09.10 – LA MISSIONE DEI DODICI: NON ABBIATE PAURA II (Matteo 10.26-31)

9.10–La missione dei dodici:  IX. Non abbiate paura II: uccidere l’anima (Matteo 10.26-31)

 

26Non abbiate dunque paura di loro, poiché nulla vi è di nascosto che non sarà svelato né di segreto che non sarà conosciuto.27Quello che io vi dico nelle tenebre voi ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio voi annunciatelo nelle terrazze. 28E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; abbiate paura piuttosto di colui che ha il potere di far perire nella Geenna e l’anima e il corpo. 29Due passeri non si vendono forse per un soldi? Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il volere del Padre vostro. 30Perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati. 31Non abbiate dunque paura: voi valete più di molti passeri.

 

Le tre esortazioni a non avere paura sono rivolte al non subire gli effetti negativi di altrettanti elementi precisi: gli oppositori del discepolo, ostili in quanto portatore di un messaggio a loro estraneo, quelli che possono uccidere il corpo (ma non l’anima), e l’idea che può sorgere, di fronte a gravi difficoltà, secondo la quale Dio abbia poca considerazione nei confronti di chi crede. Ricordiamo in proposito che Giovanni Battista, prigioniero di Erode Antipa al Macheronte, provato dal carcere e convinto che Gesù fosse il Liberatore di Israele, chiese a Gesù se era Lui quello che doveva venire, oppure dovevano aspettare un altro.

La paura è uno stato emotivo intenso, innato che, pur potendo degenerare in panico o fobie, di norma ha un alto valore funzionale finalizzato alla sopravvivenza di chi la prova: grazie ad essa si può fuggire da svariate situazioni di pericolo, ma non è di questo che parla Nostro Signore, riferendosi a una reazione non appropriata di fronte ad eventi che, se possono spaventare umanamente, spiritualmente non hanno senso in quanto lo Spirito deve, o dovrebbe, essere sempre dominante sulla carne.

Esaminato nello scorso capitolo il “Non abbiate paura di loro”, riferito agli ostili in varie forme, Gesù passa a “quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima”, riferendosi non solo a persone precise, come avvenne per Lui stesso, per il diacono Stefano e l’apostolo Giacomo (tanto per citare i primi), ma anche ad altri agenti, come le malattie o situazioni di pericolo in cui ci si può involontariamente trovare. E ci possiamo chiedere se la paura fosse stato un sentimento provato da Gesù nell’imminenza o durante il suo arresto, visto che l’esortazione al non temere venne proprio da Lui. La risposta non può essere che negativa in quanto l’unica frase che riporta un suo sentimento in proposito fu “L’anima mia è oppressa da tristezza fino alla morte” (Matteo 14.34), che rivela un profondo senso di smarrimento dovuto al fatto che sapeva che avrebbe dovuto portare su di sé “il peccato del mondo” pur non avendolo mai commesso. Si avvicinava il tempo in cui avrebbe dovuto essere davvero “L’Agnello di Dio” sacrificato.

Sono interessanti le considerazioni di San Giustino martire, che nel 130 circa collegò il fatto che l’agnello pasquale veniva arrostito facendolo passare verticalmente da un bastone di melograno e orizzontalmente per le spalle, al fatto che in tal modo si veniva a formare una croce. Portare il peccato e venire appeso in croce avrebbe comportato l’interruzione della comunione col Padre e di qui la “tristezza mortale”, o “fino alla morte” a secondo della traduzione che abbiamo.

Temere non chi può uccidere il corpo, ma “colui che ha il potere di far perire nella Geenna l’anima e il corpo”. Della Geenna abbiamo già parlato come fuoco perenne che bruciava i rifiuti della città di Gerusalemme, ma molti, leggendo questo verso, pongono in relazione chi ha il potere di distruggere anima e corpo umano con Satana ed il peccato. Non penso però che questa sia un’applicazione corretta perché, se c’è un riferimento all’Avversario, ciò avviene per riflesso in quanto avente competenza sul corpo e non sull’anima che, se mai, può venire a lui affidata dall’uomo per scelta o seduzione.

Sappiamo bene che l’anima è proprietà di Dio: per Lui fu sufficiente soffiarla nelle narici di Adamo perché diventasse “anima vivente”. Adamo, e poi Eva, fu così differenziato dagli altri animali in cui c’era solo vita e istinto per sopravvivere. Anima e libero arbitrio che l’uomo ha, ma non gli altri esseri viventi che per questo non sbagliano mai, seguendo un istinto posto in loro per la propria sopravvivenza.

L’anima è incorporea, ma si esprime attraverso il corpo ed il pensiero è a sua volta dominato, controllato dallo spirito che coabita con essa: l’anima è libera e responsabile, è la parte che decide, sceglie, opera, costruisce e proprio in quanto tale è quella che verrà giudicata vivendo oltre e dopo la morte del corpo destinato comunque a risorgere rivestendo incorruttibilità o mortalità a seconda delle scelte che la persona avrà fatto in vita.

“Colui che ha il potere di far perire nella Geenna l’anima e il corpo” è solo Dio Padre dopo il giudizio che dell’anima e del corpo sancirà la vita o la morte; di qui la necessità di temerlo anche se è necessario un distinguo: una cosa è il vaglio delle opere di chi avrà creduto, perché “chi crede non viene in giudizio, ma è passato dalla morte alla vita”, e un’altra quella del mondo. Si tratta di un tema enormemente vasto che non è possibile affrontare qui.

Ora non si tratta tanto di temere Dio perché a lui appartiene ogni cosa, quindi anche la nostra vita, ma di andare a monte del problema e cioè: se è Lui ad averci creato, significa che solo in Lui possiamo trovare la nostra identità piena e totale. Più ci avviciniamo a Dio Padre tramite il Figlio, più viviamo in armonia con Lui e con noi stessi perché nulla ci manca. E più l’essere umano vive lontano da lui, più diventa sconnesso e disarticolato, alla ricerca di una dimensione che non può trovare. Ammesso che riesca a realizzare i suoi progetti, dovrà fare i conti presto o tardi con il loro crollo senza possibilità di recupero perché uno degli inganni dell’Avversario è proprio illudere che ciò che è transitorio sia stabile, che il tempo non passi mai e che la vecchiaia, coi suoi effetti devastanti, non arrivi, come la morte, ritenuta certo eventuale, ma rimossa quanto a possibilità. In poche parole, il motto è: “c’è tempo”. Il timore di Dio penso che sia la consapevolezza di quanto sia terribile avere a che fare con Lui come giudice, ma anche quanto sia inutile l’esistenza umana senza il Suo amore.

La vita dell’uomo, allora, se non si vuole conoscere la distruzione, non può che essere caratterizzata dalla ricerca di Dio e, una volta trovato, da un’altra ricerca per una vita a Lui conforme – attenzione – nell’amore per Lui e non nel divieto, nel precetto, nelle formule ripetute che generano stanchezza, noia, sterilità. Quando Gesù disse di prendere su di noi il suo giogo perché leggero, si riferiva proprio a questo: la vita dell’uomo o della donna sulla terra, che si svolge comunque secondo il giudizio pronunciato in Eden, può condursi nella luce o nelle tenebre, nella giustizia o nell’ingiustizia, nella dignità o nell’abiezione e, quindi, nell’essere o nel non essere per cui “chi non crede è già condannato”. Ricordiamo le parole dell’apostolo Paolo che, considerato il dualismo che lo caratterizzava come uomo, scrisse in Romani 7.24 “Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte? Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore!”.

Chiunque crede nell’opera totale di Gesù Cristo diventa, riconoscendosi in Lui, parte dell’ “Io sono”, di “Colui che è”, dell’ “Iddio vivente” che nella Geenna può far perire l’anima e il corpo, cioè tutto ciò che costituisce l’essere umano. Morte come fine dopo atroci sofferenze viste nello stagno ardente di fuoco e zolfo in cui verranno gettati Satana e i suoi angeli.

Il senso delle parole di Gesù ai suoi allora è questo: posto che avete scelto di essere miei discepoli con tutto quel che ne consegue, temere gli uomini non ha alcun senso e, se dovrete soffrire a causa loro, sappiate che tutto questo riguarderà un tempo limitato che non può essere paragonabile al nulla eterno che attende coloro che vi avranno perseguitato. Nelle scorse riflessioni abbiamo citato i versi che parlano della riduzione “al nulla”.

La Chiesa post apostolica, che al posto di formare uomini e donne di Dio ha preferito optare per un’evangelizzazione di massa importando elementi estranei alla dottrina ammettendo usi ed elementi appartenenti al paganesimo, ha cercato di incutere la paura dell’inferno come luogo eterno di tormenti popolato da diavoli crudeli incaricati di tormentare i dannati, ma non ha spiegato che il cosiddetto “inferno” è il luogo dell’assenza, il ritorno al nulla, all’ “informe e vuoto” prima che Dio ordinasse “Sia la luce” generatrice di calore e vita. L’inferno quindi altro non è che la morte cosciente in un mondo privo di luce, calore, esistenza, logica. È il ritorno a quella cosa “deserta e vacua” senza “lo Spirito di Dio che si muoveva sopra la superficie delle acque” per cui non sarà possibile un’altra creazione e un ritorno alla vita. L’inferno è allora un luogo di non prospettiva, di impossibilità di riscatto cui si aggiungerà la presenza di un concreto, inesorabile nulla di cui vi sarà coscienza.

Possiamo a questo punto ricordare due realtà, entrambe reperibili nel libro dell’Apocalisse; la prima riguarda chi avrà temuto l’Iddio vivente, Colui che può far perire l’anima e il corpo nella Geenna: “E non vi sarà più maledizione. Nella città vi sarà il trono di Dio e dell’Agnello: i suoi servi lo adoreranno; vedranno il suo volto e porteranno il suo nome sulla fronte. Non vi sarà più notte, e non avranno più bisogno di luce di lampada né di  luce di sole, perché il Signore Dio li illuminerà. E regneranno nei secoli dei secoli” (22.3-5).

La seconda realtà invece è per chi avrà preferito ascoltare se stesso o i suoi simili per orientare la propria vita: “E vidi un grande trono bianco e Colui che vi sedeva. Scomparvero dalla sua presenza la terra e il cielo senza lasciare traccia di sé. E vidi i morti, grandi e piccoli, in piedi davanti a suo trono. E i libri furono aperti. Fu aperto anche un altro libro, quello della vita. I morti vennero giudicati secondo le loro opere, in base a ciò che era scritto in quei libri. Il mare restituì i morti che esso custodiva, la Morte e gli inferi resero i morti da loro custoditi e ciascuno venne giudicato secondo le sue opere. Poi la Morte e gli inferi furono gettati nello stagno di fuoco. Questa è la seconda morte, lo stagno di fuoco. E chi non risultò scritto nel libro della vita fu gettato nello stagno di fuoco”. In proposito, va specificato che i “morti grandi e piccoli” non saranno adulti e bambini, ma i potenti e tutti gli altri, più o meno ricchi, facoltosi o indigenti che avranno seguito la carne anziché lo Spirito.

Il cristiano, se ha davvero aderito con il cuore e la mente all’invito di Gesù, è costantemente davanti e con Lui ogni istante, “tutti i giorni fino alla fine del mondo” e, al contrario dei suoi simili che non credono, ha la garanzia della vita eterna. Credo che discutere se il cosiddetto “inferno” sia eterno, oppure se le anime di chi avrà vissuto un’esistenza contraria a Dio verranno distrutte, sia una questione secondaria perché a noi estranea secondo le parole dei primi versi del Salmo 1: “Beato l’uomo che non segue il consiglio degli empi, non indugia nella via dei peccatori e non siede in compagnia degli stolti; ma si compiace nella legge del Signore, la sua legge medita giorno e notte”. Credo che l’importante sia vivere degnamente questo tempo d’attesa, certi – non sperando – delle “molte stanze” che il Signore sta preparando per noi. Amen.

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