13.18 – L’UOMO IDROPICO (Luca 14.1-6)

13.18 – L’uomo idropico (Luca 14.1-6)      

 

1 Un sabato si recò a casa di uno dei capi dei farisei per pranzare ed essi stavano a osservarlo. 2Ed ecco, davanti a lui vi era un uomo malato di idropisìa. 3Rivolgendosi ai dottori della Legge e ai farisei, Gesù disse: «È lecito o no guarire di sabato?». 4Ma essi tacquero. Egli lo prese per mano, lo guarì e lo congedò. 5Poi disse loro: «Chi di voi, se un figlio o un bue gli cade nel pozzo, non lo tirerà fuori subito in giorno di sabato?». 6E non potevano rispondere nulla a queste parole.

 

            Non sfugge il fatto che, nel nostro commento, abbiamo tralasciato i versi da 13.21 fino alla fine dello stesso capitolo, che tratteremo più avanti; ciò è dovuto al fatto che Luca predilige una narrazione per quadri non cronologica ed è opinione comune che, all’episodio del miracolo della donna rattrappita, la guarigione dell’uomo idropico avvenne una settimana dopo. Ricordiamo infatti 13.22, “Passava insegnando per città e villaggi, mentre era in cammino verso Gerusalemme”. Quali furono i contenuti dell’insegnamento di Gesù? Quelli che abbiamo letto e leggeremo, non potendo categoricamente stabilire dove questo venne impartito alle folle o ai singoli.

Ebbene Gesù, giunto in un villaggio innominato, si recò con anticipo rispetto all’ora di pranzo a casa di uno dei capi dei farisei, evidentemente da lui invitato. Certo, costui era una persona importante, poiché il termine “árchon” a lui riferito poteva indicare un membro dei Sinedrio, un capo della sinagoga o un Magistrato, oltre che naturalmente “uno dei capi dei farisei”.

Che il pranzo, frugale essendo sabato, non fosse ancora iniziato lo rileviamo dal verso 7, quando Gesù esporrà la parabola dei posti a sedere: “Diceva agli invitati una parabola, notando come sceglievano i posti”. Quindi la scena dei nostri primi due versi descrive questo: Gesù viene invitato a pranzo da “uno dei capi dei farisei”, giunge assieme ad altri (parte dei quali assisteranno all’episodio, altri arriveranno dopo) alla spicciolata e nota due cose: da una parte gli sguardi dei religiosi – abbiamo letto “stavano a osservarlo”, presumiamo in modo non amichevole – e dall’altra la presenza un uomo “malato di idropisia”, evidentemente in modo grave poiché la cosa era visibile.

L’idropisia, o anasarca, in realtà, più che una malattia, è il sintomo di una grave infezione interna che si manifesta con un edema generalizzato, cioè con un ristagno di liquido in tutto il corpo.

L’idropico appare come abnormemente rigonfio d’acqua, a tal punto da essere fortemente impedito nei movimenti ed avere bisogno di essere sorretto da altri e potrebbe trovarsi in quelle condizioni, insufficienza renale a parte, per insufficienza cardiocircolatoria, gravi affezioni del fegato, specialmente cirrosi. Possiamo immaginare la sofferenza di quella persona, impossibilitata a condurre una vita dignitosa ancor di più pensando alla calura che pativa più degli altri. Poteva soltanto cercare di sopravvivere, e col tempo aveva imparato a non turbarsi più di tanto per gli sguardi altrui di curiosità e compatimento. Nulla possiamo sapere di lui salvo che soffrisse, ma certo il suo disagio era visibile a chiunque perché si manifestava, appunto, come abbiamo visto.

Dalle parole “stavano a osservarlo”e “davanti a lui vi era un uomo malato”rileviamo che la vera natura dell’invito da parte del “capo dei farisei”poteva essere proprio questa: mettergli di fronte un infermo sperando che lo guarisse per poi usare quell’azione contro di Lui in un giudizio che sicuramente sarebbe avvenuto. Pare singolare, rispetto al precedente miracolo operato in giorno di sabato, che qui l’infermo è “davanti”a Gesù, mentre nella sinagoga “c’era là una donna che uno spirito teneva inferma da diciotto anni”: se la presenza di quest’ultima era “ordinaria” nel senso che evidenzia la volontà di partecipare all’assemblea e una frequenza presumiamo assidua, lo stesso non si può dire dell’idropico, che era là per una ragione sulla quale si esprimono due possibilità, cioè che fosse lì di sua volontà per chiedere a Gesù di essere guarito, oppure secondo un piano dei farisei che, sapendo la posizione del loro avversario sul punto, desideravano porre le premesse per un nuovo miracolo in giorno di sabato e quindi accusarlo.

Anche se è giusto porre attenzione a non far dire a Luca ciò che ha omesso, credo che il modo con cui Nostro Signore esordisce, cioè chiedendo proprio ai suoi oppositori “È lecito o no guarire in giorno di sabato?”, sia stato un modo per coglierli di sorpresa e costringerli a dargli un parere. E, infatti, tacciono perché, se avessero risposto di sì, avrebbero annullato tutte le accuse precedenti in proposito, ma se il parere fosse stato negativo, loro che avevano il dovere di spiegare la legge al popolo, avrebbero anche dovuto citare un passo, scritturale e non della loro tradizione, che contenesse la proibizione di guarire qualcuno in quel giorno.

È a questo punto che Gesù fa qualcosa di particolare, prende per mano quell’uomo, un’azione che personalmente mi stupisce molto di più del fatto che lo guarisce e lo licenzia: furono infatti quattro le persone che furono prese in quel modo: la suocera di Pietro, la figlia di Jairo, il ragazzo epilettico di Marco 9.27 e infine l’idropico, un numero importante, il quattro, applicato a persone in balia di forze esterne dalle quali non riuscivano, né avrebbero mai potuto, liberarsi. Possiamo dire, alla luce non solo dell’esperienza di queste persone, che Gesù interviene là dove altrimenti non esisterebbe prospettiva, speranza, soluzione e cammino. E tutte le guarigioni da lui operate si trovano qui riassunte, parlandoci il quattro dell’essere umano e di ciò di cui ha bisogno.

La guarigione dell’uomo idropico – raccontata da Luca che era medico – è un’altra non richiesta dal diretto interessato, per quanto non possiamo escludere che tra i due sia intercorso un dialogo muto, fatto di soli sguardi. Se era là perché aveva saputo della presenza di Gesù e voleva guarire, o perché lì posto dai farisei quale strumento delle loro congiure, fu liberato comunque da una condizione certamente penosa e umiliante.

Dopo averlo preso per mano, Gesù lo guarisce – e non poteva essere altrimenti – e lo congeda: perché, se stava per consumarsi un pasto cui avrebbe potuto partecipare? È una domanda assurda: guarito dalla malattia, che in realtà erano due in quanto l’idropisia era piuttosto un sintomo, una reazione del corpo ad un’altra patologia spirituale, era giusto che stesse da solo a gioire per il proprio ristabilimento in salute, ma soprattutto pensare al privilegio ricevuto; Gesù, come aveva fatto con tanti comunque, lo aveva visto, aveva compreso il suo dolore di vivere, ed era intervenuto prendendolo per mano il tempo strettamente necessario perché guarisse. Era come se avesse voluto percorrere con lui il percorso di guarigione, a dirgli “con me guarisci, senza di me rimani quello che sei, anzi peggiori”. Una volta ciò avvenuto, stava a quell’uomo trarre le conclusioni del caso.

Una nota molto importante va fatta nel modo in cui è stato tradotto il verso 5, “Chi di voi, se un figlio o un bue gli cade nel pozzo…”che si basa su una versione errata del testo in cui l’originale “asino”viene tradotto con “figlio”non per imperizia, ma per un voler enfatizzare il verso dall’anonimo copista del greco che sostituì “uiòs”(figlio) all’originale“ònos”(asino) rendendo così difficile capire il senso del verso che, così composto, porrebbe sullo stesso piano un figlio a un bue, cosa chiaramente impossibile.

In realtà Gesù, con le sue parole, volle mettere in risalto come, se la compassione verso gli animali avrebbe spinto i suoi oppositori ad intervenire a loro vantaggio con un animale di loro proprietà, in giorno di sabato, compiendo certamente degli sforzi da paragonare a un lavoro, Lui avrebbe potuto guarire senza sforzo una persona che, rispetto a quelle creature, era certamente più importante, cioè un essere umano, alle origini fatto a immagine e somiglianza di Dio.

Citando l’asino e il bue Gesù si rifà a Esodo 23.5 e Deuteronomio 23.4, in cui è scritto “Quando vedrai l’asino del tuo nemico accasciarsi sotto il carico, non abbandonarlo a se stesso: mettiti con lui a scioglierlo dal carico”e “Se vedi l’asino di tuo fratello o il suo bue– ecco perché “figlio”non ha senso – caduto lungo la strada, non fingerai di non averli scorti, ma insieme con lui li farai rialzare”.

Abbiano quindi Nostro Signore che cita due passi di Scrittura da una parte, ma i farisei dall’altra che “non potevano rispondere nulla a queste parole”, Diodati aggiunge “in contrario”. Perché alla parola di Dio non possiamo mai opporre qualcosa e perché “IO” trova senso solo se affiancato alla D: toglierla, trascurarla, escluderla, implica uno squilibrio che non può che portare alla rovina.

Credo che vi sia un altro significato alla domanda di Gesù, perché parla di un animale caduto “in un pozzo”e non, come da testo della Legge, oppresso da un peso importabile: se la situazione originaria ci richiama immediatamente al verso in base al quale “il mio gioco è dolce e il mio carico leggero”perché Gesù soccorre sempre l’uomo per primo e lo libera, l’esempio dell’animale caduto suggerisce la sorte che affronta chi si ritrova intrappolato in una condizione senza averla voluta. E, spiritualmente, non esiste essere umano che non assomigli all’animale nel pozzo: per farlo, basta venire al mondo, nascendo inevitabilmente imperfetti e, dopo i pochi anni passati nell’innocenza, s’impara presto a mentire per i propri scopi, a volere, a barare, a cercare una felicità che, al di fuori dell’intervento del Cristo, non può essere raggiunta. Ecco allora che poco importa che quest’uomo sia andato a quel pranzo di sua volontà o fosse stato messo lì dai farisei perché, in ogni caso, cessò di essere una pedina, di se stesso o di altri.

Credo quindi che Gesù, congedando l’uomo idropico, lo abbia voluto porre nelle condizioni di scegliere cosa fare e soprattutto da quale parte stare, quale posto occupare nella sua vita interiore ed esteriore, cosa comunicare, a chi darsi dopo un periodo, che non possiamo quantificare, in cui aveva provato su di sé gli effetti del peccato e dell’imperfezione visto nella malattia che lo aveva afflitto. E sono convinto che il ricordo del calore di quella mano che per un attimo lo aveva preso lo portò con sé per tutta la vita. Amen.

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