14.18 – IL RICCO E LAZZARO I/III (Luca 16.19-31)

14.18 – Il ricco e Lazzaro 1 (Luca 16.19 – 31)

 

19C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. 20Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, 21bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe. 22Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. 

 

Abbiamo letto una delle parabole più celebri dei Vangeli, ma che per questo nasconde aspetti interessanti che vanno al di là delle semplici implicazioni letterali.

I versi da 19 a 21 descrivono i personaggi: il primo, di cui non è detto il nome, è un “uomo ricco” di cui non sappiamo nulla quanto al passato, che vestiva “di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti”. La prima caratteristica di questo personaggio è il vestire, “di porpora”, tintura che si dava su vestiti pregiati e che si ricavava da una conchiglia che anticamente abbondava nei dintorni di Tiro, molto costosa perché ciascuna di esse non dava che pochi ml di liquido per colorare gli abiti. Vestirsi di porpora era cosa che ben poche persone potevano permettersi, come i re o i loro alti dignitari. Chiariscono in proposito le parole del re di Babilonia agli indovini, Caldei e astrologi in Daniele 5.7: “Chiunque leggerà quella scrittura e me ne darà la spiegazione, sarà vestito di porpora, porterà una collana d’oro al collo e sarà terzo nel governo del regno”; ciò avvenne nel famoso episodio in cui, al gran banchetto di Baldassàr, “apparvero le dita di una mano d’uomo che si misero a scrivere sull’intonaco della parete del palazzo reale, di fronte al candelabro, e il re vide il palmo di quella mano che scriveva. Allora il re cambiò colore: spaventosi pensieri lo assalirono, le giunture dei suoi fianchi si allentarono, i suoi ginocchi battevano l’uno contro l’altro” (vv.5,6).

L’abito di porpora formava il vestito esterno dell’uomo ricco, ma l’interno era costituito da una tunica di lino finissimo, noto per la sua bianchezza e la morbidezza, molto apprezzato dai sacerdoti egiziani per queste caratteristiche secondo Plinio il Vecchio che ne parla nella sua “Storia Naturale”.

La frase “ogni giorno si dava a lauti banchetti” è ancora una volta un’interpretazione del letterale “facendo festa ogni giorno splendidamente”, quindi, poiché ben difficilmente una persona può far festa da solo, dava dei ricevimenti che si protraevano per molto tempo e Giovanni Diodati in proposito traduce con “ogni giorno godeva splendidamente” lasciando al lettore di immaginare come. Raccogliendo le diverse traduzioni, quindi, possiamo concludere che la vita di quell’uomo trascorreva senza farsi mancare nulla per i propri piaceri. Quella persona, come tanti oggi anche se non necessariamente hanno le sue ricchezze, viveva ponendo la sua persona al centro del mondo che lo circondava, incurante del suo prossimo visto nel povero Lazzaro, variante di Eleazaro che significa “Dio ha aiutato”, oppure “Aiutato da Dio”. Siamo qui nell’unico caso in cui Gesù dà un nome proprio a un personaggio delle Sue parabole.

Il nostro testo riporta che “stava alla sua porta” (della casa del ricco), ma si tratta di una traduzione troppo blanda: altri traducono “giaceva” dal geco “ebébleto”, letteralmente “era stato gettato”, quindi Lazzaro stava là, come un rifiuto, a margine, e mi sono chiesto come mai quel ricco non avesse dato ordine che fosse portato stonando la sua presenza, le cui piaghe venivano leccate dai cani, con tutta la sontuosità del luogo.

Può essere che l’ego del proprietario fosse giunto a tal punto da compiacersi del fatto che ci fosse qualcuno che desiderasse sfamarsi con gli avanzi che cadevano dalla sua tavola senza poterlo fare.

Infatti il testo non ci dice che Lazzaro si sfamasse, anzi, era “bramoso” di farlo, “ma – avversativo – erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe”, quindi animali impuri che, al contrario di lui, si saziavano davvero con gli avanzi. Il testo non ci dice come venisse trattato quel povero, cioè se qualche servo mosso a compassione gli desse qualcosa da mangiare, ma credo che l’accento sia da porre sul fatto che, là dove la dignità di un uomo veniva costantemente calpestata e oltraggiata senza il minimo senso della carità, ve ne era un altro che soddisfaceva se stesso con tutti i mezzi possibili, senza freni, spendendo il suo denaro.

Si può dire che, sotto il punto di vista dell’esistenza umana, entrambi non avessero un futuro perché Lazzaro non avrebbe mai trovato nessuno disposto a prendersi cura di lui, cioè fasciare le sue piaghe e dargli un lavoro per mantenersi, e il ricco sarebbe stato condannato a continuare con le sue feste e quant’altro per non annoiarsi, condizione che secondo me già provava perché anche le cose più belle e appetibili, quando sono durature, finiscono col generare assuefazione e al tempo stesso quasi infastidire. Si rimane prigionieri del proprio status, protagonisti dell’apparire e cercare una ragione in tutto quel vuoto può condurre a gravi fenomeni nevrotici.

Il povero sogna di avere qualcosa per sfamarsi, il ricco di avere nuovi riempitivi per non essere condannato a ripetere le stesse azioni, né poteva trovare un vero appagamento frequentando i propri simili perché affetti dal suo stesso problema. Di ricchi ne ho conosciuti davvero tanti e posso dire di averli visti soddisfatti solo perché potevano mostrare agli altri cose che questi non avrebbero mai potuto fare. Li ho visti costretti a inventare passatempi, modi di essere, cercare nelle “feste” (come il personaggio della parabola) un senso ad una vita che ne era di per sé priva.

 

Poi arriva la morte per entrambi, come per tutti, quindi più o meno poveri, più o meno ricchi, che pone fine all’esistenza terrena. La morte accomuna, appiattisce, livella, annulla le distanze sociali, economiche, è la negazione dell’esistere, dell’essere in termini umani e infatti la persona cessa di essere tale e si tramuta in cadavere, in salma, qualcosa di cui ci si deve sbarazzare entro un certo limite di tempo. Da persone che erano tanto l’uno, Lazzaro, quanto il ricco innominato, diventano entrambi un peso, qualcosa da chiudere in un sepolcro (fossa comune per l’uno, sepolcro per l’altro) che sarebbe diventato un luogo impuro, contaminante a prescindere dalle sue fattezze.

In realtà però sappiamo che la morte è soltanto una porta attraversata che ci si lascia alle spalle un corpo spento, mentre l’anima e lo spirito restano integre e subiscono un destino che non dipende da Dio, ma è il risultato del vissuto di chi per quella porta obbligatoriamente transita.

E a questo punto nella lettura della parabola occorre prestare attenzione perché parrebbe che Lazzaro abbia un premio solo perché povero mendicante nella vita anteriore e il ricco il tormento solo perché tale un tempo. Gesù, invece, si serve dell’espressione “fu portato dagli angeli accanto ad Abrahamo” (più corretto “nel seno di Abrahamo”) come sinonimo di Paradiso a sottolineare l’importanza del suo atteggiamento interiore confermato dall’operato degli angeli, chiave di lettura della persona di Lazzaro.

In Salmo 34.8 leggiamo “L’angelo del Signore si accampa a coloro che lo temono, e li libera”.  In 91.11,12, che andrebbe comunque letto integralmente, “Egli per te darà ordine ai suoi angeli di custodirti in tutte le tue vie. Sulle mani essi ti porteranno, perché il tuo piede non inciampi nella pietra”.

Infine aggiungiamo 103.20, “Benedite il Signore, angeli suoi, potenti esecutori dei suoi comandi, attenti alla voce della sua parola”, che ci lasciano concludere che Lazzaro non imputava a Dio la sua condizione, ma viveva attendendo una Sua risposta, certo soffrendo ma, come direbbe Paolo di Tarso, “non come quelli che non hanno speranza”. Ho visto e sentito persone morire gridando e bestemmiando, ne ho viste altre andarsene in silenzio, altre ancora in grande quiete, direi pregustando la liberazione da un corpo di carne a vantaggio di una vita in Cristo.

Lazzaro quindi venne – traduzione più idonea della nostra – “portato dagli angeli nel seno d’Abrahamo” non perché questa è la fine che fanno tutti i poveri, ma per conseguenza di ciò in cui credeva.

Si noti a questo punto cosa si dice dell’altro personaggio, “Morì anche il ricco e fu sepolto”. Fine. La morte di Lazzaro è un fatto naturale come quella del ricco, ma a differenza sua prevede un “oltre” che l’altro non ha: la vita del ricco si ferma al presente, è un fermo fotogramma, si chiude con la sepoltura perché il luogo dove va questa persona è un tumulo, per quanto l’anima e lo spirito continuino a vivere un tormento che sembra essere senza fine.

Il ricco “fu sepolto”, fine per lui; sarebbe vissuto per un altro poco nella memoria dei suoi compagni di feste, per poi venire da loro dimenticato non appena qualcun altro ne avrebbe organizzate di nuove.

Per chi, come l’ignoto personaggio di questa parabola, vive allo stesso modo, valgono queste parole: “Essi confidano nella loro forza, si vantano della loro grande ricchezza. Certo, l’uomo non può riscattare se stesso né pagare a Dio il proprio prezzo. Troppo caro sarebbe il riscatto di una vita: non sarà mai sufficiente per vivere senza fine e non vedere la fossa. Vedrai infatti morire i sapienti – secondo questo mondo -: periranno insieme lo stolto e l’insensato e lasceranno ad altri le loro ricchezze. Il sepolcro sarà la loro eterna dimora, loro tenda di generazione in generazione: eppure a terre hanno dato il proprio nome. Ma nella prosperità l’uomo non dura; è simile alle bestie che muoiono. Questa è la vita di chi confida in se stesso, la fine di chi si compiace nei propri discorsi. Come pecore sono destinati agli inferi, sarà loro pastore la morte; scenderanno a precipizio nel sepolcro, svanirà di loro ogni traccia, gli inferi saranno la loro dimora” (Salmo 49.7. 15).

Per essere “portato dagli angeli nel seno d’Abrahamo” credo che Lazzaro avesse fatto proprie le parole finali del Salmo appena citato: “Certo – Amen –, Dio riscatterà la mia vita, mi strapperà dalla mano degli inferi. Non temere se un uomo arricchisce, se aumenta la gloria della sua casa. Quando muore, infatti, con sé non porta nulla né scende con lui la sua gloria – umana –. Anche se da vivo benediceva se stesso: «Si congratuleranno perché ti è andata bene», andrà con la generazione dei suoi padri, che non vedranno mai più la luce. Nella prosperità l’uomo non comprende, è simile alle bestie che muoiono” (vv. 16-21).

A questo punto, per concludere questa prima parte, se abbiamo visto i meriti di Lazzaro, dobbiamo chiederci quali furono le colpe del ricco. Credo che sia stata una sola, e cioè non avere mai pensato a Dio e conseguentemente agli altri, nella fattispecie Lazzaro: “Ad ogni uomo, al quale Iddio concede ricchezze e beni, egli dà facoltà di mangiarne, prendere la sua parte e godere della sua fatica: anche questo è un dono di Dio. Egli infatti non penserà troppo ai giorni della sua vita, poiché Dio lo occupa con la gioia del suo cuore” (Ecclesiaste 5.13-16).

Per quanto l’ultima parte sia chiaramente appartenente a un tempo diverso dal nostro, va da sé che se la ricchezza è un dono di Dio, è al tempo stesso una prova molto severa e importante perché è da lì che si vede la persona carnale, destinata a finire col suo battito, o spirituale: ci sarà chi capirà il dono e darà e chi invece vorrà tenere tutto per sé, soddisfacendosi fino a morirne. Amen.

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