13.23 – IL GRAN CONVITO III/III (Luca 14.15-24)

13.23 – Il gran convito III (Luca 14.15-24) 

 

15Uno dei commensali, avendo udito questo, gli disse: «Beato chi prenderà cibo nel regno di Dio!». 16Gli rispose: «Un uomo diede una grande cena e fece molti inviti. 17All’ora della cena, mandò il suo servo a dire agli invitati: «Venite, è pronto». 18Ma tutti, uno dopo l’altro, cominciarono a scusarsi. Il primo gli disse: «Ho comprato un campo e devo andare a vederlo; ti prego di scusarmi». 19Un altro disse: «Ho comprato cinque paia di buoi e vado a provarli; ti prego di scusarmi». 20Un altro disse: «Mi sono appena sposato e perciò non posso venire». 21Al suo ritorno il servo riferì tutto questo al suo padrone. Allora il padrone di casa, adirato, disse al servo: «Esci subito per le piazze e per le vie della città e conduci qui i poveri, gli storpi, i ciechi e gli zoppi». 22Il servo disse: «Signore, è stato fatto come hai ordinato, ma c’è ancora posto». 23Il padrone allora disse al servo: «Esci per le strade e lungo le siepi e costringili ad entrare, perché la mia casa si riempia. 24Perché io vi dico: nessuno di quelli che erano stati invitati gusterà la mia cena»».

 

            In questa terza ed ultima parte ci occuperemo dell’ultima delle tre categorie di invitati, non prima di riportare la versione corretta del testo del verso 21, “Va’ fuori per le vie e per le siepi e costringili ad entrare, affinché la mia casa sia piena”. Una migliore traduzione pone ancora di più l’accento sul “fuori”e riporta “Esci per le campagne”, a sottolineare un territorio che non ha a che vedere con quello cittadino e che simboleggia le popolazioni pagane, raggiunte dal messaggio evangelico dopo il rifiuto dei Giudei.

Ricordiamo ciò che disse Gesù alla donna cananea, “Io non sono mandato se non alle pecore perdute d’Israele”quando ancora non vi era stata l’apertura ad altri popoli, ma poi, progressivamente, furono proprio i pagani a rispondere visti nella pericope di Isaia 42.4 “…le isole attendono il suo insegnamento”. Tutto questo senza contare quanto detto a proposito nell’insegnamento sul buon pastore: “Ho altre pecore che non sono di quest’ovile: anche queste io devo condurre”(Giovanni 10.16).

Nella prima e seconda frase dette al servo una volta ricevuto il rifiuto dei legittimi invitati notiamo che c’è una parte comune e una che diverge: la prima è la categoria di persone a cui il servo passa l’annuncio, “i poveri, gli storpi, i ciechi e gli zoppi”, cioè persone menomate in un modo o in un altro, non necessariamente nel corpo, disprezzati o tollerati dalla società. Ricordiamo fra l’altro anche Levitico 21.16-23: “Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla ad Aronne dicendo: «Nelle generazioni future nessun uomo della tua stirpe che abbia qualche deformità potrà accostarsi ad offrire il pane del suo Dio; perché nessun uomo che abbia qualche deformità potrà accostarsi: né un cieco né uno zoppo né uno sfregiato né un deforme, né chi abbia una frattura al piede o alla mano, né un gobbo né un nano né chi abbia una macchia nell’occhio o la scabbia o piaghe purulente o i testicoli schiacciati. Nessun uomo della stirpe del sacerdote Aronne con qualche deformità si accosterà per presentare i sacrifici consumati dal fuoco in onore del Signore. Ha un difetto: non si accosti quindi per offrire il pane del suo Dio. Potrà mangiare il pane del suo Dio, le cose sacrosante e le cose sante; ma non potrà avvicinarsi al velo né accostarsi all’altare, perché ha una deformità. Non dovrà profanare i miei luoghi santi, perché io sono il Signore che li santifico»”.

 

In questo caso la “società” è proprio quella di coloro che rifiutarono il Vangelo ai tempi di Gesù, quella invitata originariamente al convito, ma se andiamo a considerare i termini impiegati nel verso “Esci subito per le piazze e per le vie della città”, vediamo che i luoghi in cui il servo sarebbe dovuto passare comprendono tanto le vie larghe che conducevano alle piazze (plateias), quando quelle secondarie, quelle strette, le traverse, i sentieri (rumas). Il servo, tramite il Vangelo, raggiunge chiunque, non lascia nulla di intentato per arrivare agli uomini nel senso che nessuno di loro viene escluso. Se mai, lo fa da sé.

Diverso invece è per quelli “fuori”dalla città: viene detto all’inviato di andare “per le strade e lungo le siepi e costringili a entrare”. Anche lì ci sono strade, ma sono aperte, fuori dalle mura a sottolineare che la residenza in città è preclusa a chi non può entrare, che la vera società è lì e chi non vi abita ne è escluso. Le mura infatti sono certamente una difesa, ma anche la rivendicazione di uno status. Anche la citazione della siepe è importante, perché anche quella ci parla di una proprietà privata che circonda e difende chi l’ha costruita; anche se può simboleggiare la protezione di Dio come in Giobbe 1.10, quando l’Avversario disse a Dio “Non sei forse tu che hai messo una siepe intorno a lui e alla sua casa e a tutto ciò che è suo? Tu hai benedetto il lavoro delle sue mani e i suoi possedimenti si espandono sulla terra”, la siepe è qualcosa riferito proprio ad una iniziativa di difesa della proprietà umana, come nella parabola delle vigna di Matteo 21.33 o Marco 12.1 di cui è detto che fu circondata da quella, ma possiamo citare anche Siracide 36.27, “Dove non esiste siepe, la proprietà viene saccheggiata”. Chi sta “lungo la siepe”, solitamente molto spinosa, sa di non poterla oltrepassare, può solo percorrerne il perimetro per trovarne la porta e aspettare o chiedere un aiuto caritatevole che non è detto che arrivi. Stare “lungo la siepe”, allora, è indice di una povertà e un bisogno ancora maggiore rispetto ai poveri e ai menomati di prima che, almeno, potevano trovare rifugio nella città.

 

C’è poi un particolare non da poco nelle parole rivolte al servo per questa seconda missione, cioè “costringili a entrare”, che ci parla non di forza o violenza, ma di persuasione, di richiamo, parole che corrispondono al nostro vissuto. Per quanto mi riguarda, quando ho ricevuto l’annuncio del Vangelo non ho risposto subito, pur non avendolo escluso a priori: ho avuto bisogno di tempo per pensare, per chiedermi se quanto mi veniva prospettato fosse vero, di sperimentare, guardarmi attentamente dentro per valutare se quanto provavo fosse reale o qualcosa che era solo nella mia mente. Solo quando sono stato “convinto”, “costretto”ho accettato, e come me credo tutti quelli che ora sono figli di Dio. Perché nascere “di acqua e di spirito”è qualcosa che non si trasmette ereditariamente.

Il “costringili ad entrare”si raccorda allora con la capacità che ha la Parola di Dio, attraverso lo Spirito Santo, di convincere la persona di peccato, giustizia e giudizio e quindi stravolgerne l’esistenza; ricordiamo infatti la Sua caratteristica: “La Parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore. Non vi è creatura che possa nascondersi davanti a lui, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi suoi e noi dobbiamo rendere conto” (Ebrei 4.12,13).

Si potrebbe osservare che ciò vale per tutti gli uomini indipendentemente dalla loro etnia, ma i pagani, a differenza degli ebrei, devono rinunciare a un bagaglio storico penalizzante, anche se la rivoluzione interiore è la stessa. Parlare con un ebreo convertito è un’esperienza molto particolare perché ci si rende conto di quanto per lui sia agevole comprendere la Scrittura, che infatti fu data al suo popolo e non ad altri.

L’esperienza col Dio vivente è stravolgente per chiunque e non per nulla scrive Geremia “Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre. Mi hai fatto violenza, e hai prevalso”(20.7). Ecco perché Gesù disse “Dai giorni di Giovanni il Battista fino ad ora, il regno dei cieli subisce violenza e i violenti se ne impadroniscono”(Matteo 11.22). Chi fu “costretto ad entrare”e subì la violenza di Dio fu Saulo di Tarso quando era diretto a Damasco in Atti 9 e possiamo dire che tutto questo, il costringere, consiste in quella forza d’attrazione che fa Padre sugli uomini in Giovanni 6.44, “Nessuno può venire a me, se il Padre non lo attrae”.

Sotto certi aspetti, la vita stessa del cristiano è fatta di violenza, solo che questa viene esercitata nei confronti dell’ “uomo vecchio”e non certo sul nostro prossimo: nessuno è chiamato ad usare un cilicio o a punizioni corporali, ma a reprimere e gestire gli stimoli della carne che tenderà sempre ad avere il sopravvento; ricordiamo l’amputazione della mano e il cavare l’occhio di cui abbiamo parlato in un precedente capitolo. Ancora meglio, per comprendere il concetto, quanto scrive l’apostolo Paolo ai credenti di Roma: “Quelli che vivono secondo la carne, pensano alle cose della carne; quelli che invece vivono secondo lo Spirito, alle cose dello Spirito. Ma i desideri della carne portano alla morte, mentre i desideri dello Spirito portano alla vita e alla pace. (…) Se vivete secondo la carne, voi morirete; se invece con l’aiuto dello Spirito voi fate morire le opere del corpo, vivrete” (8.5-13).

La costrizione “ad entrare”si verifica proprio nel momento in cui un uomo capitola dinnanzi a Dio facendo morire l’uomo vecchio prima che questo muoia davvero, quando la porta del Regno verrà chiusa e dovrà affrontare quella che è chiamata “la seconda morte”.

Torniamo alla parole del signore al servo: tutto questo mandarlo per la città e fuori ha un solo fine, “perché la mia casa si riempia”. Se ragioniamo secondo il metro umano è qualcosa che non ha senso perché non si capisce per quale ragione una persona altolocata possa desiderare di avere la propria dimora piena di sconosciuti, per di più non certo della sua estrazione sociale. Ho conosciuto rarissime persone che, periodicamente, offrivano pasti a gruppi di indigenti, ma lo facevano sempre fuori dalle proprie abitazioni, senza mangiare con loro; davano incarico ad altri di organizzare la cosa, il pasto avveniva e tutto finiva lì. Oggi abbiamo la Caritas ed altre organizzazioni che si impegnano in tal senso, ma si tratta di qualcosa di ancora diverso: non c’è una festa, ma esistenze che scorrono e si ritrovano il giorno successivo, non c’è una porta che si chiuda per separare i convenuti dagli altri perché è proprio da quel chiudere che comincia una nuova vita.

Nel nostro caso, invece, sì. Un uomo ricco, abitante in una casa immensa come emerge dal contesto, chiama alla sua mensa le categorie di cui abbiamo letto che, senza quell’invito, non solo non sarebbero mai potute entrare, ma tantomeno mangiare cibi che sicuramente non avevano mai gustato. Queste persone vengono prese così come sono e tali entrano nella dimora del padrone: sono sporchi, malvestiti come tutti coloro che vivono a stento, esattamente come qualunque persona che viene invitata ancora oggi da Dio, poiché il tempo della grazia non è finito. Spiritualmente, anche noi non eravamo degni e ci accontentavamo di quel poco d’ombra che poteva offrire una siepe e di mendicare ad altri un nutrimento che non bastava, eppure un giorno è arrivato il Servo e ci ha invitato.

A conclusione viene spontaneo domandarci il perché delle differenti versioni della parabola: questa sicuramente, secondo il costume dei rabbini, fu ripetuta da Gesù più volte e in diverse occasioni, Matteo 22 compresa, stante il fatto che il Suo pubblico non era lo stesso, con varianti che si adattavano alle sfumature che via via Nostro Signore voleva sottolineare.

Qui la parabola termina con parole molto amare che denotano non il fatto che il padrone di casa si sia offeso, ma che è il comportamento di chi rifiuta il suo invito a determinarne l’esclusione: con le parole “Nessuno di quelli che erano stati invitati gusterà la mia cena”, Gesù si mette per la prima volta sullo stesso piano del padrone di casa, anzi, praticamente rivela di essere la stessa cosa come in effetti è, perché “Io e il Padre siamo una cosa sola”(Giovanni 10.30). Possiamo anche fare un raccordo con un passo letto recentemente a conclusione della parabola dei servi che vegliano: “Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà sedere a tavola e passerà a servirli”(Luca 12.37).

Credo non ci potesse essere modo migliore per finire quell’incontro: Gesù era stato invitato da quel capo dei farisei non per riguardo, ma perché potesse essere studiato, attentamente e da vicino; guardando come le persone si accalcavano per avere i posti migliori, inizia una lezione di umiltà che certo non capirono, poi passa a dare un insegnamento su cosa sia la carità che porta alla “ricompensa alla resurrezione dei giusti”e infine, sempre partendo dalla situazione del banchetto, apre un grosso squarcio sulla prospettiva del regno dei cieli, sull’invito più e più volte fatto dai profeti a un popolo che pareva tanto più allontanarsi quanto più Dio si avvicinava loro. Amen.

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