07.05 – LE PARABOLE DEL REGNO 4: LA SENAPE E IL LIEVITO (Matteo 13.31-34)

7.05 – Le parabole del regno 4 (La senape e il lievito, Matteo 13.31-34)

 

“31Espose loro un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un granello di senape, che un uomo prese e seminò nel suo campo. 32Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande delle altre piante dell’orto e diventa un albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a fare il nido tra i suoi rami». 33Disse loro un’altra parabola: «Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata». 34Tutte queste cose Gesù disse alle folle con parabole e non parlava ad esse se non con parabole,35perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta: Aprirò la mia bocca con parabole, proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo”.

 

            Matteo, attento espositore profetico-dottrinale, ci pone in successione queste due parabole, effettivamente connesse fra loro, e le fa iniziare direttamente con “Il regno dei cieli è simile a”. Marco e Luca le fanno precedere da una domanda che lo stesso Gesù pone ai suoi uditori: “A cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo?” (Marco 4.30): si tratta di un interrogativo importante perché chi parla, chi lo espone, non è un filosofo o un profeta che ha ricevuto un messaggio, ma Uno che il “regno” lo conosce in quanto partecipe e responsabile del suo progetto e realizzazione. Quel “regno” di cui molti avevano sentito parlare sta quindi per essere spiegato dalla Fonte più autorevole, dall’Unico in grado di esporre una verità così complessa e multiforme. Precedentemente Gesù aveva collegato il “regno dei cieli” ai tipi di uomini che ascoltano la Parola e delle reazioni che hanno di fronte ad essa, poi del fatto che questo prevede uno sviluppo che contempla un tempo per seminare lasciando che i “figli del regno” e i “figli del maligno” crescano insieme, e infine la mietitura in cui gli uni e gli altri verranno raccolti, ma con un diverso destino. Le parabole del seminatore e della zizzania sono quindi una premessa, una panoramica generale che riguarda l’essere umano e come si pone nei confronti del progetto di Dio, mentre quelle della senape e del lievito ci mostrano il suo sviluppo indipendentemente dalla loro volontà.

Per questa terza parabola Gesù sceglie il seme della senape, piccolo, rotondo, che nelle sue dimensioni massime arriva a circa mezzo millimetro. Colpisce, in questa parabola, la figura dell’uomo che decide di piantare un solo seme nel suo campo, a differenza delle precedenti in cui lo scopo è quello di dar vita a una coltivazione precisa, il grano. La senape poteva essere coltivata, seminata attendendo la fioritura annuale e la successiva comparsa dei semi, dai quali si ricavava una farina, ma anche olio, utilizzata sia in cucina che per curare la tosse e varie infiammazioni. Il protagonista di questo racconto vuole però che cresca un albero che avrebbe avuto fronde rigogliose destinate ad ospitare diverse specie di uccelli. Si tratta di un paragone che troviamo in molti punti dell’Antico Testamento che hanno a che fare coi progetti di Dio per il Suo Regno; ad esempio l’uomo che pianta un seme per la soddisfazione di contemplare un grande albero è connesso al Creatore in Ezechiele 17.23.24: “Un ramoscello io prenderò dalla cima del cedro; dalle punte dei suoi rami lo coglierò e lo pianterò sopra un monte alto, imponente; lo pianterò sul monte alto di Israele. Metterà rami e frutti e diventerà un cedro magnifico. Sotto di lui gli uccelli dimoreranno, ogni volatile all’ombra dei suoi rami riposerà. Sapranno tutti gli alberi della foresta che io sono il Signore, che umilio l’albero alto e innalzo l’albero basso, faccio seccare l’albero verde e germogliare l’albero secco. Io, il Signore, ho parlato e lo farò”.

Soffermiamoci brevemente su questo passo: in Israele sarebbe sorto un cedro, albero imponente che può arrivare a 40 o 50 metri d’altezza. Spesso il cedro della Scrittura è quello “del Libano” e trova il suo ambiente ideale in montagna. Anche questa pianta, nelle prime fasi del suo sviluppo, è fragile, ma diventa poi albero resistente, dal legno pregiato, emanando un aroma acuto e penetrante che respinge gli insetti. Il cedro di cui parla Ezechiele non sarebbe stato seminato come l’albero della senape, ma sarebbe nato da un ramoscello preso da un’altra pianta e qui è facile individuare il germoglio, Gesù Cristo quale “virgulto(che) germoglierà dalle sue radici” (Isaia 11.1,2). Ora questo albero piantato “metterà rami e frutti e diventerà un cedro magnifico”, aggettivo usato non da un uomo, ma da Dio stesso per cui riceverà tutta la sua approvazione e compiacimento. Quest’albero ci parla di santità (il suo legno fu usato da Salomone per costruire il tempio, 1 Re 6.14-16) e di purificazione (Levitico 14.6,7). C’è poi il particolare degli “uccelli del cielo” in cui sappiamo che Gesù identifica quelle creature che, nonostante siano apparentemente insignificanti, godono della Sua provvidenza: ricordiamo il sermone sul monte in cui, a proposito delle sollecitudini ansiose, invitò gli uomini a considerare, a parte i fiori del campo, proprio gli uccelli che “…non seminano, né mietono, né ammassano nei granai, eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate forse più di loro?” (Matteo 6.26).

Ezechiele cita poi gli alberi della foresta, questa volta figura degli uomini secondo le loro nazioni messi in relazione anche con gli uccelli che fanno il nido e godono l’ombra: qui le relazioni con altri versi sono almeno due, riferiti ad un tempo che deve ancora venire: “Alla fine dei giorni il monte del tempio del Signore sarà saldo sulla cima dei monti e s’innalzerà sopra i colli, e ad esso affluiranno tutte le genti. Verranno molti popoli e diranno «Venite, saliamo sul monte del Signore». Egli sarà giudice tra le genti e arbitro fra i popoli. Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci; una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione, non impareranno più l’arte della guerra” (Isaia 2.2,4), verso che troviamo identico in Michea 4.1.

Da questa citazione è semplice fare riferimento al cedro piantato sul monte alto e imponente, ma analoga situazione è anche descritta in Zaccaria 8.20-23: “…anche i popoli e abitanti di numerose città si raduneranno e si diranno l’un l’altro – quindi ci sarà concordia – «Su, andiamo a supplicare il Signore, a trovare il Signore degli eserciti. Anch’io voglio venire». Così popoli numerosi e nazioni potenti verranno a Gerusalemme per cercare il Signore degli eserciti e a supplicare il Signore”.

Possiamo fare a questo punto alcune osservazioni: primo, da quel piccolo seme di senape nessuno potrebbe aspettarsi che possa nascere un albero così grande ed utile: dà riparo nelle giornate assolate alle creature. Secondo, è un albero che cresce da solo, senza alcun intervento umano che lo possa rinforzare o guidare in qualche modo nel suo sviluppo. Terzo, è piantato non per un’utilità personale di chi lo semina, ma per l’esclusivo vantaggio di altri che non l’hanno chiesto. Quarto, non è detto cosa faccia quell’uomo del resto del campo: questo non rileva, l’attenzione si focalizza solo sul gesto di chi pianta il seme e sul risultato finale e, infine quinto, qui non c’è nessun “nemico” che viene ad attentare alla vita di quell’albero.

 

Se già da questa parabola è chiara la sproporzione tra ciò che è minimo e quanto è in grado di produrre, quella del lievito lo è ancora di più: la senape nasce da un seme, il pane da un lievito, quindi da un funghi microscopici, i saccaromiceti. L’esempio di Gesù qui è illuminante anche per la scelta del vero agente del suo racconto, non la donna, ma il lievito: su questo punto si sono arenati in tanti perché il lievito è spesso visto in riferimento alla negatività e al peccato che trasforma e inquina l’uomo poco a poco. Qui però non si tratta di dare interpretazioni a senso unico, ma del fatto che esiste sempre una doppia valenza per ciascun elemento del creato; infatti, parlando ai farisei che tenevano molto alla purità formale, Gesù volle farli riflettere  dicendo: “Non è quel che entra nella bocca che contamina l’uomo, ma quello che esce dalla bocca, ecco quel che contamina l’uomo”, (Matteo 15.11).

Il lievito, in questa parabola, è visto al pari del seme di senape come quella forza che si sviluppa nel tempo, cresce indipendentemente dal controllo umano. Entrambi i due elementi giungono a un punto in cui il loro compito giunge a un termine, l’albero con il suo arrivare a uno stadio rigoglioso e il lievito con la formazione di un impasto pronto per il forno. Da notare poi le “tre misure”, nel terzo originale “staia” che formavano un “efa”, quantità sufficiente a sfamare una famiglia.

La parabola del lievito, poi, ha un significato importante perché è la quarta, quella che secondo Matteo è l’ultima ad essere esposta alla folla in pubblico. Leggiamo infatti che “Allora Gesù, licenziate le folle, se ne ritornò a casa e i suoi discepoli gli si accostarono dicendo «Spiegaci la parabola del campo»” (v.26). Da qui in poi ne seguiranno altrettante, riservate solo a loro.

Resta da esaminare il richiamo di Matteo al Salmo 78.2, identico nella forma e nei termini, che descrive il compito del profeta, che Cristo assolveva come Figlio dell’uomo: “Aprirò la bocca con parabole”, quindi per simboli a volte elementari e di facile richiamo, altri complessi e comprensibili grazie allo Spirito Santo, come gli stessi apostoli e discepoli ebbero modo di sperimentare quando discese su di loro e compresero le parole che il Maestro aveva loro trasmesso. La seconda parte del verso è poi illuminante perché spiega il motivo per cui il profeta parla in modo non comprensibile a tutti: spiega “cose nascoste fin dalla fondazione del mondo” e qui emerge tutto il cammino tanto del singolo, che saputa la vitale importanza di queste le investiga “come i tesori” quali effettivamente sono, quanto della Chiesa intesa non come struttura più o meno gerarchica, ma come la grande Comunità dei credenti sparsi nelle varie denominazioni che la rendono viva e unica.

Concludendo, è facile vedere nei due elementi proposti da Gesù lo sviluppo del regno, che partì ufficialmente proprio da Lui: prima un uomo solo, poi dodici chiamati all’apostolato, poi 120, poi tremila in un solo giorno (Atti 2.41), quindi cinquemila (4.4), il tutto difficilmente non accostabile alla figura del seme che diventa arbusto e quindi albero, o al lievito.

Se la Scienza si pone ogni interrogativo possibile sui fenomeni fisici e chimici presenti nel mondo naturale, le parabole, e quindi le verità assolute trasmesseci attraverso la Scrittura, contengono la risposta ad ogni perché della nostra realtà spirituale. E i racconti fin qui esaminati hanno affrontato temi importanti quali la divisione delle anime, la separazione tra i figli di Dio e quelli che non lo sono ed infine cosa sia il Regno dei cieli, che per ora non si vede o di lui si sente parlare senza prestarvi attenzione, ma destinato ad apparire in tutta la sua realtà, come l’albero sotto il quale le creature si riparano o come il lievito che dà origine a qualcosa che diventa idoneo a sfamare. Perché non veniamo lasciati soli, mai.

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