13.22 – IL GRAN CONVITO II (Luca 14.15-24)

13.22 – Il gran convito II (Luca 14.15-24)  

 

15Uno dei commensali, avendo udito questo, gli disse: «Beato chi prenderà cibo nel regno di Dio!». 16Gli rispose: «Un uomo diede una grande cena e fece molti inviti. 17All’ora della cena, mandò il suo servo a dire agli invitati: «Venite, è pronto». 18Ma tutti, uno dopo l’altro, cominciarono a scusarsi. Il primo gli disse: «Ho comprato un campo e devo andare a vederlo; ti prego di scusarmi». 19Un altro disse: «Ho comprato cinque paia di buoi e vado a provarli; ti prego di scusarmi». 20Un altro disse: «Mi sono appena sposato e perciò non posso venire». 21Al suo ritorno il servo riferì tutto questo al suo padrone. Allora il padrone di casa, adirato, disse al servo: «Esci subito per le piazze e per le vie della città e conduci qui i poveri, gli storpi, i ciechi e gli zoppi». 22Il servo disse: «Signore, è stato fatto come hai ordinato, ma c’è ancora posto». 23Il padrone allora disse al servo: «Esci per le strade e lungo le siepi e costringili ad entrare, perché la mia casa si riempia. 24Perché io vi dico: nessuno di quelli che erano stati invitati gusterà la mia cena»».

 

            Siamo così giunti alla seconda parte del verso 21 cioè quando, una volta che il servo riferisce al suo signore la reazione degli invitati alla “grande cena”, la reazione è “adirato, disse al servo”. È questo un particolare che ci consente alcune riflessioni perché il verso ci pone davanti ad una delle caratteristiche di Dio, quella dell’adirarsi, non meno importante dell’amore profondo che nutre per la creatura perché, se fosse solo amore, non sarebbe perfetto. Piuttosto, il Signore Iddio è l’essere Vivente (e in quanto tale datore di vita) in cui convivono in modo assolutamente equo pietà, misericordia, carità, giustizia, ira, vendetta e potenza; possiamo dire che il modo in cui si rivela dipende dall’uomo, dal suo comportamento e da ciò che lo abita, posto che l’agire di Dio sarà sempre volto al recupero della creatura prima di condannarla.

Esemplare in proposito Ezechiele 33.11: “Com’è vero che io vivo (oracolo del Signore Dio), io non godo della morte del malvagio, ma che il malvagio si converta dalla sua malvagità e viva. Convertitevi dalla vostra condotta perversa! Perché volete morire, o casa d’Israele?”. In questo richiamo di Dio al popolo, uno dei tanti nel corso della sua storia, vediamo che solo dopo un ostinato rifiuto alla conversione arriverà il giudizio, non prima. E l’invito ad abbandonare un’esistenza disordinata per essere ciò per cui si era stati eletti, cioè servire, è, fatte le debite proporzioni, lo stesso della “grande cena” perché in quel “e viva” di Ezechiele non si allude a una sopravvivenza, ma a una vita piena, di benedizione e crescita davanti a Dio, che del convito altro non è che il preludio.

Ancora, guardando agli attributi di Dio che sono stati elencati, ovviamente in parte, poco sopra, si può considerare che ciascuno di essi, se fosse prevalente, andrebbe a turbare il Suo comportamento e non potremmo fidarci di Lui: in altri termini se Dio fosse solo amore, allora perdonerebbe tutti e il “paradiso” sarebbe popolato dalla stessa accozzaglia umana con la quale siamo costretti a convivere. Se Dio fosse solo giustizia, nessuno di noi scamperebbe e il “paradiso” sarebbe desolatamente vuoto, con solo Lui e le schiere celesti; mancherebbe l’uomo creato proprio perché serviva un essere tratto dalla terra che fosse amato e Lo amasse.

So di dire una frase forte, ma è come se Dio avesse avuto bisogno dell’uomo perché al di fuori di lui nessuno poteva dirsi spirituale e al tempo stesso costituito dalla stessa materia che avrebbe dato nome al pianeta, la Terra. E il nome stesso Adamo significa “fatto di terra”. Adamo e sua moglie furono gli unici esseri chiamati ad esercitare il libero arbitrio al contrario dell’Avversario e dei suoi angeli, che scelsero deliberatamente di ribellarsi. Si tratta di due cose diverse.

Tornando in tema, abbiamo visto gli effetti che vi sarebbero se Dio fosse esclusivamente amore, ma se fosse solo – ad esempio – da temere o (ancora) giustizia, certo dovremmo subire i suoi giudizi attimo dopo attimo, senza speranza di riscatto perché non saremmo mai idonei a sostenerne la presenza tanto nella nostra vita terrena quanto in quella futura. E chi ha vissuto o vive con persone irascibili e disturbate sa cosa voglio dire.

Questa è una delle ragioni per le quali fu ordinato il profumo quale parte integrante dell’incontro con Dio: “Prenditi degli aromi, della resina, della conchiglia odorosa, del galbano, degli aromi, con incenso puro e in dosi uguali; ne farai un profumo composto secondo l’arte del profumiere, salato, puro, santo; ne ridurrai una parte in minutissima polvere, e ne porrai davanti alla testimonianza nella tenda del convegno, dove io m’incontrerò con te. Esso vi sarà una cosa santissima” (Esodo 30.34-36). Ora quel profumo, che non a caso doveva essere presente “dove io m’incontrerò con te”, rappresentava ciò che l’uomo avrebbe dovuto essere e che Dio avrebbe fatto per lui dandogli in dono il Figlio, perfetto in ogni cosa come l’incenso suggeriva: anche nel Figlio, infatti, dimoravano in parti uguali le caratteristiche del Padre. Certo fu l’amore e il servizio instancabile per la creatura ad emergere, ma ciò fu in quanto figlio dell’uomo e in modo ben diverso si rivelerà al Suo ritorno.

Il profumo, poi, ci parla anche di come dobbiamo/dovremmo essere noi tanto nei rapporti con la nostra persona, quanto con gli altri per non caderne vittima: la nostra disponibilità non può trasformarsi in servilismo, mai e per nessuno. Il nostro perdono non può essere dato a prescindere dal comportamento che il nostro prossimo ha per noi. La nostra eventuale “ira” non può sfociare nel peccato, la nostra dignità, come figli di Dio, non può essere calpestata da nessuno. E guardando a Gesù, questo fu il suo comportamento, fatto salvo per la crocifissione per quanto, anche lì, esisteva un limite che nessuno avrebbe potuto superare, come testimonia il fatto della lancia e delle gambe che non furono spezzate, come scritto: “Questo avvenne perché si adempisse la Scrittura: «Non gli sarà spezzato alcun osso». E un altro passo dice “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto” (Giovanni 19.36-37).

A volte si dimentica che non esistono qualità più importanti nel credente, ma che devono albergare in modo bilanciato per fare di noi delle persone equilibrate nel servizio e nella testimonianza, posto che sappiamo la carità essere la più importante di tutte, che però viene temperata dalle altre ed è l’essere “bambini quanto a malizia, ma uomini maturi quanto ai giudizi” (1 Corinti 14.20).

 

Bene, è stata fatta questa premessa perché non sono pochi quanti, a fronte dell’adirarsi di Dio, si sentono in grado di giudicarlo quasi che fosse – come in effetti vorrebbero – pronto a soddisfare ogni loro desiderio, aspettativa, preghiera. Ma si tratta di un Dio creato dall’uomo, non certo di quello Vivente e Vero.

In questa parabola il “signore” si adira perché tutte le scuse accampate dagli invitati sono un oltraggio non solo a lui, ma alla propria disponibilità: voleva accogliere le persone che conosceva e lo conoscevano, col quale c’erano stati dei rapporti e sapevano della sua disponibilità. Ecco perché abbiamo letto “ti prego di scusarmi” e “non posso venire” usando come pretesto una norma legale interpretata.

Anche qui, ricollegandoci a quanto espresso in precedenza, quelle persone avevano equivocato, scambiato la disponibilità con debolezza nel senso che, secondo loro, chi era stato tanto generoso lo sarebbe sicuramente stato ancora, ma sappiamo, anche per la nostra conoscenza sommaria, che quando nelle parabole c’è un convito questo è il riassunto finale delle esistenze che in Dio si compendiano o meno prima che l’eternità abbia inizio, per cui c’è una porta che si chiude per sempre; chi sarà dentro sarà dentro, chi sarà fuori sarà fuori, chi in un mondo, chi in un altro, senza possibilità di interscambio.

Proseguendo, vediamo che al servo viene dato un altro incarico: “Esci subito per le piazze e per le vie della città e conduci qui i poveri, gli storpi, i ciechi e gli zoppi”, la stessa categoria di persone citata da Gesù al capo dei farisei che lo aveva invitato, ma che qui hanno un altro significato perché, paradossalmente, viene chiesto al servo di chiamare proprio quel genere di persone che a quel convito non avrebbero potuto partecipare in quanto si trattava di qualcosa di riservato a chi si conosceva. Viene quindi da pensare che gli invitati da quell’ “uomo” fossero proprio i naturali eredi di quanti avevano tramandato e conservato la Parola di Dio poi trasmessa al popolo insegnandola, queli che per primi avrebbero dovuto riconoscere inequivocabilmente Gesù come l’inviato di Dio, il Messia.

È tra l’altro molto importante tenere presente che chi dà il convito era superiore per rango a tutti gli invitati, che certo non avrebbero mai potuto permettersi di organizzare quanto quel signore aveva apparecchiato per loro.

A questo punto sorge però una questione, e cioè per quale motivo vengono chiamate al banchetto, dopo il rifiuto dei legittimi destinatari, persone che non avevano nulla a che fare con l’ideatore – organizzatore della “gran cena”: escludendo l’ipotesi che ciò sia avvenuto per evitare uno spreco di cibo, non resta altro pensiero se non quello che, adirato con coloro che avevano disprezzato il suo gesto, quell’uomo abbia voluto restare fedele alla sua benignità: prende atto del rifiuto, dell’indifferenza di coloro ai quali l’invito spettava direi “di diritto” per le relazioni con lui, e si rivolge ad altri, sempre però – attenzione – residenti “in città”, quindi all’interno delle mura, quindi sempre, presumiamo con un buon margine di certezza, israeliti benché sprezzati dai loro orgogliosi fratelli in quanto poveri e storpi.

Ecco allora che tutte queste persone rappresentano proprio i disprezzati dai Giudei, cioè quei “pubblicani e peccatori” che invece Gesù accoglieva e lo seguivano, a differenza loro.

Ricordiamo quando avvenne, ad esempio alla chiamata di Levi Matteo, quando offrì anche lui un convito: “Mentre sedeva a tavola nella casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e se ne stavano a tavola con Gesù e con i suoi discepoli, Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli; «Come mai il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?” (9.10,11). Quasi commovente poi è la nota di Luca che precede l’esposizione della parabola della pecora smarrita: “Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro»” (15.1,2).

 

Tornando al testo, il servo di quel signore fa ancora una volta come ordinato, ma il rapporto che presenta denota che l’intento di avere il convito pieno di partecipanti non era ancora stato raggiunto: “È stato fatto come hai ordinato, ma c’è ancora posto”. Ecco, qui credo che sia impossibile non collegare queste parole ad un’altra frase di Gesù relativa alla collocazione che avranno i credenti un giorno: “Il vostro cuore non sia turbato; abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molti posti. Se no, ve l’avrei detto. Io vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io. E del luogo dove io vado, voi conoscete la via” (Giovanni 14.1-4).

“C’è ancora posto” ci consente di considerare la vastità del luogo in cui avrebbe dovuto celebrarsi la “grande cena” perché, pur non sapendo quanti poveri e menomati ci fossero a Gerusalemme a quei tempi, certo il loro numero doveva essere molto grande. È questa frase del servo, “c’è ancora posto”, che apre le prospettive per tutti coloro che non appartengono al popolo d’Israele e verranno invitati esattamente come tutti gli altri: questa volta, infatti, al servo viene detto di uscire “fuori”, particolare non rilevabile dalla nostra traduzione ma presente in altre, da cui vediamo che a venire raccolti sono quanti erano appunto “fuori dalle mura”, “per le strade lungo le siepi” nei pressi delle quali cercavano riparo.

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