di parlare “Gli occhi di tutti erano fissi su di lui”, cioè sapevano chi era e ancor più come stava operando nelle città a loro vicine e lontane, ma non si soffermarono sulla frase d’esordio, “Oggi si è compiuta questa Scrittura che avete ascoltato”. Ascoltarono, ma non compresero, o non vi dettero peso. Certo Gesù non si limitò a quella, ma il suo discorso fu teso a dimostrare il perché di quelle parole, delle Sue e di quelle del testo, e da ciò che leggiamo, “Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati dalle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca”, è impossibile che non rispondessero emotivamente di fronte a quella predicazione. “Tutti gli davano testimonianza” sta a significare che riconoscevano che le voci che erano giunte a Nazareth sulla forza delle parole e dei ragionamenti del loro concittadino erano vere, che “parlava con autorità” e che era in grado di spiegare la Scrittura meglio di qualunque Scriba o Fariseo. E il responsabile della Sinagoga che Lo invitò a leggere e commentare Lo conosceva.

Purtroppo, alla positività racchiusa nella prima reazione, quella cioè di dargli “testimonianza”, subito se ne aggiunge una negativa vista nel fatto che “erano meravigliati”: i presenti cioè non erano in preda ad un sentimento di stupore entusiasta che porta ad aderire a una posizione precisa, ma erano all’inizio di un tentativo per giustificare razionalmente quanto stava avvenendo in quella Sinagoga. In pratica tutto quanto Gesù diceva loro non veniva accolto nel cuore e nella mente, ma passava attraverso il filtro della diffidenza vanificando le Sue parole. A differenza di ciò che avverrà nella seconda visita in quella città, si chiesero: “Non è costui il figlio di Giuseppe?”, quindi uno di noi, nato qui, uno che ha lavorato il legno fino a poco tempo prima di andarsene a predicare e fare miracoli?

Ecco, è proprio da quella definizione, “il figlio di Giuseppe”, che inizia il processo di screditamento: dimenticavano che Giuseppe discendeva da Davide come Gesù, le promesse ascoltate per chissà quanto tempo nella Sinagoga sul Cristo che sarebbe arrivato, le voci a loro giunte sui miracoli operati e su quanto potente fosse la Sua predicazione. Quella “testimonianza” resta all’inizio si era trasformata in livore perché alla diffidenza cui erano passati si aggiunse l’orgoglio campanilista di cui Gesù si accorse subito e iniziò a parlare dicendo “Certamente voi mi citerete questo proverbio: «Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito accadde a Capernaum, fallo anche qui, nella tua patria!»” (v. 23).

Il proverbio citato, “Medico, cura te stesso”, in uso ancora oggi, non sta a sottintendere che gli abitanti di Nazareth vedessero in Gesù un malato che prima di guarire gli altri doveva pensare a curarsi, ma che in quel “te stesso” rientrassero a pieno titolo loro in quanto Suo prossimo storico e diretto. In altri termini, prima di fare miracoli e predicare all’esterno del loro territorio, avrebbe dovuto iniziare da lì, dalla città di Nazareth, per renderla illustre come Capernaum, oppure fermarsi e compiere in mezzo a loro le identiche, potenti operazioni.

Sappiamo però che Gesù non fece mai un miracolo per soddisfare la curiosità della gente o peggio per pubblicizzare un territorio, ma per testimonianza che doveva essere ricevuta di chi voleva comprendere il piano di Dio: “le opere che il Padre mi ha dato da compiere, quelle stesse opere che io sto facendo, testimoniano di me che il Padre mi ha mandato” (Giovanni 5.36).

Il ragionamento dei nazareni, invece, si configurava nelle parole successive a quelle ora riportate: “Ma voi non avete mai ascoltato la sua voce né mai avete visto il suo volto, e la sua parola non rimane in voi: infatti non credete a colui che egli ha mandato” (vv 36,38).

Concludendo questa prima parte: Gesù, come suo solito, predicò con autorità, grazia e verità, elementi che furono riconosciuti da quanti lo ascoltavano. Il suo fu però un seme caduto sulla strada, subito asportato dagli uccelli del cielo, figura in questo caso dell’Avversario che per la prima volta cercò di ucciderlo, spingendo gli abitanti di Nazareth a buttarlo giù “dal ciglio del monte”. Anche questa volta rimase sconfitto.

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