11.05 – LA DONNA SIROFENICIA (Marco 7.24-30)

11.05 – La donna siro fenicia (Marco 7.24-30)

 

24Partito di là, andò nella regione di Tiro. Entrato in una casa, non voleva che alcuno lo sapesse, ma non poté restare nascosto. 25Una donna, la cui figlioletta era posseduta da uno spirito impuro, appena seppe di lui, andò e si gettò ai suoi piedi. 26Questa donna era di lingua greca e di origine siro-fenicia. Ella lo supplicava di scacciare il demonio da sua figlia. 27Ed egli le rispondeva: «Lascia prima che si sazino i figli, perché non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini». 28Ma lei gli replicò: «Signore, anche i cagnolini sotto la tavola mangiano le briciole dei figli». 29Allora le disse: «Per questa tua parola, va’: il demonio è uscito da tua figlia». 30Tornata a casa sua, trovò la bambina coricata sul letto e il demonio se n’era andato.

 

Se per affrontare questo episodio è stata necessaria una premessa, altrettanto lo è una precisazione importante e cioè che Marco e Matteo presentano versioni differenti: il primo, che sappiamo scrive basandosi su quanto gli rapportava Pietro, scrive “andò nella regione di Tiro”, che letteralmente sarebbe “verso i territori” (Diodati traduce “ai confini di Tiro e Sidone”). Matteo, più ricco in particolari, riporta “si ritirò verso la zona di Tiro e Sidone”, letterale “dalle parti”, lasciando supporre che Gesù fosse entrato in territorio pagano. Nel capitolo precedente è stata scelta questa ipotesi e si sono fatte alcune applicazioni spirituali credo corrette e non rettificabili, ma è necessario sottolineare che sempre Matteo scrive “Ed ecco una donna cananea, che veniva da quella regione”, letterale “uscita da quei territori”, oppure “da quei confini”. Può quindi essere, secondo questi dati, che in realtà Nostro Signore fosse ancora in Galilea, molto prossimo ai territori pagani e che la donna, per raggiungerlo, abbia attraversato il confine tra la Fenicia e la Galilea superiore. C’è incertezza in merito, poiché “i territori” potrebbero alludere anche alla regione in cui l’innominata apparteneva e quindi Gesù avrebbe potuto essere comunque fuori dalla Galilea. Teniamo presente che i due evangelisti non si prefiggono gli stessi scopi, perché Matteo scrive per gli ebrei e Marco, dalla capitale dell’impero, per i Romani per cui i particolari possono differire tra loro.

Anche le origini della donna sono diverse: per Matteo è cananea, quindi appartenente a un popolo visto negativamente perché erede della maledizione di Noè, i cui antenati furono cacciati dagli ebrei dopo la conquista del “paese di Canaan”. Matteo pone così in evidenza il fatto che la donna apparteneva a ciò che restava dell’antica popolazione pagana che abitava la Siria-Palestina prima degli ebrei; Marco la chiama “siro fenicia” perché la fenicia faceva parte della provincia romana di Siria. Riguardo all’itinerario seguito da Gesù, comunque, va detto che molti commentatori parlano addirittura di un “viaggio in Fenicia” dalla quale poi giunse nella Decapoli, dove vi fu la guarigione di un sordomuto e avvenne la seconda moltiplicazione dei pani.

Fatte queste precisazioni, spostiamo la nostra attenzione sulla donna, “la cui figlioletta era posseduta da uno spirito impuro”; non ci viene detto in che modo si caratterizzava questa entità, ma certamente, per il comportamento adottato, non credo costituisca un azzardo paragonarla alla donna emorroissa che “aveva speso tutti i suoi beni con i medici senza poter essere guarita da nessuno” (Luca 8.43). Pur non venendo gli effetti dello “spirito impuro” classificati come una malattia, certamente esistevano anche presso i pagani esorcisti e sacerdoti degli dèi più disparati che avranno cercato in tutti i modi di guarire quella giovane. E tutte le speranze di guarigione si infrangevano puntualmente nel momento in cui ci si trovava di fronte al limite, non superabile, tra la conoscenza e le possibilità umane e ciò che sta oltre. Il testo di entrambi gli evangelisti non specifica da quanto tempo durasse questo stato; fatto sta che quella donna, saputo della presenza di Gesù, “uscì dai suoi confini” – quindi anche quelli etnici e di eredità spirituale negativi in quanto pagana – per andare da Lui, consapevole che sarebbe stato l’Unico in grado di guarire la propria figlia.

A questo punto è bene considerare la cronaca di Matteo che, dopo le parole imploranti di quella madre, scrive “…ma egli non le rivolse neppure una parola. Allora i suoi discepoli gli si avvicinarono e lo implorarono:  «Esaudiscila, perché ci viene dietro gridando!». Egli rispose: «Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa di Israele»” (15. 23,24). Abbiamo qui un particolare non irrilevante, perché i discepoli si rivelano attenti più alla loro tranquillità e al non venire infastiditi, generalizzando così il piano di Dio allora rivolto unicamente al loro popolo.

Il verso 23 che ho riportato, allora, ci parla di una richiesta incessante rivolta a Gesù, paragonabile a quella dei due ciechi in Matteo 9.27 che lo seguirono fino a casa sua. Le continue grida della cananea avevano finito per infastidire i discepoli che addirittura “implorarono” il loro Maestro di esaudirla, ma la risposta che ottennero escludeva qualsiasi intervento in merito: nel Suo ministero terreno non era stato mandato ai pagani, ma solo “le pecore perdute della casa d’Israele” avrebbero dovuto essere i destinatari del Vangelo e dei suoi effetti. Notare l’aggettivo “perdute”, cioè solo quelle che si erano perse e avevano questa consapevolezza più o meno accentuata, non le altre dello stesso popolo, che nell’Avversario avevano trovato il loro pastore. Ricordiamo che gli scribi e farisei non chiesero mai un miracolo a Nostro Signore per venire guariti, ma solo per metterlo alla prova.

Dal testo pare che Gesù si disinteressasse della condizione di quella madre implorante; anzi, dal comportamento duro avuto nei suoi confronti si potrebbe ipotizzare che non volesse avere nulla a che fare con lei anche perché “figlio di Davide”, con cui gli si rivolge all’inizio, era un appellativo di cui non poteva appropriarsi perché racchiudeva tutto un significato di benedizione e promessa che solo un ebreo poteva pronunciare. Non a caso, infatti, Matteo inizia il suo Vangelo proprio con la frase “Genealogia di Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abrahamo”.

Alle parole di Gesù sulla sua missione, ancora Matteo scrive “Ma quella gli si avvicinò e si prostrò davanti a lui dicendo: «Signore, aiutami!»”, segno che comprese quella frase, per cui da un “Pietà di me Signore, Figlio di Davide” evidentemente pronunciato in piedi camminando, passa al prostrarsi chiedendo un aiuto ancora più implorante del primo, ma ottenendo una risposta per lei durissima: “Lascia prima che si sazino i figli, perché non è bene prendere il pane dei figli e darlo ai cagnolini”. E gli ebrei definivano appunto “cani” – cioè animali impuri – tutti i pagani. Come scrive un fratello, “la missione di Gesù era limitata a Israele perché il disegno di Dio era che i beni messianici della salvezza portati dal Figlio di Davide dovevano essere riservati a quel popolo e solo eccezionalmente i pagani avrebbero potuto parteciparvi attraverso una fede supplicante che riconoscesse il privilegio dei Giudei e considerasse puro dono la salvezza divina”. C’è infatti una sostanziale differenza fra pagani ed ebrei: “Essi sono Israeliti e possiedono l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi; da essi proviene Cristo secondo la carne, lui che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli, amen”.

Con le sue parole, Gesù pone la cananea nella posizione storica di essere umano allora impossibilitato a godere dei privilegi che avrebbe avuto se fosse stata appartenente al popolo ebraico, distinzione che verrà abolita più avanti, nella dispensazione della Grazia quando i due popoli, pagani ed ebrei, sarebbero diventati uno solo: “Ora invece, in Cristo Gesù, voi che allora eravate lontani, siete stati avvicinati mediante il sangue di Cristo. Lui infatti è la nostra pace; lui che dei due popoli ne ha fatto uno solo” (Efesi 2.13,14).

Ora, a quei tempi, tale muro esisteva ancora, ma a questo punto la risposta della cananea diventa confessione pubblica: “Signore, anche i cagnolini sotto la tavola mangiano le briciole dei figli”; si tratta di parole che esprimono completamente la posizione da lei assunta e cioè che era conscia del fatto di non appartenere al popolo eletto cui spettava il diritto di essere chiamati “figli” e di stare a “tavola”, ma chiedeva solo le briciole e non il pane. A lei bastavano gli avanzi e quelli sapeva di poter chiedere.

In Marco leggiamo la riposta: “Per questa tua parola, va’: il demonio è uscito da tua figlia”, mentre in Matteo “Donna, grande è la tua fede”, parole che irrompono nella narrazione con una forza unica perché sono le stesse, per lo meno per contenuto, date ad altri uomini o donne ebrei perché la fede è una indipendentemente dal popolo cui si appartiene, come la sofferenza.

Anzi, potremmo aggiungere che parole simili Nostro Signore le utilizzò una sola volta, nel caso del Centurione: “In verità io vi dico, in Israele non ho trovato nessuno con una fede così grande” (Matteo 8.10), ma a conferma che la presunzione di essere qualcosa o qualcuno rappresenta un ostacolo insormontabile per presentarsi davanti a Dio in modo risolutivo, ricordiamo anche la frase “Vi dico che c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elia, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese, ma a nessuna di esse fu mandato Elia, se non a una vedova in Sarepta di Sidone. C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo, ma nessuno di loro fu risanato se non Naaman, il Siro”.

Senza quel percorso di sofferenza, partito dal vedere la propria figlia posseduta dallo spirito impuro senza che nessuno lo fermasse, proseguito con il non vedersi ascoltata da Gesù e respinta perché non appartenente al popolo di Dio, la cananea non sarebbe arrivata da nessuna parte; non avrebbe mai potuto risolvere il problema della propria figlia, condannata ad una vita di dolore ed emarginazione senza alcuna possibilità di un futuro, per quanto umano.

Quella donna ebbe la sua briciola e se Matteo scrive “da quell’ora la sua figlia fu guarita”, Marco aggiunge il particolare “Tornata a casa sua, trovò la figlia seduta sul letto e il demonio se ne era andato”: fece allora, andando a Gesù, un viaggio nel dolore, ma un ritorno sereno con la certezza di essere esaudita. A una gioia moderata, ne seguì poi una completa vedendo la bambina, o ragazza non sappiamo, “seduta” esattamente come l’indemoniato guarito a Gadara, o Gherghesa. E va sottolineato che la posizione seduta, per noi è normale, richiede in realtà un forte equilibrio e controllo della muscolatura impensabile per molti tipi di infermità, ma in particolare per la sconnessione che uno spirito impuro porta nella persona.

La cananea innominata non sapeva che la sua vicenda, attraverso Matteo e Marco, si sarebbe tramandata nei secoli. E a ben guardare, riguardo alla soluzione di un importante problema, la stessa cosa capita anche a noi, che certamente non verremo ricordati da nessuno, ma certamente da Dio, quando ci ritroviamo liberati da situazioni impossibili a risolversi senza il Suo intervento d’amore in quanto suoi figli. Amen.

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