05.29 – INTRODUZIONE AL PADRE NOSTRO (Matteo 6.9-13)

05.30 – Padre nostro – Introduzione I (Matteo 6.9-13)

9Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome,10venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. 11Dacci oggi il nostro pane quotidiano, 12e rimetti a noi i nostri debiti  come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori, 13e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male.14Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi;15ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe.”.

            Sono due le osservazioni da fare su questo testo: la prima è che, per lo meno in questa versione, viene finalmente corretta la traduzione “non indurci in tentazione” che purtroppo è diventata di dominio comune fra molti credenti, e la seconda è che manca, dopo “liberaci dal male” la pericope “Poiché tuo è il regno, la potenza e la gloria nei secoli” in uso presso le Comunità Evangeliche. Non si tratta di un’aggiunta, azione dalla quale i veri traduttori si guardano bene di fare, né di un’omissione (per la quale vale lo stesso principio); piuttosto è questa una frase che si trova presente non in tutti i manoscritti e riportarla o meno è una scelta. “Tuo è il regno, la potenza e la gloria nei secoli” non si trova nella Vulgata (IV secolo), ma compare nella versione Peshito, Siriaca e in quelle Sahidica e Thelaica del II secolo per poi mancare in quella Latina, dello stesso periodo. Siccome è opinione comune che gli antichi cristiani, seguendo l’esempio ebraico, avessero l’abitudine di aggiungere questa dossologia alla fine delle loro preghiere, alcuni hanno qui individuato una reminiscenza di tale uso. Personalmente mi ritengo a favore di una sua inclusione. Prima di trattare il “Padre nostro” sezione per sezione, credo sia giusto introdurlo; per farlo dovremo inevitabilmente tornare ai versi che abbiamo già letto la volta scorsa, quelli da 5 a 8, sui quali saranno possibili riflessioni aggiuntive.

La preghiera del “Padre Nostro”, sotto certi aspetti, si può dire che sia stata l’unica ad essere insegnata da Gesù a quanti lo ascoltavano e non possiamo escludere che fu ripetuta, come modello, in più occasioni, non sempre con le stesse parole così come leggiamo e confrontiamo Matteo e Luca che ci suggeriscono così l’idea di una preghiera dalla struttura non rigida e mnemonica, ma di contenuti.

Matteo, come abbiamo visto, la inserisce nel discorso detto “della montagna” in un punto particolarmente importante, cioè dopo avere affrontato il tema della preghiera individuale; Luca la pone in un momento più generico che viene descritto con queste parole: “Mentre stava pregando in un luogo, quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni insegnò ai suoi discepoli»” (Luca 11.1). Quel discepolo dovette constatare la differenza tra il modo di Gesù di presentarsi davanti al Padre e il suo: da lì si rese conto che, nonostante la tradizione che gli era stata trasmessa, non sapeva pregare cioè gli mancavano gli elementi per relazionarsi realmente con Dio. Se una persona chiede ad un’altra di insegnargli qualcosa, ammette di non saperla fare, o di farla male.

Due furono quindi i momenti “ufficiali” in cui fu insegnato il modello che tutta la cristianità conosce a memoria, ma non si può escludere che il Signore, stante la sua importanza, lo abbia proposto, in tutto o in parte, anche in altre circostanze nonostante Marco (che scrisse sotto la supervisione dell’apostolo Pietro) e Giovanni non ne parlino. Si può essere autorizzati a fare questa supposizione perché sappiamo che i Vangeli contengono una minima parte di quello che Gesù fece e insegnò: “Vi sono ancora molte altre cose fatte da Gesù che, se si volessero scrivere una ad una, credo che il mondo intero non potrebbe contenere i libri che si potrebbero scrivere” (21.25).

Sarebbe un errore esaminare questa preghiera senza soffermarci sugli insegnamenti precedenti ad essa; per questo credo sia giusto rileggere i versi da 5 a 9 di cui ci siamo occupati nello scorso studio, che spiegano la differenza tra il metodo di ragionamento umano, orizzontale, e quello di Dio, verticale: 5E quando pregate, non siate come gli ipocriti: poiché amano starsene a pregare nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze in modo da apparire agli uomini, vi dico per certo che ricevono la loro ricompensa. 6Tu invece, quando preghi, entra nella tua stanza e, chiusa la tua porta, prega il tuo Padre, quello (che è) nel segreto, e il tuo Padre che vede nel segreto ti ricompenserà. 7Pregando, non sproloquiate come i pagani, che ritengono che saranno esauditi nella loro verbosità. 8Dunque non siate simili ad essi, poiché il vostro Padre sa di che cosa avete bisogno prima che voi lo chiediate”.

La prima impressione che si ricava da questa lettura è che essa parla di separazione: saltano subito alla mente i frammenti “non siate come”, “Tu invece” e ancora, rafforzando il concetto, “dunque non siate simili ad essi”, riferiti a due categorie ben precise, sostanzialmente accomunate alle persone che non vanno oltre alla religiosità ostentata e quindi, intenzionalmente o per ignoranza, simulano per un proprio tornaconto. L’ipocrita, termine riferito anticamente all’attore, quindi una persona che fingeva di essere colui che nella realtà non era, trova un suo collegamento, per i tempi in cui Gesù parlava alle folle o ai discepoli, con i Farisei e gli Scribi, definiti appunto ipocriti. La preghiera finta si può manifestare con due atteggiamenti: il primo è esteriore e si caratterizza con manifestazioni pubbliche fine a se stesse nei luoghi di adunanza (sinagoga) o scelti per l’occasione: non in viottoli o in quei posti isolati in cui Gesù si recava spesso, ma quelli in cui la gente passava e non poteva fare a meno di considerare le persone che vedeva pregare, in piedi e oscillando avanti e indietro come gli ebrei usano fare ancora oggi, come pie. Si trattava di una strategia portata avanti per avere un’influenza maggiore presso il popolo e che andava a rafforzare il ruolo che quei personaggi avevano nella società del tempo influendo molto più dei Sadducei, che erano in maggioranza, nelle decisioni del Sinedrio.

Tra i tanti passi dei Vangeli che parlano dei comportamenti di costoro, ricordiamo le parole “E io vi dico che se la vostra giustizia non sarà maggiore di quella degli Scribi e dei Farisei, non entrerete nel regno dei cieli” (Matteo 5.20) e ancor di più quell’esempio in cui Gesù mette a confronto la preghiera di Fariseo e di un pubblicano: 10Due uomini salirono al tempio a pregare, uno era fariseo e l’altro pubblicano. 11Il Fariseo, ritto in piedi, pregava dentro di sé così: «Ti ringrazio, o Dio, perché io non sono come gli altri uomini, rapaci, ingiusti e adulteri, e nemmeno come quel pubblicano. 12Io digiuno due volte la settimana, pago le decime su tutto ciò che posseggo». 13Il pubblicano, invece, stando da lontano, non ardiva neppure alzar gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo «O Dio, abbi pietà di me, che sono peccatore». 14Io vi dico che questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro: perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato”. Anche qui abbiamo un modello di preghiera errato e uno corretto: il primo resta lì, non va oltre al semplice compiacimento personale (ecco il “premio”) che non porta ad alcun vantaggio nel suo presunto rapporto con Dio, mentre il secondo, al di là del gesto esteriore del battersi il petto, frequente in Israele al pari dello stracciarsi le vesti, porta il frutto della giustificazione addirittura in un tempo in cui Gesù non si era ancora totalmente identificato nel peccatore arrivando a morire e risorgere per lui.

La preghiera del Fariseo che abbiamo letto contiene due “Io” espliciti (“non sono come gli altri uomini” e “digiuno due volte la settimana”) e due impliciti (“Ti ringrazio” e, in osservanza alla legge,  “pago le decime”): un totale di quattro, numero che ci parla dell’uomo, ma soprattutto di stabilità e base su cui costruire e quindi dell’opinione alta, ferma e assoluta che quell’uomo aveva di sé . Nel nostro versetto 5, rileviamo un altro particolare: queste persone è scritto che “amano” fare le cose che abbiamo letto, quindi si compiacciono ancora di più nella loro religiosità ostentata che va a gonfiare il loro orgoglio che si autoalimenta all’infinito impedendo quel processo di esame interiore, di coscienza, che ogni credente è chiamato a compiere. È solo un serio e consapevole inventario delle proprie azioni che può condurre la creatura alla conclusione di essere sempre e solo un peccatore che, per vivere, ha bisogno del perdono di Dio.

Il verso 6 propone invece un profondo cambiamento di rotta, visto nel “Ma tu”. Un invito, un avvertimento personale, molto più rafforzativo di un generico “voi”. “Tu” che leggi le mie parole che un mio servo ha riportato e che sono giunte a te dopo più di 2000 anni, “tu” che mi stai ascoltando su questo monte, “tu” che vuoi esimerti dal metodo ipocrita che ti ho appena descritto o vuoi sapere come fare, “quando preghi, entra nella tua stanza e, chiusa la tua porta, prega il Padre tuo, che è nel segreto, e il tuo Padre che vede nel segreto ti ricompenserà”.

C’è qui una situazione diametralmente opposta alla precedente, tesa a dimostrare l’assoluta intimità del rapporto non più con un Dio altissimo e irraggiungibile, ma con qualcosa di molto più vicino all’uomo. La preghiera comunitaria, così necessaria nell’adorazione e in altre circostanze, passa qui in secondo piano poiché una Chiesa, per definirsi tale, non può che essere composta da persone che hanno un’esperienza privata e personale, appunto, col Padre.

Ora nell’esortazione a entrare nella propria stanza e chiudere la porta c’è un messaggio che non poteva essere ignorato dalle persone allora presenti, poiché è un riferimento alla resurrezione del figlio della Sunamita operata da Eliseo (2 Re 4.32,33) di cui è scritto “Quando Eliseo entrò in casa, vide il fanciullo morto e sdraiato sul suo letto. Egli allora entrò, chiuse la porta dietro a loro e pregò l’Eterno”. Stessa cosa farà l’apostolo Pietro per la resurrezione di Tabita (Atti 9.40) e prima delle sue visioni sul puro e impuro (10.9 e seguenti), per quanto si trovasse sul terrazzo di casa. Le rivelazioni di Dio avvengono sempre quando la persona si trova appartata, e credo non potrebbe essere altrimenti. Nella solitudine, si conosce. Chiedere onestamente l’aiuto di Dio quando si guarda in se stessi è un’azione che produce sempre un risultato.

Nel verso sesto c’è una cronologia: l’intento della preghiera, l’ingresso nella stanza e la chiusura della porta. Le prime due azioni si spiegano da sole, la terza è una condizione. La porta chiusa ci parla di scelta, di condizione seria, del lasciare fuori tutto ciò che è di impedimento tanto all’esposizione che all’ascolto. La preghiera non è mai, non può essere un elenco sterile di bisogni più o meno carnali che vengono presentati a Colui che può, ma un rapporto tra creatura e Creatore qui rivelato come Padre. La chiusura della porta non può essere qualcosa di rituale, un’obbedienza a quanto troviamo scritto in questo passo, ma l’atto finale di un processo spirituale e mentale attraverso il quale rinunciamo a noi stessi consapevoli di non poter nascondere nulla a Colui che ci ha ammessi alla Sua presenza. Il Padre tuo è “in segreto” e “in segreto ricompensa” (alcune traduzioni riportano “ti ricompenserà in palese”) perché a volte l’esaudimento è recepito dal singolo, in altre anche da quanti conoscono il nostro stato e lo vedono mutare.

L’essere “in segreto” del Padre implica la Sua perfetta lettura della coscienza e dei suoi intenti, pronta a rivelarne se del caso la sua ipocrisia e a rendere un premio ad essa proporzionato. L’essere “in segreto” ci parla della profondità del rapporto creatura redenta – Creatore: se nulla può essergli nascosto possiamo avere la certezza, nella preghiera, non tanto del suo esaudimento, ma della correttezza della sua valutazione. Il Padre “riguarda” in segreto, verbo che ci parla della Sua perfetta valutazione e conoscenza del nostro esistere che è al tempo stesso prezioso e, sotto l’ottica dei “servi inutili”, insignificante. Ricordiamo Luca 17.10 “…così anche voi, quando avrete fatto tutto ciò che vi è stato ordinato, dite: «Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare»”.

Il segreto può essere di Dio – i Suoi piani rivelati e non – oppure dell’uomo, temporaneo, pericoloso: quanti segreti abbiamo? Quante cose ci illudiamo di tenere nascoste? Ebbene, “Non vi è nulla di nascosto che non si debba manifestare e nulla di segreto che non venga a risapersi e non venga messo in luce” (Luca 8.17).

Dio è colui che “conosce i segreti del cuore” (Salmo 44.21) e la Sua onniscienza e onnipresenza è ben descritta nel Salmo 139 di cui riportiamo i versi 3 e 4 particolarmente adatti al tema di cui ci stiamo occupando: “Tu esamini attentamente il mio cammino e il mio riposo e conosci a fondo tutte le mie vie. Poiché prima ancora che la parola sia sulla mia bocca tu, Eterno, la conosci appieno”. E infine, un avvertimento di cui tutti noi abbiamo bisogno per il nostro avanzamento spirituale, alla luce del “premio” di cui Gesù ha parlato a proposito del pregare in modo corretto o errato: “Io, l’Eterno, investigo il cuore, metto alla prova la mente per rendere a ciascuno secondo le sue vie, secondo il frutto delle sue azioni” (Geremia 17.10), perché “Non vi è alcuna creatura nascosta davanti a lui, ma tutte le cose sono nude e scoperte agli occhi di colui al quale dobbiamo rendere conto” (Ebrei 4.13). “…e tutte le chiese conosceranno che io sono colui che investiga le menti e i cuori, e renderò a ciascuno di voi secondo le sue opere” (Apocalisse 2.23). Ecco, io credo che, nella preghiera individuale e non solo, il concetto del “segreto” sia racchiuso anche in tutti questi versi che sono stati citati.

La chiusura della porta va fatta con onestà e consapevolezza perché, se non accettiamo ciò che questo comporta, rischiamo di compiere un gesto come tanti, formale, privo di significato, sterile che non va oltre la ricompensa data alla preghiera dei Farisei, degli ipocriti. La “ricompensa” che riceve chi prega non per proprio tornaconto come visto al verso 5, ma si pone di fronte a Dio per avere una risposta – che può essere positiva o negativa – è vista nel dialogo e nella consapevolezza che la preghiera rivolta sia accolta indipendentemente da quello che chiediamo. Troppo spesso si pretende, complice anche un mancato insegnamento sulla preghiera vista più come il presentare un elenco di richieste cui si accompagnano promesse o “voti” poi non mantenuti, che il “premio”, o ricompensa, di cui Gesù parla consista nell’esaudimento di quanto chiediamo: può anche essere, ma non è il primo elemento sul quale ci si deve basare. Piuttosto, vanno tenute presenti le parole che verranno riportate più avanti in 7.11: “Se dunque voi, che siete malvagi, sapete dare buoni doni ai vostri figli, quanto più il Padre vostro, che è nei cieli, darà cose buone a coloro che gliele chiedono?”.

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